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Studio del ruolo delle connessine in cellule umane di melanoma cutaneo maligno.

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Indice Capitolo I: Introduzione………4 1.1 Connessine……….………4 1.1.1 Struttura 1.1.2 Ciclo vitale 1.1.3 Funzioni 1.1.4 Interazioni

1.1.5 Ruolo delle connessine nel tumore 1.1.6 Ruolo delle connessine nel melanoma

1.2 Melanoma cutaneo………..…………15

1.2.1 Epidemiologia 1.2.3 Terapia

1.2.4 Chemioterapia 1.2.5 Immunoterapia

1.2.6 Terapia a bersaglio molecolare 1.2.7 Radioterapia

Capitolo II: Scopo ………...………...……23

Capitolo III: Materiali e Metodi………..24

3.1. Materiali per studi funzionali………24 3.1.1 Linee cellulari: MeWo, 501Mel, A-375

3.1.2 Materiali per il mantenimento della coltura cellulare

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3.2.2 Kit e reagenti

3.3 Materiali per immunocitochimica ………...30 3.3.1 Materiali per immunoperossidasi

3.3.2 Materiali per immunofluorescenza

3.4. Materiali per Western Blot…..……….34 3.4.1 Materiali per estrazione e quantizzazione proteica

3.5. Metodi usati negli studi funzionali ………..36 3.5.1 Scongelamento della linea cellulare

3.5.2 Mantenimento in coltura

3.5.3 Congelamento delle colture cellulari 3.5.4 Metodi per il trattamento con vemurafenib

3.5.4.1 Conta cellulare

3.5.4.2 Semina e trattamento

3.6. Metodi per gli studi di biologia molecolare ………40 3.6.1 Estrazione dell’RNA totale

3.6.2 Retrotrascrizione 3.6.3 PCR

3.6.4 Elettroforesi su gel di agarosio 3.6.5 Real-Time PCR

3.7. Metodi per immunocitochimica ………..49 3.7.1 Metodi per immunoperossidasi

(3)

3.8. Metodi per l’analisi tramite Western Blot ……..………53 3.8.1 Estrazione proteica e dosaggio proteico

3.8.2 Western Blot

Capitolo IV: Risultati e Discussione……….61

4.1. Espressione genica di Cx26 e Cx43 in cellule umane di melanoma cutaneo ………..61 4.2. Espressione proteica di Cx26, Cx43, Cx43-p, RhoA, PKCps….64

4.2.1 Espressione proteica di Cx26 4.2.2 Espressione proteica di Cx43

4.2.3 Espressione proteica di Cx43p e PKCps 4.2.4 Espressione proteica di RhoA

4.3. Trattamento con vemurafenib...……….76 4.3.1 Espressione genica di Cx26 e Cx43 dopo il trattamento

con vemurafenib

4.3.2 Espressione proteica di Cx26 a seguito del trattamento con vemurafenib

Capitolo V: Conclusioni ……….82

Bibliografia

Indice delle Figure

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Capitolo I Introduzione

Capitolo I

Introduzione

1.1 Connessine

1.1.1 Struttura

Le connessine sono una famiglia di proteine nominate in base al loro peso molecolare e sono espresse in maniera ubiquitaria nei tessuti, con l’eccezione di muscolo scheletrico, eritrociti e cellule spermatiche mature dove non sono presenti.

Ogni connessina è formata da 4 domini transmembrana idrofobici ad α-elica chiamati rispettivamente TM1, TM2, TM3 e TM4. Questi domini formano due loop extracellulari (EL1 ed EL2), connessi da ponti disolfuro tra residui di cisteina, ed un loop citoplasmatico (CL). Sia l’estremità carbossi-terminale (CT) che la ammino-terminale (NT) sono citoplasmatiche [1].

Più connessine si organizzano in strutture esameriche chiamate connessoni o emicanali, ciascuno dei quali, interagendo con una struttura analoga di una cellula adiacente, forma una gap junction o giunzione comunicante. Quest’ultima è quella zona in cui le membrane di due cellule adiacenti sono attraversate da connessoni e separate da un sottile spazio di 2-4 nm. Più gap junction possono aggregarsi, formando le cosiddette placche giunzionali (Figura 1) [2].

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Capitolo I Introduzione

Figura 1. Rappresentazione delle placche giunzionali composte da un insieme di canali formati da gap junction. Ciascun canale, a sua volta, è formato da due connessoni di cellule adiacenti. I connessoni sono strutture esameriche costituiti da connessine, proteine con 4 domini transmembrana.

Sono presenti 21 isotipi di connessine il cui grado di diversità è determinato dalla sequenza, dalla dimensione del loop citoplasmatico e dalla dimensione e dalle modifiche post-traduzionali del dominio C-terminale.

I tipi di emicanali che derivano dalla combinazione dei diversi isotipi di connessine sono svariati considerando che i singoli connessoni possono essere formati da uno o più tipi di connessine, portando rispettivamente alla formazione di strutture omomeriche ed eteromeriche. Si possono avere, di conseguenza, canali omotipici formati dallo stesso connessone (omomerico o eteromerico) e canali eterotipici contenenti connessoni differenti. La formazione di queste strutture dipende dalla compatibilità fra le diverse connessine (Figura 2) [3].

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Capitolo I Introduzione

Figura 1. Gli emicanali possono essere omomerici o eteromerici. I canali che ne derivano possono essere omotipici o eterotipici.

1.1.2 Ciclo vitale

Le connessine hanno un'emivita di poche ore (da 1 a 5), pertanto vengono continuamente sintetizzate e degradate all'interno delle cellule. Dopo essere state prodotte le connessine sono inserite nel reticolo endoplasmatico dove generalmente avviene la loro oligomerizzazione e, quindi, la formazione dei connessoni.

I connessoni, così formati, vengono trasportati e inseriti sulla superficie cellulare in uno stato chiuso attraverso vescicole pleiomorfiche o intermedi di trasporto e con l’aiuto dei microtubuli del citoscheletro cellulare. Una volta sulla superficie della cellula possono agire come canali transitoriamente aperti in grado di regolare gli scambi tra citosol e ambiente extracellulare oppure, legandosi ad un altro connessone, possono formare dei canali giunzionali con cellule adiacenti.

I connessoni possono diffondere nel doppio strato fosfolipidico a raggiungere i margini esterni di una placca giunzionale. I canali più vecchi si trovano nel cuore della placca giunzionale e sono destinati all’internalizzazione che avviene tramite connessosomi o gap junction anulari (AGJ), strutture sferiche

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Capitolo I Introduzione

a doppia membrana molto ricche di connessine derivanti dall'internalizzazione di due membrane di cellule adiacenti all’interno di una sola cellula. I connessosomi, vengono degradati con un meccanismo endolisosomiale o autofagico mentre i connessoni e le connessine sono degradati per via endosomica o riciclati attraverso specifici endosomi [2, 4] (Figura 3) .

Figura 3. Ciclo vitale delle connessine

1.1.3 Funzioni

Le connessine, i connessoni e le gap junctions intervengono nel mantenimento dell’omeostasi cellulare attraverso tre differenti meccanismi di comunicazione: intracellulare, extracellulare e intercellulare [5].

Le connessine come tali determinano un controllo dell’espressione genica come viene dimostrato da studi a seguito di trasfezione di linee cellulari con

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Capitolo I Introduzione

Gli emicanali spaiati nella membrana plasmatica inizialmente sembravano essere un prodotto di una sovrapproduzione di connessine, ma in realtà sono coinvolti nella comunicazione extracellulare. Essi si trovano solitamente in uno stato chiuso, per poi aprirsi in seguito a stimoli meccanici, variazioni ioniche e depolarizzazione della membrana [5].

È stato dimostrato che gli emicanali sono coinvolti nella propagazione di segnali di morte e sopravvivenza cellulare [6]: in vari tessuti in seguito a danno ischemico portano a una “sregolazione ionica” [7] mentre negli osteociti e negli osteoblasti trattati con bifosfonati determinano una maggiore sopravvivenza cellulare [8].

Le gap junctions formate dai connessoni permettono non solo il trasferimento tra cellule di ioni come Na+, K+, Cl-, Ca2+, ma consentono anche il trasporto di

piccole molecole con peso fino a 1 kDa come aminoacidi, zuccheri, piccoli peptidi e secondi messaggeri. Queste strutture hanno quindi il ruolo di mantenere la comunicazione intercellulare, nota come gap junction intercellular communication (GJIC). Data la grande varietà di molecole che attraversano i canali delle gap junctions, questo tipo di comunicazione è coinvolto in svariate funzioni fisiologiche come differenziazione, crescita, omeostasi tissutale e propagazione di segnali di morte o sopravvivenza cellulare [9]. Ad esempio, la presenza di fenomeni di comunicazione via gap junction può portare alla propagazione di segnali di morte tra cellule, permettendo le prime fasi dell’apoptosi, grazie alla regolazione di un flusso di ioni Ca2+[10]. Le cellule, inoltre, possono trasmettere segnali di salvataggio

attraverso il passaggio nei canali di molecole come glucosio, ATP e acido ascorbico ed evitare il flusso di metaboliti tossici come ossido nitrico e ioni superossido [11].

Questi canali sono in grado di rispondere, chiudendosi o aprendosi, a diversi stimoli (voltaggio, pH, concentrazione di Ca2+, fosforilazione) e, pertanto,

diversi modelli di chiusura sono stati proposti. Un primo modello prevede l’avvicinamento tangenziale delle sub-unità verso l’interno portando alla chiusura del poro a livello della membrana citoplasmatica in seguito a elevate

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Capitolo I Introduzione

concentrazioni di Ca2+. Il modello plug-gate, invece, mostra che i domini

N-terminali delle singole connessine sono in grado di assemblarsi per formare una struttura che determina il restringimento fisico del poro di ogni emicanale, regolandone autonomamente l’attività; in questo caso, la gap junction è funzionante solo se entrambi i due emicanali adiacenti risultano liberi. I domini N-terminali sono inoltre responsabili di aperture rapide in seguito a variazioni di voltaggio transgiunzionale, anche quando la deflezione verso l’interno dei domini N-terminali coinvolge una singola connessina. Il modello loop-gating, responsabile di aperture lente a seguito di variazioni nel voltaggio trans-giunzionale, vede come causa del restringimento del poro un avvicinamento di TM1 e EL1. Secondo il modello particella-recettore, invece, il dominio carbossi-terminale della connessina si lega in modo pH dipendente alla seconda parte del loop citoplasmatico a formare una barriera che chiude la giunzione [12].

Figura 4. Meccanismi coinvolti nella comunicazione cellulare correlata alle connessine. Le connessine e i loro canali controllano l’equilibrio omeostatico secondo tre meccanismi: comunicazione intracellulare che interviene sull’espressione genica, comunicazione intercellulare, che permette il passaggio di molecole di segnale tra cellule, e la comunicazione extracellulare attraverso gli emicanali, che permettono comunicazione paracrina.

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Capitolo I Introduzione

1.1.4 Interazioni

Le connessine interagiscono con svariati partners proteici che ne regolano il ciclo vitale e il funzionamento. L’interazione con elementi del citoscheletro, come microtubuli o actina, è essenziale per un rapido turn-over, mentre l’interazione con proteine delle giunzioni aderenti e serrate regola l’assemblaggio, il trasporto, il turn-over, l’ancoraggio alla membrana e l’apertura dei canali delle gap junctions [6]. In particolare, le giunzioni aderenti iniziano e mantengono i contatti intercellulari grazie a proteine transmembrana, come caderine e catenine, mentre le giunzioni serrate regolano il flusso di ioni attraverso le cellule formando una barriera impermeabile a ioni sempre grazie a proteine transmembrana, come occludine o claudine [13].

La funzionalità delle connessine è inoltre dettata da un equilibrio che deriva dall’interazione con molti enzimi tra cui chinasi e fosfatasi.

In particolare, la connessina 43 (Cx43) è una fosfoproteina, pertanto i suoi meccanismi di trasporto, assemblaggio, internalizzazione e degradazione sono modulati dalla fosforilazione di specifici residui [14]. La Proteina Chinasi C (PKC), una chinasi serina-treonina che fosforila molti residui di serina tra cui quello in posizione 368 della Cx43, è implicata nella modulazione dell’apertura dei canali, con effetti talvolta opposti [15]: nei fibroblasti, ad esempio, la fosforilazione di tale sito determina una diminuzione della comunicazione via gap junction [16], mentre la aumenta nei cardiomiociti [17].

La permeabilità e l’assemblaggio dei canali costituiti dalla Cx43 dipendono anche dall’interazione con RhoA, membro della famiglia proteica “Rho”, costituita da 23 proteine GTPasiche note per il loro ruolo nella regolazione di assemblaggio e riorganizzazione del citoscheletro di actina, ma anche della polarità cellulare, della trascrizione genica, della progressione del ciclo

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Capitolo I Introduzione cellulare e del trasporto di proteine sulla membrana. In particolare l’attivazione di RhoA sembra aumentare la permeabilità dei canali costituiti dalla Cx43 e la dimensione delle placche giunzionali che esse formano[18].

Il legame con alcune proteine citoplasmatiche, inoltre, conferisce alle connessine proprietà indipendenti dalla classica funzione di canale che portano a modulazione dell’espressione genica e quindi ad un ampio range di effetti che influenzano vari processi come la trascrizione genica, il metabolismo, l’adesione cellula-cellula o cellula-matrice extracellulare, il ciclo cellulare, la divisione e la differenziazione [6].

1.1.5 Ruolo delle connessine nel tumore

Nel 1966 Lowenstein e i suoi colleghi hanno ipotizzato per la prima volta che le connessine potessero avere un ruolo nella cancerogenesi [19]. Questa ipotesi è stata rafforzata da vari studi in cui si evince che nei tumori viene riscontrata una riduzione dell’espressione delle connessine [20] e nelle cellule sane, a seguito dell’esposizione ad alcuni agenti oncogeni o a reagenti in grado di promuovere lo sviluppo o la progressione tumorale, si ha una diminuita espressione di queste proteine [21]. In particolare è stato osservato che la mancanza di alcune connessine, dovuta a silenziamento genico, aumenta l’incidenza di specifici tumori [22] mentre, una loro reintroduzione ectopica, corrisponde a una minore proliferazione, crescita tumorale e re-differenziazione delle cellule mutate [23]. Le connessine sembrerebbero avere quindi il ruolo di oncosoppressori [24].

Nuove evidenze, però, parlano non solo di una down-regolazione ma di una più complessa alterazione nel pattern di espressione delle connessine, in base anche all’avanzamento della patologia tumorale; infatti, è stata riscontrata una perdita di comunicazione tra cellule normalmente comunicanti e un’interazione tra cellule che solitamente non hanno contatti. Nei primi stadi della genesi tumorale è stata riscontrata una minore espressione delle connessine, mentre

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Capitolo I Introduzione

sia nella capacità migratoria e, per questo, risultano maggiormente espresse. Difatti, nei tumori della pelle, del seno e della prostata si è osservato che nei primi stadi si ha una diminuzione dell’espressione di Cx43 e Cx26. Al contrario, nel momento in cui le cellule tumorali invadono il compartimento linfonodale tali connessine sembrano invece aumentare [25].

Inoltre, queste proteine sono coinvolte nella formazione di tumori secondari, fattore di impatto negativo sulla prognosi dei pazienti affetti da cancro. La metastatizzazione, infatti, è un processo che prevede la transizione delle cellule da epiteliali a mesenchimali (EMT). Il primo passo che porta a questa transizione è la perdita di adesione intercellulare, seguita dalla creazione di contatti con le cellule stromali della matrice extracellulare, cellule che operano tagli proteolitici attraverso alcune proteasi. Una volta raggiunto lo stroma peri-tumorale e quando il microambiente è attivato dalla degradazione della matrice extracellulare, si ha il rilascio di citochine e fattori di crescita con un ruolo trofico e chemo-attrattivo. In questa fase si ha lo stabilimento di comunicazione eterocellulare via gap junction. Nello specifico, le connessine sono coinvolte inizialmente nella perdita di comunicazione intercellulare via gap junction ed, in seguito, nella formazione dei legami eterocellulari con le cellule stromali. Tali proteine sembrano, infatti, essere correlate all’espressione delle metalloproteasi, enzimi in grado di degradare la matrice extracellulare. Ad esempio, in molti tessuti si è osservato che l’elevata espressione della Cx43 determina un aumento di questi enzimi e, quindi, della capacità invasiva del tumore. L’espressione della Cx26 invece sembra avere effetti opposti alla Cx43, diminuendo alcune metalloproteasi e quindi l’invasività.

Nella successiva fase di migrazione l’espressione di Cx43 e di GJIC è inversamente correlata con la capacità di migrazione [26].

1.1.6 Ruolo delle connessine nel melanoma

Nell’epidermide umana sono espresse 10 isoforme di connessine. La più alta espressione delle connessine si ha nello strato spinoso dove sono presenti

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Capitolo I Introduzione

Cx26, Cx30, Cx30.3, Cx31, Cx31.1, Cx40, Cx43 e Cx45 e nello strato granuloso dove sono altamente espresse Cx30.3, Cx31e Cx43 e si riscontrano bassi livelli di espressione per Cx26, Cx31.1, Cx40 e Cx45 (Figura 5). In particolare, la Cx43 è la più espressa nelle cellule basali proliferanti, cellule staminali unipotenti. Stati di alterata espressione di tali proteine sono stati osservati in diverse patologie cutanee e questo sembra avvalorare l’importante ruolo delle connessine nel mantenimento della barriera epidermica [27].

Figura 5. Distribuzione delle connessine nell’epidermide.

I melanociti, dalla cui trasformazione neoplastica origina il melanoma, sono cellule che risiedono nello strato basale dell’epidermide e che esprimono soltanto la Cx43 e Cx26. Tipicamente un melanocita forma contatti con 30 cheratinociti dello strato basale e sovrabasale tramite la formazione di gap junctions in base alla compatibilità fra le connessine espresse. Si suppone che la crescita di questo tipo di cellule sia regolata attraverso la GJIC, oltre che dallo scambio di altri segnali regolatori.

Come precedentemente accennato, le connessine sono oncosoppressori condizionali, poiché a seconda dello stadio tumorale sembrano avere ruoli differenti [28].

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Capitolo I Introduzione

e ad alti livelli di N-caderina, associati ad una perdita di compatibilità con i cheratinociti [29]. Questo contribuisce a determinare una perdita di comunicazione tra melanociti e cheratinociti che può contribuire allo sviluppo del tumore.

Inoltre, è stato osservato che la reintroduzione ectopica della Cx43 in linee di melanoma porta sia ad una minore proliferazione cellulare che ad una minore crescita ancoraggio indipendente. In co-cultura con i cheratinociti è stata riscontrata un’ulteriore riduzione della crescita tumorale, che è risultata ancora più marcata in vivo nel modello dell’embrione di pollo, in cui è stato dimostrato che l’introduzione ectopica delle connessine, 7 giorni dopo l’inoculazione del tumore, porta alla formazione di tumori più piccoli. Questo può indicare come le capacità antitumorali delle connessine siano dipendenti dal microambiente che circonda le cellule di melanoma. L’aumentata attività antitumorale in co-cultura e in vivo, rispetto a quella osservata in vitro, dimostra che una possibile strategia terapeutica potrebbe essere aumentare l’espressione della Cx43 nelle cellule di melanoma, così da diminuirne la proliferazione. [28].

Il database “Oncomine”, che raccoglie profili di espressione genica di vari target in tumori primari e secondari, rivela inoltre che, nel melanoma, un aumento di espressione di Cx43 e Cx26 nelle lesioni primarie è correlato a metastatizzazione e ad un basso tasso di sopravvivenza [30].La comunicazione intercellulare che si stabilisce negli stadi più avanzati tra cellule di melanoma ed i fibroblasti o con le cellule endoteliali attraverso le gap junctions facilita invece la progressione del tumore e la metastatizzazione [28].Nelle linee cellulari di melanoma metastatico è stato riscontrato che alti livelli di Cx43 incrementano la diapedesi e il legame delle cellule circolanti di melanoma alle cellule endoteliali, favorendo così il processo di metastatizzazione. Inoltre l'up-regulation della Cx43 permette la comunicazione tra il microambiente tumorale e le cellule di tumore metastatico, permettendo così lo scambio di ioni e secondi messaggeri che intensificano ulteriormente il processo metastatico [31].

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Capitolo I Introduzione

Al contrario della Cx43, la Cx26 sembra non avere un ruolo antitumorale negli stadi iniziali del melanoma. Questo non sorprende se si considera che quest’ultima presenta una diversa permeabilità e un maggior numero di partner intra-cellulari [28]. D’altra parte, la Cx26 sembra essere coinvolta nel processo metastatico in quanto le cellule endoteliali, sebbene non presentino la Cx26, hanno la potenzialità di esprimerla. Sembra infatti che le cellule di melanoma che circondano le cellule endoteliali inducano in queste ultime l’espressione di Cx26 aumentando così le capacità di intra- ed extra-vasazione nel processo di sviluppo metastatico [32].

1.2. Melanoma cutaneo

Il melanoma è una patologia derivante da anomalie di diverse vie di segnalazione molecolare che causano la trasformazione neoplastica dei melanociti. In particolare, i melanociti si trovano non solo nell’ epidermide,ma anche nel bulbo pilifero, nella membrana uveale oculare e nell’epitelio pigmentato di retina e iride. Esistono, perciò, tre sottotipi di melanoma: cutaneo, mucosale ed uveale. Il melanoma cutaneo è il più comune dei tre sottotipi, costituendo il 90% dei casi [33].

I melanociti che sono localizzati nello strato basale dell’epidermide (Figura 6), attraverso la formazione di melanosomi, producono la melanina, un pigmento che ricopre il nucleo delle cellule mitoticamente attive in modo da proteggerle da eventuali danni provocati dalle radiazioni ultraviolette.

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Capitolo I Introduzione

Figura 6. Struttura della pelle ed in particolare lo strato basale in cui hanno sede i melanociti.

Il melanoma cutaneo è classificabile istomorfologicamente in tre fasi di crescita: fase di crescita radiale in situ, fase di crescita radiale micro invasiva se sono presenti cellule maligne a livello del derma papillare superficiale e fase di crescita verticale che porta a metastatizzazione di altri tessuti. [34]

Da un punto di vista clinico, l’AJCC (American Joint Committee on Cancer) classifica i diversi stadi di melanoma indicandoli in numeri romani (I-IV) e definendoli attraverso tre punti chiave riassunti nell’acronimo TNM: “T” indica le caratteristiche del tumore come lo spessore secondo Breslow, il tasso mitotico e la presenza di ulcerazioni, “N” il grado di coinvolgimento linfonodale ed “M” indica il grado di metastatizzazione.

I fattori istologici di prognosi considerati in questo tipo di classificazione sono:  lo spessore secondo Breslow: parametro che valuta in millimetri (mm) la distanza tra la superficie dell’epidermide e il punto più profondo raggiunto dalle cellule tumorali;

 il tasso mitotico: valutazione della velocità di replicazione cellulare misurata come numero di mitosi/mm2;

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Capitolo I Introduzione  il tasso di ulcerazione: presenza e grado delle lesioni cutanee qualora

presenti.

Per i melanomi che vanno dal I al III stadio la classificazione tiene di conto di indici crescenti dei parametri TNM.

Per la caratterizzazione del melanoma di IV stadio non si considerano né il coinvolgimento linfonodale né lo spessore secondo Breslow: è caratterizzato da metastasi in organi distanti, ad esempio polmoni, fegato o cervello in genere e coinvolge molti siti linfonodali [35].

1.2.1 Epidemiologia

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni tre diagnosi di cancro si ha una diagnosi di tumore alla pelle e, in particolare, si verificano 132.000 casi di melanoma cutaneo ogni anno[36]. Il melanoma cutaneo è piuttosto raro nei bambini e colpisce soprattutto persone attorno ai 45-50 anni, anche se l'età media alla diagnosi si è abbassata negli ultimi decenni. In Italia i dati AIRTUM (Associazione Italiana Registri TUMori) parlano di circa 13 casi ogni 100.000 persone con una stima che si aggira attorno a 3.150 nuovi casi ogni anno tra gli uomini e 2.850 tra le donne. Inoltre, l'incidenza è in continua crescita ed è addirittura raddoppiata negli ultimi 10 anni[37].

Tale patologia risulta essere in costante aumento negli individui con fenotipo caucasico e questo incremento è attribuibile ad una maggiore esposizione ai raggi UV rispetto al passato. Risultano comunque a maggior rischio quei soggetti che presentano un sistema immunitario compromesso, coloro che hanno un elevato numero di nevi comuni e atipici, gli appartenenti al fenotipo tra I e III (carnagione chiara, capelli biondi o rossi) e coloro che hanno una storia familiare di melanoma. [38]

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Capitolo I Introduzione

base allo spessore secondo Breslow. A tali pazienti si raccomanda la biopsia dei linfonodi sentinella in quanto lo status istologico di tali linfonodi è un fattore predittivo della sopravvivenza. La terapia standard per i pazienti con linfonodo sentinella positivo è la linfoadenectomia.[39]

I pazienti con lesioni desmoplasiche, soprattutto se neurotrofiche, possono ricevere radioterapia adiuvante. [40]

Per pazienti con alto rischio di recidiva o con melanoma al II o III stadio è prevista una terapia adiuvante costituita da IFN-α e del suo derivato pegilato che diminuiscono le probabilità di una ricaduta ma non influenzano la sopravvivenza generale.[41]

La terapia sistemica per melanoma di III stadio non resecabile e per la forma metastatica di IV stadio, fino a pochi anni fa, era carente di effettivi trattamenti. A partire dal 2011 l’FDA ha però approvato 6 nuovi farmaci, con 4 diversi meccanismi d’azione: ipilimumab, pembrolizumab, nivolumab, vemurafenib, dabrafenib, e trametinib. Si tratta rispettivamente di un anticorpo diretto contro l’antigene dei linfociti T citotossici, due inibitori del recettore PD-1(Programmed cell death protein 1), due inibitori BRAF ed un inibitore MEK (mitogen-activated protein kinase kinase) [42]. La terapia sistemica può quindi essere classificata in quattro gruppi: chemioterapia, immunoterapia, terapia a bersaglio molecolare e terapia palliativa che comprende sia la resezione chirurgica dei linfonodi o delle metastasi che la radioterapia. [41]

1.2.4 Chemioterapia

La chemioterapia antineoplastica è un trattamento che interferisce con la proliferazione cellulare, causando la morte delle cellule proliferanti con meccanismi citotossici.

In particolare, la dacarbazina è un agente alchilante il DNA approvato dall’FDA per il trattamento del melanoma metastatico. Sebbene abbia bassa attività in monoterapia, è la base di molte combinazioni chemioterapiche ad esempio

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Capitolo I Introduzione

con cisplatino, nitrosuree e tossine. Il suo profarmaco con maggiore biodisponibilità per via orale è Temozolimide, un agente alchilante che riesce a passare la barriera emato-encefalica; per questo è utilizzato da solo o in combinazione con la radioterapia nel trattamento delle metastasi a livello del sistema nervoso centrale.

La vinblastina (alcaloide della vinca) e il paclitaxel (tassano) sono altri tipi di chemioterapici, diretti contro i microtubuli e che quindi impediscono la separazione dei cromosomi e la replicazione cellulare [43].

1.2.5 Immunoterapia

La terapia immunologica per il cancro permette di attivare gli anticorpi normalmente presenti nell’organismo al fine di combattere il tumore. In particolare, la terapia sistemica fino al 2011 prevedeva l’uso di farmaci immunostimolanti come l’interleuchina-2 (IL-2) e l’interferon- α (IFN-α). L’IL-2, approvata nel 1998 dall’FDA per il trattamento del melanoma metastatico, è una linfochina che stimola la proliferazione e l’attivazione dei linfociti-T. Il suo utilizzo ad alte dosi determina grandi benefici per i pazienti affetti da melanoma al IV stadio, ma anche grandi rischi di tossicità. È strato però riscontrato che regimi di somministrazione a basse dosi determinano livelli di risposta più bassi. L’IFN-α è anch’esso una citochina immunomodulante che ad alte dosi determina un miglioramento in termini di sopravvivenza, ma è anch’esso associato a fenomeni di tossicità, come gravi eventi autoimmuni. Una riduzione della tossicità è stata ottenuta usando il suo derivato pegilato, sia da solo sia in combinazione con IL-2. Regimi di biochemoterapia, ovvero combinazione di agenti immunomodulanti e citotossici consentono un buon grado di risposta diminuendo gli effetti avversi. Un esempio è la co-somministrazione di IL-2 con dacarbazina, che agisce anche come antiangiogenico. A partire dal 2011 sono stati approvati nuovi agenti immunostimolanti in particolare alcuni anticorpi monoclonali diretti verso

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Capitolo I Introduzione L’ipilimumab è un anticorpo monoclonale diretto verso il recettore CTLA-4 (cytotoxic T-lymphocyte-associated protein 4) approvato nel marzo 2011 per il trattamento del melanoma in stadio avanzato. In particolare, iI linfociti T CD8+ e CD4+ sono linfociti citotossici che presentano sulla loro superficie il recettore CTLA-4 i cui ligandi endogeni sono B7-1 e B7-2. L’attivazione del recettore CTLA-4 determina un segnale inibitorio nei confronti dei linfociti citotossici. L’ipilimumab si lega a tale recettore evitando la trasmissione dei segnali inibitori rivolti verso i linfociti che possono quindi proliferare.

Il pembrolizumab e il nivolumab sono altri anticorpi monoclonali, autorizzati nel 2014, che determinano un blocco del segnale inibitorio mediato da PD-1, proteina espressa sui linfociti CD8+ e i cui ligandi, presenti su cellule cancerose, sono PD-L1 e PD-L2 che, legandosi ai linfociti, causano un segnale inibitorio che determina immunodeficienza.[44]

La FDA nel 2015 ha approvato per la prima volta nella storia della terapia del cancro una combinazione di due immunoterapie: l’inibitore CTLA-4 ipilimumab e l’inibitore PD-1 nivolumab.[45]

1.2.6 Terapia a bersaglio molecolare

Le cellule tumorali sono caratterizzate da una crescita aberrante determinata da una o più mutazioni geniche. Mentre la chemioterapia tradizionale ha come bersaglio tutte le cellule in divisione, la terapia a bersaglio molecolare tende ad agire su uno o più target che risultano mutati nelle cellule cancerose. Il 50% dei melanomi presenta una mutazione nel gene BRAF, la più frequente è una mutazione che determina la sostituzione dell’aminoacido acido glutammico con una valina in posizione 600 (V600E) della proteina B-Raf, una proteina chinasi serina-treonina che fa parte della via di segnale MAPK. Questa sostituzione porta ad una attivazione costitutiva di questa chinasi e quindi della via di segnalazione ERK e, conseguentemente, a una maggiore proliferazione cellulare. Gli inibitori BRAF possono essere di due tipi: di tipo I

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Capitolo I Introduzione

se inibiscono selettivamente la chinasi Raf mutata, di tipo II se inibiscono quella non mutata.

I melanomi che presentano mutazioni BRAF sono quindi trattati con vemurafenib e dabrafenib, inibitori di tipo I approvati dalla FDA rispettivamente nel 2011 e nel 2013. Solo se la mutazione BRAF è presente il melanoma è suscettibile a tale terapia. In seguito a tale terapia, si instaura un meccanismo di resistenza che non è dovuto a seconde mutazioni della chinasi B-Raf, bensì a svariati meccanismi tra cui amplificazione genica della chinasi, produzione di varianti B-Raf con maggiore attività di segnale, mutazioni secondarie di NRAS e MEK1 o ancora attivazione di ERK via PI3K/AKT/mTOR [46].

Trametinib è un inibitore MEK approvato dalla FDA nel 2013 il cui sviluppo è nato osservando che l’attivazione costitutiva di B-Raf determina la fosforilazione della proteina MEK, che risulta attivata e va a fosforilare ERK1/2, determinando così proliferazione cellulare, sopravvivenza e differenziazione. L’inibizione della via di segnale MAPK con BRAF inibitori o MEK inibitori ha dimostrato un aumento della sopravvivenza generale senza progressione tumorale.

Regimi terapeutici che prevedono la combinazione di BRAF e MEK inibitori dimostrano una diminuzione nell’avvento di tumori secondari, un ritardo nello sviluppo della resistenza e maggiore sopravvivenza generale senza progressione tumorale rispetto alla monoterapia.

Il grado di sopravvivenza dei pazienti affetti da melanoma metastatico è decisamente aumentato grazie allo sviluppo dei nuovi farmaci a bersaglio molecolare, immunoterapeutici e delle loro combinazioni. L’immunoterapia è diventato l’approccio di prima scelta sebbene sia associata a eventi avversi immunitari, mentre la terapia a bersaglio molecolare è un’opzione importante per il trattamento dei pazienti BRAF mutati. La scelta di utilizzare una o l’altra terapia dipende dallo stato di salute del paziente e la presenza o meno di tale mutazione. La presenza della mutazione BRAF e di un buono stato di salute

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Capitolo I Introduzione l’immunoterapia solo dopo miglioramenti determinati dalla terapia a bersaglio molecolare. I pazienti non BRAF mutati sono trattati invece con la combinazione nivolumab/ipilimumab se hanno un buon performance status, mentre si usa la monoterapia con anticorpi anti-PD-1 se la salute del paziente è compromessa [47].

1.2.7 Radioterapia

La radioterapia è stata utilizzata per i tumori cutanei fin dalla scoperta dei raggi X. Essa prevede l’utilizzo di radiazioni ionizzanti dirette verso la massa tumorale, le cui cellule sono più suscettibili ai danni indotti dalle radiazioni rispetto alle cellule sane. Grazie a questo trattamento si ha quindi una minore proliferazione delle cellule cancerose. Tecniche più avanzate e la possibilità di tossicità e cancerogenesi secondaria indotte da questa terapia ne hanno limitato però l’uso. La radioterapia non è indicata nei tumori primari ad eccezione dei casi in cui si prevede un alto rischio di ricorrenza: melanomi localizzati su testa e collo, margini positivi, melanoma mucosale e desmoplasico. La radioterapia linfonodale è raccomandata in melanomi ad alto rischio, ovvero con 4 linfonodi positivi a livello cervicale o inguinale o più grandi di 3 cm. Il controllo locale delle metastasi cerebrali migliora con nuove tecniche come la radioterapia stereotassica e la radiochirurgia stereotassica.

Le cellule di melanoma sono tra le più radioresistenti, ma le nuove terapie a bersaglio molecolare per il melanoma metastatico possono incrementare la radiosensibilità delle cellule di melanoma e dei tessuti normali generando un incremento nel rischio di tossicità e rendendo la radioterapia sconsigliata in questi casi [48].

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Capitolo II Scopo

Capitolo II

Scopo

Lo scopo di questa tesi sperimentale è stato quello di caratterizzare il ruolo delle connessine, Cx26 e Cx43, nelle linee cellulari umane di melanoma cutaneo maligno MeWo, 501Mel e A-375, mediante valutazione dell’espressione genica con tecnica Real-Time PCR, dell’espressione proteica con analisi Western Blot, e della localizzazione cellulare con immunocitochimica.

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Capitolo III Materiali e Metodi

Capitolo III

Materiali e metodi

3.1. Materiali per studi funzionali

3.1.1 Linee cellulari:

Il modello sperimentale utilizzato è costituito da diverse linee cellulari di melanoma cutaneo umano: MeWo, 501Mel, A-375 (American Type Culture Collection, ATCC, Rockville, MA, USA).

Le MeWo (ATCC® HTB­65™) (Figura 7A) sono cellule umane di melanoma cutaneo maligno metastatico derivante da tumore linfonodale. Esse crescono in adesione ed hanno forma simile a quella dei fibroblasti. Sono cellule wild-type per mutazione BRAF, presentano però altre mutazioni come p.R80* a carico di CDKN2A e p.E258K e p.Q317* che portano a mutazione in eterozigosi del gene TP53, mutazione presente in più del 50% dei tumori. Tale gene codifica per la proteina p53, un fattore di trascrizione oncosoppressore. Il ruolo di questo fattore è arrestare il ciclo cellulare, riparare il DNA danneggiato e indurre apoptosi qualora i danni al DNA fossero irreparabili. Le 501Mel (Figura 7B), regalo della Dott.ssa Poliseno (Unità di ricerca Oncogenomica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana), sono cellule di melanoma amelanotico metastatico derivanti da un sito linfonodale; anch’esse crescono in adesione. Tale linea cellulare presenta la mutazione B-RAF V600E in condizioni di eterozigosi.

Le cellule A-375 (ATCC® CRL-1619™) (Figura 7C) sono cellule di melanoma cutaneo maligno derivanti dal tumore primario di una donna di 54 anni. Hanno una forma simile alle cellule epiteliali e crescono in adesione. Esse presentano la mutazione BRAF V600E in condizioni di omozigosi e due mutazioni (p.E61*

e p.E69*) a carico di CDKN2A (Cyclin-Dependent Kinase Inhibitor 2A), gene

oncosoppressore codificante due chinasi capaci di indurre l’arresto del ciclo cellulare in fase G1.

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Capitolo III Materiali e Metodi

Figura 7. Cellule delle linee MeWo (A), 501Mel (B), A-375 (C).

3.1.2 Materiali per il mantenimento della coltura cellulare DMEM

Il Dulbecco's Modified Medium (DMEM, Sigma-Aldrich, Milano) è il mezzo di coltura contenente amminoacidi, vitamine, sali, glucosio, glutammina e, come indicatore di pH, rosso fenolo. Il suo colore è rosso-arancio in condizioni di normale crescita e proliferazione cellulare (pH=7,4), ma può virare al giallo in caso di acidificazione del pH per eccessiva produzione di CO2 o al viola se si

ha alterata regolazione della CO2 o del metabolismo cellulare che ne

provocano alcalinizzazione. FBS

Il fetal bovine serum (FBS, Sigma-Aldrich, Milano) è costituito da fattori di crescita e di adesione che favoriscono la sopravvivenza, la crescita e la divisione cellulare. Protegge, inoltre, le cellule da danni ossidativi e dall’apoptosi.

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Capitolo III Materiali e Metodi

Penicillina/Streptomicina (EuroClone, Milano) è una miscela antibiotica 1:1 di penicillina 10.000 U/ml e streptomicina 10.000 mg/l utilizzata per inibire la proliferazione batterica.

Tripsina-EDTA

La tripsina-EDTA (Trypsin-Versene (EDTA) Mix 10X, Sigma Aldrich, Milano) è una soluzione contenente la tripsina, una proteasi in grado di operare tagli proteolitici a livello del legame tra l'arginina, aminoacido contenuto nella membrana cellulare, e la lisina, presente nel supporto utilizzato. Questo taglio permette il distacco delle cellule dalla superficie del supporto sul quale sono cresciute in adesione. L’EDTA è presente in qualità di chelante cationico, in quanto lega cationi come calcio e magnesio presenti nell’ambiente extra-cellulare, impedendogli di nascondere quei legami peptidici su cui agisce la tripsina.

PBS

Il phosphate saline buffer (PBS, Sigma-Aldrich, Milano) è un tampone con pH =7,4 costituito da una soluzione acquosa contenente cloruro di sodio, cloruro di potassio e fosfato di sodio. E’ isotonico e consente pertanto di mantenere costanti i valori di pH. Non essendo tossico per le cellule, viene utilizzato, dopo filtrazione con filtro da 0,22 μm che ne determina la sterilità, per lavare le colture cellulari, in modo da eliminare eventuali detriti.

DMSO

Il dimetilsolfossido è un solvente polare aprotico, ideale per la crio-preservazione, in quanto diminuisce le dimensioni dei cristalli di ghiaccio che si formano all’interno delle cellule durante il congelamento. Tali cristalli potrebbero determinare danni cellulari; per questo motivo il DMSO viene utilizzato per il congelamento delle colture cellulari. In questo ambito è stato

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Capitolo III Materiali e Metodi

utilizzato anche per le sue ottime capacità di solubilizzare sostanze polari, come il vemurafenib.

Vemurafenib

Il vemurafenib è una solfonammide indicata in monoterapia per il trattamento di pazienti adulti con melanoma inoperabile o metastatico e positivi alla mutazione BRAF V600E. Nello specifico, si tratta di un inibitore della serina-treonina chinasi BRAF. Il vemurafenib (PLX4032, RG7204 Catalog No.S1267 Selleckchem, Italia) è stato da noi solubilizzato in DMSO (Sigma Aldrich, Milano) e la madre 50 mM mantenuta a -80°C per sei mesi.

Figura 8. Il vemurafenib è una N-(3-{[5-(4-clorofenil)-1H-pirrolo[2,3-b]piridin-3-yl]carbonil}-2,4-difluorofenil)propan-1-solfonammide

3.2. Materiali per studi di biologia molecolare

3.2.1 Primers

I primers sono singoli filamenti di oligonucleotidi sintetici, lunghi in genere non più di 30 nucleotidi, che sono necessari come inneschi per la sintesi del cDNA durante la fase di amplificazione della PCR. Sono necessarie due sequenze per ciascun target: una reverse, complementare al filamento 5’-3’, ed una forward, complementare al filamento 3’-5’.

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Capitolo III Materiali e Metodi

La specificità dei primers è stata valutata tramite Primer-Blast (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/tools/primer-blast/) in modo da evitare l’amplificazione di prodotti indesiderati.

I primers usati (Tabella 1) sono stati gentilmente forniti dalla Prof.ssa Letizia Mattii (Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa) ad eccezione dei primers per la gliceraldeide-3- fosfato deidrogenasi (GAPDH) e di quelli per la β-actina (Sigma-Aldrich, Milano) che, essendo proteine codificate da geni housekeeping, sono presenti in tutti i tessuti; per questo motivo sono state usate come controllo positivo e per controllare la qualità del cDNA.

Target Sequenza nucletidica Ta(°C) Lunghezza

amplificato GAPDH F:5’-GTGAAGGTCGGAGTCAACG-3’ R:3’-GGTGAAGACGGCCAGTGGACT-5’ 59 301 pb Β-Actina F: 5’-AACTGGAACGGTGAAGGTGAC-3’ R:3’’-GACTTCCTGTAACAACGCATCTC-5’ 61 138 pb Cx43 F:5’- TCCTCCTCTTTCTTGTTCAGTTTCTCT-3’ R:3’- CCTGCAGATCATATTTGTGTCTGTTC-5’ 54,5 99 pb Cx26 F:5’- TGCTACGATCACTACTTC-3’ R:3’- AACTTCCTCTTCTTCTCAT-5’ 51,4 128 pb

Tabella 1. Primers utilizzati e relativa sequenza nucleotidica, temperatura di annealing e lunghezza dell’amplificato

3.2.2 Kit e reagenti

Il kit RNeasy Minikit (Quiagen, Milano) è stato usato per estrarre l’RNA. Esso è composto da RNeasy Mini Spin Columns, Collection Tubes da 1,5 e 2 ml, acqua RNase-Free (RF), buffer RLT, buffer RW1, buffer RPE. Tutti i materiali usati durante la procedura di estrazione sono stati preventivamente trattati con RNAse zap (Sigma-Aldrich, Milano), una soluzione in grado di degradare le RNAsi, enzimi che determinerebbero la degradazione del campione.

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Capitolo III Materiali e Metodi

La retro-trascrizione è stata eseguita utilizzando il kit QuantiTect Reverse Transcription Kit (Quiagen, Milano), comprendente gDNA Wipeout Buffer, QuantiscriptR Reverse Transcriptase, Quantiscript RT Buffer 5x, RT Primer Mix e acqua RF.

La PCR è stata condotta utilizzando il kit Hot StarTaq PCR Master mix (Quiagen, Milano), composta da Taq DNA Polymerasi, QIAGEN PCR Buffer 2x, MgCl2 3 mM, e desossinucletoidi trifosfato 400 µM.

Le corse elettroforetiche sono state eseguite su un gel di agarosio 1% (Agarose LE, EuroClone, Milano) e TBE 0,5x contenente acido borico 0,9 M, EDTA 0,01 M, Tris 1 M (Sigma-Aldrich, Milano); tale tampone è a bassa forza ionica e viene utilizzato per chelare cationi bivalenti, impedendo che possano attivare le nucleasi che potrebbero digerire il DNA. Il gel viene addizionato anche di bromuro di etidio (Bio-Rad, Hercules, USA), un agente in grado di intercalarsi tra le basi del DNA a doppio filamento e una volta esposto a luce ultravioletta (302 nm), emettere fluorescenza permettendo così di individuare le bande di amplificato presenti sul gel. Ladder 100 pb (Bio-Rad, Hercules, USA) è stato utilizzato per avere una stima della lunghezza dell’amplificato ottenuto e quindi della specificità della reazione. E’ costituito da una serie di frammenti di DNA a lunghezza nota che viene visualizzato sul gel come una serie di bande.

La Real-Time PCR è stata effettuata usando la sonda SsoAdvanced™ Universal SYBR® Green Supermix (Bio-Rad, Hercules, USA) in piastre da 48 well, Multiplate PCR Plates (Bio-Rad, Hercules, USA), chiuse con i tappi ottici Optical Flat 8-Cap Strips (Bio-Rad, Hercules, USA).

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Capitolo III Materiali e Metodi

3.3 Materiali per immunocitochimica

3.3.1 Materiali per immunoperossidasi Soluzione perossido di idrogeno in metanolo

La soluzione di perossido di idrogeno 3% in metanolo è utilizzata per inibire le perossidasi endogene, la cui presenza potrebbe causare falsi positivi. Infatti, la reazione colorimetrica sfruttata nell’immunoperossidasi è dovuta all’ossidazione di una diaminobenzamide da parte di specifiche perossidasi coniugate alla streptavidina e presenti nell’ambiente di reazione. Per evitare che questa reazione avvenga ad opera delle perossidasi endogene, se ne opera un’inibizione preventiva.

Anticorpi

Gli anticorpi primari utilizzati sono diluiti in una soluzione con 0,1% albumina sierica bovina (BSA) in PBS 1x e sono riportati in Tabella 2.

Anticorpo Specie Fornitore Codice Diluizione

Anti Cx43 Monoclonale di topo Santa Cruz Biotechnology sc59949 1:200 Anti Cx43 fosforilata Policlonale di coniglio Santa Cruz Biotechnology sc101660 1:50 Anti Cx26 Policlonale di coniglio Santa Cruz Biotechnology sc130729 1:100

Anti Rho-A Monoclonale di

topo Thermo-Fisher MA1-123 1:100 Anti PKC ps Policlonale di coniglio Cell Signaling Technology 2261S 1:300

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Capitolo III Materiali e Metodi

Gli anticorpi secondari (Tabella 3) sono anticorpi biotinilati; sono stati usati diluiti 1:200 in una soluzione di 1,5% siero di capra in PBS

Anticorpo Specie Fornitore Codice Diluizione

Capra anti- coniglio

Policlonale di capra

Vector BA1000 1:200

Capra anti - topo Policlonale di capra

Vector BA9200 1:200

Tabella 3. Anticorpi secondari biotinilati utilizzati in immunoperossidasi e relativi target, fornitori e diluizioni.

Streptavidina

La streptavidina (Vector, Italia) è una proteina estratta dallo Streptomyces avidinii altamente affine per la biotina, perciò in grado di legarsi con estrema facilità agli anticorpi secondari biotinilati. E’ coniugata con l’enzima perossidasi, responsabile dell’ossidazione di una diaminobenzidina presente nell’ambiente di reazione e che produce la reazione colorimetrica sfruttata nella tecnica di immunocitochimica.

DAB

La 3,3’-diaminobenzidina (DAB) (Dako, Italia) è un substrato la cui ossidazione in presenza di perossidasi e perossido di idrogeno porta alla deposizione di un precipitato bruno insolubile in solventi organici. La soluzione di DAB viene preparata addizionando al substrato DAB concentrato un tampone contenente perossido di idrogeno.

Ematossilina

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Capitolo III Materiali e Metodi

opera dello ioduro di potassio si ottiene l'emateina, un composto che si combina con gli ioni di alluminio presenti in soluzione per formare un complesso attivo emateina-alluminio. Le soluzioni di ematossilina determinano una colorazione rossa dei nuclei delle cellule, che si trasforma rapidamente in blu per esposizione a qualsiasi liquido neutro o alcalino.

3.3.2 Materiali per immunofluorescenza Paraformaldeide

Una soluzione di paraformaldeide diluita all’1% in PBS viene usata per fissare le cellule su specifici supporti, in quanto crea dei legami crociati tra i gruppi aminici liberi delle catene laterali delle proteine stabilizzandone così la struttura e preservandone la forma.

In particolare, il fissaggio con paraformaldeide consente di conservare la struttura cellulare e l’antigenicità, caratteristiche indispensabili per questo tipo di analisi. Permette, inoltre, una prima permeabilizzazione della membrana cellulare.

Triton

È un detergente anionico che viene utilizzato al fine di rendere permeabile la membrana cellulare agli anticorpi. Nello specifico, permette lo smascheramento antigenico degli epitopi, ovvero dei siti di legame dell’anticorpo, che possono essere bloccati da altre molecole o nascosti a causa della loro naturale conformazione.

Blocking Solution (BS)

E’ una soluzione di PBS composta per lo 0,1% da tween-20 e dallo 0,25% di BSA. Il tween-20 è un agente bloccante la membrana, mentre la BSA viene addizionata in quanto è capace di bloccare eventuali siti di legame aspecifici a cui potrebbero legarsi sia gli anticorpi, sia primari che secondari.

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Capitolo III Materiali e Metodi

Anticorpi, falloidina, colorante nucleare

Per l’immunofluorescenza sono stati utilizzati gli anticorpi primari riportati in Tabella 2 diluiti in Blocking solution.

Gli anticorpi secondari utilizzati (Tabella 4) sono coniugati con specifici fluorofori. Questi, in seguito ed eccitazione, emettono fluorescenza consentendo la visualizzazione del corrispondente target con il microscopio confocale Leica TCS SP8 (Leica microsystems).

Anticorpo Specie Fornitore Codice Diluizione

Capra anti- topo coniugato con Alexa Fluor® 488

Policlonale di capra Thermo-Fisher A11001 1:250

Asino anti- coniglio coniugato con Alexa Fluor® 568

Policlonale di asino Thermo-Fisher A10042 1:250

Tabella 4. Anticorpi secondari coniugati con fluorofori e relative diluizioni

La falloidina è una tossina peptidica che deriva dal fungo Amanita phalloides capace di legarsi all’actina F, filamentosa che costituisce i microfilamenti del citoscheletro cellulare. Quella utilizzata da noi è Alexa Fluor® 555 Phalloidin (Thermo-Fisher, A34055), coniugata un un fluoroforo che emette nello spettro del rosso. Tale fluoroforo viene eccitato a 555 nm ed emette ad una lunghezza d’onda di 565 nm (3 μL stock 12 μL bsa 105 μL PBS).

Il colorante nucleare utilizzato è TO-PRO-3 (Thermo-Fisher), un colorante nucleare rosso che, una volta eccitato a 642 nm, emette a lunghezza d’onda di 660 nm.

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Capitolo III Materiali e Metodi

3.4. Materiali per Western Blot

3.4.1 Materiali per estrazione e quantizzazione proteica

Per l’estrazione proteica sono stati utilizzati due diversi tamponi di lisi: il RIPA buffer (Santa Cruz Biotechnology) e un tampone costituito da tris(idrossimetil)amminometano cloridrato (TRIS-HCl), 20 mM (Sigma-Aldrich, Milano), NaCl 150 µM Aldrich, Milano) e 1% di Triton X100 (Sigma-Aldrich, Milano). In particolare il TRIS-HCl è un sale utilizzato per regolare l’acidità e l’osmolarità del lisato ottenuto; il NaCl è anch’esso un sale che permette di mantenere o incrementare la forza ionica di alcuni detergenti come il TRITON. Questo è un detergente anionico utilizzato per solubilizzare le proteine di membrana e isolare quelle citoplasmatiche.

Entrambi i tamponi sono addizionati di diversi inibitori di proteasi: il fenilmetilsulfonil fluoruro (PMSF), come inibitore delle serin-proteasi, il sodio ortovanadato, come inibitore delle tirosin-fosfatasi e fosfatasi alcaline e il fluoruro di sodio per inibire le fosfatasi.

Per la quantizzazione dei lisati proteici è stato utilizzato il saggio colorimetrico di Bradford servendosi del kit Bio-rad protein assay (Bio-rad) e dello spettrofotometro GeneQuant Pro (GE Healthcare).

SDS 10%

Il sodio dodecil solfato (Sigma-Aldrich, Milano) è un detergente anionico che denatura le proteine rompendo i legami a idrogeno e le interazioni idrofobiche, degradandone così le strutture primarie e secondarie. Inoltre, impartisce alle proteine una carica netta negativa, determinando così l’uniformità di carica del lisato proteico. In questo modo, le proteine durante la corsa elettroforetica si separeranno soltanto in base al loro peso molecolare.

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Capitolo III Materiali e Metodi

Acrilammide 30%

La soluzione di acrilamide al 30% (Euroclone spa, Italia) è formata da monomeri di acrilamide (l'ammide dell'acido acrilico) e da N,N'-metilenbisacrilammide (bis-acrilammide), molecola derivata dal legame di due monomeri di acrilammide tramite un gruppo metilenico. Durante la polimerizzazione, questa soluzione crea una maglia più o meno fitta a seconda della percentuale di acrilammide, permettendo di separare le proteine in base al peso molecolare.

Catalizzatori

APS 10% (ammonio persolfato) e TEMED (tetrametilendiammina) (Bio-Rad, CA, USA) sono i catalizzatori da noi usati per la formazione del gel. In particolare, il TEMED stabilizza i radicali liberi che si formano per decomposizione spontanea dell’APS, i quali convertono i monomeri di acrilamide in radicali liberi che reagiscono con i monomeri inattivi iniziando così una reazione di polimerizzazione a catena.

Anticorpi

Gli anticorpi primari utilizzati sono un anticorpo diretto verso il dominio carbossi-terminale della Cx26, uno diretto verso il loop citoplasmatico della stessa connessina) ed uno diretto verso la β-actina di origine umana Tabella 5 (MAB1501, Millipore).

Anticorpo Specie Fornitore Codice Diluizione

Anti Cx26 Policlonale di coniglio Santa-Cruz Biotechnology

SC130729 1:200 - 1:100

Anti Cx26 Monoclonale di topo Thermo-Fischer CX-12H10 1:500 - 1:100

Anti β-actina Monoclonale di topo Millipore MAB1501 1:5000

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Capitolo III Materiali e Metodi

Gli anticorpi secondari utilizzati (Tabella 6) sono coniugati con perossidasi di rafano e permettono la degradazione del luminolo, segnale rilevabile in chemiluminescenza con lo strumento LasQuant™4000.

Anticorpo Specie Fornitore Codice Diluizione

Topo anti coniglio Monoclonale di topo Millipore MAB201P 1:5000

Capra anti topo Policlonale di capra Sigma-Aldrich A4416 1:5000

Tabella 6. Anticorpi secondari utilizzati in Western Blot e relative diluizioni.

3.5. Metodi usati negli studi funzionali

3.5.1 Scongelamento della linea cellulare

Le cellule, opportunamente conservate in criotubi in azoto liquido, sono di nuovo utilizzabili solo dopo una procedura che ne rende possibile il ritorno allo stato metabolico attivo. La procedura di scongelamento prevede di porre il criotubo in un bagnomaria termostatato a 37°C per circa un minuto per scioglierne il contenuto. Una volta scongelato, il contenuto viene trasferito in una provettasterile da 15 ml, nella quale vengono successivamente aggiunti lentamente 5-6 ml di mezzo di coltura completo, anch’esso precedentemente scaldato a 37°C. La provetta viene quindi centrifugata a 1100 rpm per 5 minuti, per allontanare il DMSO dalla sospensione cellulare. Una volta eliminato il surnatante, si risospende il pellet ottenuto in un adeguato volume di mezzo di coltura e si semina nell’opportuno supporto di coltura.

3.5.2 Mantenimento in coltura

Il mantenimento delle linee A-375, 501Mel e MeWo prevede che le cellule siano conservate, in fase di crescita esponenziale, in fiasche (Starstedt, Verona, Italia) poste in incubatore a 37°C e con un 5% di CO2. Le colture

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Capitolo III Materiali e Metodi

vengono quindi controllate quotidianamente, sostituendo ogni 48 ore il mezzo di coltura consumato con del mezzo completo fresco per eliminare i metaboliti di scarto prodotti dalle cellule e mantenere un costante apporto di sostanze nutrienti alle cellule. Se osservando la coltura al microscopio si dovesse notare la presenza di detriti, si effettua un preliminare lavaggio in PBS.

Le cellule da noi usate crescono in adesione in monostrato e, quando raggiungono un buon livello di confluenza (circa il 70-80%) devono essere staccate dal supporto di coltura per evitare la formazione di multistrati che causerebbero sofferenza cellulare. Per staccare le cellule della superficie della fiasca si può sfruttare una semplice azione meccanica oppure, qualora le cellule aderissero con forza alla superficie, si utilizza una soluzione di tripsina-EDTA.

Nel primo caso, con un pipettatore si fa scendere con forza il mezzo di coltura sul tappeto di cellule che viene quindi disgregato. La sospensione cellulare ottenuta è centrifugata ed il pellet risospeso delicatamente e riseminato. Qualora l’azione meccanica non fosse sufficiente a disgregare il monostrato cellulare è necessario invece utilizzare la tripsina. Il mezzo di coltura delle cellule è aspirato e sostituito con una soluzione di tripsina 10x opportunamente diluita in PBS. La fiasca è quindi posta in incubatore a 37°C al fine di promuovere l’attivazione della tripsina. Dopo circa un minuto, si verifica mediante osservazione al microscopio che le cellule si stiano staccando e si procede a neutralizzare la tripsina con altro mezzo di coltura; in particolare, è l’FBS contenuto nel mezzo che consente la neutralizzazione della tripsina. La sospensione cellulare ottenuta è quindi centrifugata a 1100 rpm per 5 minuti al fine di allontanare la tripsina residua. Successivamente, il surnatante viene aspirato ed il pellet risospeso in un opportuno volume di mezzo di coltura completo, se si vuole procedere alla semina in nuove fiasche, o in una specifica soluzione di congelamento, se si intende procedere al congelamento.

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Capitolo III Materiali e Metodi

3.5.3 Congelamento delle colture cellulari

Il congelamento cellulare è un procedimento utilizzato al fine di mantenere le cellule in uno stato di quiescenza per lunghi periodi. Nello specifico, questo processo prevede che le cellule siano staccate dalla superficie della fiasca meccanicamente o con l’ausilio della tripsina, come precedentemente descritto. Dopo centrifugazione della sospensione cellulare ottenuta, si risospende il pellet in 1,7 ml di mezzo di congelamento, costituito da FBS con un 10 % di DMSO (Sigma-Aldrich, Milano, Italia), come agente crio-protettore. L’FBS contribuisce al mantenimento dell’ambiente sierologico delle cellule e, essendo ricco di proteine, stabilizza la membrana.

I criotubi ottenuti sono quindi congelati inizialmente a -20°C per alcune ore poi a -80°C per un massimo di 24 ore ed in seguito sono inseriti nel dewar dell’azoto liquido (-192°C).

3.5.4 Metodi per il trattamento con vemurafenib 3.5.4.1 Conta cellulare

Le cellule, precedentemente staccate, sono centrifugate a 1100 rpm per 5 minuti e il pellet ottenuto è risospeso omogeneamente in un volume noto di PBS.

Nella camera di Burker, opportunamente pulita con etanolo a 70° e chiusa con il vetrino coprioggetto, si caricano 8 μL di una soluzione contenente la sospensione cellulare e 0,2% di Trypan Blue in PBS 1X (Sigma Aldrich, Milano) nel rapporto di 10:1. Il Trypan Blue è aggiunto poiché consente di distinguere, durante la conta, le cellule vive da quelle morte ed evitare così errori nella semina cellulare. In particolare, questo colorante non permea nelle cellule vive, che risultano ad esso impermeabili, al contrario di quelle necrotiche, apoptotiche o morte, si colorano di blu in quanto la loro membrana diventa permeabile al colorante.

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Capitolo III Materiali e Metodi

La camera è costituita da un vetrino rettangolare, con lati rispettivamente di 7,5 cm e 3,5 cm e uno spessore di 4 mm. Presenta due celle di 3 x 3 mm, profonde 0,1 mm, ciascuna divisa in 9 quadrati di 1 mm, ognuno con 16 quadrati di 0,5 x 0,5 mm, e superficie di 1/25 mm². Si procede quindi alla conta cellulare in almeno 3 dei 9 quadrati, escludendo le cellule che risultano colorate in blu e quindi morte. Per ottenere il numero di cellule totali si applica la seguente formula:

N° medio di cellule per quadrante x 104 x mL di sospensione cellulare.

3.5.4.2 Semina e trattamento

Per il trattamento con vemurafenib, 220.000 cellule sono state seminate in dischi da 35 mm (Starstedt, Verona, Italia) in 1,5 mL di DMEM con 10% di FBS e 1% di penicillina/streptomicina. Dopo 24 ore dalla semina, tempo necessario per consentire l’adesione cellulare al supporto, il mezzo viene sostituito con un mezzo fresco privo di FBS, in modo da riportare le cellule ad uno stato di quiescenza (fase G0) che permette di sincronizzarle prima del trattamento.

Il giorno successivo si procede al trattamento: il mezzo è sostituito con una soluzione contenente vemurafenib 10 μM e, in alcuni campioni con DMSO 0,02%, opportunamente diluiti in DMEM ricostituito con 1% FBS e 1% penicillina streptomicina. Le cellule trattate con DMSO costituiscono un controllo che permette di valutare separatamente gli effetti del farmaco e del solvente in cui esso è disciolto.

Trascorse altre 24 ore, le cellule sono staccate dal supporto di coltura e ne viene fatto un pellet che servirà per la successiva estrazione dell’RNA o per ottenere un lisato proteico.

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Capitolo III Materiali e Metodi

3.6. Metodi per gli studi di biologia molecolare

3.6.1 Estrazione dell’RNA totale

La procedura utilizzata con RNeasy kit combina la selettività delle membrane di silice e la velocità delle spin columns. Questo sistema riassunto in Figura 9 permette di estrarre fino a 100 µg di RNA della lunghezza di almeno 200 basi. Il protocollo prevede prima di tutto staccare le cellule dal loro supporto e centrifugarle per 5 minuti a 1100 rpm. Una volta scartato il surnatante, il pellet ottenuto è lavato per tre volte in PBS e quindi risospeso in un volume noto così da procedere alla conta cellulare. Questo passaggio è necessario al fine di calcolare l’esatta quantità di buffer RLT (ricostituito con 1% di β-mercaptoetanolo) che deve essere utilizzata secondo le istruzioni del fornitore: 350 µl di buffer per un numero di cellule fino a 5x106 e 600 µl per un massimo

di 107 cellule.

Successivamente, si eseguono nuovamente dei lavaggi in PBS del pellet e vi si addiziona il corrispondente quantitativo di buffer, vortexando fino a completa dissoluzione. A tale soluzione è aggiunto un volume di etanolo 70% (RF) pari al volume di buffer RLT utilizzato e si lavora con una bacchetta di vetro per evitare la formazione di grumi o filamenti. Questo accorgimento è necessario in quanto la lisi cellulare indotta nel campione causa un aumento delle viscosità della soluzione e per evitare una separazione in due fasi conseguente all’aggiunta di etanolo.

Fino a 700 µl di lisato ottenuto sono caricati nelle spin columns posizionate nei collection tubes e centrifugati per 15 secondi ad una velocità maggiore a 10000 rpm.

Dopo aver scartato l’eluato, contenente il buffer RLT, si aggiungono 350 µl di buffer RW1 e si centrifuga per poi scartare, anche in questo passaggio, l’eluato.

Si procede aggiungendo 500 µl di buffer RPE per lavare la membrana delle spin columns e ad una ulteriore centrifugazione seguita da eliminazione

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Capitolo III Materiali e Metodi dell’eluato. Altri 500 µl di buffer RPE sono quindi aggiunti e si centrifuga per 2 minuti a velocità superiore a 10000 rpm. Si esegue una seconda centrifugazione di 1 minuto per eliminare eventuale etanolo residuo.

A questo punto il tubo collettore viene eliminato e la spin column, in cui vengono caricati 40 µl di acqua RF, è posta in una nuova eppendorf. Grazie ad una centrifugazione di 1 minuto a velocità maggiore i 10000 rpm, l’RNA viene fatto eluire dalla colonna nella sottostante eppendorf, che viene quindi posta in ghiaccio.

La concentrazione dell’RNA estratto viene determinata con lo spettrofotometro NanoQuant Infinite 2000 (TECAN, Salzburg, Austria), misurandone l’assorbanza alla lunghezza d’onda di 260 nm.

Per valutare la purezza dell’RNA estratto è necessario calcolare la ratio tra l’assorbanza a 260 nm e 280 nm, lunghezze d’onda alle quali si ha la massima assorbanza rispettivamente dell’RNA e delle proteine. Il valore ottimale di questo rapporto è compreso tra 1,8 e 2.

Ai fini di valutare l’integrità dell’acido nucleico è stata fatta una corsa elettroforetica su gel di agarosio all’1%, preparato solubilizzando l’agarosio in TBE 0,5X ed aggiungendo come intercalante il bromuro di etidio. L’esperimento è stato condotto in una camera orizzontale il cui tampone di corsa è TBE 0,5X e il voltaggio applicato è di 120V per circa 30 minuti. In ogni pozzetto, 6 μl di una soluzione contenente 5 μL di campione e 1 μL di blu di bromofenolo. La visualizzazione si ha per mezzo del transilluminatore.

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Figura 9. Schema di estrazione dell’RNA totale con RNeasy Minikit

3.6.2 Retrotrascrizione

La retro-trascrizione, tecnica che permette di ottenere cDNA a partire dall’RNA precedentemente estratto, è stata condotta utilizzando QuantiTect Reverse Transcription Kit. I campioni di RNA e i vari componenti del kit sono scongelati prima della procedura, centrifugati per avere omogeneità e mantenuti in ghiaccio fino al momento dell’uso. Il protocollo prevede prima di tutto l’eliminazione del DNA genomico dei campioni aggiungendo 14 μL di una soluzione costituita da 2 μL di gDNA Wipeout Buffer 7x, 1 µg di RNA totale,

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RF Water q.b. a 14 μL centrifugando e incubando per 2 minuti nel termociclizzatore a 42°C.

Nel frattempo, si prepara la Reverse Transcription Master Mix utilizzando 1 μL di QuantiScript Reverse Transcriptase, 4 μL di QuantiScript RT buffer 5x contenente deossinucleotidi trifosfato, 1 μL di RT Primer Mix. Questa Mix è poi aggiunta direttamente al campione, che viene posto nuovamente nel termociclizzatore con il seguente protocollo: 42°C per 30 minuti, 95°C per 3 minuti terminati i quali lo strumento manterrà e 4°C per tempo infinito.

Questo protocollo permette di attivare la trascrittasi inversa e di ottenere campioni di c-DNA, che possono essere utilizzati sia per PCR sia per Real-Time PCR e conservati a -20°C (Figura 10).

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3.6.3 PCR

La PCR è una tecnica di biologia molecolare che rende possibile l’amplificazione esponenziale di segmenti di DNA stampo a sequenza conosciuta.

Il protocollo da noi seguito prevede innanzitutto di scongelare, ponendole in ghiaccio, le componenti necessarie prima di iniziare,

Si procede preparando, per ogni target, una miscela dei primers reverse e forward che vengono diluiti con acqua RF, in modo da ottenere una concentrazione finale pari a 0,4 µM. A tale miscela viene addizionata la Master Mix, preventivamente scongelata, in un volume pari a 5 µL, in base alle istruzioni del fornitore per ottenere un volume finale di 10 µL. Il cDNA, in un quantitativo ≤1 µg/reazione, viene aggiunto come ultimo componente.

Il termociclizzatore (MyCycler, Bio-rad), nel quale viene posto il campione viene impostato per eseguire una iniziale denaturazione del cDNA, effettuata mantenendo la temperatura di 95°C per 3 minuti e, successivamente, ripeterà 35 cicli secondo il seguente schema:1 minuto a 95°C per denaturare, 1 minuto alla temperatura di annealing per facilitare l’appaiamento dei primers,1 minuto a 72°C per estendere l’amplificato. Si avrà quindi una fase di estensione finale a 72°C per 10 minuti ed il mantenimento della reazione a 4°C (Figura 11). Il prodotto genico così amplificato può essere congelato o utilizzato subito per effettuare l’elettroforesi su gel di agarosio.

La temperatura di annealing (Ta), ovvero la temperatura alla quale i primers si appaiano alle sequenze complementari del DNA a singolo filamento, è specifica per ogni primer ed è calcolata con la formula:

Ta=Tm-5°C

dove Tm è la temperatura di melting, ovvero la temperatura di fusione in cui si ha la rottura dei legami a idrogeno tra i primer e la sequenza ad essi complementare di DNA. Tale temperatura dipende dalla composizione dei

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nucleotidi contenenti le basi azotate guanina, citosina, adenina o timina e si calcola secondo la formula:

Tm = [4(G + C) + 2(A + T)] °C.

Sono state effettuate quindi alcune PCR in gradiente (da Ta=Tm a Ta=Tm-5°C) per determinare la temperatura ottimale di annealing alla quale l’amplificato risultava maggiormente presente e senza segnali aspecifici. La temperatura di annealing dei primers così definita è riportatati in Tabella 1.

Figura 11. Rappresentazione schematica delle fasi della reazione a catena della polimerasi

3.6.4 Elettroforesi su gel di agarosio

Una volta che i frammenti del DNA da analizzare sono stati amplificati con la reazione PCR è necessario separarli ed identificarli. A tale scopo si utilizza la

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