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I legami tra la CSR e le performance finanziarie

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Il mondo è in continuo divenire, e con esso nel tempo tendono a modificarsi anche le leggi che lo governano. Queste leggi possono appartenere a sfere del vivere umano differenti, quali per esempio quella legale, civile, relativa a usi e costumi, istituzionale, economico-finanziaria, etico-morale, ambientale e così via.

Con questo studio ci si è interessati prevalentemente di investigare come nel tempo è cambiato il modo di fare economia in relazione al mutamento dell’importanza degli aspetti etici, morali e ambientali all’interno di una data società.

A partire dalle due rivoluzioni industriali il modo di intendere l’economia ha subito un grande mutamento che ha portato per lunghi anni a trascurare ogni aspetto incapace di generare un qualche profitto a favore di una spregiudicata corsa all’arricchimento ad ogni costo. A fare le spese per questo cinico modo di pensare sono stati prevalentemente l’ambiente, danneggiato dal continuo inquinamento dovuto ad emissioni di qualsivoglia natura, e in una certa misura l’uomo stesso, in quanto in taluni casi si è visto privare dei suoi diritti umani inalienabili.

Alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, intorno agli anni ‘70, molti studiosi in ambito sociologico ed economico si sono iniziati a domandare se non fosse il caso di porre rimedio ai danni che fino a quel momento si erano generati e allo stesso tempo ignorati. Fu così che nacque un filone a sostegno della così detta “Corporate Social Responsibility” (CSR), il quale ritiene che i doveri di un’azienda vadano oltre alla semplice generazione di profitto mediante lo svolgimento della propria attività produttiva. Le aziende si devono altresì impegnare su altri fronti, nello specifico quello socio-ambientale, in modo tale non solo da appianare e risolvere problemi che hanno contribuito a generare o amplificare, ma anche di risolvere alcune piaghe sociali esistenti a prescindere dalla loro esistenza.

La nascita di tale corrente non è stata esule da critiche da parte di coloro che invece sostenevano che il solo compito dell’azienda fosse quello di adempiere correttamente alla sua missione principe: produrre in modo tale da generare un guadagno per gli azionisti. Questi ritengono addirittura pericoloso e sconveniente distogliere risorse produttive dal loro scopo naturale per destinarle ad altre attività socialmente responsabili.

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Dallo scontro tra queste due opposte visioni, hanno preso il via continui dibattiti in merito alla natura e agli scopi della CSR nonché alla sua capacità di influenzare le performance economiche finanziarie di un’azienda, qualora l’avesse messa in atto.

Lo studio è strato strutturato nel modo seguente.

Nel primo capitolo si sono innanzitutto introdotti i concetti base inerenti la CSR, soffermandoci su quali sono le spinte sociali che la fanno essere necessaria ed evidenziando come, ad oggi, viene concretamente messa in essere. In seguito si sono esposte le principali teorie pro e contro tale fenomeno, evidenziandone le principali motivazioni che le hanno spinte a prendere una o l’altra posizione. Infine si è evidenziato come, in teoria, l’applicazione di tali pratiche possa generare un vantaggio competitivo. Nel secondo capitolo si è entrati più nello specifico ad analizzare come due fattori, all’apparenza inconciliabili, le necessità economiche e le problematiche sociali, possano invece convivere. Dopo aver presentato le principali variabili utilizzate nel concreto per misurare le performance economico-finanziarie e le performance sociali, si è fatto un excursus su quali sono le principali tendenze rilevate in relazione a tre legami: performance sociale – disclosure sociale; disclosure sociale – performance economico-finanziarie; performance sociale – performance economico-finanziarie. E in ultima istanza si sono analizzati nello specifico alcuni modelli di indagine usati recentemente per trovare evidenze empiriche in merito a tali legami.

Nel terzo capitolo si è voluto approfondire l’impatto di una specifica componente della CSR sulle performance economico-finanziarie: l’impatto ambientale. Dapprima si sono evidenziate le relazioni tra costi ambientali e performance finanziarie, per poi passare a vedere nel concreto quale diverso impatto hanno su queste ultime le emissioni inquinanti regolamentate dallo stato rispetto a quelle non regolamentate. Per concludere si è sottolineata la crescente importanza dell’ambiente nelle questioni economiche.

Nel quarto ed ultimo capitolo si è invece approfondito il modo con il quale la CSR è percepita dal mondo della finanza, nelle sue diverse manifestazioni: le raccomandazioni degli analisti, la percezione da parte degli investitori, l’impatto sul valore di mercato e sul costo del capitale equity. Infine si è voluto osservare in che modo l’etica e la morale sono stati implementati nell’operatività dei più significativi intermediari finanziari al mondo, le banche, analizzando quali sono le pratiche di CSR più adottate in tale realtà e con quale finalità.

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In ultima istanza si è brevemente presentato il fenomeno della banca etica e dei suoi strumenti, considerando questo modo di fare business come una derivazione dell’inserimento nel core business dell’attività alcuni dei principi promossi dalla CSR.

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1. LA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY (CSR)

1.1 Nozione e Contestualizzazione

Negli ultimi decenni, sul panorama economico mondiale, sta sempre più dilagando il concetto di Corporate Social Responsibility (CSR). Sempre più il mondo, inteso sia come l’insieme delle persone che lo compongono che come pianeta, reclama attenzione e un certo rispetto che per troppo tempo sono mancati; sempre meno pertanto, le imprese, indipendentemente dalle attività e dalle funzioni che svolgono, possono continuare a ignorare tali richieste.

La CSR è un mezzo, con il quale si può rispondere a questo urlo che invoca alla sostenibilità nonché alla giustizia.

Il concetto di CSR, ancora relativamente recente nella sua accezione più moderna1, non ha ancora raggiunto una definizione univoca. Al contrario, espone il fianco a molteplici dubbi riguardanti le idee che gli sottostanno, gli elementi che lo compongono e non da ultima l’essenza di fondo.

Nonostante tutte queste mancanze, è innegabile il sussistere di un crescente interesse delle istituzioni, delle imprese, e dei paesi, sviluppato nei confronti di tale argomento.

Una forte spinta all’emergere e alla diffusione del dibattito in materia, da parte di studiosi e teorici, è stata data dall’evoluzione nel modo di fare business; in particolare ci si riferisce all’ampliamento dimensionale, a sua volta legato a doppio filo con l’internazionalizzazione delle imprese. Le multinazionali, in particolar modo, sono in grado di influenzare con il loro agire il contesto socio-ambientale ed economico di un paese2, andando a impattare principalmente sul mercato del lavoro.

Dato il ruolo che le imprese (specialmente quelle di maggiore dimensione) ricoprono, è inevitabile che un numero sempre più elevato di gruppi sociali, i così detti stakeholder, aumentino la pressione sulle stesse. Essi spingono affinché le imprese, per il potenziale e

1 Il primo contributo ufficialmente riconosciuto, circa la nuova interpretazione di CSR è di Howard

Bowen nel 1953.

Le interpretazioni antecedenti verranno brevemente introdotte del paragrafo successivo.

2 E’ stato infatti dimostrato da svariate ricerche, che le imprese internazionalizzate possono avere un ruolo

positivo nell’appianare i problemi sociali dei paesi ospitanti, quali: la disoccupazione, la scarsa scolarizzazione, la povertà; o anche negativo qualora, per esempio, contribuiscano ad aumentare le disparità territoriali.

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le risorse che possiedono, tengano di conto le relazioni che si instaurano tra il loro agire e le conseguenze sul mondo che le ospita, sia da un punto di vista di impatto sociale che ambientale.

Possiamo affermare che il concetto di CSR è in continuo evolversi. Fin dai primi anni ’50, agli albori della sua teorizzazione, si registra una netta separazione di pensiero in merito: chi la ritiene una “semplice moda passeggera” contro chi, invece, la percepisce come un “sine qua non” per l’impresa e il suo modo di operare. La diversità di vedute prosegue negli anni, fino a scatenare un dibattito particolarmente accese tra gli anni ’80 e ’90. Anche gli studi in materia prolificano e portano a sviluppare molteplici teorie, alcune delle quali verranno presentate in seguito, nel paragrafo 2.

Ad oggi, è possibile affermare che la CSR identifica una dimensione strutturale della corporate strategy, funzionale alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’impresa (Collins et al, 2012). Non è decisamente possibile (o quantomeno sarebbe superficiale), quindi, ritenerla un qualcosa di transitorio, senza il quale un’azienda possa raggiungere comunque, profittevolmente, i suoi obiettivi in un’ottica di medio lungo termine. È un elemento imprescindibile se si intende dar vita a un sistema economico – organizzativo orientato allo sviluppo della stabilità a lungo respiro, fondato sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, sulla predisposizione di standard di governo approvati da tutti i paesi, su norme universali per la salvaguardia dell’ambiente.

Per fornire una definizione strutturata del fenomeno CSR, si rimanda alle parole della Commissione Europea: “un concetto attraverso il quale le compagnie integrano volontariamente l’interesse per la comunità e per l’ambiente nel proprio business e nella relazione con gli stakeholder”. In alternativa, un’ulteriore ed altrettanto valida definizione la fornisce la Business for Social Responsibility3: “Il raggiungimento del successo commerciale in modo tale da soddisfare i valori etici e il rispetto per le persone, l’ambiente e la comunità”.

Nonostante le iniziative di CSR possano essere molteplici, spesso sono raggruppate in cinque insiemi; abbiamo pratiche riferite:

 alla vision aziendale;

 alle relazioni con la comunità;  al posto di lavoro;

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 alla disclosure verso l’esterno;

 al rapporto da tenere e il modo in cui presentarsi sul mercato di sbocco.

Da quanto emerge in primis dalle definizioni sopra riportate, il concetto di CSR rappresenterebbe lo strumento migliore per far convivere profittabilità e benessere sociale4; le problematiche di cui si occupa possiamo raggrupparle in 3 aree:

 area delle problematiche sociali: povertà, esclusione sociale, abbandono scolastico precoce, la qualità e le aspettative di vita, etc.

 area delle problematiche ambientali ed ecologiche: sostenibilità, inquinamento, emissione gas e sostanze nocive, etc.

 area delle problematiche economiche: disoccupazione, scarso sviluppo di alcune aree di un paese. In questa area potremmo inserire anche la gestione di tutti i conflitti che si vengono a creare tra necessità legate alla responsabilità sociale e quelle legate alla competitività ( e che potrebbero portare allo spreco di risorse ed energie preziose).

Le imprese non sono chiamate a convivere passivamente con queste problematiche, ma anzi sono chiamate ad assumere un ruolo attivo, in modo tale da risolverne alcune e attenuarne altre. In concreto quindi, ci si aspetta che le compagnie raggiungano performance tali da risultare socialmente responsabili, ecologicamente accettabili ed economicamente sostenibili (Andonov e al, 2015): l’obiettivo ultimo è quello di creare valore condiviso, scaturente da due driver delle CSR che potremmo definire motivazioni a priori e motivazioni a posteriori5.

È opportuno infatti, domandarci quali siano le ragioni che spingono un’impresa a mettere in atto politiche di CSR.

Lungi dall’essere assimilabile alla sola e semplice filantropia aziendale6, la CSR scaturisce da un preciso piano strategico che prende vita dal top management e pervade l’intera organizzazione. Pertanto, può succedere che un top management particolarmente

4 Questa è anche la percezione media di un campione casuale di manager, studiata da una ricerca condotta

da Owen nel 1993, che presenteremo più avanti, nel paragrafo 3.Vedremo, inoltre, quanto questo sia messo in dubbio e altamente discusso dagli studiosi.

5 Con motivazioni “a priori” si intende quelle di stampo più ideologico, tipiche e differenti per ogni

manager. Quelle “a posteriori” sono quelle che spingono ad agire, in un determinato modo, per rispondere a un qualcosa di antecedente che si è già verificato: sono strumentali alla prima realizzazione.

6 La filantropia aziendale consiste nella destinazione di una parte (contenuta) degli utili a iniziative di

impronta sociale e ambientale.

Rappresenta solo uno dei tanti modi con il quale si può concretizzare la CSR, sebbene per molti anni i due concetti siano stati confusi.

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incline all’etica possa decidere di adottare politiche socialmente e ecologicamente rilevanti, a prescindere dalle performance economiche che ne deriveranno. Dal lato opposto, può capitare che queste pratiche vengano perseguite per mascherare comportamenti dannosi, precedentemente messi in essere dall’impresa per ottenere grandi profitti, come “tentativo di redenzione”, per rimediare ai danni causati. Prese singolarmente entrambe le motivazioni, sia a priori che a posteriori, sono discutibili. Sarebbe, piuttosto, opportuno operare in un’ottica di complementarietà, in modo tale da mettere in atto fin da principio azioni che in ottica prospettica possano portare un profitto, pur mantenendosi nel confine della sostenibilità. Sebbene, all’apparenza, possa sembrare dispendioso, nel concreto si è dimostrato che si vengono invece a creare rilevanti riduzioni di costi7.

La CSR viene anche vista come un tentativo di rispondere efficacemente a cambiamenti che si verificano a livello sociale ed economico. Non tutti i fattori, però, hanno il medesimo impatto su ogni organizzazione; per dirla con altre parole, non a tutte le

imprese si può chiedere di sviluppare lo stesso grado di CSR.

Collins(2012) ha proposto di suddividere gli stadi di CSR in 5 scalini, in crescendo, da una forma molto embrionale fino a una molto avanzata8; e sono:

 informale;  corrente;  sistematica;  innovativa;  dominante.

Le organizzazioni perseguiranno l’uno o l’altro stadio, a seconda di come si configurano nelle singole realtà diversi fattori quali: la dimensione, l’attività svolta, la cultura organizzativa e di business, il trascorso, la pressione esercitata dagli stakeholder (latu sensu).

7 Per fornire un esempio: si può risparmiare sui costi della pubblicità, dal momento che già l’adozione di

queste pratiche ha un netto ritorno in termini di immagine e reputazione.

8 Ad ogni stadio corrispondono diverse pratiche. Per esempio, in quello informale, ci si accontenta di

adottare misure a favore dei dipendenti, iniziative occasionali a favore della comunità, azioni per la tutela dell’ambiente; in quello corrente: adozione di codici etici, certificazioni ambientali e di sicurezza, stesura di un bilancio di sostenibilità, cause related marketing. E così via, in crescendo, fino alla dominante. Nell’ottica di Collins, gli stadi intermedi dovrebbero essere solo transitori: tutti dovrebbero perseguire una CSR dominante.

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In linea di massima, possiamo affermare che si concentrano solo su alcune iniziative sociali: quelle considerate di maggior importanza per loro, quelle sulle quali hanno più influenza, quelle che vanno a porre rimedio a un proprio punto di debolezza. Rare sono, invece, fino ad oggi, le iniziative che riguardano in modo generalizzato più attività. Per illustrare i motori della CSR, quei fattori che la spingono e la motivano, che appartengono al contesto in cui le organizzazioni operano, ci rifacciamo a una schematizzazione proposta dallo stesso Collins (2012).

Come mostrato dalla Figura1.1, sono considerati 8 le principali forze che spingono un’impresa ad adottare la CSR:

 i macro-fenomeni sociali ed economici: globalizzazione, i diritti umani e dei lavoratori, la crescente sensibilità ambientale, etc;

 la regolamentazione: le varie norme nazionali e internazionali;  le certificazioni e gli standard;

 il Socially Responsible Investing (SRI);  i centri propulsori della CSR;

 i servizi e le iniziative per le imprese;

Figura 1.1 I motori della CSR Fonte: Collins2012, Capitolo 14

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 la società civile;  le imprese.

A prescindere dall’estensione del fenomeno nelle realtà concrete, imprescindibile rimane comunque, il fatto che debba essere qualcosa di trascendentale e pervasivo in tutta l’organizzazione e i suoi componenti, dai vertici all’ultimo operaio: deve essere correttamente ricompresa nella mission/vision ed essere un valore di riferimento per tutti.

1.1.1 Una spinta sociale verso la CSR: le esternalità

L’insediamento delle aziende in un qualsivoglia territorio, è da sempre oggetto di svariati studi. Uno degli aspetti più valutati è quello legato all’inquinamento ambientale che esse producono a danni sia delle comunità più prossime, e più in generale nei confronti dell’intero ecosistema. Il filone di ricerca che si occupa di questa tematica è noto come studio delle “esternalità”, ovvero il costo che l’attività della stessa società può generare sul territorio, insediandovisi9.

Con esternalità si intende qualsiasi costo o beneficio provocato da un soggetto, nella sua attività di produzione o consumo, che ha effetti su altri individui presenti nell’economia (Schotter 2009). Rappresenta dunque l’effetto che un’attività ha su un soggetto che però non ha partecipato alla messa in atto dell’attività stessa10. Se un’azienda trasferisce un costo da sostenere alla società, il mercato risulta essere “miope”, non riesce a trovare soluzioni efficienti in grado di soddisfare contemporaneamente i soggetti che ne fanno parte: ciò condurrà a un fallimento del mercato11.

9 Assai noto è il modello di società immaginato da Dolan (1969), il quale propone una società immaginaria

nella quale si producono esclusivamente due beni: carta e acqua potabile. La società è ipotizzato essere costruita in modo tale che le lungo un fiume si vengono a trovare, più a monte una cartiera e più a valle la città degli abitanti. Da questa collocazione si genera però un problema: la cartiera che per produrre si trova a scaricare sostanze nocive nel fiume fa sì che a carico della popolazione si generi un elevato coto di depurazione dell’acqua. Questo coto a carico della popolazione e non della cartiera rappresenta l’esternalità.

10 Al nostro fine è interessante valutare le esternalità negative, in quanto si traducono in un costo, ma

queste non sono l’unica tipologia di esternalità. Bisogna considerate tuttavia che esistono anche

esternalità positive, che si hanno quando coloro che beneficiano degli impatti positivi prodotti da un altro soggetto non devono corrispondere un prezzo pari al beneficio ricevuto.

11 Con “fallimento del mercato” si intende quella situazione in cui l’allocazione dei beni e dei servizi

effettuata tramite il libero scambio non è efficiente, cioè ci sono dei modi per incrementare il benessere di alcuni partecipanti senza ridurre quello di altri.

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Da sempre questo è un fattore che preoccupa sia i filoni interventisti che quelli liberisti12, i quali temono che le esternalità possano far fissare al mercato concorrenziale un livello dei prezzi sbagliato che impedisca il raggiungimento di risultati efficienti. Quali proposte di risoluzione se ne identificano tre di tipo interventista e una di tipo non interventista.

Appartenenti alla prima categoria sono: le tasse di Pigou, il sistema dei livelli accettabili e tasse e i permessi di inquinamento negoziabili.

Per quel che concerne “le tasse di Pigou”, esse si configurano come tasse imposte su coloro che generano un’esternalità per un ammontare pari alla stessa esternalità. Questa metodologia pertanto consiste nel far pagare all’impresa inquinante una tassa pari all’esternalità marginale prodotta. In questo modo l’azienda è obbligata a “internalizzare” l’esternalità e a tenerla in condizione nel processo decisionale relativo al livello di produzione ottimale: la produzione verrà ridotta al livello socialmente ottimo. Questa prima tipologia di soluzione sebbene sia teoricamente accettabile ed efficace, non lo è altrettanto dal punto di vista pratico. Affinché l’esatto ammontare della tassa possa essere stabilito, si dovrebbe disporre dell’informazione relativa all’effettivo valore dell’esternalità: informazioni di cui lo stato difficilmente riesce a disporre.

Quello dei livelli accettabili e tasse è un sistema attraverso il quale lo stato interviene in un mercato con esternalità al fine di ridurne i loro effetti. Questo sistema viene attuato imponendo tasse a carico di coloro che producono esternalità al fine di indurli a ridurre quest’ultime ad un livello ritenuto accettabile (Shotter 2009)13. Questa via è anch’essa poco praticabile nel concreto; ancora una volta lo stato dovrebbe essere in grado di stimare l’esatto ammontare dell’impatto ambientale in modo tale da fissare un livello accettabile congruo. In aggiunta si pone il problema della fissazione della tassa ottimale, che dovrebbe tenere in considerazione le diverse funzioni di costo dei soggetti coinvolti: cosa di fatto impossibile.

12 Sostengono rispettivamente che lo stato debba intervenire nel risolvere i problemi che si generano sul

mercato (interventisti) e che il mercato sia in grado, in autonomia, di risolvere ogni sorta di problematica che rischia di farlo fallire (liberisti).

13 Dal momento che è presumibile che in un mercato vi sia più di un’azienda inquinante, ci si domanda

come ripartire il costo dell’esternalità. Vi sono due strade, la prima consiste nel ripartire l’obbligo di riduzione dell’inquinamento tra tutte le società coinvolte. Questa è la soluzione più facile ma non altrettanto conveniente. È opportuno tenere di conto anche della facilità di abbattimento delle emissioni inquinanti. Ecco che allora, una seconda strada, la più efficiente, consiste nel far sì che chi ha la

possibilità di ridurre il proprio livello di inquinamento al minor costo attui abbattimenti maggiori rispetto a quelle aziende che invece per far ciò devono sostenere costi superiori.

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I permessi di inquinamento negoziabili sono uno strumento messo a disposizione dallo stato per correggere gli effetti delle esternalità. È uno strumento con il quale le imprese possono acquistare dallo stato il consenso ad inquinare per un certo ammontare. In concreto l’inquinamento prodotto viene trasformato in un costo di produzione per l’azienda: è un fattore della produzione e in quanto tale viene acquistato insieme al lavoro e al capitale. L’istituzione di questi permessi negoziabili prevede anche una loro continua compravendita, che può realizzarsi anche tra le diverse imprese: si viene a creare così un vero e proprio mercato a se stante14. È doveroso chiedersi come questi permessi vengono attribuiti e concessi ai diversi paesi. Esistono fondamentalmente tre meccanismi di assegnazione delle quote: il grandfathering, che consiste in un’assegnazione gratuita sulla base dei livelli “storici” di emissioni; l’auctioning, ovvero un meccanismo di asta tra i soggetti qualificati a richiedere tali permessi; le soluzioni miste. Quest’ultimo aspetto, quello relativo ai meccanismi di attribuzione delle quote di permesso, è quello che mette in evidenza i maggiori limiti di questa soluzione. Il sistema di scambio che si viene a costituire infatti tende a favorire le imprese già operanti sul mercato rispetto ai nuovi entranti; in particolare l’assegnazione di quote sulla base dell’approccio storico può ridurre il livello di concorrenza nel settore.

Rappresentante della seconda categoria è, invece, la soluzione proposta da Coase. Egli sostiene che gli individui appartenenti a un mercato sono autonomamente in grado di correggere privatamente le esternalità, purché si possa negoziare senza l’imposizione di costi di transazione. Gli individui, consci del fatto che non stanno agendo in un mercato pareto-efficiente, e che pertanto è possibile migliorare la situazione di taluni senza incidere sul benessere di altri, dovrebbero essere in grado di raggiungere un accordo vantaggioso per tutti, anche per la società. Il suo pensiero è stato formalmente riportato in quello che è noto come “Il Teorema di Coase”: in mercati caratterizzati dalla presenza di esternalità, se vengono assegnati diritti di proprietà e se le parti coinvolte possono negoziare senza sostenere alcun costo, allora esse arriveranno ad una soluzione Pareto- ottimale indipendentemente da chi possiede i diritti di proprietà. Questa soluzione non è esente, al pari delle altre da limiti e critiche: se ne registrano principalmente tre. In primo luogo, esso si basa implicitamente sull’assunzione di un rapporto lineare tra costi e benefici che non è detto sussista in pratica15; inoltre, diventa difficilmente applicabile

14 Perché vi sia un’allocazione efficiente dei permessi, il mercato che fa da supporto allo scambio deve

anch’esso essere competitivo

15 La creazione di un mercato delle esternalità capace di gestire il problema utilizzando il classico metodo

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quando sono coinvolte più di due tipologie di interessi (soggetti); infine, è impossibile eliminare i costi di transazione. Indipendentemente da quale soluzione si voglia adottare, è importante che le imprese si responsabilizzino di fronte alle conseguenze che generano nel contesto in cui si trovano con la loro attività produttiva.

1.1.2 Le attività transnazionali e il loro legame con la CSR

Sempre più i fenomeni macro economici che caratterizzano il nostro tempo (quali la globalizzazione dei mercati, l’evoluzione della tecnologia, gli assetti geopolitici e istituzionali), che sono in continuo divenire, nonché la convergenza delle diverse culture e dei distinti modelli comportamentali, spingono le imprese a considerare l’internazionalizzazione come un fattore critico di successo16.

Una delle forme preferite per insediarsi in paesi esteri è quello dell’ “Investimento diretto estero” (IDE), che può avvenire tramite l’insediamento di nuove strutture (con conseguente incremento della capacità produttiva del territorio) o, in alternativa, mettendo in essere operazioni di M&A con aziende già esistenti17.

Indipendentemente dalla metodologia usata, queste iniziative sono sempre bene accette dal governo del paese ospitante18che, invero, per attrarre il più possibile, mette in atto vere e proprie politiche di attrazione di IDE: marketing territoriale, miglioramenti delle condizioni ambientali, collaborazione nei programmi di sviluppo territoriale, sviluppo di forme di integrazione tra imprese estere e realtà economiche locali.

caso non sono collegati da una relazione lineare. Ovvero in presenza di impatti negativi (o positivi) nei confronti di altri agenti economici, questi ultimi non sono "scoraggiati" (o "incoraggiati") ad intervenire nel mercato dal momento che il soggetto che esternalizza non riceve alcun compenso dal loro intervenire: in altre parole non esistono prezzi di mercato capaci di regolare le esternalità.

16 In quanto con l’internazionalizzazione si riesce a : mettere in atto comportamenti strategici in termini di

concorrenza; ampliare i mercati di sbocco; raggiungere forme di produzione evolute, risorse naturali e umane.

17 Per le aziende che si insediano è di gran lunga preferibile la seconda strada. Essa consente infatti, di

raggiungere l’obiettivo di entrata nel territorio con una maggiore velocità, nonché semplifica la valutazione preliminare del progetto. Per i paesi ospitanti, invece, è preferibile la prima modalità, in quanto avrebbero maggiori vantaggi dovuti all’ampliamento della domanda di forza lavoro, in più, allo stesso tempo, potrebbe aumentare la concorrenza, agendo a beneficio della popolazione.

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È innegabile, dunque, il vantaggio che tali operazioni, se svolte coscienziosamente (senza: creare oligopoli, manovrare i governi locali, spiazzare la concorrenza locale, incrementare le differenze tra regioni), apportano alle popolazioni.

Come si è accennato precedentemente, le grandi imprese (quali sono le imprese internazionalizzate), ricoprono ruoli assai rilevanti, sotto molteplici punti di vista, che non sempre hanno accezione positiva. Se è vero che, da una parte, sviluppano il mercato del lavoro, consentono di risolvere, direttamente e indirettamente, i problemi legati all’educazione, all’esclusione sociale e al sistema sanitario; dall’altro, è altrettanto dimostrato che questi insediamenti, tendano ad accrescere la disparità tra le regioni. È innegabile che l’ingresso di una nuova realtà economica, già avviata e sviluppata in altri paesi, porta con sé: posti di lavoro, che vanno dunque a risolvere problemi di disoccupazione; abilità e competenze (skills) in determinati campi dell’industria e nel modo di far business in generale. Questo patrimonio culturale è fondamentale per stimolare il mercato in regioni, che per motivi di povertà o scarsa appetibilità territoriale, via via sono state abbandonate a loro stesse e a un inevitabile declino. Posto ciò, è però altrettanto vero che l’internalizzazione delle imprese, sia che avvenga mediante M&A o con IDE, tende a concentrarsi in zone già sviluppate (o almeno in via di sviluppo), ovvero in quelle più avanzate e attrezzate del paese, per ovvie ragioni di convenienza economico-organizzativa. Ciò porta come conseguenza il fatto che le disuguaglianze tra regioni di un paese aumentino ulteriormente in termini di offerta di lavoro, capacità e profittabilità.

In luce di questi aspetti, è palese che queste multinazionali ricoprono un ruolo non trascurabile all’interno di un paese: non c’è di che stupirsi se sono specialmente queste realtà quelle che non possono sottrarsi a pratiche evolute di CSR19, partecipando e proponendo iniziative sia locali che globali.

Come risulta da uno studio condotto nel contesto europeo (Witkowska,2008), le imprese transnazionali sono in grado di evitare conflitti sociali che possano mettere a rischio i loro interessi e, usando il social related management, accrescono la loro competitività, a dimostrazione che la CSR oltre che essere utile alla società, è altresì fattore critico di successo per l’impresa stessa. Ciò si traduce in aumento dei benefici e riduzione di costi.

19 Mentre imprese locali (e/o di dimensioni ridotte) possono accontentarsi di perseguire bassi stadi di CSR,

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1.1.3 La CSR in concreto

Il concetto di CSR, lo abbiamo visto, raggruppa molteplici principi differenti: spazia dalla filantropia aziendale e il rispetto per le norme, al modo in cui le imprese raggiungono i loro obiettivi di profitto, fino alla rendicontazione agli stakeholder sul proprio agire. Ma in che cosa si concretizza? Quali sono le politiche aziendali che se assunte ci fanno dire: “l’impresa x ha sviluppato la CSR”?

Le risposte a queste domande sono varie, come si può immaginare. In primo luogo bisogna ricordare che un’impresa deciderà di sviluppare uno stadio di CSR piuttosto che un altro, sulla base di caratteristiche proprie, che la contraddistinguono (dimensione, settore di appartenenza, cultura organizzativa, etc): in ogni livello la CSR si manifesterà in modo sui generis.

Si spazia da misure a favore dei dipendenti, iniziative occasionali a favore della comunità, azioni per la tutela dell’ambiente, tipiche del primo stadio (CSR informale), per giungere fino ad azioni collettive per mutare i comportamenti del settore a cui si appartiene, nell’ultimo stadio (CSR dominante).

È logico che, tra i due estremi, possiamo avere diversi passaggi intermedi quali: l’adozione di un codice etico, la redazione di un bilancio di sostenibilità, la mappatura delle attività aziendali con i relativi rischi connessi, la razionalizzazione delle attività verso la comunità, l’elaborazione dei prodotti socio-ambientali, e così via.

Indipendentemente dal percorso scelto, il fine ultimo rimane il medesimo: raggiungere soluzioni di medio/lungo termine andando ad agire direttamente sull’origine e le ragioni dei problemi.

Ci si deve quindi domandare quali sono le pratiche messe in essere dall’impresa per porre soluzioni a questi problemi. A titolo esemplificativo se ne propongono alcuni. Il punto di partenza è sicuramente la semplice filantropia aziendale, che consiste nella destinazione di una parte di utili, prodotto o servizi al supporto di attività benefiche.

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A questa pratica, spesso, si affianca il volontariato20 per i bisogni della comunità e la promozione di obiettivi sociali21 (combattere l’analfabetismo, sostegno alle campagne contro HIV, etc).

Insieme a queste modalità di attuazione, prevalentemente di ottica sociale, se ne affiancano altre, altrettanto rilevanti con una prospettiva più di stampo ambientale. Sempre più si cerca di ottimizzare l’uso delle risorse aziendali, in modo tale da evitare sprechi e sviluppare tecnologie sostenibili, che consentono di ridurre (se non proprio eliminare) gli effetti negativi sull’ambiente.

Infine si ricordano i benefit e gli incentivi per il personale, che fanno da contorno al tentativo di creare un posto di lavoro che possa risultare ideale, in modo tale che ogni mansione sia svolta al meglio.

20 Consiste in un atto di persuasione da parte dell’azienda nei confronti dei suoi partner, impiegati, fornitori,

a supportare le organizzazioni benefiche locali.

21 Sta nel fornire risorse per il benessere della popolazione e nell’aiutare alcuni obiettivi prefissati dalle

ONLUS.

Figura 1.2 Gli stadi della CSR

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1.2 Correnti Pro e Contro l’attuazione della CSR a livello aziendale

Come accennato nel primo paragrafo, il dibattito circa la convenienza o meno della decisione di inserire pratiche di interesse e rilevanza sociale all’interno dell’operatività di un’impresa, esiste da diverso tempo.

Sebbene la CSR nella sua accezione moderna, quella di nostro interesse, sia possibile collocarla nella seconda metà del XX secolo22, il concetto generale sussiste da più di 4000 anni: svariati testi dell’induismo, del buddismo, dell’islam ne sono la riprova.

Nel 1953, uno tra i primi a parlare di qualcosa di molto simile alla CSR fu Howard Bowen, il quale sostiene che un’impressa debba assecondare gli obiettivi e i valori della società. Come paladino dello schieramento opposto a questa visione, troviamo un decennio più tardi Milton Friedman, il quale sostiene, invece, che l’unica responsabilità sociale dell’impresa debba essere quella di massimizzare i profitti per i propri azionisti. Se non seguono quest’ottica, sostiene Friedman, è come se i manager distorcessero risorse essenziali per scopi non profittevoli, imponendo, così, una tassa illegale sull’attività. Per usare direttamente le parole dell’autore: “Few trends would so thoroughly undermine the very foundations of our free society as the acceptance by corporate officials of a social responsibility other than to make as much money for their shareholders as they possibly can” (Friedman,1962).

Questi due opposti schieramenti rimarranno anche nelle varie fasi successive del dibattito, fino a diventare vere e proprie scuole di pensiero: la prima viene ricordata come “modello degli stakeholder”; la seconda come “modello neoclassico”.

Dunque, coloro che adottano una visione neoclassica dell’azienda, sosterranno che l’unica responsabilità sociale dell’impresa consiste nel fornire lavoro e pagare le tasse; ogni investimento in attività socialmente responsabili, si traduce in un costo aggiuntivo, che potrebbe mettere l’azienda in una posizione di svantaggio competitivo rispetto ai competitor.

All’opposto, l’approccio orientato agli stakeholder fonda il suo essere, non su questione

prettamente economiche, ma anche su aspetti etici e politico-sociali.

Come Holmes (1976) afferma: “‘in addition to making a profit, business should help to

22 Tecnicamente una prima forma, isolata, la si trova anche nella seconda metà del XIX secolo, con la

classificazione del benessere aziendale e della filantropia, formulata da John H. Patterson, del National Cash Register.

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solve social problems whether or not business helps to create those problems even if there is probably no short-run or long-run profit potential”; è evidente che all’impresa viene chiesto di farsi carico di un problema, anche alieno alla sua attività, che però, in qualche modo, preoccupa la realtà fisica e sociale che la ospita. Ciò viene chiesto in ragione delle risorse e delle capacità che essa possiede, e che possono concretamente avere un impatto positivo.

Un approccio così formulato è anche conseguente alla necessità di mantenere la fiducia, il supporto, nonché la legittimazione da parte degli impiegati, dei governanti, e della comunità latu sensu.

Sorge spontanea una domanda: se con questo secondo approccio, l’impresa può rafforzare la loyalty interna, ma soprattutto esterna (dei clienti, dei governi, etc), siamo sicuri che questa CSR non implichi anche un maggior profitto? Se così fosse, evidentemente, anche i sostenitori della scuola neoclassica non avrebbero di che temere: gli shareholder, in primis, ne avrebbero sicuramente un interessante ritorno23.

Di seguito si intende proporre alcune, precisamente tre, delle teorie, che spieghino il “come” e il “perché” un’impresa dovrebbe procedere a una CSR attiva. Sono:

 Stakeholder Theory;  Social Contract Theory;  Legitimacy Theory.

La Stakeholder Theory

Sostenitore convinto e propulsore di questa teoria fu Freeman, che nel 1984, si peritò di descrivere una serie di gruppi verso i quali l’impresa avrebbe dovuto essere responsabile. Questi stakeholder sono definiti come “qualunque gruppo e/o individuo che può influenzare o è influenzato dal raggiungimento degli obiettivi dell’organizzaione”. Con la formulazione di questa teoria si inizia, dunque, a non ritenere più l’azienda come un qualcosa di privato, non deve dar di conto solamente ai suoi azionisti (incrementando il valore delle azioni), ma anche a tutti coloro che sono interessati, sotto diversi aspetti, alle sue performance.

23 Il maggior costo che i neoclassici temevano di dover sostenere, come una tassa illegale sull’impresa, in

realtà potrebbe essere più che coperto dal risultati che si otterrebbero per l’incremento dell’appetibilità sul mercato.

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Gli stakeholder vengono suddivisi in due classi: primari e secondari. I primari sono definiti come coloro senza i quali l’impresa cesserebbe di essere operativa e quindi di produrre; sono: gli azionisti, gli investitori, i clienti, gli impiegati, i fornitori e la comunità locale (intendendosi come comunità anche i governi, coloro che forniscono le infrastrutture etc.). I secondari sono coloro che, sebbene legati a doppio mandato all’impresa (ovvero, influenzano e sono influenzati), non sono coinvolti nelle transazioni con la stessa, e dunque non sono fondamentali per la sua sopravvivenza.

La domanda che sorge spontanea è se le aziende debbano assecondare le esigenze di tutti questi individui (qualora fosse possibile conciliarle e rispettarle) o se debba concentrarsi solo su alcune.

In prima battuta sembra corretto rispondere che si dovrebbe porre più attenzione a quelle necessità che appaiono più urgenti, o che appartengono a gruppi con maggior potere. In generale, comunque, si può affermare che la sopravvivenza, nonché il successo di un’azienda, dipende dalla capacità dei manager di soddisfare i suoi stakeholder primari: ciò garantisce un vantaggio competitivo non trascurabile.24

La Social Contract Theory

Questa teoria, nella sua forma embrionale, fu elaborata, verso la fine degli anni ’90 da Owen, Grey e Adams (1996). Essi descrissero la società come un insieme di contratti sociali tra i vari membri che compongono la società e la società stessa. Fu successivamente modificata, nel 1999, da Donaldson e Dufee, che, rielaborandola, dividendo tra contratti microsociali e macrosociali25, la posero come una sorta di guida per i manager su come prendere decisioni in modo etico.

24 L’impatto positivo sulla competitività è sottolineato da altre teorie quali:

“consumer inference marketing theory”, che descrive il comportamento positivo degli acquirenti nei confronti di un’impresa responsabile, che sono pertanto incentivati all’acquisto;

“signaling theory”, dice che la CSR può essere intesa come segnale di serietà e di rispetto verso chi acquista. Questo segnale è fondamentale per attenuare le preoccupazioni generate dalle asimmetrie informative che caratterizzano il mercato;

“social identity theory”, spiega come l’impresa possa beneficiare di un personale altamente soddisfatto, che si immedesima con l’azienda e che si senta fiero di farne parte;

“resurce based theory”, enfatizza in particolar modo le risorse umane, considerandole lo zoccolo duro del vantaggio competitivo: rare, preziose, inimitabili.

25 Per fornire esempi: un contratto macrosociali è rappresentato dalle aspettative che l’azienda sia di qualche

aiuto allo sviluppo e al sostentamento della comunità; mentre un contratto microsociale può essere l’attività che in concreto l’azienda si impegna a svolgere

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La Legitimacy Theory

È evidente che ogni attività per esistere, ma anche per sopravvivere, debba in qualche modo essere approvata e sostenuta dalla realtà in cui è insediata. Fondamentale risulta, pertanto, la disclosure che i manager devono produrre per rendicontare all’esterno come l’impresa ha agito, sta agendo e intende agire.

Alla base di questa teoria ci sta la nozione di “legittimazione”, che viene definita da Suchman(1995): “‘a generalized perception or assumption that the actions of an entity are desirable, proper, or appropriate within some socially constructed system of norms, values, beliefs and definitions”.

Per perseguire, ottenere, mantenere e difendere26 l’approvazione del contesto nel quale si è inseriti, ovvero per gestire la legittimazione, molte aziende sviluppano un vero e proprio “legitimacy management”. Quest’ultimo avrà proprio il compito di comunicare, in modo profittevole, all’esterno, l’agire coscienzioso, desiderabile e appropriato dell’azienda stessa. Vengono in questo modo a fondersi, entrano in contatto due livelli: quello istituzionale e quello organizzativo (modo interno e mondo esterno).

26 “Society grants legitimacy and power to business. In the long run, those who do not use power in a

manner which society considers responsible will tend to lose it” (Davis,1991).

Figura 1.3 Interazioni tra livello istituzionale e livello organizzativo

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È altresì interessante notare che l’impresa, il suo management, non ha un solo modo, coincidente con il rispetto passivo delle aspettative della società, per ottenere la sua legittimazione. Può anche assumere un comportamento proattivo per condizionare l’opinione della stessa comunità, come testimoniato da molte ricerche: ha quattro vie perseguibili. Può: cercare di informare e convincere gli stakeholder circa la bontà degli obiettivi di performance e i mezzi per raggiungerli; cercare di cambiare la percezione degli eventi dell’organizzazione, senza impattare sulle performance; distogliere l’attenzione dalle questioni non chiare; cercare di modificare le aspettative concernenti i risultati.

In conclusione, si può affermare che la CSR è un mezzo che, in linea con quanto suggerito dalle teorie or ora esposte, aiuta l’azienda ad accrescere la sua immagine agli occhi di coloro che in un modo, o nell’altro, ne condizionano l’esistenza e la sopravvivenza.

1.3 CSR e competitività

Più volte si è ripetuto che la CSR viene percepita, spesso, come fattore critico di successo dal management delle aziende. Se così fosse, inevitabilmente allora, le imprese che la sviluppano dovrebbero registrare un incremento in termini di competitività e quota di mercato.

Tutto ciò, se teoricamente verosimile, non è però suffragato da evidenti studi empirici. Indubbio, invece, è il legame indiretto tra CSR e competitività. Sebbene i fattori critici di successo possano variare in funzione di diverse variabili, è dimostrato che la CSR incide positivamente su due di questi fattori, comuni a tutti, che sono diretti interessati nell’aumento o nella diminuzione della competitività: l’immagine e la reputazione. Questi rappresentano, al contempo, input e output di un integrato processo di CSR.

Interessante risulta la ricerca condotta da Owen (1993) sulla percezione dei manager circa l’impatto della CSR nella quota di mercato. Egli ha selezionato nove attività di CSR27 e ha sottoposto a un campione causale di manager (e quindi di aziende diverse) un questionario chiedendo loro un parere circa l’importanza di ciascun elemento nella capacità di conquistare percentuali di quota di mercato. I risultati ottenuti da Owen sono sintetizzati nella Tabella 1.1.

27 Social responsibility in generale; filantropia aziendale; rappresentanza delle minoranze nei vertici;

rappresentanza delle donne nel top management; disclosure; attività in Sud Africa; coinvolgimento nella fabbricazione di armi e armi nucleari; test su animali; inquinamento.

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Quello che si evince è che il 51% del campione ritiene che vi sia una medio-forte influenza della responsabilità sociale d’impresa sulla quota di mercato.

Invece tra i nove fattori selezionati singolarmente, quello con maggiore capacità di incidere sulla quota di mercato è ritenuto essere l’inquinamento ambientale (il 60%) ne indica un impatto medio/forte). Molto probabilmente, come avanzato dallo stesso Owen, ciò è dovuto al fatto che anche i media, dopo i recenti danni ambientali, si siano mobilitati per stimolare le coscienze.

Sul podio, insieme all’inquinamento troviamo la filantropia aziendale, e la disclosure rispettivamente al secondo e terzo posto.

Quindi, il risultato dello studio mostra che i manager considerano la CSR, e in particolar modo, alcuni elementi che la compongono, importante per risultare competitivi e

Fonte: Owen et al (1993).

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guadagnare quota di mercato28. È plausibile pertanto, che questi manager saranno influenzati dalle politiche di CSR nel prendere decisioni.

Nel rapporto CSR-competitività gli studiosi avanzano alcuni dubbi circa la conciliabilità a integrare la CSR nelle attività core di un’organizzazione.

L’adozione della CSR infatti, può generare obiettivi, valori, pratiche e processi che contrastano con le attività già esistenti e l’impostazione aziendale.Tutto ciò genera dei paradossi.

Lewis(2000) definisce un paradosso come “something that denotes contradictory yet interwoven elements that seem logical in isolation but absurd and irrational when appearing simultaneously”.

Sebbene due linee di principio, prese singolarmente, possono risultare correttamente pensate, implementate e strutturate, unite possono rivelarsi contrastanti e contradditorie: se si sceglie una strada, l’altra è impraticabile.

Per applicare la definizione al caso in esame, Vilanova(2009) individua principalmente tre paradossi:

 Temporale: è identificato con la scelta tra agire in un’ottica di breve termine o medio/lungo termine;

 Morale: si concretizza con il dover scegliere tra obiettivi etici o di business, discordanti;

 Dimensionale: sta nella diversità di vedute tra l’azienda intesa, nel complesso, come personalità giuridica a sé, e quelle degli uomini che la compongono. Tutti questi paradossi hanno un impatto sulla competitività e sulle decisioni dei manager, che sono chiamati ad agire in modo tale da superarli o arginarli. Sebbene il coinvolgimento dei manager nel risolvere la questione, non sia privo di problemi29.

28 Alcune lievi differenze, trascurabili, sono state registrate a seconda dell’età dei manager, della

dimensione, del settore…

29 Vilanova ne evidenzia otto. Abbiamo dilemmi tra:

 Business e responsabilità;  Trasparenza e marketing;

 Obiettivi di M/l termine e obiettivi di breve termine;  Le trattative e le scelte dei vari collaboratori/partner;

 Le decisioni circa il dialogo e l’informativa da dare agli stakeholder;  Perseguire attività core o le necessità della filantropia;

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Da quanto finora esposto, risulta che l’adozione o meno della CSR è una decisione che spetta alle singole aziende. Non vi sono prassi comuni conclamate per ogni componente della CSR: non tutti i paesi accettano i medesimi standard ambientali né sviluppano la tutela dei diritti umani30. Se ciò è vero, la decisione di adottare o meno queste pratiche sarà legata alla convenienza implicita delle stesse, stimata nelle singole realtà.

Molti studiosi ritengono che vi sarebbe una maggior efficacia nella diffusione della CSR se, basato su questo fattore, si creasse un modello di valutazione del valore di un’azienda pari al Discount Cash Flow (DCF), al calcolo del valore complessivo degli assets aziendali, della stima dell’avviamento etc.

Per questo, nel proseguo di questo lavoro, si cercherà di individuare l’esistenza e l’eventuale tornaconto finanziario conseguente l’adozione della corporate social responsibility. Partiremo con l’osservare i legami che esistono tra le performance sociali e quelle economico-finanziarie fino ad arrivare a vedere se sussiste qualche legame con il valore di mercato e il costo del capitale.

 Gli standard internazionali e le necessità dell’innovazione.

30 Basti pensare alle difficoltà incontrate dal processo di accettazione e rettifica del protocollo di Kyoto o

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2. CORPORATE SOCIAL PERFORMANCE E

CORPORATE FINANCIAL PERFORMANCE

2.1 Problematiche sociali VS Necessità economiche

Le panoramiche sulle condizioni umane mondiali, che ogni giorno ci vengono mostrate dai vari giornali, non sono delle migliori, né tantomeno lusinghiere nei confronti di quella parte della popolazione che ha contribuito a generarle.

La povertà e la miseria dilagano in più di mezzo pianeta; dell’altra metà, buona parte si preoccupa di creare barriere architettoniche e/o mentali per ignorare l’esistenza di queste realtà disagiate e stremate, che nella maggior parte dei casi, hanno contribuito ad affossare.

Dove vigono la povertà e la miseria, spesso mancano anche conoscenze preziose, quale, per esempio, il concetto di prevenzione che farebbe sì che molte malattie, quasi del tutto debellate in “occidente”, cessassero la loro ecatombe anche in queste zone. Allo stesso tempo, scarseggia la scolarizzazione, indispensabile per sviluppare una forza lavoro competente, che a sua volta è alla base dello sviluppo economico.

Insomma, il mondo è diviso, e non proporzionalmente, tra chi ha tanto (forse perfino troppo) e chi è privo anche dei beni primari. Il sistema economico che abbiamo creato, fa sì che, affinché pochi siano miliardari, più della metà della popolazione debba vivere in indigenza.

In questo contesto disastrato, i governi, incapaci di porre autonomamente rimedio, fanno appello alle diverse organizzazioni. Basti pensare che alcune, le così dette “no profit”, sono state istituite con lo scopo principe di risolvere queste problematiche. Insieme all’esistenza di queste organizzazioni, però c’è una continua spinta affinché anche le aziende con scopo lucrativo si mobilitino per sostenere e supportare il più possibile la risoluzione, o quantomeno l’attenuazione, dei problemi emersi.31 Quanto questa richiesta sia da reputarsi legittima, si è visto, è stato fonte di grandi dibattiti. Per ripresentare brevemente le posizioni predominanti, si può ribadire che le

31 Tant’è che i governi hanno predisposto anche gravi fiscali per le imprese che predispongono misure a

favore di questi problemi. A titolo esemplificativo si ricordano le deduzioni, predisposte dal “Recovery Act” nel 1981, previste per i contributi alle comunità.

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divergenze di vedute tra le due scuole di pensiero, si rifanno principalmente a due questioni: un uso non appropriato e un’allocazione distorta delle risorse presenti in azienda. Usando questa fonte di potenziale guadagno per scopi sociali, è come se i manager lo distogliessero dal giusto uso, per un altro che non è quello per il quale erano state predisposte.

Il problema che sussisterebbe è dunque quello di promuovere la giustizia sociale, in un contesto nel quale il pensiero principale è quello di massimizzare il profitto per gli azionisti.

Serve individuare un ruolo per le aziende, che possa sia soddisfare i suoi azionisti ma anche contribuire alla creazione di benessere. È in quest’ottica che gli studiosi stanno

continuamente conducendo ricerche32 in grado di stabilire una connessione,

possibilmente positiva, tra le performance sociali (CSP) e quelle finanziarie (CFP). Come risulta da una semplice schematizzazione, fornitaci da Griffin e Mahon (1997) sembrerebbe che la maggior parte delle risultanze individuate sia a favore di una correlazione. Il segno del legame non è però altrettanto limpido, sebbene sembrerebbe prevalere quello positivo. Le differenze nei risultati sono, molto probabilmente, attribuibili a differenze metodologiche d’indagine basate su presupposti dissimili. Le metodologie di indagine che vengono tutt’oggi utilizzate, infatti, sono molteplici e differenti. Alcuni presupposti differenti possono portare a risultati contrastanti; altri al medesimo.

Per fare un esempio, la CSP può essere una variabile indipendente o dipendente; tuttavia, in entrambi i casi i risultati individuati da Margolis (2003), sono a favore di una relazione esistente e positiva.

I dubbi inerenti l’allocazione e l’uso scorretti delle risorse, dovrebbero pertanto essere alleviati: anche qualora le risorse venissero utilizzate per scopi sociali, si avrebbero ritorni anche in termini finanziari33.

Accanto a tutto ciò, abbiamo la teorizzazione di Freeman della “Stakeholder Theory”34 che porta con sé un altro genere di problema: cosa succede quando gli shareholder e gli

32 Le prime ricerche risalgono al 1972 e furono condotte da Bragdon & Marlin e Moskowitz. Tra il 1972 e

il 2002 furono 127 gli studi pubblicati.

33 Ogni ricerca in campo finanziario è vera fino a prova contraria. Nel caso specifico, furono mosse alcune

obiezioni: si accusarono gli studiosi di aver costruito risultati ad hoc, affinché fosse dimostrato ciò che si voleva. Le preoccupazioni sembrerebbero, in ultima istanza permanere.

(27)

altri stakeholder hanno obiettivi divergenti? Questo rischia di portare a una sorta di strabismo manageriale, dovuto alla necessità di far convivere interessi non allineati. Indipendentemente dalle posizioni prese nei confronti della CSR, risulta utile portare avanti un’analisi obiettiva che possa rispondere alla domanda: “in che modo un’azienda può contribuire ad alleviare la miseria, ma allo stesso tempo risultare legittimata, difendere le risorse preziose e migliorare le performance finanziarie?”

Per rispondere esaustivamente a tale quesito è opportuno analizzare, innanzitutto, lo stato attuale delle cose: vedere cosa in concreto le aziende fanno per dare una risposta alle necessità sociali. Bisogna altrettanto tenere in considerazione il modo in cui è gestita la diversità di obiettivi tra la sfera sociale e quella economica. Solo successivamente, è possibile tracciare una strada in grado di fornire uno spunto alle aziende per cercare di superare i punti di contrasto.

Per quel che riguarda il primo aspetto, Margolis (2003) propone una “ricerca descrittiva” del fenomeno e la imposta analizzando 5 sfere separatamente: come le imprese ricevono gli stimoli ad agire; come propongono opzioni di risposta; come queste ultime vengono vagliate e selezionate; come vengono messi in pratica i percorsi prescelti; le conseguenze a cui portano tali scelte. I risultati di queste indagini sono i seguenti. Per quel che concerne il primo punto, le aziende devono capire quali sono i problemi sociali che più sono importanti per loro e/o quelli che sono più facilmente aggredibili. In aggiunta, devono osservare le reazioni del contesto nei propri riguardi, reazioni che giungono sotto forma di comunicazioni esplicite o eventi.

Una volta che questo flusso informativo è giunto a destinazione presso le aziende, queste, basandosi su di esso, devono generare un pool di soluzioni praticabili. Per formularle il più correttamente possibile, possono appellarsi a tre vie: generare risposte al proprio interno, ovvero disporre delle proprie capacità e risorse; creare partnership con altri esponenti della società, che sviluppandosi e consolidandosi possono portare all’individuazione di interessanti soluzioni condivise; adeguarsi a standard e automatismi generati solo all’esterno35.

35 Tale distinzione è assimilabile al processo decisionale inerente la scelta di soluzioni “make or buy”. La

prima via sarà percorsa quando l’azienda possiede distinte capacità che si confanno per risolvere determinati problemi. La terza, quando non sussiste la capacità sopra citata. La forma collaborativa-intermedia la si persegue in ottica di “do aut des”.

(28)

Arrivati a questo punto le aziende predispongono un paniere vario di scelte possibili: non tutte, però, saranno praticate. Esse dovranno essere vagliate dai manager, attraverso un’analisi che pondera costi e benefici, nonché mediante una riflessione circa la coerenza dell’azione con il proprio essere; solo infine saranno scelte.

Il passaggio successivo è il più complesso dell’intero processo: quello dell’implementazione.

I manager si trovano a dover percorrere due vie contemporaneamente, ponendo l’attenzione anche a non perdere mai la propria autenticità (significherebbe perdere credibilità). Le decisioni prese devono essere chiare e inequivocabili: l’ambiguità non premia mai. È opportuno fare le scelte in modo tale da creare una risposta alla società che allo stesso tempo riesca a tradursi in beneficio a favore dell’istituzione stessa: servono flessibilità e una sapiente capacità di minimizzare i rischi.

Lo studio delle conseguenze derivanti dal coinvolgimento delle aziende nell’ambiente nel quale è inserita, è una componente assai interessante dell’intero processo, che consente di valutare al meglio anche i punti di vista delle scuole di pensiero neoclassica e orientata agli stakholder. Poiché le imprese producono esternalità è necessario anche che si responsabilizzino, rispondendo in prima persona alle conseguenze negative che generano nel contesto di insediamento. In taluni casi succede tuttavia che la aziende si preoccupano, in modo volontario, di contribuire alla risoluzione anche di altre problematiche sociali, che non hanno contribuito a generare. Ci si domanda: fino a che punto è un bene? L’analisi delle conseguenze è utile per fornire risposte circa il quando e il come limitare il coinvolgimento delle imprese; in più, una volta che le imprese sono state coinvolte, è utile per capire il modo stesso con il quale gestire le conseguenze createsi.

Quella che è stata appena riportata è la così detta “ricerca descrittiva” proposta da Margolis, che mette in luce lo stato attuale delle cose, ovvero cosa le aziende fanno ad oggi per approcciarsi alle necessità sociali. Lo studio condotto è andato oltre questo primo step; si è spinto fino al tentativo di ipotizzare “che cosa le imprese potrebbero fare”: questa fase, rappresenta la “ricerca normativa36”.

36 Questa tipologia di indagine ha due sfaccettature (Donaldson e Preston,1995): una di stampo scientifico

e una di impronta filosofica. La prima accezione si rifà agli strumenti, alle guide linea basate su studi empirici e sul rapporto causa effetto: sono un aiuto al raggiungimento di un obiettivo selezionato, o meglio, ne aumenta la probabilità di realizzazione. L’accezione filosofica, invece, sta nel cercare giustificazioni che abbiano un certo valore morale: ci indica il modo di agire e il perché comportarsi in quel modo.

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La teoria normativa punta a chiarire e costruire i fondamenti che giustificano le scelte messe in atto, piuttosto che scoprire che cosa esse genereranno (Putnem,1994).

Moody-Adams(1990) propongono un approccio induttivo per spiegare questo tipo di ricerca: forniscono una data situazione, che rappresenta il punto di partenza; da qui si prosegue col domandarsi “come devo agire?”. Nel tentativo di rispondere verranno a formarsi una serie di obiettivi, doveri e preoccupazioni che andranno fatti convivere e aggiustati in modo da non risultare contraddittori37.

Questo è un percorso che si estrinseca in tre step: il primo sta nell’articolare una serie di obiettivi e doveri da rispettare se l’azienda vuole contribuire ad appianare la povertà umana38; il secondo nell’approfondire la conoscenza di ogni singolo aspetto individuato e le loro vicendevoli interrelazioni; l’ultimo consiste nel creare una serie di azioni che, messe in atto, diano vita a un processo integrato capace di far convivere quanto si è individuato. L’integrazione rende chiaro ciò che bisogna fare, costituendo un framework di azioni, che esplorino come le “forze che entrano in collisione” interagiscono con lo scenario nelle quali sono inserite (Margolis,2003).

Il modo di rispondere che un’organizzazione elabora dipende da quattro fattori: è funzione del problema stesso, dell’azienda (e di come questa è relazionata con il problema) e delle conseguenze che si vogliono avere dall’intervento della stessa azienda; in aggiunta vi sono i limiti, entro i quali agire, da rispettare.

Margolis illustra dettagliatamente tutte queste relazioni, qui ci limiteremo a farne un sunto Per quel che concerne il modo di rispondere in funzione del problema, esso è condizionato dall’intensità e dalla grandezza dello stesso39. Ciò lascia spazio a una libera interpretazione che può non trovare unanime consenso: è pertanto importante porre una particolare attenzione su questo punto.

37 Ciò consente anche una comprensione più profonda circa ciò che si sta facendo.

38 Devono essere vagliati tre argomenti economici: due proteste si generano per le preoccupazioni inerenti

uno sbagliato utilizzo delle risorse, sia in termini di rendimento che in termini di correttezza verso chi le ha fornite; una terza preoccupazione concerne la legittimità e legalità dei processi intrapresi. Insieme a questi elementi, vi sono tre tipologie di doveri che devono essere considerati: il dovere di rispondere a dei problemi che la stessa azienda ha contribuito a generare e che altri sono costretti a sopportare; il dovere di contribuire a risolvere alcuni problemi, sebbene l’azienda non abbia contribuito a generarla; il dovere di fare beneficenza per appianare le condizioni peggiori (è illimitato questo dovere?)

39 In particolare da quanto impatta sulle funzioni essenziali per il vivere umano. Questo è però un fattore

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Il secondo fattore, quello relativo al modo di porsi della compagnia, va analizzato su quattro aspetti: quanto l’impresa ha contribuito a generare il problema (se lo si è creato, è più forte il coinvolgimento richiesto e dovuto nell’impegno alla risoluzione); il beneficio che avrebbe un potenziale intervento nella risoluzione (più è utile e profittevole, più sarà richiesto); quanto l’organizzazione è vicina alla comunità in cui si è manifestato il bisogno (più è prossima, più è opportuno che intervenga); le conseguenze che avrà l’impresa conseguentemente al suo agire socialmente responsabile.

Dall’analisi di questi quattro aspetti potrà riscontrarsi anche un eventuale obbligo all’azione da parte dell’impresa. L’ultimo fattore, quello che attiene alla valutazione dell’impatto dell’azione stessa, è forse quello più determinante per la decisione: si esamina, infatti, non solo l’impatto che l’azione dell’impresa avrà sul problema, ma anche sul resto della società e sull’azienda medesima. Bisogna pertanto ponderare le conseguenze negative e positive40.

I limiti servono a delimitare con precisione il punto fino al quale si può chiedere alle aziende di intervenire. È impensabile che quest’ultime si occupino incondizionatamente e illimitatamente di problemi sociali: gli obiettivi economici non possono essere trascurati, non avrebbe senso un’impostazione diversa. Possiamo, pertanto, individuare due tipi di limiti. Il primo consiste nel considerare preventivamente le conseguenze negative che possono generarsi sull’impresa nel momento in cui decidesse di prestare aiuto; il secondo sta nel garantire che l’impresa, in prima istanza, riesca a portare a termine, nel migliore dei modi, la sua funzione primaria (con la quale, molto probabilmente già contribuisce ad aiutare la società). In nessun caso deve ridursi la produttività o la profittabilità in conseguenza alle decisioni di risultare socialmente responsabili.

In conclusione, i manager di fatto, si trovano a dover gestire e convivere con questo strabismo che li costringe a prestare attenzione su due fronti non particolarmente conciliabili.

Il mercato forse non è poi così efficiente, come taluno osa sostenere: non è in grado, in autonomia, di ripartire le risorse in modo equo e sostenibile.

40 Particolare attenzione va posta nel delineare un confine: non è opportuno che l’impresa si sostituisca

troppo al governo; si potrebbero, altrimenti, generare dipendenze dannose assai peggiori del problema stesso.

(31)

A questo limite presentato dal modello economico in vigore, bisogna porre rimedio agendo direttamente sui diversi problemi che man mano si manifestano.

Le imprese, molto probabilmente non sono i soggetti più indicati per un intervento ad ampio raggio, dovrebbero invero porre rimedio alle esternalità da esse stesse generate e agire limitatamente nei confronti di altre problematiche. Ma laddove i governi sono assenti e/o poco efficaci, talvolta le imprese possono supplire con soluzioni interne ai problemi che emergono. Tutto ciò, ovviamente può avvenire, ed è giusto che sia così, pur sempre però rispettando i limiti sopra evidenziati, onde evitare di ledere le necessità proprie delle singole unità economiche.

Questo agire socialmente utile delle imprese, non è fine a se stesso. Esso può avere dei ritorni, in termini anche monetari e finanziari, qualora utilizzato efficacemente e rendicontato sapientemente nei confronti di tutti gli stakeholder. Per verificare la veridicità di quanto affermato, nel proseguo si analizzeranno le relazioni (sempre ammesso che vi siano) che si instaurano tra corporate social performance (CSP) e corporate financial performance (CFP), partendo dalla presentazione delle misure maggiormente usate nel calcolare il valore attribuibile alle due tipologie di performance in gioco.

2.2 Le variabili utilizzate per il calcolo della CSP e della CFP

Come già anticipato nel primo capitolo, gli studi condotti col tentativo di ricercare una certa relazione (possibilmente positiva) tra le performance finanziarie e quelle sociali sono stati vari. Griffin & Mahon (1997) ne hanno fatto un’interessante raccolta, coprendo il periodo di ricerca dal 1972 al 1997. Nella Tabela 2.1, di seguito, si riportano tutti gli studi condotti dal 1970 al 1991, e le relative risultanze empiriche (Griffin & Mahon, 1997).

(32)

Come già accennato, i risultati sebbene in maggioranza indichino una relazione positiva, non sono decisamente definibili concordi. Le differenze sono giustificabili anche dal fatto che, nei diversi studi, vengono usate variabili differenti per il calcolo41.

41 Altre ragioni possono essere ricadere in differenze di tipo concettuale e organizzativo, nel definire le

performance sociali.

Tabella 2.1 Correlazione tra CSP e CFP negli studi tra il 1972 e il 1997

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Ci proponiamo ora di presentarne una serie e fornirne una breve descrizione.

2.2.1 Le misure della performance finanziaria

Per quel che concerne le grandezze utilizzate per la valutazione dell’aspetto finanziario, esse possono essere raggruppate in 6 categorie:

 Relative alla profittabilità: es. ROE, ROI, ROS..

 Relative al grado di utilizzo degli assets: es. ROA, Turnover..  Relative alle crescita;

 Relative alla liquidità;

 Relative al rischio di mercato: es Beta  Altre.

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Riferimenti

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