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"El triangulo azul" di Laila Ripoll e Mariano Llorente. Traduzione e studio.

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN

TRADUZIONE LETTERARIA E SAGGISTICA

TESI DI LAUREA

El triángulo azul

di Laila Ripoll e Mariano Llorente.

Traduzione e studio.

CANDIDATO RELATORE

Serena Maria Indelicato Chiar.mo Prof.

Enrico Di Pastena

CONTRORELATORE

Chiar.ma Dott.ssa

Rosa María García

Jiménez

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3

A Fra,

la cui forza da piccolo re

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INDICE

1. Il contesto teatrale p. 7

1.1. Il teatro spagnolo nella democrazia p. 7

1.2. L’evoluzione del teatro storico nel dopoguerra p. 17

1.3. Il teatro della memoria e il teatro della Shoah p. 21

2. Gli autori p. 27

2.1. Vita e scrittura di Laila Ripoll p. 27

2.2. La nascita di Micomicón

e la consacrazione totale al teatro p. 33

2.3. Verso El triángulo azul p. 36

3. L’opera p. 40

3.1. La trama e i personaggi p. 50

3.2. Mauthausen e il laboratorio fotografico p. 61

3.3. La storia degli spanier p. 64

3.4. La musica p. 72

4. Commento traduttivo p. 78

4.1. Specificità dello spagnolo e resa in italiano p. 83

4.2. Questioni semantiche p. 88

4.2.1. Ironia e modismi p. 93

4.3. La musica p. 94

El triángulo azul. Testo originario e traduzione p. 101

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1. Il contesto teatrale

1.1. Il teatro spagnolo nella democrazia

Dopo quasi quarant’anni di dittatura, la Costituzione del 1978 aveva sancito un nuovo inizio per la Spagna, con uno Stato costituito da diciassette Comunità Autonome, che avevano potuto quindi creare, anche indipendentemente le une dalle altre, degli organi per assolvere alle loro funzioni, tra cui quelle di occuparsi della cultura.

Il teatro stava attraversando un momento di crisi a causa della censura e degli scarsi contributi alle produzioni ma, già dalla metà degli anni ’60, ci si era resi conto che poteva essere un mezzo per creare una coscienza collettiva nel Paese, per combattere l’arretratezza che la politica repressiva aveva causato rispetto agli altri Paesi europei. La generazione realista (Antonio Buero Vallejo, Alfonso Sastre, José Martín Recuerda, Carlos Muñiz, Antonio Gala, per citare alcuni nomi) aveva già fatto qualche tentativo in questa direzione, ma il pubblico non era ancora pronto ad accoglierne il messaggio e certamente le condizioni in cui quegli autori hanno operato non erano favorevoli. Anche i gruppi indipendenti creatisi in quegli anni avevano tentato di portare un vero cambiamento nella scena spagnola alla fine del franchismo, sperimentando metodi di produzione diversi e rappresentando la dissoluzione della dittatura: il rinnovamento non sarebbe stato immediato ma avrebbe avuto effetti duraturi come la creazione di una nuovissima generazione di autori, sia per la commedia convenzionale che per quella realista, e l’arrivo di nuovi attori e registi che sarebbero stati fondamentali nella Transizione.

Anche se alcuni teatri come l’Español e il María Guerrero erano riusciti a mantenere un certo livello, il pubblico chiedeva qualcosa di nuovo. Un incendio, nell’ottobre del 1975, aveva distrutto il Teatro Español, come se si fosse sancita metaforicamente la fine dei vecchi teatri nazionali, che in effetti è avvenuta nel 1978 grazie al Governo di UCD (Unión de Centro Democrático), con la soppressione e la costituzione, a Madrid, di un Centro Dramático Nacional, con un unico direttore, Adolfo Marsillach e più sedi, quali il teatro María Guerrero e Bellas Artes. Intanto erano nati il Teatro Nacional de Cataluña, il Centro Dramático Galiego e il Centro Dramático Valenciano mentre le altre Comunità avevano deciso

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di mantenere i vecchi teatri, più o meno modernizzati (Oliva, 2004: 229-230). Il Governo dell’Unione di Centro Democratico aveva finanziato i cosiddetti teatri stabili che, come quelli europei, ma soprattutto italiani, erano composti da compagnie formatesi intorno a un collettivo retto in cooperativa: essi non erano altro che vecchi teatri indipendenti riadattati ma, nel frattempo, molti dei gruppi che vi avevano partecipato erano scomparsi. I benefici erano distribuiti equamente ma erano così scarsi che solo una sovvenzione ulteriore alle produzioni permetteva di coprire le spese prima della messa in scena e, anche in questo caso, spesso le imprese andavano in perdita e bastava che uno spettacolo non avesse l’accoglienza sperata per determinare il fallimento di una cooperativa. L’unica possibilità (Oliva, 2004: 228-229) era nelle mani delle amministrazioni pubbliche, ma esistevano differenze economiche notevoli tra le diverse Comunità autonome, così come una mancanza di collaborazione tra queste e lo Stato, tali da ostacolare la realizzazione del progetto; tuttavia, il Centro Dramático Nacional è riuscito a sopravvivere fino ai giorni nostri, mettendo in scena anche l’opera teatrale oggetto di questa tesi. Va inoltre segnalato che il patrocinio istituzionale aveva delle ricadute estetiche sul teatro, perché ovviamente influiva sulle tematiche e persino sugli aspetti formali, dato che le opere dovevano rispettare i criteri compositivi e determinate condizioni per ottenere le sovvenzioni; da tali restrizioni scaturiva quindi un teatro artificiale, prodotto meramente per compiacere il potere da parte di nuovi autori che spesso non avevano alcuna esperienza scenica precedente, ma che provenivano dalla narrativa o dalla poesia (Berenguer, 1999: 118-119).

Le attività sceniche erano state gestite dal Ministero dell’Informazione e del Turismo fino al 1983, anno in cui la UCD aveva creato un Ministero della Cultura, che si occupasse anche del CDN e della distribuzione delle sovvenzioni ai teatri stabili. Infatti, l’obiettivo era quello di portare il CDN ai livelli dei grandi centri di produzione europea, di creare una Compañia Nacional de Teatro Clásico per riproporre al meglio i grandi classici del Siglo de Oro, di fondare un Centro

Nacional de Nuevas Tendencias Escénicas per trovare nuove forme espressive ma

anche per montare spettacoli più complessi e tenere corsi di formazione, di trasformare il Centro Nacional de Documentación Teatral in un mezzo di diffusione del teatro in Spagna, di coordinare il settore privato con le attività statali

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e poterlo sovvenzionare, di aiutare compagnie teatrali selezionate da un’apposita commissione e di incrementare gli eventi internazionali (Oliva, 2004: 255-256). Grazie a tutte queste iniziative, il pubblico aveva ripreso ad andare a teatro. Ma mancavano gli autori drammatici e la programmazione teatrale degli anni ’80 si omologava a quella europea senza dimenticare opere di autori emblematici come García Lorca e Valle-Inclán, che erano diventati simbolo del nuovo tempo anche se appartenevano a generazioni precedenti, perché il loro passato politico e la loro ideologia ben si adattavano all’operazione di riscatto dalla censura del franchismo: nell’epoca della postmodernità, quindi, si preferiva recuperare i valori del passato.

In questo periodo di grandi cambiamenti politici, ma anche sociali, numerosi scioperi erano stati proclamati per migliorare le condizioni di lavoro degli attori e, con l’intervento del Partito Socialista Operaio Spagnolo sugli organi di potere, alla fine del 1982, si era deciso di privilegiare il settore pubblico, a scapito delle compagnie private, spesso costrette a scomparire perché i primi attori non volevano rischiare di perdere prestigio e denaro, preferendo il cinema o la televisione. Si sceglievano quindi spettacoli che assicurassero introiti, come i classici, e ciò non favoriva di certo i giovani autori, che si stavano affacciando sulla scena proprio in quegli anni e neanche la generazione simbolista, che aveva prodotto soprattutto per i teatri indipendenti e, negli anni ’80, era sporadicamente arrivata anche ai teatri commerciali: la non buona accoglienza era nel loro caso dovuta all’uso di un linguaggio totalmente diverso da quello a cui il pubblico era abituato. Queste “categorie emarginate” riponevano molte speranze nel futuro ma, vista la scarsa accoglienza, molti hanno deciso di rinunciare (Oliva, 2004: 232). Tuttavia, qualcuno ha lasciato una traccia significativa nel panorama spagnolo, e tra questi occorre ricordare Josep Maria Benet i Jornet, Rodolf Sirera, Manuel Martínez Mediero, Jerónimo López Mozo, Alberto Miralles, Jesús Campos e José Luis Alonso de Santos. La loro attività è paragonabile a quella di chi stava cominciando in piena Transizione politica, o almeno, si stava facendo conoscere proprio in questo periodo, come Francisco Nieva e José Sanchis Sinisterra (Oliva, 2004: 250). L’autore aveva ormai smesso di essere il motore della produzione scenica, fino ad arrivare al paradosso che molti erano più presenti nelle librerie che nei teatri: tra questi, molti erano nati degli anni ’40 e avevano in comune una vocazione

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abbastanza tardiva, l’esperienza nel teatro indipendente o in settori quali la creazione, la cultura o l’insegnamento in un periodo in cui ormai non c’era più la censura.

Il settore che sembrava più evolversi era quello della scenografia e lo stesso Francisco Nieva vi aveva dato un enorme contributo che si aggiungeva a quello nel campo della regìa. Stavano cambiando anche i sistemi di messa in scena e, tralasciando le innovazioni dei gruppi di teatro di strada e del teatro sperimentale, i nuovi scenari si erano dovuti ampliare perché, ad esempio, la coesistenza di più voci, spesso in forma di coro, necessitava di maggiori spazi che modificassero quindi la disposizione tradizionale. La molteplicità dei punti di vista sulla scena si rifletteva anche nella disposizione del pubblico, che oltre a partecipare attivamente, veniva posto al centro, anche fisicamente, per poter avere la migliore visuale possibile: la rappresentazione diventava una realtà dinamica, complessa e plurale (Cornago Bernal, 1999: 541).

Il teatro della Transizione riprendeva quindi in parte il teatro preesistente, quello che si opponeva alla dittatura, ma con forme innovative prima proibite. Gli autori esiliati durante il franchismo avevano ricominciato a manifestare il proprio pensiero con nuovi temi e forme espressive, pur non abbandonando i temi della Guerra civile e della dittatura. La generazione realista era già riuscita a rappresentare la realtà circostante utilizzando l’impegno politico e l’indignazione storica, ma il passato più recente era ancora il pretesto di numerose opere, così come le tematiche trans-nazionali (Díez Ménguez, 1999: 298-299). In quel periodo, anche i gruppi che avevano intrapreso una lotta clandestina col regime avevano contribuito alla rinascita del teatro gallego, allo scopo di recuperare le proprie radici, tema che sarà ampiamente trattato anche successivamente da autori catalani, di Valenza e delle Baleari. Minore spazio era invece riservato alle sperimentazioni, sia per mancanza di fondi, sia perché, terminata la censura, c’era in realtà poco da contestare: per la prima volta nella storia le principali innovazioni avvenivano all’interno dei teatri professionali e non al margine. Dalla sua creazione, il Centro Nacional de Nuevas Tendencias Escénicas era ormai il luogo ideale per chi esordiva nella scrittura drammatica ma anche in altre discipline, come la danza; il CNNTE avrebbe proposto nel corso degli anni autori come Ernesto Caballero, Paloma

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Pedrero, Juan Mayorga ma è stato soppresso nel 1994, senza essere sostituito da un’istituzione simile.

Tuttavia, già dal 1983, alcuni gruppi che non credevano al teatro istituzionale e si concentravano sul rapporto con il pubblico, allestivano i loro spettacoli, anche se invece di rappresentazioni si potrebbe parlare di presentazioni o giochi, dove la musica e le immagini avevano un significato fondamentale (Oliva, 2004: 262-263). L’impulso arrivava dal teatro di strada che, anche se non aveva avuto lunga vita, aveva contribuito a dare maggiore importanza a elementi paraverbali come la mimica, il gesto, il movimento, la musica e i rumori. Inoltre, avevano contribuito ad arricchire la scena contemporanea anche scrittori di romanzi che avevano adattato le loro opere per il teatro, facendone un gran successo come Carmen Martín Gaite, Eduardo Mendoza, Manuel Vázquez Montalbán. Va anche menzionato un altro gruppo di autori, le cui maggiori opere sarebbero apparse solo alla fine del secolo ma che avevano già una presenza irregolare nelle scene, pubblicavano e partecipavano a seminari, riunioni e associazioni tra cui Carmen Resino, Maria José Ragué (che è anche professoressa, traduttrice, critica e autrice), Concha Romero e via dicendo.

La fine del secolo è stata caratterizzata ancora una volta, ma per motivi diversi, da una crisi del teatro, che ormai aveva perso il suo ruolo di bene artistico e pubblico, riflesso di un intero Paese. Commedie e drammi avevano lasciato il posto al cinema, ai grandi eventi sportivi, alla televisione e a nuovi spettacoli che univano musica e moderne tecnologie. Questa situazione non riguardava solo la Spagna ma qui era molto evidente, soprattutto grazie agli oppositori del governo socialista, avversi alla politica teatrale vigente a causa delle ingenti spese, la selezione dei professionisti che ottenevano così le maggiori sovvenzioni ecc. I teatri continuavano a chiudere e, paradossalmente, il governo di sinistra sembrava preferire un teatro ben distante da quello socialmente impegnato o sperimentale. La politica socialista non sembrava la soluzione per risolvere i problemi del teatro sia perché le sovvenzioni non bastavano per tutti, sia perché all’interno del partito c’erano dei “conservatori”. Per questo, la vittoria del Partito Popolare alle elezioni del 1996 poteva preludere a un rinnovamento del teatro, come affermato dal Presidente Aznar nella conferenza dal titolo Un compromiso con el teatro, in cui

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sottolineava che la crisi di questo settore era rilevante anche per il Paese perché esso faceva parte del patrimonio della nazione; occorreva quindi una politica delle scene aperta a tutti, frutto del dialogo e contraria al dirigismo e all’intervenzionismo1. La politica di destra voleva dunque proporre per il teatro un

progetto di sinistra, fallito più per come era stato messo in pratica che per l’idea in sé: erano state mal distribuite le risorse senza dare la giusta attenzione ai piccoli gruppi, si era trascurato l’aspetto didattico e ci si era troppo concentrati sui risultati a breve termine (le entrate) con spettacoli che fossero al passo con quelli del resto d’Europa.

Purtroppo, anche queste idee sono state interpretate più in chiave teorica che pratica perché politica e interessi hanno continuato ad avere la meglio, facendo sì che a farne le spese fossero sempre gli autori, dato che l’impresa (pubblica o privata che fosse) riceveva comunque le sovvenzioni e gli attori potevano lavorare in altri ambiti. Per questo alcuni autori, come Antonio Gala, si sono rivolti al romanzo o anche alla poesia, che, grazie alla pubblicità, da settore minoritario aveva cominciato a godere di benefici superiori al teatro e, anche altri già affermati, come Buero Vallejo, Francisco Nieva, Alfonso Sastre, avevano trovato enormi difficoltà a farsi inserire nei cartelloni perché ormai considerati dei classici da alcune generazioni. I pochi sopravvissuti si erano dovuti adattare alle tendenze imperanti del teatro convenzionale (assimilato alla commedia borghese) o rivolgersi ai problemi della società contemporanea. Alcuni, come Benet, Sanchis Sinisterra, Alonso, Miralles, Sirera, Cabal, Amestoy, andati in scena più o meno sporadicamente, sono stati fondamentali per il loro ruolo di professori della generazione seguente. Infatti, nel teatro attuale, a differenza del passato in cui bastavano il talento e l’esperienza, lo studio per attori, registi e tecnici, è divenuto fondamentale sia che frequentassero scuole d’arte drammatica, pubbliche e private, o l’università e, proprio per questo, nel 1992, la Ley Orgánica General del Sistema

Educativo (LOGSE) aveva normalizzato gli studi teatrali: anche se non

raggiungevano il livello universitario, i titoli erano da considerarsi equivalenti e quindi chi accedeva al teatro alla fine del secolo aveva una preparazione di gran lunga superiore rispetto a chi lo aveva preceduto, soprattutto a livello teorico, con

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una conoscenza della storia del teatro e delle tecniche tali da rendere molto più facile entrare sia in gruppi stabili o locali totalmente anonimi che in compagnie professionali (Oliva, 2004: 316-317).

In questo clima nasce, a partire dagli anni ’90, il cosiddetto teatro della memoria, all’interno del genere storico, in cui si riprendono temi omessi e trascurati nei primi anni della Transizione democratica, grazie ad autori nati negli anni ’60: come indica Enrico Di Pastena nella Prefazione di Teatro della Shoah di Juan Mayorga, essi

approfondiscono in chiave realista o simbolica contenuti con cui si era già misurata la generazione precedente […]. Vengono ora potenziate la forma aperta, l’ubicazione imprecisa, l’identità sfumata dei protagonisti e, in linea con i processi di globalizzazione, si accentua la volontà di evocare situazioni e figure che appartengono alla storia e alla cultura internazionali e non solo del proprio paese. Tutto ciò si accompagna spesso ad una percezione della scrittura drammatica come frutto di una esperienza che coinvolge diverse professionalità, una visione alimentata anche dai laboratori di scrittura […] o riconducibili all’operato di maestri come Sanchis Sinisterra e Alonso de Santos2.

Si sta parlando della cosiddetta generazione Bradomín (dal nome del premio creato dall’Instituto de la Juventud che molti di questi autori hanno vinto dal 1986 al 1994 e che in un certo senso ha svolto il ruolo che apparteneva al Centro Nacional de Nuevas Tendencias) e degli autori che Miralles (1994) definisce alternativi3 perché mettevano in scena nelle sale più periferiche: essi hanno in comune il fatto che, in qualche modo, vengono dal teatro (sia che lo dirigano o siano attori o registi), hanno seguito corsi o seminari tenuti da autori già affermati e hanno voglia di arrivare in scena, perché il loro obiettivo non sono i teatri commerciali ma la scrittura nel vero senso della parola (anche se il fine rimane sempre la rappresentazione e non la pubblicazione); per questo spesso preferiscono esserne anche registi, ma in alcuni casi anche attori e scenografi. Oggi la maggior parte dei drammaturghi non necessita di grandi produzioni o nomi conosciuti e mai, come

2 DI PASTENA, Enrico(2014), Studio e traduzione di Teatro sulla Shoah in J. Mayorga, «Teatro sulla Shoah», Edizioni ETS, Pisa, 2014, p. 6.

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oggi, molti di loro sono donne4. Tra queste ricordiamo María Manuela Reina, Paloma Pedrero, cui va aggiunta la più matura Ana Diosado. Questi autori sono accomunati dall’essere nati negli stessi anni e avere avuto la medesima formazione estetica: sono influenzati da autori quali Heiner Müller, con le sue negazioni aristoteliche, la scrittura in verso libero e lontana dalle unità tradizionali, David Mamet e il realismo svizzero, Bernard-Marie Koltès, autore che si concentra sugli emarginati. Alla visione dei nuovi autori ha contribuito anche il concetto di teatro-danza di Pina Bausch e alcuni registi cinematografici (si veda la violenza formale di Almodóvar o visuale di Tarantino e Ridley Scott). Altri referenti sono i montaggi di Peter Brook, le ultime proposte di Tadeuzs Kantor e l’energia creatrice di Arianne Mnouchkine, che, applicati su nuovi temi personali, hanno dato risultati suggestivi. La parola rimane l’elemento principale ma non l’unico. Potremmo dire che gli autori spagnoli di oggi partono dal realismo, per allontanarsene alla ricerca di registri moderni, scrivono con grande rigore lessicale, più vicini al copione cinematografico (mostrando una certa tendenza all’ipertestualità), utilizzano il concetto di piccola scena con inclinazione minimalista per stimolare l’immaginazione dello spettatore, creano un’azione che è il frutto di diversi linguaggi scenici (della musica, della danza o del cinema), proiettano inoltre nell’opera certe ossessioni proprie della loro generazione e trattano di temi urbani come la violenza, la droga o la disoccupazione più dei rapporti interpersonali: ormai non sono più le complicate trame a creare il conflitto perché esso nasce all’interno dello stesso progetto drammaturgico5.

4 La sempre maggiore presenza delle donne nel teatro ha portato cambiamenti non solo nel tipo di

scrittura ma anche nelle interviste, nelle tavole rotonde, nei seminari e soprattutto è stata determinante per la creazione, nel 1986, dell’Asociación de Dramaturgas che, anche se ha avuto breve vita, è stata poi inglobata dall’Asociación de Autores de Teatro, permettendo quindi alle donne drammaturghe di essere in contatto e di conoscere i reciproci lavori. In realtà, la storia del teatro spagnolo annovera diverse presenze femminili ma in questo periodo si assiste ad una rinascita collettiva della drammaturgia femminile di ampie dimensioni. In SERRANO GARCÍA, Virtudes (2006), El teatro desde apenas ayer hasta nuestros días, in «Monteagudo: Revista de literatura española, hispanoamericana y teoría de la literatura», Universidad de Murcia, España, 2006, 11, pp. 24 e 27.

5 Si rimanda al testo di OLIVA, 2004, pp. 317-323. Già nel 2001, Sanchis Sinisterra aveva elencato

le caratteristiche comuni di questa generazione che aveva cominciato a produrre negli anni ’90 e in loro aveva visto delle potenzialità che ne avrebbero permesso l’affermazione nel nuovo millennio; nell’articolo viene inoltre descritto il ruolo della “parola drammatica” nel corso della storia. Per maggiori approfondimenti, SANCHIS SINISTERRA, José (2001), La palabra alterada, in «Las puertas del drama», Asociación de autores de teatro, Madrid, invierno 2001, 5, pp.6-10.

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Spesso gli episodi rappresentati sono soggetti a salti temporali, lasciando che sia lo spettatore a ricostruirli, e i problemi quotidiani vengono visti da una prospettiva realista sebbene, tra le tematiche segnalate da María José Ragué-Arias (1996: 238)

ci siano anche la critica al fascismo, il razzismo, il militarismo, l’attrazione verso il marginale, il teatro come cerimonia, le allusioni al mondo del fumetto e della televisione, il rivolgersi a un pubblico giovane [affrontati da una certa] distanza, tramite la fantasia, l’ironia o lo scetticismo. Ma nello scetticismo ci sono diversi livelli di coscienza sociale, di critica, di pura volontà di divertire e sorprendere6.

Questi nuovi autori hanno trovato spazio, soprattutto agli inizi, in luoghi non convenzionali, le cosiddette sale alternative, che non accoglievano tanto pubblico ma sicuramente un pubblico nuovo. Esse erano nate inizialmente grazie alla riabilitazione di vecchi teatri del governo socialista: erano quindi una versione moderna degli spazi utilizzati dal teatro indipendente e il loro numero si era incrementato soprattutto dopo il 1982, quando il Nuovo regolamento della Polizia degli spettacoli pubblici aveva permesso l’utilizzo di nuovi spazi, anche garage. Queste sale hanno favorito il lavoro di piccoli gruppi che con l’allestimento di opere con pochi personaggi hanno prodotto spettacoli innovativi, finanziati dalle amministrazioni, con una ridotta capienza (da 20 a meno di 200 spettatori) e la possibilità di usufruire degli spazi delle università o di centri culturali7: erano quindi un nuovo mezzo di creazione scenica, di relazione con il pubblico e un nuovo modo di concepire gli spazi, dove si poteva offrire una prospettiva differente, svolgendo anche una funzione sociale perché lo spettatore poteva, anzi aveva l’obbligo, di riflettere, partecipare, diventare complice e accettare le diversità.

6 Citata da DÍEZ MÉNGUEZ, Isabel (1999), Acercamiento a la bibliografía literaria del teatro hispánico español (1975-1998), in ROMERA CASTILLO, José-GUTIÉRREZ CARBAJO,

Francisco (eds), Teatro histórico (1975-1998) Textos y representaciones, Visor Libros, Madrid, p. 301.

Le citazioni di questa tesi riportate in italiano, laddove non siano state scritte originariamente in questa lingua o non siano frutto di traduzioni anteriori, sono da attribuire a chi scrive.

7 Si rimanda al testo di OLIVA, 2004, pp. 308-312 a e ROMERA CASTILLO, José (2013), Teatro español: siglos XVIII-XXI, UNED, Madrid, p. 323.

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Gli spettacoli in programma duravano pochi giorni (3-4 al massimo), con biglietti a un costo inferiore di quello dei teatri tradizionali (tra i 6 e i 14 euro). Un’ulteriore possibilità per poter mettere in scena uno spettacolo era data dalle tournèè e per questo, nel 1992, è stata creata la Red Nacional de Teatros y Auditorios, allo scopo di mettere a disposizione più sale possibili all’interno dello Stato per uno stesso spettacolo che cosi, preso in blocco, sarebbe venuto a costare di meno, garantendo però una maggiore qualità; in realtà, anche in questo caso, erano spesso favorite certe Compagnie rispetto ad altre con prodotti migliori. Ovviamente, non bisogna dimenticare che questi sforzi avrebbero prodotto risultati minori di quelli conseguiti se non fossero stati supportati dalla promozione e dall’esposizione offerta dal Web, ma anche dagli sforzi dell’editoria, l’aumento del numero delle riviste specializzate nel settore ed enti culturali che organizzano eventi e premiazioni, grazie ai quali anche i drammaturghi più giovani hanno avuto la possibilità di pubblicare i propri testi8.

In una tavola rotonda organizzata nel 1997 dalla rivista Ade Teatro sulla drammaturgia spagnola madrilena più recente, alla quale hanno preso parte drammaturghi intorno ai 30 anni, è emerso che essi, quando scrivono, non hanno in mente di scrivere letteratura, probabilmente perché, in qualche modo, sono tutti legati a delle produzioni e conoscono quindi il teatro dall’interno ma che, al momento della creazione, hanno ben presente chi dirigerà lo spettacolo e ne assumono il punto di vista. È anche emersa l’importanza che tali autori attribuiscono ai registi, perché hanno superato la dicotomia autore-direttore e infatti sono numerosi i casi in cui essi stessi sono registi delle loro opere, ma anche attori, produttori o coproduttori. «Ciò conduce alla progettazione di un formato ridotto quanto a proposta spettacolare, che normalmente prevede pochi personaggi, spazio unico, o quasi, e un sistema espressivo funzionale»9.

8 Tuttavia, Jerónimo López Mozo (2006: 42) non vede di buon occhio tale tendenza perché spesso

ben poco di ciò che viene pubblicato può essere considerato accettabile. In Chequeo al teatro

español. Perspectivas, in ROMERA CASTILLO, José, Tendencias escénicas al inicio del siglo XXI,

Visor Libros, Madrid, pp. 37-74.

9 SERRANO, Virtudes-DE PACO, Mariano (2014), Dalla fine del franchismo al XXI secolo gli ultimi quarant’anni della scena spagnola, in «Hystrio» Milano, ottobre-dicembre 2014, 4,p. 33.

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1.2. L’evoluzione del teatro storico nel dopoguerra

Uno dei più grandi maestri del teatro storico è senza dubbio Antonio Buero Vallejo, grande autore e teorico di questo genere già dal dopoguerra ma che ha vissuto anche la Transizione democratica. In un articolo pubblicato agli inizi degli anni ’80 definiva così il teatro storico:

Por ser teatro y no historia, es además el teatro histórico, labor estética y social de creación e invención, que debe, no ya refrendar, sino ir por adelante de la historia más o menos establecida, abrir nuevas vías de comprensión de la misma e inducir interpretaciones históricas más exactas. Que, para lograrlo, el autor no tiene por qué ceñirse a total fidelidad cronológica, espacial o biográfica respecto de los hechos comprobados, es cosa en la que no hay que insistir.Un drama histórico es una obra de invención y el rigor interpretativo a que aspira atañe a los significados básicos, no a los pormenores. […] Ahora bien, […] hay que ejercer especial tino al mezclar aspectos inventados o destacados con la fidelidad, nunca vulnerable del todo, a los hechos históricos. Para acertar en la tarea, de dos cosas precisa el autor resuelto a dar una versión enriquecedora y no tradicional […] el conocimiento profundo de lo realmente sucedido […y] la intuición de la «intrahistoria» posible que los hechos documentados no pueden dar. […] El teatro histórico es valioso en la medida en que ilumina el tiempo presente. […] y nos hace entender y sentir mejor la relación viva existente entre lo que sucedió y lo que nos sucede10.

Queste ultime parole mostrano quanto Buero Vallejo vedesse il teatro storico da una prospettiva moderna: durante la dittatura, infatti, la tendenza dominante era quella di rappresentare episodi che idealizzassero il passato e ignorassero il presente; questo espediente permetteva di trattare obliquamente episodi riguardanti la Spagna del loro tempo attingendo a un remoto passato. In realtà, più che una volontà degli autori, era una necessità dettata dalla censura e infatti molti realisti come lo stesso Buero Vallejo, Alfonso Sastre, José Martín Recuerda, Carlos Muñiz, Antonio Gala, Agustín Gómez Arcos avevano dovuto accettare il fatto che le loro opere di tema storico ma a scopo politico fossero

10 BUERO VALLEJO, Antonio, Acerca del drama histórico, in «Primer Acto: Cuadernos de

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rappresentate all’estero o solo dopo la fine della dittatura, quando il teatro era ormai il centro nel quale si poneva attenzione a un passato recente che nessuno voleva si ripetesse, a partire dagli stessi drammaturghi (Oliva, 1999: 68), che avevano così deciso di rompere il patto del silenzio sul passato recente11.

Secondo Ricardo Doménech (1993), l’idea di teatro storico può avere un senso coerente se un Paese, messo di fronte alla scena, guarda necessariamente al proprio passato e prende quindi coscienza storica di sé stesso e della sua sorte attraverso l’azione catartica caratteristica del dramma12. Óscar Cornago Bernal

(1999: 537-549) afferma che, già dall’antichità, il teatro è stato il mezzo privilegiato per la narrazione della storia perché permette la rappresentazione dei fatti mediante un linguaggio semplice e per un’ampia platea, mantenendo la memoria storica e la sua trasmissione attraverso le generazioni. Nei tempi moderni, la relativizzazione e la nascita di voci alternative al potere egemonico ha cambiato la relazione tra teatro e storia. Il problema non è la trasmissione di un determinato fatto, ma la messa in dubbio della cosiddetta versione “ufficiale” attraverso le nuove voci di carattere collettivo e spesso messe a tacere nella storia. Questo è il nuovo obiettivo del teatro e, se il rinnovamento del linguaggio scenico ha dato un impulso a tale cambiamento già nei primi decenni del ’900, è stato però decisivo il rinnovamento degli anni ’60. Lo sviluppo del teatro epico, con la teoria teatrale di Bertold Brecht da un lato e il rinnovamento del teatro popolare con nuovi codici presi in prestito da altri settori, come la pantomima, il circo, la rivista dall’altro, hanno dato luogo a nuove forme di narrazione scenica della storia da voci diverse.

La preparazione corporea dell’attore e l’introduzione di nuove tecniche d’interpretazione sono stati altri fattori importanti per lo sviluppo di linguaggi teatrali innovativi, ma anche il cabaret, le strutture e i codici della rivista, che hanno offerto una nuova visione distanziata, ironica e burlesca della realtà, hanno contribuito allo sviluppo di un teatro storico nuovo che Arianne Mnouchkine,

11 La società spagnola della Transizione aveva infatti stabilito una sorta di “patto di riconciliazione”

che comprendeva anche il “patto di silenzio” su quanto era accaduto recentemente e a cui avevano aderito quasi tutti i partiti politici, le istituzioni e gli intellettuali, allo scopo di permettere al Paese di andare avanti senza il grave peso del passato. Ma già dal principio, non tutti erano d’accordo e avevano trovato espedienti estetici sofisticati per sottrarsi a tale restrizione, finché tale eccezione sarebbe divenuta una costante negli anni ’90.

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direttrice del Théâtre du Soleil, ha chiamato teatro epico popolare. Il recupero dell’opera teorica di Meyerhold nei primi anni ’60 ha dato un enorme contributo alla creazione di una scena più flessibile, in cui i codici narrativi si univano per il recupero dei codici popolari e, in linea con le teorie di Brecht, non si voleva più rappresentare un’azione, ma mostrarla attraverso il proprio corpo e, quindi, forme di teatro parateatrali, come il teatro di fiera, il circo, la rivista, il cabaret o la zarzuela, sono state riutilizzate allo scopo di svelare i meccanismi di evoluzione della storia: il teatro usava quindi come base una realtà storica ma con un linguaggio popolare radicalmente teatrale, in modo da marcare la distanza tra il tempo narrato e il tempo della narrazione e rendere così evidente la differenza tra le due epoche. Il concetto meyerholdiano di gioco stava alla base di questo nuovo metodo creativo perché mezzo privilegiato della fraternità, del vitalismo e dell’allegria tra il palco e la sala e anche per poter narrare in forma distanziata e critica la storia da un nuovo punto di vista.

Il teatro di carattere storico assume quindi la funzione di “illuminare il presente” ma anche il passato, facendo conoscere episodi occultati (volontariamente o no) nella storia o mettendo in dubbio la versione ufficiale, e numerosi sono gli scrittori che assolvono a questo compito. Tra di loro si annovera Eduardo Galán, per il quale rientrano sotto l’etichetta di teatro storico tutte quelle opere che pongono la loro azione drammatica in un tempo storico riconosciuto, indipendentemente dalla verosimiglianza dei fatti, la partecipazione reale di personaggi storici o la precisione degli eventi. Più si avvicina al tempo storico, più sarà accettabile come teatro storico (Galán, 1999: 49-60).

Nel suo saggio «El dramaturgo como historiador», Juan Mayorga definisce

teatro storico tutte le opere che propongono la rappresentazione di un tempo

passato. È il modo in cui questo viene messo in scena che ha un valore singolare perché, dato che il teatro è stato il primo modo di raccontare la storia, ha proposto delle interpretazioni che hanno alimentato le cosiddette memorie collettive: il paradosso sta nel fatto che il teatro storico dice sempre di più dell’epoca che lo

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produce piuttosto che dell’epoca che vuole rappresentare ed esprime maggiormente desideri e paure del tempo in cui è messo in scena13.

Sebbene César Oliva (1999: 70) considerasse ormai conclusa la fase del teatro di carattere storico già alla fine del secolo scorso (con le sole eccezioni di Miras y Amestoy) perché, cessata la censura, non c’era più alcuna necessità di rifugiarsi nel passato e perché, chi cominciava a produrre negli anni ’90 e a rappresentare le sue opere nelle sale alternative non riusciva a trovare i mezzi economici per finanziare le proprie produzioni, è proprio in questo decennio che prende piede il cosiddetto teatro della memoria14, che sancisce una sorta di cambiamento semantico: in concomitanza con la decadenza del PSOE, si è tornati a modi di scrittura più tradizionali ma con certe dosi di denuncia sociale. Questa nuova giovane generazione di autori, infatti, partendo dalla considerazione che il teatro abbia uno stretto legame con la politica15, scrive per contestare la Storia, soprattutto quella recente perché, utilizzando le parole di César Oliva (2004: 10), «è il momento di conciliare l’interesse letterario dell’arte drammatica con il sociale e lo storico», e lo fa partendo dalla sfera intima dei loro personaggi, anche se spesso si tratta di personaggi pubblici16.

13 A differenza dello storico, il drammaturgo non è obbligato a rappresentare fatti realmente accaduti

con personaggi davvero esistiti, ma ha comunque la responsabilità delle riflessioni che ne trarrà il suo pubblico. La missione dell’arte, come della filosofia, è comunque quella di dire la verità: ciò non significa che la possiedano, perché la verità non è naturale, ma è una costruzione che deve essere mostrata. Il teatro è l’arte politica per eccellenza e per questo ha una responsabilità maggiore rispetto a qualunque altra forma artistica e, mai come nel momento in cui scrive, l’autore sente la necessità di mettere la verità in scena. Il teatro non deve essere uno specchio della realtà ma creare un’illusione di oggettività e, per tale ragione, ritiene più importante non il pensiero dell’autore ma quello dello spettatore, poiché è questo che dovrebbe uscire dal teatro non con idee ma con impulso critico. In MAYORGA, Juan (2011), «El dramaturgo como historiador», «Teatro y verdad» e «La representación teatral del Holocausto, in Himmelweg, ed. M. Aznar Soler, Ñaque, Ciudad Real, pp.175-197.

14 Non a caso, Josefina Aldecoa, in un articolo pubblicato su El País il 25/08/1999, definisce il

periodo in analisi come «il decennio della memoria». In

https://elpais.com/diario/1999/08/25/cultura/935532002_850215.html [ultima consultazione il 19/01/2019].

15 «El teatro no puede dejar de ser un arte político» dichiara Mayorga in un’intervista riportata in

AZNAR SOLER, Manuel (2011), «Estudio introductorio» a J. Mayorga, Himmelweg, Ñaque, Ciudad Real, p. 109.

16 ESPÍN TEMPLADO, María Pilar (2004), La representación teatral en la última generación de la dramaturgia española, Actas del XIV Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas,

Nueva York, 16-21 de julio de 2001, vol. 3, p. 176. L’autrice cita come modelli, fra gli altri, Cartas

de amor a Stalin di Juan Mayorga, Los enfermos di Antonio Álamo e Trilogía de la juventud di José

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1.3. Il teatro della memoria e il teatro della Shoah

A differenza del teatro del passato, secondo Wilfred Floeck (1994: 329)17, non si può più parlare di teatro realista, perché si tiene in maggiore considerazione gli interessi e le esperienze di un pubblico più ampio e vario. Qualche anno dopo, lo stesso studioso definirà meglio la situazione (Floeck, 2006: 185-209), affermando che il dramma di carattere storico si è evoluto in direzione di un teatro della memoria, allo scopo di lottare apertamente contro l’oblio di un passato stigmatizzato per molto tempo e cita, tra gli esempi più significativi, Terror y

miseria en el primer franquismo18 di José Sanchis Sinisterra, (che, nella brochure

dell’opera, parla appunto di un teatro che torna al passato per nutrire il presente),

¡Ay, Carmela! dello stesso autore, Las bicicletas son para el verano di Fernando

Fernán-Gómez, El álbum familiar di José Luis Alonso de Santos. Proprio a Sanchis Sinisterra si deve la definizione di “teatro della memoria” perché, nella prima opera sopra menzionata, conia tale espressione per meglio definire le opere fino ad allora denominate “storiche”, in quanto tale etichetta sembra essere «un po’ solenne e raggrinzita»19, e la prima di questa nuova tipologia di opere è proprio ¡Ay,

Carmela!, del 1987. Sanchis Sinisterra ha dedicato numerosi studi al teatro della

memoria, in cui giustifica la necessità di trattare questo ambito sulla scena: «Sólo conjurando el olvido podemos entender el presente y escoger un futuro. De ahí el imperativo “Prohibido olvidar”. De ahí la necesidad de un teatro de la memoria»20.

17 Citato in AMELL, Samuel (2006), El teatro último de Ignacio Amestoy: de la historia a la contemporaneidad, in ROMERA CASTILLO, José (2006), Tendencias escénicas al inicio del siglo XXI, Visor Libros, Madrid, p. 320.

18 Il titolo dell’opera è un palese richiamo all’opera di Bertold Brecht, Terror y miseria del Tercer Reich, opera di ventiquattro quadri in cui si rappresentavano scene di vita quotidiana in quel

determinato periodo storico. Come fa notare Pérez-Rasilla (2009: 155) il riferimento non è limitato solo al titolo: anche quest’opera è composta da scene indipendenti, con personaggi propri, e l’unità d’azione è data esclusivamente dal contesto storico nei quali i personaggi e le azioni sono collocati, ma gli episodi sono contigui e la loro struttura aperta.

19 Citato in Terror y miseria en el primer franquismo, (2003), Cátedra, Madrid, p. 42. 20 Citato in AZNAR SOLER, 2011, p. 21.

Nella sua tesi dottorale Alison Guzmán, (2012: 304-306) ha invece preferito la definizione di teatro

della meta-memoria storica (traduzione mia) perché si instaura una dialettica tra due periodi distinti,

il periodo della Guerra Civile e/o la sua continuazione nel dopoguerra e un tempo successivo: dato che il prefisso “meta-” significa “andare oltre qualcosa”, il termine meta-memoria storica si riferisce quindi al modo teatrale e letterario grazie al quale un’opera esterna e dibatte la relazione tra le suddette epoche, e determina quindi la formazione della memoria collettiva. Più avanti (2012: 562), Guzmán elenca come i vari studiosi hanno etichettato questo tipo di teatro, perché se, come si è visto, Floeck concorda con “teatro de la memoria”, Iniesta Galván preferisce “Teatro con pretesto

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A differenza dei realisti del dopoguerra, questi autori ritengono che il teatro non possa risolvere i problemi del presente, ma solo mettere in guardia ed evitare possibili distorsioni. Sanchis Sinisterra prima e Mayorga poi sono considerati i “traghettatori” dal teatro storico al cosiddetto teatro della memoria, caratterizzato da aspetti condivisi con il romanzo degli anni ’90 di tipo storico: taglio multiprospettico, punto di vista soggettivo, frammentazione e struttura aperta21. Nella sua tesi dottorale, Alison Guzmán (2012: 559-560) evidenzia un’analogia con le caratteristiche del teatro postmoderno messe in rilievo in uno studio di Malkin sul teatro universale, ossia l’evocazione di ricordi repressi, il contrasto tra la storia ufficiale e le nuove analisi, i ricordi collettivi, le tracce della memoria, la frammentazione, il collage, le allucinazioni, la disorganizzazione cronologica, la dialettica tra memoria e oblio, il coinvolgimento dello spettatore, la fantasia, la sincronia, l’ironia, il metateatrale, la ripetizione e i fantasmi. A questi, Guzmán aggiunge il neorealismo fantastico, l’esperpento, il plastico, il cinematografico, i simboli biblici o chisciotteschi, la moltiplicazione delle scene, il materiale documentale, il carnevalesco, la musica, l’intertestuale e lo humor negro.

Occorre aggiungere che la letteratura della memoria non è un fenomeno esclusivo della penisola iberica ma si estende a tutta l’Europa e all’intero continente americano, probabilmente stimolato dall’aumento degli studi storici e culturali ma soprattutto motivato dall’esigenza che, sebbene i sopravvissuti delle più grandi guerre del secolo scorso (guerra civile spagnola e seconda guerra mondiale con tutte le loro terribili conseguenze) siano sempre di meno22, il ricordo di questi fatti (che può essere evocato anche da elementi casuali e tra i più disparati, quali il fischio o la presenza di un treno o una foto) permanga grazie ai testi scritti, veri o fittizi, cosicché le generazioni future possano tenerne conto al momento di costruire la

storico”, Kurt Spang “Dramma storico antiillusionista”, Rodríguez Méndez usa “Dramma storicista” e Romera Castillo “Dramma d’interpretazione storica” (le traduzioni di tali “etichette” sono mie).

21 Per maggiori approfondimenti, si rimanda al saggio introduttivo di DI PASTENA,2014. 22 Il problema è stato sollevato, tra gli altri, dall’ Asociación por la Recuperación de la Memoria Histórica (ARMH), dal Foro por la Memoria e altre associazioni, ma anche dal dibattito sorto

intorno alla Ley de la Memoria (approvata il 31 ottobre 2007), grazie alla quale venivano riconosciute le vittime della guerra civile e della dittatura. In AMO SÁNCHEZ, Antonia (2014),

Dramaturgias de lo imprescriptible: un teatro para la recuperación de la memoria histórica en España (1990-2012), in «Anales de la literatura española contemporánea», Society of Spanish and

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propria identità23. Secondo Paul Ricoeur, tra il teatro politico e quello storico deve infatti esserci un luogo per la memoria, che tratti il passato in funzione del presente della società24. I testi letterari permettono di conoscere versioni differenti, anche marginali o represse dalla storia ufficiale, e il maggiore spazio è riservato non alla rappresentazione diretta dei grandi conflitti politici o ideologici (la guerra è spesso la grande protagonista assente, che rimane sullo sfondo, attraverso la radio o i racconti dei personaggi) o ad accusare i colpevoli, ma per porre al centro le ripercussioni sulle persone, mettendo gli spettatori di fronte alle proprie responsabilità e, poichè è diventato importante parlare della Shoah25, gli autori di cui si sta trattando provano a farlo da una prospettiva che non sia meramente documentale e storiografica26. Secondo Mayorga27, a partire da La moglie ebrea di Brecht (uno dei ventiquattro quadri di Terrore e miseria del Terzo Reich), il teatro della Shoah merita un capitolo a parte nello studio del teatro storico, perché ha presentato il Lager come un microcosmo e ha suscitato un dibattito sui limiti estetici

23 Il problema dell’identità nella società odierna è molto sentito e, secondo Ayuso (2009: 12), il

trattato La lectura del tiempo pasado: memoria y olvido (1998) di Paul Ricoeur può essere un’utile guida per la comprensione. La memoria individuale è la più importante ed è il vincolo originale della coscienza del passato: è da questa che dipendono i comportamenti del soggetto nel tempo. Tuttavia, la memoria collettiva diviene fondamentale perché una persona non può ricordare tutto da sola e, dunque, necessita dell’aiuto degli altri; da qui ecco che una parte dei nostri ricordi deriva dagli scritti dei racconti collettivi. La memoria individuale sarà quindi significativa quando inserita nell’ambito della memoria collettiva e per questo è necessario ampliare la nozione di memoria a un soggetto collettivo. Secondo Josette Féral (2005: 15), proprio la memoria del teatro si colloca tra la coscienza soggettiva e la memoria collettiva.

A tal proposito, Alonso de Santos in El álbum familiar afferma che: «Hemos pasado del campo de concentración al laberinto. Hay una sensación de pérdida de las escalas de valores, de las metas, de la realidad, de las posibilidades del ser humano […]. Estamos en un absoluto laberinto de espejos en el que hemos perdido la identidad […]. Y ésa es una de las funciones del teatro: devolver la identidad». Citato in FLOECK, Wilfried (2006) Del drama histórico al teatro de la memoria. Lucha

contro el olvido y búsqueda de identidad en el teatro español reciente in ROMERA CASTILLO,

José (2006), pp.195-196.

Sanchis Sinisterra in ¡Ay, Carmela!,usa la ricerca d’identità dei suoi personaggi come riflesso della ricerca d’identità dei suoi spettatori: il processo si dimostra davvero difficile e doloroso e, sia sulla scena che nella vita reale, c’è chi riesce a compierlo e chi no. L’autore si schiera dalla parte di chi non vuole dimenticare e invita gli spettatori a fare lo stesso, per poter ricostruire la propria identità collettiva (FLOECK, 2006: 201).

24 Citato in AYUSO, José Paulino (2009), Los dramas de la conciencia y memoria, in «Anales de

literatura española», Universidad de Alicante, España, 2009, 21, p. 11.

25 Come sostenuto da Mayorga in un’intervista (AZNAR SOLER: 2011, 38) e da Di Pastena (2014:

nota 15), il termine Shoah è preferibile ad Olocausto perché connotato impropriamente in senso sacrificale (le vittime non sono martiri e sarebbe anche ironico pensarlo) e, per quanto possibile, si utilizzerà esclusivamente il primo vocabolo in questa tesi.

26 Il recupero della memoria e la sua trasposizione in opera letteraria non è stato, ovviamente, un

fenomeno esclusivo del teatro, ma ha riguardato soprattutto il romanzo.

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e morali della rappresentazione del passato; è da ingenui inoltre pensare che si possa scrivere sulla Storia senza creare dei collegamenti con il presente28: «un’opera teatrale di successo non è quella che riesce a trasmettere un’informazione allo spettatore. Opera teatrale di successo è quella attraverso la quale lo spettatore fa un’esperienza»29.

La storia è tuttavia parte integrante dell’opera e, per questo, è stata coniata l’etichetta di teatro documento30: essa definisce quel tipo di teatro politico che

risponde ad esigenze sociali in un dato momento storico perché si propone, attualizzando un’idea di Zola, di dare una visione scientifica, oggettiva della storia. Questo tipo di teatro nasce da una posizione critica, che non deve limitarsi all’interpretazione del passato ma anche a quella del presente31.

28 «La memoria della Shoah è la nostra arma migliore per la resistenza contro vecchie e nuove forme

di umiliazione dell’uomo per l’uomo e il teatro non può restare al margine di questa lotta» perché «c’è solo un modo di rendere giustizia alle vittime del passato: impedire che ci siano vittime nel presente». In MAYORGA, Juan (2011), «La representación teatral del Holocausto» e «El teatro es un arte político», in Himmelweg, ed. M. Aznar Soler, Ñaque, Ciudad Real, pp.191-199.

29 In «El dramaturgo como historiador», (2011), p. 182.

30 Tale termine è stato in realtà formulato e applicato già negli anni ’60 dai drammaturghi tedeschi

Weiss e Hocchuth: si rifiuta il teatro storico tradizionale perché vincolato al potere. Lo stesso Weiss, nell’edizione francese del suo Discorso sulla preistoria e lo svolgimento della interminabile guerra

di liberazione nel Viet Nam quale esempio della necessità della lotta armata degli oppressi contro i loro oppressori come sui tentativi degli Stati Uniti d'America di annullare i fondamenti della rivoluzione include 14 note, affermando nella prima di queste: «Il teatro documento è un teatro che

informa. Processi verbali, espedienti, lettere, statistiche, informi di borsa, bilanci bancari e industriali, scritti governativi, allocuzioni, interviste, dichiarazioni di personalità, reportage radiofonici o giornalistici, fotografie, film e tutte le forme di testimoniare il presente, costituiscono le basi dello spettacolo. Il teatro documento rifiuta qualunque invenzione, fa uso di materiale documentale autentico che diffonde dalla scena, senza modificare il contenuto, ma strutturando la forma». Il problema che ne segue, secondo José Monleón, riguarda il modo in cui la selezione di tale materiale viene effettuata perché essa stessa comporta una scelta soggettiva, venendo quindi meno al criterio della totale neutralità; ne consegue che la teoria del teatro documento presume un possesso della verità che di fatto non può avere, ma che, comunque, sia possibile avallare una posizione critica che può essere confermata o smentita.

Sebbene il libro sia stato tradotto in italiano da Ippolito Pizzetti e pubblicato da Einaudi nel 1968 con il titolo sopra menzionato, tale nota non è stata tradotta, per cui la citazione riportata è stata tradotta dallo spagnolo, in MONLEÓN, José (2006), La construcción de la Memoria, in «Primer acto. Cuadernos de investigación teatral», José Monleón, Madrid, 2006, 315, p.103.

31 Cesar de Vicente obietta che la rappresentazione si può tuttavia basare anche su fatti non visibili

e quindi non “ufficiali”, come le storie della gente comune. In ENRILE ARRATE, Juan Pedro (2017), El teatro documento posmoderno, in ROMERA CASTILLO, José, El teatro como

documento artístico, histórico y cultural en los inicios del siglo XXI, Editorial Verbum, Madrid,

2017, pp. 127-139. In questo intervento, si distingue tra teatro documento argomentativo e relazionale: il primo non parte da fatti ma da argomenti, e gli attori quindi non recitano ma difendono una tesi. Lo scopo non è quello di rappresentare la realtà al di fuori del teatro ma di portare la realtà dentro il teatro. Con la seconda tipologia, invece, si dà particolare risalto alle relazioni che modificano i comportamenti e che spesso sono regolati dai dispositivi che esercitano il controllo: si fanno quindi partecipare gli spettatori che, interpretando ciò che avviene in scena, possono così modificarlo e, da tale esperienza, imparano a trasformare anche il mondo.

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La buona accoglienza del pubblico ha dimostrato che il destinatario era ormai pronto a fare i conti con il passato e, per questo, gli autori possono osare sempre più, ambientando le loro opere in luoghi ancora più tremendi, come i campi di concentramento, senza dimenticare che si sta facendo comunque teatro il quale, come la vita reale, mescola disperazione e speranza: per tale ragione le opere alternano momenti in cui ampio spazio è riservato a musiche e canzoni che svolgono, in generale, diverse funzioni come alleviare gli animi o creare situazioni grottesche32.

Come sottolinea Antonia Amo Sánchez (2014: 352), il metateatro è onnipresente e quasi esacerbato, sia in forma di teatro nel teatro o semplicemente usato come autoreferente: il teatro è tema e strumento, nel quale i personaggi sono come marionette, preparano spettacoli, giocano e fanno imitazioni, reinventano o smascherano la menzogna. José Luis García Barrientos (2003:232)33 utilizza il termine metadramma per riferirsi a «tutte quelle manifestazioni nelle quali il dramma secondario, interno o di secondo grado si mette in scena davvero, ma non si presenta come il prodotto di una rappresentazione, bensì come un sogno, un ricordo, l’azione verbale di un “narratore” ecc.». Secondo Simone Trecca queste manifestazioni sono necessarie perché “forzano” in qualche modo la memoria, e il mediatore34 che le evoca può aver partecipato o essere nato dopo gli eventi a cui si sta facendo riferimento.

Come si vedrà più avanti, tutte queste caratteristiche sono riscontrabili ne El

triángulo azul, perché, come in altre opere coeve, questo espediente permette di

scoprire la verità con mezzi teatrali, dato che si rappresenta una realtà che di fatto non esiste e perché, secondo Juan Mayorga, «nella messa in scena di un’opera di teatro storico si intersecano tre tempi: il tempo che l’opera rappresenta, il tempo nel quale è stata scritta e il tempo che la porta in scena»35 e, «mai come ora […], il

32 Cristina Oñoro Otero (2016: 237) afferma che la quasi totalità degli spettacoli dell’ultimo teatro

spagnolo è caratterizzato, in qualche modo, dalla presenza della musica.

33 Citato in TRECCA, Simone (2016), Historia y memoria en las tablas. La función de mediación en algunas técnicas matadramáticas del teatro español ultimo, in «Cuadernos AISPI. Estudios de

lenguas y literaturas hispánicas», Ledizioni, Italia, 2016, 7, p. 81.

34 Per mediatore, lo studioso intende qui colui che, a seconda dei casi, applica in maggiore o minor

grado una certa soggettività nel discorso senza però tralasciare del tutto il tratto essenziale della comunicazione scenica. TRECCA, 2016b, pp.81-82.

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teatro dell’Olocausto cercherà la sua forma partendo da un interrogativo morale più che da un impulso estetico […perché] la sua missione è costruire un’esperienza della perdita; […] non parlare per la vittima, ma fare in modo che risuoni il silenzio»36. A suo giudizio, «il miglior teatro dell’Olocausto è quello che è stato capace di suscitare dolore per le vittime e, allo stesso tempo, fare in modo che lo spettatore si guardi dentro e attorno, facendosi domande su ciò che rimane del veleno di Auschwitz e su cosa c’è in lui stesso dell’aguzzino o del complice»37.

È innegabile che, con l’inizio del nuovo millennio, il numero delle opere del teatro della memoria sia notevolmente aumentato e che, proprio a questi ultimi anni, appartengano le opere più riuscite che, come segnala Guzmán (2012: 564), si distinguono dalle precedenti per la mancanza di manicheismi, rigidità, indagini metafisiche, distanziamento emozionale e globalizzazione del tema. La dimensione spazio-temporale, soggettiva e confusa, è arricchita dall’alternanza di lingue diverse e i finali sono aperti e ambigui. Tra queste rientra sicuramente El triángulo azul, opera che rappresenta esattamente ciò che gli autori, Laila Ripoll e Mariano Llorente volevano portare in scena, grazie alla regia della prima e all’interpretazione del secondo, ma anche grazie al fatto che hanno pensato direttamente a determinati attori per i loro personaggi, dato che a mettere in scena l’opera è stata la loro stessa compagnia, Micomicón. Tuttavia, sebbene l’opera sia stata scritta a quattro mani, non va trascurato il fatto che l’impronta di Laila Ripoll sia quella che è stata maggiormente messa in risalto dagli studiosi, sia per la maggiore esperienza di scrittura dell’autrice, sia perché spesso inquadrata come esempio nell’ambito della drammaturgia femminile.

36 MAYORGA, 2011, pp.196-197. 37 MAYORGA, 2011, p. 193.

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2. Gli autori

2.1. Vita e scrittura di Laila Ripoll

Laila Ripoll (Madrid, 1964), figlia dell’attrice Conchita Cuetos e del regista Manuel Ripoll, ha iniziato il suo percorso professionale come attrice38, studiando recitazione alla RESAD, prima di entrare nella Escuela de la Compañía Nacional de Teatro Clásico e diventare titolare di pedagogia teatrale per RESAD, INEM e INAEM, realizzando anche studi di scenografia nella Escuela de Artes Aplicadas y

Oficios Artísticos (Teruel Martínez, 2006: 806). Come racconta la stessa Ripoll, che si definisce una teatrista39, la scrittura, la volontà di narrare le cose dal

principio, è diventata necessaria durante la Guerra dei Balcani, nel 1995 (e ha determinato la genesi de La ciudad sitiada), per onorare la memoria del nonno e di tutti quelli che, come lui, hanno sofferto la guerra e l’esilio40, ma anche per parlare

delle ricadute psicologiche che questi eventi hanno avuto sui sopravvissuti e sui loro discendenti. La stessa autrice infatti appartiene alla terza generazione delle vittime (García Pascual, 2018: 443), di cui, non a caso, fanno spesso anche parte i personaggi delle opere da lei composte. Secondo la drammaturga, la nazione deve sempre tenere a mente la propria storia (non solo quella degli altri che, invece, è

38 L’autrice è in realtà timida e confessa di avere studiato recitazione perché, al tempo, nella

RESAD, non esistevano corsi di regia o drammaturgia. In

https://www.diariocritico.com/entrevistas/laila-ripoll [ultima consultazione 10/01/19].

39In un’intervista riportata da ROVECCHIO ANTÓN, Laeticia (2015), Memoria e identidad en el

teatro de Laila Ripoll, Angélica Liddell e Itziar Pascual, (Tesis para optar al título de Doctora en

Filología Hispánica), Universitat de Barcelona in

https://www.tdx.cat/bitstream/handle/10803/294593/LRA_TESIS.pdf?sequence=1&isAllowed=y

[ultima consultazione 14/01/2019], p. 34, l’autrice spiega che il termine, usato in America latina per definire la non specializzazione in un campo e il controllo di tutti gli aspetti del teatro, è perfetto per lei dato che, se dovesse definirsi, non direbbe di essere una direttrice di scena e forse neanche un’attrice, una regista, un’autrice o una pedagoga.

40 Laila Ripoll ricorda che quelle scene di guerra che vedeva o di cui sentiva parlare le portavano

alla mente i racconti che le nonne le facevano da bambina prima di addormentarsi e che, ormai, erano diventati anche per lei la quotidianità; il nonno, invece, che aveva partecipato alla guerra ed era stato esiliato perché comunista, preferiva non parlarne. Tuttavia, quando è morto, ha lasciato una lettera alla madre e degli oggetti risalenti ai tempi della guerra. Alla base della scrittura della Ripoll c’è inoltre una forte empatia nei confronti di chi ha vissuto queste terribili esperienze, raccontando ad esempio che l’ascolto di un programma radiofonico ha profondamente segnato la sua vita: si narrava che, durante l’espulsione degli ebrei nel XV secolo, essi erano così addolorati di dover lasciare i propri morti che i cittadini, commossi, hanno promesso che mai avrebbero toccato il loro cimitero (e infatti lo hanno preservato fino a quando, negli anni ’50 Franco ha fatto costruire una scuola). Si veda l’articolo di RIPOLL, Laila (2011), “Santa Perpetua” y la Trilogía fantástica, in «Primer Acto. Cuadernos de investigación teatral», José Monleón, Madrid, 2011, 337, I, pp. 25-27.

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molto più semplice da raccontare)41 e non farla cadere nell’oblio, preferendo il silenzio, come a lungo hanno fatto le istituzioni, perché

lo que si no se escupe, amarga tanto que no deja descansar. Lo que causa tristeza, desazón, desasosiego. Y, sobre todo, lo que cabrea, lo que obliga a pegar un puñetazo encima de la mesa porque ya está bien, y si uno se lo queda dentro, se enferma y se pudre. Lo que uno no puede dejar de escribir42.

La storia di un paese è però la storia della sua gente, della sua quotidianità, che lo Stato ha distrutto senza pensare alle conseguenze disastrose che ne sarebbero derivate: un gran numero di dispersi, fosse comuni, detenuti, esiliati, bambini scomparsi e indottrinati, campi di concentramento, intolleranza, paura e superstizione, preferendo dimenticare tutto:

La verdad es muy incómoda porque arrastra vergüenzas económicas, sociales, familiares… empresas que se beneficiaron de las circunstancias […], fortunas que se hicieron a base de esquilmar a los vencidos, propiedades robadas, denuncias anónimas… Vivimos inmersos en una enorme injusticia y, evidentemente, a los que se benefician o se beneficiaron de ello no les interesa que se conozca la verdad43.

Sono le piccole storie, delle quali nessuno sa nulla, a interessare l’autrice, in un periodo in cui la Spagna stava rinascendo ma stavano morendo i sopravvissuti (e «sin memoria non hay avenir» afferma uno dei suoi personaggi, Santa Perpetua): cercare la verità aiuta a riparare l’ingiustizia (Amo Sánchez, 2014: 358). Come altri suoi contemporanei, Laila Ripoll ritiene che questo passato drammatico possa essere interpretato alla luce del presente, perché le sue conseguenze «sono quelle

41 Se, per esempio i tedeschi hanno condannato le barbarie di cui sono stati artefici, gli spagnoli non

si sono ancora assunti la responsabilità delle loro azioni, come sostenuto in RODRÍGUEZ, Marie-Soledad (2015), Compromiso histórico y social de dos dramaturgas: Laila Ripoll e Carmen Losa, in «Anales de la literatura española contemporánea, ALEC», Society of Spanish and Spanish-American Studies, Stati Uniti, 2015, 40, 2, p. 258.

42 RIPOLL, Laila (2013), Lo que me ronda, in «Primer Acto. Cuadernos de investigación teatral»,

José Monleón, Madrid, 2013, 344, I, p. 36.

43 In HUMANES, Iván (2014), Entrevista a Laila Ripoll, in «Quimera: Revista de literatura»,

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che ci permettono di leggere la Storia come un libro infinito e costantemente aperto quale è la realtà» (Ladra, 2014: 267). Sono queste le ragioni, come scrive Itziar Pascual, per le quali «Laila ha dedicato cura, passione e le migliori parole per seminare coscienza nell’oblio, per mettere memoria nelle orbite vuote degli occhi. Perché, per quanto doloroso possa essere il volto del passato, meglio guardarlo in faccia che girarsi dall’altra parte»44. L’interesse dell’autrice nel trattare questa

tematica si può ascrivere a quello che Marianne Hirsch (1997) chiama postmemory, cioè una memoria ereditata, dato che, anche se il trauma non è vissuto direttamente, la coscienza di esso è ancora presente45, ossessivo come lei stessa ha rivelato in un’intervista (Henríquez, 2005: 119), sia per interesse personale, sia per ragioni familiari46.

Probabilmente influenzata anche dalle letture dell’infanzia, Laila Ripoll (2011: 26-27), nelle sue opere, compie un viaggio alla ricerca del grottesco spagnolo, dell’esperpento, all’interno di mondi chiusi in sé stessi, che ha cominciato a dare i suoi frutti già con La ciudad sitiada, Atra Bilis (cuando estemos

más tranquilas) ed El día más feliz de nuestra vida ma anche La frontera (sebbene

quest’ultimo, a differenza di tutti gli altri, sia ambientato fuori dalla Spagna) e Los

niños perdidos. Con un richiamo alla concezione di Unamuno della storia, poi

ripresa da Lorca e Valle-Inclán (che dà più valore alla storia recondita, quella della gente anonima), l’immaginario della Ripoll è intriso di humour negro ma strettamente legato alla tragedia ed è evidente l’influenza della tradizione spagnola

44 Le orbite vuote degli occhi sono quelle dei morti e questa immagine è presente anche nel testo de El triángulo azul (p. 13). Le parole di Itziar Pascual sono state riportate nella prefazione di Santa Perpetua in RIPOLL, Laila (2015), Santa Perpetua (presentazione di José Manuel Mora; traduzione e postfazione di Simone Trecca), Plectica, Salerno, p. 6.

45 In KATONA, Eszter (2016), El holocausto español en la escena teatral in BUCZEK, Olga-

FALSKA, Marta (eds), La violencia encarnada: representaciones en teatro y cine en el dominio

hispánico, Padilla Libros Editores y Libreros, Sevilla, p. 103. Lo stesso fenomeno è stato trattato

anche da Eva Hoffman, che parla di postgenerazione, dato che viviamo in quella che è “l’era della memoria”. La memoria dei discendenti è quindi quella che, secondo la terminologia di Aleida Assmann è chiamata memoria comunicativa. In FIALDINI ZAMBRANO, Rossana (2015), El triángulo azul: el teatro como recurso de sobrevivencia y espacio de memoria, in «Revista canadiense de estudios hispánicos», Asociación Canadiense de Hispanistas, Canada, 2015, 40, 1, p. 109.

46 Anche la madre di Llorente, coautore de El triángulo azul e compagno anche nella vita della

Ripoll, è stata detenuta fino alla maggiore età in un istituto religioso di “Auxilio Social”. Ormai deceduta, in realtà ne parlava poco, ma pare fosse stata rinchiusa lì perché il padre aveva dato rifugio a un partigiano. In HENRÍQUEZ, José (2005), “Soy nieta de exiliados y eso marca”, in «Primer Acto. Cuadernos de investigación teatral», José Monleón, Madrid, 2005, 310, IV, p. 119.

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