• Non ci sono risultati.

L'esposizione museale della grande statuaria in bronzo

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'esposizione museale della grande statuaria in bronzo"

Copied!
235
0
0

Testo completo

(1)

1

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Corso di Laurea in Archeologia

Università di Pisa

TESI DI LAUREA

L’esposizione museale della grande statuaria in bronzo

RELATORI

Prof.ssa Fulvia DONATI Prof.ssa Anna ANGUISSOLA Dott.ssa Daria PASINI

IL CANDIDATO Giovanni SODI Anno accademico 2018-2019 Il candidato

(2)

2

INDICE

Introduzione………p.3

1. La scultura in bronzo nell‟antichità……….p.5 1.1 Storia, materiali e tecniche………p.5 1.2 La percezione e l‟attribuzione del valore in antico………...p.8 1.3 Il colore del bronzo………..p.12

2. Storia dei ritrovamenti e destinazione museale……….p.16 2.1 Medioevo e Rinascimento: Roma e Firenze….………...p.16 2.2 Il Settecento e i siti vesuviani………..p.21 2.3 L‟Ottocento e la nascita dell‟archeologia…..……….….……p.22 2.4 Il Novecento e i bronzi venuti dal mare……….………..p.28

3. Allestimento museale dei bronzi antichi...……….p.43 3.1 Collezioni storiche ed esposizione museale………p.44 3.2 La musealizzazione del bronzo nel primo Novecento……...…….……...p.64 3.3 La musealizzazione del bronzo nel secondo Novecento……….p.88 3.4 Il terzo millennio: contesto, tecnologie, multimedialita‟…...….………...p.125 3.5 Musealizzare la copia………p.166 3.6 Bronzistica antica ed esposizioni temporanee…..……..………..………p. 176

4. La musealizzazione dell‟opera in bronzo: caratteristiche di un fenomeno…p.183 4.1 Quale destinazione per le opere?...p.183 4.2 Modelli di musealizzazione……….………..p.191 4.3 Forme di allestimento e valori gerarchici………..………....p.197

Conclusioni……….……….p.208 Indice delle figure………p.211 Bibliografia………...………...p.216 Sitografia……..………..………..…………p.227

(3)

3

INTRODUZIONE

L‟oggetto principale di questa tesi è la grande statuaria antica in bronzo, per quanto riguarda gli aspetti che hanno caratterizzato le sue forme di musealizzazione.

Il presente lavoro trova origine dalla consapevolezza circa la particolare natura dell‟opera antica in bronzo e di come ciò abbia profondamente caratterizzato gli allestimenti che l‟hanno vista protagonista. Fin dal Medioevo, ma ancor di più con il Rinascimento e dunque con l‟età moderna e le sue prime riflessioni archeologiche sulla statuaria antica, il bronzo è stato insignito sempre di un particolare valore dovuto in origine alla sua indubbia bellezza e rarità: si pensi all‟enorme differenza tra il numero dei marmi e dei bronzi antichi a noi oggi pervenuti. Dunque, con l‟epoca delle prime ricerche filologiche sull‟arte greco-romana, si cominciò a riflettere sulla possibilità di ricondurre le opere in bronzo ad alcuni dei capolavori citati dalle fonti storiche realizzati da importanti nomi dell‟arte antica; sancendo in questo modo l‟idea di un esiguo patrimonio di opere bronzee originali contrapposto alla grande quantità di copie in marmo conosciute.

Proprio quest‟estrema rarità dell‟opera in fusione bronzea rispetto a quella scolpita in pietra ha fatto sì che siano relativamente pochi quegli istituti museali nei quali si trovano esposte le statue in bronzo, e ancor più rari sono quelli che le conservano in nuclei numericamente consistenti. Questo isolamento dei bronzi nei musei di tutto il mondo ha talvolta portato gli stessi istituti a elevare le opere in metallo da questi possedute a capolavori delle collezioni, riservando dunque ad essi particolari attenzioni nell‟esposizione1

. Nello svolgimento di questa tesi si metteranno dunque in luce le caratteristiche degli allestimenti museali relativi all‟opera bronzea antica, evidenziando come la particolare accezione di questa quale capolavoro della collezione ha influenzato e modificato la forma della musealizzazione, in relazione anche all‟emergere di nuovi interessi archeologici che talvolta si sono contrapposti a una percezione del bronzo in alcuni casi fortemente rivolta a valorizzarne gli aspetti estetici. Sulla scorta dell‟eccezionalità dell‟opera bronzea, nel corso del presente lavoro saranno presi in esame anche alcuni dei più significativi casi di disputa e contesa circa la destinazione della stessa, esempi che nel caso dei bronzi più noti hanno travalicato gli ambiti specialistici per arrivare anche al pubblico generalista, al fine di mettere altresì in evidenza questo importante aspetto direttamente connesso alle questioni relative all‟esposizione.

Nel presente lavoro la trattazione approfondita di alcuni casi studio esemplari presi tra i più rappresentativi sarà anticipata da un inquadramento storico sulla produzione metallurgica

(4)

4

antica e quindi sui ritrovamenti di opere bronzee avvenuti dal Medioevo fino alla contemporaneità.

La principale questione inerente la musealizzazione dell‟opera in bronzo sarà quindi affrontata nella sua complessità, assumendo, per l‟esposizione degli esempi scelti, una prospettiva per lo più cronologica, con lo scopo di mettere in evidenza anche il mutamento nel corso del tempo delle modalità di presentazione dell‟opera all‟interno del museo. Particolare attenzione sarà dedicata a quei casi – italiani e internazionali – per cui le questioni relative alla musealizzazione, e in particolare alla scelta della destinazione museale, hanno riguardato non solo gli ambiti specialistici ma anche quelli del grande pubblico, confermando ancora oggi uno status particolare dell‟opera in bronzo all‟interno della società che altre classi di materiali non hanno2. Per questi casi, alla tradizionale bibliografia specialistica saranno affiancate come fonti anche testi generalisti e testate di quotidiani, al fine di mettere in evidenza ancora la speciale posizione del bronzo all‟interno della nostra società. Dunque, al termine della disamina sugli allestimenti museali, saranno trattati alcuni casi esemplari per l‟esposizione di copie in bronzo di originali nello stesso materiale, nonché alcune importanti esposizioni temporanee degli ultimi anni che hanno accresciuto la riflessione museologica e archeologica su questa classe di manufatti.

Il lavoro sarà dunque concluso con l‟esposizione delle linee generali del fenomeno, al fine di sintetizzare la grande variabilità che caratterizza l‟esposizione della statuaria monumentale in bronzo, cercando anche di comprendere se le contraddizioni che vedremo esserle insite possano in qualche modo essere sciolte.

2 L‟interesse mediatico in questioni relative ad alcuni bronzi antichi può essere intravisto nello spazio che la

stampa ha dedicato al sequestro della cosiddetta Biga di Morgantina ; opera che, seppur non antica –anche se più volte è stata interpretata in questo senso –, si è trovata al centro delle cronache nazionali sia per le modalità di rinvenimento sia per la possibilità che il bronzo rappresentasse un‟opera d‟età ellenistica. Su come la Biga è stata interpretata come un‟originale antico; ansa.it/sicilia/notizie/2019/10/18/trovata-biga-morgantina-rubata-cimitero_05f711b9-434d-4162-a72d-797ef6147026.html. Sugli studi di Antonella Privitera che hanno reinterpretato il bronzo come opera di una fonderia napoletana di XIX secolo, cf. PRIVITERA 2018.

(5)

5

I. LA SCULTURA IN BRONZO NELL’ANTICHITA’

1.1 Storia, materiali e tecniche

Nel corso della storia il rame è stato il metallo più utilizzato per la produzione artistica, sia per la sua relativa abbondanza in natura – e quindi per la sua facilità d‟approvvigionamento – sia per le sue caratteristiche di plasticità e durevolezza se fuso in leghe con altri elementi3.

Il rame nativo richiede infatti temperature di fusione estremamente alte, oltre 1000°C – difficili da raggiungere con i forni dell‟antichità – e si caratterizza per un basso grado di fluidità a caldo. L‟aggiunta al rame di metalli bianchi quali stagno e piombo porta alla formazione di una lega, il bronzo, caratterizzata da una temperatura di fusione inferiore ai 1000°C e una fluidità superiore a quella del solo rame.

La storia della produzione artistica in rame trova origine nel IV millennio a.C., quando tra Mesopotamia, Palestina ed Egitto si cominciò a lavorare questo metallo con la tecnica della martellatura in lamine a freddo4. Solo alla fine del III millennio, a Creta cominciarono a comparire le prime statuette a fusione piena. Secondo questa tecnica la figura doveva essere modellata in cera e quindi ricoperta con un mantello di materiale refrattario; la struttura era dunque cotta al fine di indurire il mantello e far sciogliere la cera. Al momento della fusione, il metallo (per lo più ancora rame) era fatto colare all‟interno della forma attraverso appositi canali e occupava lo spazio lasciato dalla cera. Al termine del processo il mantello era rimosso e le superfici del pezzo ripulite. Fu poi nel corso del VII secolo a.C. che questa tecnica di lavorazione a cera perduta e fusione piena fu introdotta in Grecia5. Dunque, con la fine del VI secolo a.C. prese avvio una produzione statuaria in bronzo mediante la tecnica della cera perduta, ora con un nuovo metodo. Secondo questa pratica si doveva lavorare un‟anima in materiale refrattario – solitamente argilla additivata di altri elementi – fino a farle assumere le forme abbozzate di ciò che si voleva ottenere, quindi, sopra questo primo nucleo, si applicava uno strato di cera nel quale erano definiti i dettagli più minuti; la figura era poi rivestita dal mantello anch‟esso in terra refrattaria. Al

3 La bibliografia di riferimento per quello che riguarda le tecniche di produzione metallurgica relative al

mondo antico è estremamente ampia e particolareggiata; tra i testi di riferimento si devono certamente citare l‟Enciclopedia dell‟Arte Antica, in particolare alla voce “Bronzo” (CIARLA et al. 1994), i numerosi contributi di Edilberto Formigli, tra i quali si possono ricordare FORMIGLI 1984, sulla tecnica di realizzazione dei Bronzi di Riace, FORMIGLI 1993, FORMIGLI 1999 e FORMIGLI 2004, nonché MATTUSCH 1988 e TREISTER 1996. Per la stesura del presente lavoro sono stati consultati anche volumi di carattere più generale relativi alle tecniche artistiche tra cui MALTESE 1973, VLAD BORRELLI 2003, BERTINI 2013.

4

MALTESE 1973, pp. 33-53; BERTINI 2013, p.7.

5

(6)

6

momento della fusione la cera era eliminata e il metallo ne occupava il volume; poi talvolta l‟anima interna era rimossa. Si capisce come con questa tecnica fosse possibile realizzare statue di grandi dimensioni, con spessori abbastanza sottili e quindi con un peso relativamente contenuto; ciò permise agli artisti di fondere figure libere nello spazio, con parti sospese e in aggetto6.

In questa fase la composizione chimica della lega di fusione era ancora fortemente sbilanciata verso il rame; un bronzo di età classica era realizzato per il 90-95% di rame, con solo una ridotta quantità di metallo bianco, per lo più ancora stagno.

Plinio parla di questa lega più antica e la definisce deliaca, da Delo, luogo dove, secondo l‟autore latino, gli artisti Angelion e Tektaios, realizzarono le statue di Apollo e delle Grazie per il santuario dedicato alla divinità7.

Come già ricordato, a un‟alta concentrazione di rame nella lega corrispondevano particolari caratteristiche fisiche, quali una bassa fluidità allo stato liquido e una considerevole durezza a quello solido. Ciò necessariamente influiva sulle tecniche di lavorazione dei bronzisti antichi, i quali, terminata la fusione a cera perduta, dovevano completare a freddo la definizione dei dettagli e dei particolari.

L‟alta percentuale di rame nel bronzo si ripercuoteva anche sul colore del metallo: le statue greche, terminata la fusione, dovevano essere tendenti al rosso. Questa coloritura, che variava a seconda della composizione della lega, poteva essere stemperata dall‟applicazione di sottili strati di rivestimento di cui si discuterà brevemente in seguito8. Ad oggi la ricerca archeologica ha messo in evidenza alcuni contesti riconducibili a officine per la fusione di statue di epoca classica. Sul pendio meridionale dell‟Acropoli di Atene sono emerse tracce di una fossa di fusione datata alla prima metà del V secolo a.C. e che è stata interpretata come relativa alla monumentale statua fidiaca dell‟Athena

Prómachos. Sempre ad Atene, un‟altra fossa di fusione di età classica è stata scoperta

presso il quartiere del Ceramico. Ad Olimpia le indagini archeologiche hanno portato alla luce un complesso adibito alla fusione statuaria datato al decennio 440-430 a.C., e riferibile ancora all‟officina di Fidia9

.

6 MALTESE 1973, p. 33-53; VLAD BORRELLI 2003, pp. 279-280. 7 VLAD BORRELLI 2003, p. 288.

8

MALTESE 1973, p. 38; VLAD BORRELLI 2003, p. 29.

9

(7)

7

Se con la tecnica a cera perduta non si aveva la possibilità di realizzare più pezzi a partire da una stessa forma, con la produzione di tipo indiretto, introdotta in Grecia già nel V secolo a.C., ma ampiamente utilizzata solo a partire dall‟età ellenistica, si arrivò a una produzione seriale di statue ora relativamente economiche10. Lavorando con questa tecnica si partiva da un modello in creta o gesso del quale, poi, con delle matrici si prendevano le impronte delle varie parti11. All‟interno delle riproduzioni in negativo era poi spalmato uno strato di cera dello spessore desiderato per l‟opera finita. Rimosse le cere dalle matrici, le si dotava di un‟anima interna e di un mantello esterno; quindi si procedeva alla fusione. Terminato questo processo, le varie parti corrispondenti alle singole matrici erano saldate insieme12.

Con questa modalità di lavorazione, dunque, a partire da un unico modello si aveva la possibilità di produrre un numero multiplo di copie della stessa immagine.

Questa nuova tecnica consentì di rispondere alla fame d‟immagini che la società antica cominciò ad avere dall‟epoca ellenistica, quando si ampliò l‟uso di celebrare con le figure in bronzo gli uomini più illustri della comunità13.

Presupposto fondamentale per queste innovazioni nei modi di produzione, fu il cambiamento della composizione chimica della lega di bronzo. La fusione con il metodo indiretto necessitava infatti di un composto che allo stato liquido fosse estremamente fluido, più ricco dunque di metalli additivati quali ad esempio lo zinco e il piombo. Nei bronzi di età ellenistica notiamo come questi ultimi componenti della lega metallica tendano, insieme allo stagno, ad aumentare rispetto alle produzioni precedenti. Questo rinnovamento della lega bronzea permise di realizzare statue estremamente leggere, sottili se confrontate a quelle d‟età classica, e che necessitarono sempre più raramente di rinettature a freddo14.

10 FORMIGLI 1984, p. 107.

11 Le impronte del prototipo potevano essere impresse su vari supporti. In Grecia furono utilizzate soprattutto

la cera, le argille o composti di natura catramosa quali peci o bitumi (per una trattazione sull‟uso della pece bruzia nei processi di riproduzione artistica si veda DONATI 1990), mentre dall‟epoca romana si cominciarono a realizzare calchi anche utilizzando il gesso umido. Ne è prova il rinvenimento a Baia di numerosi frammenti in gesso appartenenti a riproduzioni dei più noti bronzi dell‟antichità e che dovevano essere utilizzati per la produzione di copie in marmo; cf. LANDWEHR VON HEES 1984, CIARLA et al. 1994; GASPARRI 2008, pp. 80-87.

12

Con la tecnica della cera persa a metodo indiretto erano già state realizzate quasi tutte le membra dei due bronzi di Riace (V sec. a.C.), solo alcune parti quali capelli, barbe e altri dettagli furono prodotte a fusione piena, per una prima analisi sulle tecniche di produzione dei Bronzi di Riace, FORMIGLI 1984.

13

MALTESE 1973, p. 39 e pp. 50-51.

14

(8)

8

Le ricerche archeologiche condotte a Rodi hanno messo in luce alcune fosse di fusione di età ellenistica relative a un‟officina attiva tra il III e il I secolo a.C. e che molto probabilmente lavorava con la tecnica di produzione a metodo indiretto15.

Fu poi la produzione artistica romana a portare avanti il processo di rinnovamento della composizione chimica della lega di bronzo che abbiamo visto essere già stato avviato nella Grecia ellenistica. Nei bronzi d‟età romana la percentuale di rame diminuì fino al 70 %, aumentò quella dello stagno e si cominciarono a usare sempre più frequentemente altri componenti, tra cui soprattutto il piombo, per la realizzazione di leghe ternarie (rame, stagno, piombo).

La produzione di bronzi caratterizzati da leghe ad alte concentrazioni di piombo (talvolta superiori al 30%) consentiva di tenere bassi i costi di realizzazione, garantiva un‟ottima predisposizione del pezzo a essere lavorato a freddo e agevolava quei processi di doratura delle superfici che si fecero sempre più frequenti a partire dall‟età imperiale.

1.2 La percezione e l’attribuzione del valore in antico

Come abbiamo già anticipato – e come vedremo più approfonditamente in seguito – il modo con cui noi oggi ci avviciniamo alla statuaria antica in bronzo, soprattutto quella di grandi dimensioni, risulta mediato da percezioni e valori che si sono aggiunti all‟opera nel corso dei secoli, ma che quasi certamente non dovettero essere propri di chi quei bronzi li produsse e li utilizzò.

Questa nostra percezione del bronzo, e di conseguenza i modi con cui lo si è musealizzato e dunque messo in scena, rappresenta almeno in parte l‟eredità di quei primi antiquari che dopo secoli tornarono a vedere questi capolavori dell‟arte antica.

L‟estrema esiguità di opere in bronzo sopravvissute alle rifusioni dell‟Antichità e del Medioevo ne ha di fatto sancito l‟esclusività. Quando poi grazie alla scuola filologica tedesca fu chiaro che molti dei marmi conservati nei musei non erano originali greci ma copie romane, i bronzi che si reputavano autentici divennero da soli testimonianze della cultura artistica dell‟Antichità, e forse quasi un feticcio d‟autorialità16

.

L‟eccezionale valore che le prime ricerche storico-archeologiche attribuirono al bronzo continua a riflettersi nel modo con cui noi ancora oggi guardiamo a questo materiale. Dobbiamo dunque chiederci quale fu il valore del bronzo nell‟antichità; per comprendere

15

ZIMMER 1999b, p. 50.

16

(9)

9

ciò bisogna brevemente contestualizzare la produzione in metallo all‟interno della statuaria in generale.

Nell‟antichità le opere d‟arte in bronzo furono impiegate in contesti estremamente diversi, da quelli pubblici, sia religiosi che civili, fino a quelli privati.

Nell‟Atene democratica, tra il 460 e il 450 a.C., Fidia fuse e collocò sull‟Acropoli cittadina la statua dell‟Athena Prómachos, forse l‟unica vera opera monumentale in bronzo del V secolo 17. Nel mondo greco si potevano quindi dedicare alle divinità statue in metallo. Ma la città greca prevedeva che in bronzo fossero realizzate anche le statue commemorative degli uomini più illustri. Già nel 510 a.C. Atene eresse il gruppo dei

Tirannicidi, dedicato ai cittadini Armodio e Aristogitone. In queste statue, i cui originali si

sono persi e la cui forma è stata tramandata da numerose copie di marmo realizzate in età antica, è rappresentato per la prima volta un evento storico. Coloro che cacciarono il tiranno Ipparco non sono divinità ma uomini, cittadini di Atene, e le loro statue furono poste al centro politico della città, nell‟Agorà, laddove tutta la comunità le potesse vedere18.

Con i Tirannicidi di Atene s‟inaugura forse l‟uso di commemorare con il bronzo gli uomini più importanti della comunità cittadina. Per le statue delle divinità, e in particolare quelle conservate all‟interno dei templi, la Grecia classica preferì l‟uso del marmo o dei materiali preziosi della tecnica crisoelefantina; in questo senso resta un‟eccezione la già citata Atena fidiaca che comunque non doveva essere inserita all‟interno di un edificio sacro. Quando Plinio parla dei simulacra in bronzo d‟artisti greci fa riferimento a statue sì di divinità, ma che rivestivano un ruolo subordinato rispetto a quelle conservate nelle celle templari. Nello stesso passo l‟autore elenca invece un gran numero di bronzi antichi raffiguranti uomini d‟ogni genere19

.

In età ellenistica la tradizione di riservare al bronzo la rappresentazione degli uomini illustri si dovette consolidare, e la cosa perdurò ancora in età romana, quando l‟uso si trasformò in un ricco giro di affari la cui sostenibilità fu consentita dalle più recenti acquisizioni nell‟ambito della metallotecnica sopra ricordata20

.

Le fonti scritte e i dati archeologici, per lo più inerenti ai basamenti delle statue, ci parlano di torme di figure bronzee che affollavano le città, non solo Roma ma tutti i principali centri della romanità. Presso il foro di Pompei sono emerse oltre cento basi per statue

17 ZIMMER 1999, p. 26.

18 BEJOR, CASTOLDI, LAMBRUGO 2008, p. 199. 19

Plin. Nat.Hist., XXXIV, 49 ss; LAHUSEN 1999, p. 36.

20

(10)

10

rappresentanti figure stanti, per sculture equestri o raffiguranti l‟imperatore; mentre ancora nel VI secolo Cassiodoro segnalava il popolo di statue che viveva entro le mura dell‟Urbe21

.

Il mondo romano quindi era uso onorare i suoi uomini più illustri anche con statue in bronzo, oltre che con opere in altri materiali.

E‟ ancora Plinio a rappresentare l‟indice di gradimento del bronzo e del marmo nella sua epoca. Parlando della statuaria in metallo, infatti, Plinio mostra di apprezzare maggiormente le opere antiche, e cita quelle a lui contemporanee – il colosso neroniano, ad esempio – per evidenziarne lo scadimento rispetto alle produzioni precedenti22. Per l‟autore romano le lodi alle opere in marmo erano riservate a capolavori che si distinguevano per la loro particolare fattura; il Lacoonte spiccava all‟interno della produzione marmorea perché realizzato ex uno lapide23, mentre l‟Afrodite di Prassitele per la particolare vibrazione

cromatica del marmo che rimandava al bianco dell‟incarnato femminile. Dunque in età romana l‟arte bronzistica era ancora particolarmente apprezzata.

Dell‟infinità di statue citate dagli antichi o attestate dal ritrovamento di un‟iscrizione o di un basamento, oggi restano solo pochissimi esemplari quasi mai rinvenuti in giacitura primaria.

Da ciò che si è detto si evidenzia come il bronzo – per gli antichi il terzo metallo più prezioso dopo oro e argento – fosse un materiale più per gli uomini che per gli dèi24, e che dall‟età ellenistica – e poi ancora in epoca romana – fosse impiegato sempre più per una produzione seriale e relativamente economica, forse più prossima a un concetto d‟altissimo artigianato che alla creazione unica di un artista25.

Questa riflessione evidenzia dunque il gap di percezione e di sensazioni davanti all‟opera che c‟è tra noi e gli uomini che quelle statue hanno prodotto e poi ammirato nei contesti originali.

21 LAHUSEN 1999, pp. 36-40. 22

Plin. Nat. Hist., XXXIV, 5;cf. COARELLI 1996, pp. 521-526, LAHUSEN 1999, pp. 36-40.

23

Plin. Nat. Hist. XXXVI, 37-38, sull‟interpretazione del passo di Plinio cf. LIVERANI 2006, pp. 26-27.

24 STEWART 2015, pp. 40-41.

25 Si veda l‟esempio del gruppo equestre romano da Cartoceto, Pergola (PU). Questo, realizzato con la

tecnica di fusione a cera persa a metodo indiretto e rivestito con foglia d‟oro, rappresenta non tanto un‟opera d‟arte quanto un manufatto d‟altissimo artigianato testimonianza della diffusione di immagini monumentali con scopi propagandistici in età tardorepubblicana, DE MARINIS, QUIRI 2007, pp. 23-24.

(11)

11

Oggi per noi il bronzo sottende un valore di eccezionalità, dovuto alla rarità dei suoi ritrovamenti e, come già detto, di probabile autenticità26. Questo nostro modo di intendere l‟opera d‟arte antica ha avuto un suo conseguente riflesso nelle modalità con cui questa è stata presentata nei musei di tutto il mondo. Come si vedrà nei capitoli successivi, le qualità che il mondo moderno e contemporaneo hanno attribuito al bronzo l‟hanno portato talvolta ad essere esposto in uno “splendido isolamento”, volendo utilizzare le parole di Daehner e Lapatin; la cui definizione insiste appunto sull‟isolamento dei pezzi all‟interno dei musei – che per la rarità dei bronzi ne conservano solitamente pochi esemplari, impedendo di instaurare confronti e relazioni tra opere analoghe – e sulle modalità – splendide – con cui sono esposti, e che tendono a valorizzarne l‟intrinseca bellezza ed eccezionalità del pezzo, a discapito talvolta del suo valore storico, archeologico e culturale27.

Il rapporto che i Greci e poi i Romani ebbero con la statuaria in metallo dovette essere estremamente differente da quello che possiamo avere oggi noi contemporanei. La cultura classica, come si è visto, produsse una grandissima quantità di opere in bronzo, anche per mano – o attraverso la bottega – di illustri nomi della storia dell‟arte antica. Dunque anche in antico la produzione di opere in metallo era sicuramente molto apprezzata: ne sono prova le testimonianze dei migliori bronzisti, delle officine, delle statue stesse, nonché la già ricordata ammirazione che Plinio riservava all‟arte bronzistica28. L‟ammirazione e l‟apprezzamento che in età antica si ebbero per la produzione artistica in metallo erano emanazione di una cultura che con questo materiale aveva estrema confidenza, e che seppur lo considerava una delle massime espressioni della tecnica e dell‟arte, non attribuiva comunque a questo alcun valore di rarità o esclusività.

Questa differenza di percezione fra noi e uomini del passato in merito alla statuaria in metallo può essere corretta al momento della realizzazione dell‟allestimento museale.

26 Risultano in questo senso emblematiche le riproduzioni in bronzo di marmi antichi che Francesco I di

Francia commissionò al Primaticcio alla metà del XVI secolo. Pur non essendo ancora a conoscenza delle relazioni tra originali bronzei e copie marmoree, il re di Francia volle nel suo palazzo di Fontainbleau le statue più famose dell‟antichità realizzate non in marmo ma in bronzo, a conferma dell‟apprezzamento per quel materiale, cf. SETTIS 2006, pp. 13 e sgg..

27 DAEHNER, LAPATIN 2015, pp. 21-33.

28 Un‟ulteriore conferma di come in antico il bronzo fosse un materiale estremamente apprezzato e ricercato

proviene dal floridissimo mercato antiquario che in età romana portò numerosissime statue in metallo ad essere spostate dai loro originari luoghi d‟esposizione ai principali centri della romanità, là dove esistette una ricca committenza desiderosa di ornare sia gli spazi pubblici che quelli privati con importantissimi capolavori dell‟arte greca.

(12)

12

Nel prosieguo di questa tesi si vedrà come nel corso del tempo le esposizioni che si sono succedute abbiano frequentemente riflettuto sul valore da attribuire all‟opera musealizzata, sia all‟interno della società che l‟ha prodotta sia nel nuovo contesto del museo.

1.3 Il colore del bronzo

Un altro elemento che differenzia la nostra percezione dei bronzi da quella degli antichi è il colore: come noi oggi vediamo il bronzo è certamente diverso dal modo in cui lo fecero gli uomini del passato29.

La nostra percezione del colore della statuaria in metallo antica è fortemente influenzata dai toni acquisiti dai reperti rinvenuti in contesto di scavo, le cui superfici degradate hanno assunto sfumature diverse dalle originali, e da quelli dei pezzi restaurati in epoca moderna30.

Sono le fonti del Rinascimento, nonché le stesse opere realizzate in quel periodo, a informarci su quali fossero le caratteristiche estetiche al tempo ricercate in un‟opera in bronzo; il Vasari ne Le Vite scrive: “Questo bronzo pigia col tempo per se medesimo un

colore che trae in nero e non in rosso come quando si lavora. Alcuni con olio lo fanno venire nero, altri con l‟aceto lo fanno verde, et altri con la vernice li danno il colore di nero, tale che ognuno lo conduce come più gli piace”31.

Si comprende dunque come un bronzo molto scuro, nero o verde, e con una superficie estremamente lucente rispondesse ai gusti del tempo.

Un esempio che ci mostra come dal momento della scoperta a quello dell‟esposizione il colore del bronzo sia cambiato a causa di restauri mirati ad accordare il tono delle superfici antiche con quello imposto dalle mode del tempo, è quello relativo agli interventi condotti da Camillo Paderni sui materiali provenienti dagli scavi dei siti vesuviani32. Sappiamo che i restauri del Paderni sulle statue in bronzo fecero ampio uso di saldature e suture a caldo che, a causa delle alte temperature del fuoco, eliminarono completamente sia gli strati di corrosione formatisi durante i secoli di seppellimento, sia le patine che originariamente avevano coperto i bronzi, riportando di fatto le superfici al colore che ebbero appena

29 Agli studi sull‟originario colore dei bronzi è dedicata una grande parte della ricerca di Edilberto Formigli.

In particolare si ricordi FORMIGLI 2013 nel quale l‟autore riflette sui rapporti tra colore e luce nella bronzistica antica, cf. DONATI 1995.

30 VLAD BORRELLI 2003, pp. 299-303 con relativa bibliografia. 31 Le Vite, cap. XII, vv. 10 e seguenti; HEILMEYER 1999, p. 19.

32 Camillo Paderni (1715-1781), disegnatore e scultore romano, era stato chiamato a Napoli da re Carlo III di

Borbone per realizzare le illustrazioni dei reperti provenienti dai siti vesuviani; in seguito ottenne anche la curatela del Museo Ercolanense della Villa di Portici e l‟incarico di restaurare i bronzi rinvenuti negli scavi, VASQUEZ GESTAL 2016, pp. 373-400.

(13)

13

terminata la fusione originaria. Tutto ciò rese necessaria una nuova patinatura; nera per i reperti provenienti da Ercolano e verde per quelli di Pompei33. Quando Johann Joachim Winckelmann visitò Napoli nel 1758 e visionò i pezzi restaurati dal Paderni, palesò il suo dissenso giacché questi ultimi interventi avevano definitivamente compromesso le superfici originali delle statue34.

Ancora oggi la natura del colore all‟interno della produzione statuaria antica, non solo nel bronzo, è oggetto di studi e dibattiti. Da quando la visione di una storia dell‟arte monocroma è venuta meno, la ricerca si è sempre più orientata verso la ridefinizione dell‟originale policromia delle opere sia in pietra che in metallo.

Ad oggi non c‟è ancora uniformità d‟opinione tra gli studiosi sul colore delle superfici bronzee originali, alla luce delle difficoltà dovute al naturale stato di alterazione dei manufatti, agli invasivi e distruttivi restauri dei secoli scorsi, nonché alla rarità dei materiali da analizzare.

La lettura delle fonti scritte, congiunta ai risultati delle più recenti analisi archeometriche effettuate sui bronzi in occasioni di mostre o restauri ci può aiutare a immaginare l‟originaria coloritura della statuaria in metallo. I bronzisti dell‟antichità dovettero produrre immagini estremamente vivide, con colori dei corpi e dei dettagli capaci di suscitare un‟ampia gamma d‟emozioni nello spettatore35

. La ricerca di particolari coloriture poteva avvenire sia tramite l‟uso di specifiche leghe metalliche, i cui componenti interni erano capaci di restituire al lavoro finito il tono desiderato, sia grazie all‟impiego di composti da applicare sulla superficie dell‟opera al termine del processo produttivo.

Le ricerche condotte sia sui materiali sia sulle fonti scritte hanno evidenziato la multiformità dell‟originaria coloritura delle opere in metallo, e si hanno prove delle varie tonalità assunte dai bronzi antichi. Lo studio delle rappresentazioni di statue in metallo all‟interno della pittura parietale romana evidenzia un‟importante variabilità nelle tonalità del bronzo: in particolare le colorazioni superficiali maggiormente attestate sono quella dorata, verde e rossa; riguardo a quest‟ultima, si ricordi il passo di Dione Crisostomo, oratore e filosofo greco vissuto tra il I e il II secolo d.C., che attesta l‟esistenza di statue dalle superfici brune come la pelle degli atleti abbronzati36.

33 Come si è visto nel passo del Vasari, già dal Cinquecento anche il verde era un colore estremamente

gradito per il bronzo.

34 VLAD BORRELLI 2003, pp. 90-91; RISSER, SAUNDERS 2019, pp. 29-38. 35 FORMIGLI 2013, p. 1.

36

Alcune tradizioni leggendarie su celebri opere in bronzo quali l‟Atamante di Aristonide o la Giocastra di Silanione affermano che le eccezionali tonalità raggiunte da queste opere dovevano derivare dall‟aggiunta

(14)

14

Sappiamo che già nella Grecia classica la lucentezza del metallo nudo era spenta dall‟applicazione di strati superficiali di rifinitura; Plinio parla di come gli antichi – per lui i Greci – spalmassero le statue con un composto a base di pece proprio per attenuarne la brillantezza. La stessa funzione doveva essere svolta dalla morchia d‟olio d‟oliva, anch‟essa utilizzata nei processi di patinatura37

.

Per le finiture superficiali delle statue i Greci applicavano sul bronzo i già citati composti al fine di proteggere e omogeneizzare la superficie originaria, ma anche per ottenere la tonalità di colore desiderata. Negli anni questo processo poteva essere ripetuto più volte come azione manutentiva dell‟opera, al fine di conservarne intatte le caratteristiche nel tempo.

In epoca romana questa tecnica di trattamento superficiale fu abbandonata per la più veloce patinatura a caldo a base di zolfo38 e a partire dall‟età imperiale si fece sempre più frequente l‟uso di rivestire le statue con una sottile foglia d‟oro39

.

Dunque in antico non dovette esistere un unico colore del bronzo: questo poteva cambiare a seconda della tipologia di manufatto, delle richieste del committente e della volontà dell‟artista, dell‟uso che se ne sarebbe fatto, nonché dell‟epoca in cui questo era realizzato. Quando le fonti greche menzionano il lamprós delle statue antiche non restituiscono informazioni sullo specifico colore delle superfici, ma solo sulla loro indubbia lucentezza. Le poche certezze circa il colore del bronzo antico hanno portato a una serie di ricostruzioni talvolta in profonda contraddizione tra loro, ma che in un certo senso possono in qualche modo riflettere l‟originaria variabilità cromatica. Al Museumslandschaft di Kassel (Germania) è esposta una ricostruzione dell‟Apollo Parnopios così come gli studiosi hanno immaginato dovesse essere in origine; la superficie dell‟opera si caratterizza per un colore del bronzo giallo acceso, quasi tendente all‟oro40. Vinzenz Brinkmann nel

alla lega bronzea di particolari metalli quali ferro o argento, DONATI 1995, pp. 318-319; ZIMMER 2013, p. 57.

Sull‟utilizzo della pittura parietale romana come fonte per lo studio della statuaria antica si veda MOORMANN 1988, in particolare p.85.

37 Plin. Nat.Hist. XXXV, 182; VLAD BORRELLI 2003, p. 283.

38 Tracce di questa modalità di lavorazione sono emerse dalle indagini condotte sulla figura femminile di

Domitilla proveniente da Ercolano; COLLUZZA, FORMIGLI 2013, p. 67; FORMIGLI 2013b, p.53.

39Anche nel caso dei bronzi dorati l‟aspetto che questi hanno oggi può risultare estremamente diverso da

quello che ebbero in origine, questo a causa della perdita della patinatura d‟oro superficiale, dei restauri che nel corso dei secoli si possono essere susseguiti, ma anche dei frequenti interventi di spoliazione del prezioso rivestimento; VLAD BORRELLI 2003, p. 283.

40

La copia è realizzata non in bronzo ma in gesso rivestito da una lamina metallica; FORMIGLI 2013b, p. 49.

(15)

15

realizzare le riproduzioni delle due statue provenienti da Riace ha invece voluto che queste fossero di un color giallo bronzato tendente al marrone41.

La riflessione sull‟attuale cromatismo delle figure in bronzo, il confronto di questo con ciò che la ricerca afferma sulle possibili caratteristiche delle superfici originarie e le considerazioni su quali potettero essere le peculiarità della luce in età antica, non devono restare estranee alla discussione quando si vanno a considerare gli aspetti relativi alla musealizzazione.

Il bronzo è un materiale il cui godimento è molto influenzato dalle caratteristiche della luce, ma più in generale dal contesto ambientale in cui s‟inserisce; la superficie scura e talvolta scabra delle opere tende infatti a assorbire la radiazione luminosa.

Nel seguito di questa tesi si metterà in evidenza l‟importanza che nell‟ambito della musealizzazione di un opera in bronzo rivestono l‟apparato illuminotecnico, i colori dei fondali nonché quelli delle pareti della sala; vedremo dunque come questi elementi, variamente combinati, possano caratterizzare profondamente la natura dell‟esposizione.

41

Le copie realizzate dal Brinkmann sono state pubblicate in Gods in colours. Una prima riproduzione della Statua A era stata presentata in occasione della mostra Serial Classic presso la Fondazione Prada Milano e poi esposta al Fine Arts Museum di San Francisco; BRINKMANN 2017; ARCA, NAPOLITANO 2015. Tra le copie contemporanee di bronzi antichi si deve senz‟altro ricordare anche la ricchissima collezione del Museo Archeologico Nazionale di Stettino (Polonia); in questo caso il colore nero delle statue non deve essere tanto ricondotto a uno studio sulle antiche superfici delle opere quanto piuttosto ai gusti dell‟epoca dal momento che le riproduzioni furono realizzate nel corso del XIX secolo.

(16)

16

II. STORIA DEI RITROVAMENTI E DESTINAZIONE MUSEALE

Le vicende che hanno portato al rinvenimento dei bronzi antichi sono molteplici e si collocano in un arco temporale estremamente ampio. In questo capitolo, non potendo far menzione di tutte le scoperte relative ad opere d‟arte antica realizzate in metallo, si ripercorreranno brevemente i ritrovamenti più celebri che hanno poi permesso a numerosi istituti museali di acquisire alcune delle più importanti e conosciute statue in bronzo dell‟antichità. Nel ricordare le principali scoperte succedutesi nel corso dei secoli – alcune fortuite e occasionali, altre invece esito di una ricerca archeologica mirata – assumeranno particolare rilievo le opere per le quali i dati di scavo hanno contribuito ad arricchirne il patrimonio informativo. La relazione tra l‟opera e il contesto di provenienza è infatti una tematica estremamente importante quando si parla della musealizzazione di manufatti straordinari quali i bronzi antichi. Al momento della realizzazione dell‟allestimento si potrà infatti scegliere di portare il contesto all‟interno delle sale dei museo o di escluderlo totalmente, lasciando dunque che l‟opera si mostri da sola, non tanto come reperto archeologico quanto come monumento dotato in sé di un intrinseco valore. Si comprende quindi come le conoscenze sui contesti di rinvenimento, nonché quelle circa gli ambiti culturali di produzione e provenienza, entrando all‟interno delle sale del museo, possano diventare una componente estremamente importante dell‟esposizione42.

2.1. Medioevo e Rinascimento: Roma e Firenze

Già nel corso del Medioevo si ebbe un contatto diretto con alcune opere in bronzo provenienti dall‟antichità, spesso sopravvissute alle rifusioni che caratterizzarono i secoli della Tarda Antichità e dell‟Alto Medioevo in quanto portatrici di un valore, soprattutto politico, forte e ben percepibile ancora in età medievale. Questo è il caso del Regisole di Pavia, statua equestre in bronzo rappresentante Teodorico, che a partire dal V secolo d.C. fu oggetto di continui restauri e perfino di un totale rifacimento resosi necessario quando, nel 1315, i milanesi distrussero completamente l‟originale43. Allo stesso modo anche la statua equestre di Marco Aurelio sopravvisse alle rifusioni in quanto reinterpretata come

42 Nel corso della tesi si vedrà come i vari istituti museali che hanno avuto occasione di esporre all‟interno

delle loro sale alcune opere in bronzo d‟età antica si sono approcciati in modo differenziato al tema del contesto di rinvenimento, ora dichiarandolo esplicitamente, ora negandolo e dunque anteponendo il valore estetico della scultura a quello di manufatto archeologico. Il tema delle relazioni tra opera, museo e contesto –per ciò che riguarda i bronzi– è ulteriormente complicato dal fatto che un‟altissima percentuale di questi sia stata rinvenuta in circostanze che non hanno poi permesso una più approfondita conoscenza del contesto di ritrovamento.

43

(17)

17

rappresentazione del primo imperatore cristiano, Costantino. Nei Mirabilia, opera sui monumenti di Roma compilata alla metà del XII secolo, si cita il Caballus Constantini, e ancora, nella Vita di Cola di Rienzo – secondo ciò che dice Winkelmann – si fa riferimento a questo monumento esposto davanti al palazzo del Laterano. Secondo l‟archeologo tedesco, la statua dell‟imperatore fu scoperta solo in seguito all‟edizione della biografia di Cola poiché “nella vita del famoso Cola di Rienzo parlasi solamente di questo, che dicesi il

cavallo di Costantino”44

. Certamente agli inizi del XV secolo la figura dell‟imperatore e il

suo cavallo dovevano essere congiunte; Poggio Bracciolini, membro della cancelleria pontificia dal 1403, rileggeva infatti in quegli anni la figura di Costantino come Settimio Severo45.

Un‟altra antica statua in bronzo già nota nel Medioevo è quella dello Spinario (o Cavaspino) di Roma. L‟opera, eclettica, realizzata probabilmente nel I secolo a.C. fondendo modelli di III-II secolo a.C. con riferimenti alla produzione di V secolo a.C., compare per la prima volta nel panorama documentale tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo nel De mirabilibus urbis Romae del Magister Gregorius. L‟autore di questa guida dell‟Urbe, molto più interessato alle antichità pagane piuttosto che ai monumenti della Roma cristiana, afferma di aver visto il bronzo dello Spinario e s‟interroga su come alcuni potessero interpretare il soggetto come un Priapo. Dalle parole del Maestro Gregorio comprendiamo come già – o ancora – nel XIII secolo la statua del Cavaspino fosse visibile presso il palazzo Laterano46.

Nel Medioevo è quindi il palazzo dei papi a delinearsi come il primo luogo di esposizione dei bronzi antichi conservati in città. Qui, oltre allo Spinario e al Marco Aurelio dovevano essere certamente esposti il Camillo (I secolo d.C.), la monumentale testa bronzea dell‟imperatore Costantino – con la sua mano e il globo noto nel Medioevo come Palla

Sansonis –e la Lupa, la cui produzione sembra oggi da posticipare all‟età medioevale47. Sarà poi con il Rinascimento che questa prima collezione lateranense diventerà il nucleo

originario del futuro Museo Capitolino, la cui fondazione è da ricondurre alla “donazione” al popolo di Roma del 1471 con cui Sisto IV trasferì i bronzi di proprietà pontificia dal Laterano al Palazzo dei Conservatori, sede della magistratura civica della città.

44 WINKELMANN 1779, lib. XII, cap. II, p. 315. 45WEISS 1968, p. 74.

46

ivi, p. 8; ALBERTONI et al. 2000, p. 105.

47

(18)

18

Il Marco Aurelio, invece, rimase al Laterano fino al 1538, quando anch‟esso trovò spazio al Campidoglio, nella nuova piazza progettata da Michelangelo48.

Durante il Rinascimento i ritrovamenti di bronzi antichi e le loro acquisizioni nelle grandi collezioni dell‟epoca si fecero più frequenti.

In una lettera conservata negli Archivi Mantovani datata al settembre 1503, Lorenzo da Pavia, liutaio al servizio di Isabella d‟Este a Venezia, ricordava l‟arrivo in città di una statua metallica proveniente da Rodi rappresentante un giovane nudo colto nell‟atto di alzare le mani al cielo come in un‟invocazione. E‟ il primo bronzo antico a essere scoperto nel Rinascimento49.

Il cosiddetto Adorante o Ragazzo che prega – come riportava l‟etichetta apposta sulla copia esposta al Museo Archeologico di Venezia – è un‟opera databile al tardo IV- primo III secolo a.C. e che trova confronto con la produzione artistica di Lisippo. Nel corso della sua storia la statua dell‟Adorante di Rodi ha cambiato più volte il suo luogo d‟esposizione a seguito di vendite, acquisti o cessioni effettuate dalle famiglie che ne detennero la proprietà. Dopo essere stato a Venezia per tutto il Cinquecento – cosa che dette tempo di realizzarne una copia, poi molto apprezzata per tutto il Rinascimento – nei primi decenni del XVII secolo l‟Adorante, passò dalle collezioni dei Bevilacqua di Verona e dei Gonzaga di Mantova, per poi diventare parte delle antichità detenute dai signori più ricchi dell‟Europa settentrionale, tra cui anche re Carlo I d‟Inghilterra. Alla metà del XVIII secolo l‟Adorante compare nella collezione di Federico II re di Prussia esposta nel palazzo di Sanssouci; da questo momento in poi la statua non lascerà più la Germania se non per una breve permanenza parigina tra il 1808 e il 1812. Oggi l‟Adorante di Rodi è esposto presso l‟Altes Museum di Berlino50

.

Tra la fine del XV e il XVI secolo gli interventi urbanistici e architettonici voluti dai papi per ridisegnare il volto di Roma resero necessari scavi e abbattimenti, con la conseguente riscoperta di manufatti ed edifici riferibili alle fasi più antiche della città.

Ancora durante il pontificato di Sisto IV (1471–84) gli interventi condotti nell‟area del Foro Boario portarono alla scoperta di una monumentale statua in bronzo dorato raffigurante Ercole, da riferire forse al tempio dell‟Ercole Vincitore collocato in quell‟area e databile al II secolo a.C. Entrata nelle collezioni civiche della città di Roma, l‟opera fu

48 ALBERTONI et al. 2000, p. 10.

49 Per una più approfondita storia della scoperta dell‟Adorante e delle sue vicende legate al collezionismo

d‟età moderna si veda HACKLÄNDER 1999 e BODON 2005.

50

(19)

19

esposta fin dagli inizi del Cinquecento presso i Musei Capitolini, luogo nel quale si trova ancora oggi51.

Di poco posteriore è l‟acquisizione, ancora da parte dei Musei Capitolini, di un busto bronzeo poi identificato come rappresentazione del primo console della Repubblica: Lucio Giunio Bruto. L‟opera, d‟ignota provenienza e riferibile a una produzione romana di IV-III secolo a.C., fu proprietà del cardinale Rodolfo Pio da Campi fino alla sua morte, avvenuta nel 1561. Fu dunque nel 1564 che il Museo Capitolino acquistò il Bruto, andando ad alimentare quella collezione bronzistica che già si era formata con la donazione papale di Sisto IV52.

Nel corso del Cinquecento anche la corte dei Medici si delineò come importante fautrice del collezionismo di opere d‟arte antica.

La statua bronzea del cosiddetto Arringatore fu scoperta nel 1566 a Pila, presso Perugia e venne poi trasportata a Firenze, dove andò a ornare lo studiolo privato di Cosimo I a Palazzo Pitti 53.

In quegli stessi anni nei territori del Granducato avveniva la scoperta di un altro importante pezzo in bronzo: la Chimera. Questa statua, ritrovata ad Arezzo durante gli scavi per la costruzione di una fortificazione, potrebbe essere riferita a una stipe votiva dedicata alla divinità etrusca Tinia; ne sarebbe prova l‟iscrizione posta sulla zampa anteriore destra dell‟animale. Dopo la sua scoperta, la Chimera fu esposta nel Salone Leone X di Palazzo Vecchio a Firenze, dove rimase fino a quando non fu spostata a Palazzo Pitti; là Cosimo I, come ricorda il Cellini, “ricavava grande piacere nel pulirla personalmente con attrezzi

da orafo”54. Nel 1718, per volere del Granduca Cosimo III la statua fu spostata presso la

Galleria degli Uffizi; quindi dal 1870, in seguito all‟istituzione del Museo Archeologico di Firenze, la Chimera di Arezzo, così come l‟Arringatore, è esposta presso questo istituto. Sempre da Arezzo proviene una statua bronzea di dimensioni più piccole del vero rappresentante Minerva, rinvenuta in frammenti nel 1541 durante alcuni lavori presso la chiesa di San Lorenzo55.

51 GRASSIGLI, MENICHETTI, TORELLI 2008, p. 105; ALBERTONI et al. 2000, p. 17, p. 101. 52 ivi, p. 107.

53 DOHRN 1965, p. 97. 54

NICOSIA 1992, p.54.

55 Le indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza tra il 1895 al 1933 nell‟area, se da una parte

hanno permesso di indagare un contesto pluristratificato all‟interno della città di Arezzo, non sono tuttavia riuscite a chiarire quali dovettero essere gli ambiti d‟uso e rinvenimento della statua. I pareri circa il contesto di rinvenimento della Minerva sono contrastanti, e il fatto che il bronzo sia stato scoperto molti secoli prima dell‟avvio di una vera e propria indagine archeologica non ha certamente facilitato l‟interpretazione dei dati. Se da una parte si è voluto attribuire il bronzo al ricco arredo scultoreo di una

(20)

20

Subito dopo la sua scoperta, la statua fu acquistata da Cosimo I ed esposta presso lo Studiolo di Calliope in Palazzo Vecchio a Firenze. Oggi la Minerva da Arezzo si trova al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, esposta accanto a una copia rappresentante l‟opera dopo il restauro di Francesco Carradori, datato all‟Ottocento e oggi rimosso. Di qualche anno precedente la scoperta della Minerva di Arezzo è il rinvenimento di un‟altra opera che sarebbe poi confluita nelle collezioni d‟antichità fiorentine. Si tratta di una statua in bronzo raffigurante Bacco oggi nota come l‟Idolino di Pesaro, venuta qui alla luce nell‟ottobre del 1530. Inizialmente interpretata come un originale greco, l‟opera si è dimostrata poi essere forse una creazione classicistica datata al tardo ellenismo56.

Prima destinazione dell‟Idolino fu il cortile di Villa Imperiale, una delle residenze dei duchi di Urbino, dove fu esposto su un monumentale basamento in bronzo realizzato da Girolamo, Aurelio e Lodovico Lombardo, e ornato da un‟epigrafe in versi dettata da Pietro Bembo57. L‟Idolino arrivò poi a Firenze nel 1630 come dono di nozze di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, alla nipote Vittoria della Rovere, la quale era andata in sposa al Granduca Ferdinando II Medici58. Come il resto della collezione d‟arte antica granducale, anche l‟Idolino, con la fondazione del Regio Museo Archeologico, è confluito in quest‟ultima istituzione.

Altre due opere in bronzo che appartennero alle collezioni medicee e che rientrarono poi nel Museo Archeologico Nazionale al momento della sua fondazione furono il cosiddetto

Torso di Livorno e la testa equestre cd. Medici-Riccardi. Del primo – torso virile databile

forse al V secolo a.C. –, non si conosce il contesto di ritrovamento; realisticamente fu ripescato in mare davanti alle coste toscane, mentre della testa equestre è noto l‟uso, a patire dal 1672, come elemento di fontana nel giardino di Palazzo Medici-Riccardi59.

residenza privata aretina, alcuni indizi suggerirebbero invece che la Minerva fosse parte di un precedente santuario dedicato proprio alla divinità cf. SALVI, VILUCCHI 2009, pp. 185-186; DONATI 2016, pp. 18-19. 56 RIDGWAY 2002, pp. 187-188. 57 RAVARA MONTEBELLI 2007, p. 21. 58 WINSPEARE 2016, p. 96. 59 CIANFERONI 2006, p. 102; http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amu seiditalia-work_66140

(21)

21

2.2. Il Settecento e i siti vesuviani

La scoperta avvenuta a fine XVIII secolo delle città distrutte dall‟eruzione del 79 d.C. ha rappresentato uno dei momenti salienti di tutta la storia dell‟archeologia.

Pompei, Ercolano, così come Stabia e Oplontis, sono stati tra i primi contesti nei quali gli studiosi del tempo ebbero la possibilità di entrare in contatto con un numerosissimo campionario di materiali ancora collocati in situ.

I primi ritrovamenti relativi ai siti pompeiani si datano alla fine del Cinquecento: tra il 1594 e il 1600, durante i lavori per la realizzazione del canale del Sarno diretti dall‟architetto Domenico Fontana, emersero alcuni materiali, messi poi erroneamente in relazione con una presunta villa di Pompeo.

Sarà poi solo con il Settecento che furono avviate operazioni di scavo più consistenti che portarono alla scoperta prima d‟Ercolano e poi di Pompei. Nel 1709, durante lo scavo di un pozzo in un lotto di terreno di proprietà dei frati agostiniani, fu intercettata quella che si scoprì poi essere la scena del teatro d‟Ercolano. Questa prima importante scoperta portò Emanuele Maurizio di Lorena prima, e re Carlo III di Borbone poi, a promuovere le prime indagini, avviate già nel 173860. Tra le sculture più significative pertinenti al teatro di Ercolano si devono citare i bronzi rappresentanti Lucius Mammius Maximus, ricco liberto e augustale della città, l‟imperatore Tiberio in abiti cerimoniali, nonché le due figure femminili di Livia e Agrippina velato capite61.

Tra il 1750 e il 1761 fu poi esplorata la villa suburbana dei Pisoni di Ercolano, poi detta dei

Papiri per la ricchissima biblioteca di rotuli che ancora conservava intatti. Dal complesso

fu estratta una collezione statuaria composta da 58 bronzi e 21 marmi, per lo più riconducibili a un orizzonte cronologico di I secolo a.C. Questo ricco nucleo di materiali fu in un primo momento esposto presso l‟Herculanense Museum all‟interno della residenza borbonica della Real Villa di Portici; quindi, con l‟istituzione del Real Museo Borbonico di Napoli – inaugurato nel 1816 e oggi museo nazionale – i bronzi della Villa dei Papiri trovarono là la loro destinazione definitiva. Ancora oggi questo ricchissimo nucleo di materiali si trova esposto nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli62.

Tra i bronzi della Villa dei Papiri si ricordano le cinque peplophoroi che andavano a ornare lo specchio d‟acqua al centro del peristilio e che probabilmente imitavano analoghe figure poste nel portico del tempio dell‟Apollo Palatino a Roma63, le quattro erme che ornavano i

60 DE VOS 1982, p. 261. 61 DE CARO 1999,p. 31. 62 DE CARO 1999, p. 62, p. 183. 63 ROLLEY 1994, p. 400.

(22)

22

cantoni dello stesso peristilio, i busti rappresentanti detrattori e sostenitori della monarchia macedone (tra i quali va certamente citato il cosiddetto Pseudo-Seneca). Il peristilio della villa era inoltre luogo d‟esposizione di bronzi dedicati anche ad altre tematiche: al mondo di Dioniso rimandava il Satiro ebbro, replica romana di un originale ellenistico, mentre il ginnasio era evocato dall‟Ermes a riposo, opera eclettica di produzione romana ispirata alla scuola lisippea, e dalla coppia dei corridori, repliche gemelle di un originale di IV secolo a.C. interpretabile come immagine onoraria di un atleta vittorioso64.

A Pompei gli scavi furono avviati nel 1748, quando si cominciò a operare per la messa in luce del teatro. I lavori furono condotti in modo discontinuo almeno fino al 1765 quando, con la scoperta del tempio di Iside, le indagini si fecero sempre più sistematiche. Gli anni della Repubblica Partenopea impressero poi un nuovo impulso agli scavi di Pompei, ed in quel periodo il cantiere vide gli scavatori aumentare da poche decine fino a migliaia di operai65.

Dal tempio di Apollo, il principale luogo di culto della città di Pompei, provengono due figure che in origine dovevano forse far parte di un unico gruppo scultoreo: l‟Apollo

saettante e un busto certamente riferibile ad Artemide armata d‟arco. I due fratelli, figli di

Zeus e Latona, dovevano essere raffigurati nell‟atto di uccidere con i dardi i figli di Niobe66.

Più tarda (1830-1832) è invece la scoperta della cosiddetta Casa del Fauno, la più grande

domus rinvenuta a Pompei. Da questo complesso, oltre che un importantissimo nucleo di

mosaici, proviene il noto Fauno danzante, bronzetto di II secolo a.C. che doveva ornare l‟impluvium al centro dell‟atrio e al quale si deve anche la moderna denominazione della casa67.

2.3. L’Ottocento e la nascita dell’archeologia

Nel corso del XIX secolo si registrarono nuovi importanti ritrovamenti di sculture monumentali realizzate in bronzo. Grazie ad un nuovo approccio all‟antichità sempre più scientifico, e che di fatto trasse fuori dall‟antiquaria la nuova disciplina archeologica, a partire dall‟Ottocento le informazioni circa i contesti di rinvenimento risultano sempre più consistenti.

Nel 1822 furono avviati gli scavi del Capitolium della città di Brescia, voluti dalla Municipalità e condotti dall‟Ateneo locale. Queste indagini portarono nel 1825 alla

64 ROLLEY 1994, pp. 183-187. 65 DE VOS, DE VOS 1982, pp. 18-19. 66 DE CARO 1999, p. 127. 67 ivi, p. 72.

(23)

23

scoperta di un consistente nucleo di manufatti in bronzo nel quale, accanto a cornici e oggetti di vario genere, vi erano 6 ritratti dorati e una figura femminile alata più grande del vero, accuratamente smontata in tutte le sue parti. Pochi giorni dopo la scoperta, i bronzi furono esposti presso il “ginnasio convitto Peroni, nel fu Convento di S. Domenico”, per “la necessità di metterli in luogo sicuro come pure la convenienza di appagare la

ragionevole curiosità degli abitanti”, come si legge nei verbali dell‟epoca68.

La statua femminile, rappresentante una Vittoria alata nell‟atto di scrivere sullo scudo di Marte oggi perduto, fu inizialmente interpretata come pastiches realizzato a partire da un bronzo di età ellenistica (III secolo a.C.) rappresentante Afrodite nell‟iconografia dell‟Afrodite Urania, al quale nel corso del I secolo d.C. furono aggiunti gli attributi delle ali e dello stilo per scrivere. Oggi l‟ipotesi di una statua che rappresenti l‟esito di una rielaborazione di età flavia di un originale ellenistico sembra essere decaduta e si predilige una lettura che colloca la realizzazione dell‟opera in epoca giulio-claudia. Probabilmente il bronzo arrivò a Brixia come dono celebrativo del nuovo imperatore Vespasiano, vincitore a Cremona sugli altri pretendenti al trono Vitellio e Ottone.

Con il 1830 si conclusero gli interventi di restauro condotti nell‟area del Capitolium bresciano, che ebbero come risultato la definizione di tre vani chiusi da riservare all‟esposizione museale delle antichità cittadine.

In quello stesso anno la Vittoria, insieme al ricco patrimonio di manufatti in bronzo rinvenuti nel medesimo contesto, nonché ai 6 busti in metallo dorato, fu esposta nelle nuove sale del Capitolium cittadino, dove rimase fino al 1998, anno dell‟istituzione del nuovo museo della città nell‟ex monastero di Santa Giulia69.

Nel 1832, qualche anno dopo la scoperta della Vittoria, nelle acque davanti al promontorio di Populonia fu rinvenuto il cosiddetto Apollo di Piombino, forse rimasto intrappolato nelle reti di un pescatore; circa la scoperta della statua, le fonti dell‟epoca sono relativamente scarse e, indicando genericamente come luogo del ritrovamento il mare che bagna la costa toscana, non permettono di circoscrivere maggiormente l‟areale del recupero.

68 BONARDI 1937, p. 332.

69 ivi, p. 336; Ad oggi (2019) sono in corso i lavori che porteranno entro il 2020 alla realizzazione di un

nuovo allestimento per la Nike di Brescia, ora non più all‟interno del Museo della Città ma nuovamente in una delle tre celle del Capitolium cittadino. Nel corso del seguente capitolo si affronteranno più approfonditamente le tematiche relative sia all‟ultimo allestimento della Vittoria, sia alla prossima esposizione all‟interno dell‟area archeologica.

(24)

24

Due anni dopo la sua scoperta, il Museo del Louvre acquistò il pezzo pagando al proprietario, un privato del quale tuttavia non si conosce con certezza il nome, 16 000 franchi. Dal 1834 Parigi è dunque sede stabile dell‟esposizione dell‟Apollo di Piombino70. La datazione di questo bronzo è stata per molto tempo oggetto di dibattito. Inizialmente l‟Apollo era stato riferito al primo o all‟ultimo quarto del V secolo a.C. Il rinvenimento durante i restauri del 1960 di una lamina in piombo posta all‟interno delle terre di fusione della statua e recante il nome di Menodotos di Tiro, artista attivo a Rodi nel I secolo a.C., suggerì agli studiosi un possibile restauro in antico effettuato su un bronzo di V secolo a.C. Oggi, tuttavia, la maggior parte degli esperti considera l‟Apollo un‟opera eclettica realizzata in stile tardo-arcaico dallo stesso Menodotos nel corso del I secolo a.C.71.

Circa dieci anni prima della scoperta dell‟Apollo di Piombino, un altro Apollo emergeva dagli scavi di un teatro romano dall‟altra parte dell‟Europa. Nel 1823 a Lillebonne – Iuliobona per i romani– cittadina della Normandia vicino Rouen, veniva scoperta una statua in bronzo dorato di dimensioni maggiori del vero rappresentante il dio greco.

L‟opera fu datata al II secolo d.C. e attribuita a maestranze lionesi fortemente influenzate dalla produzione greca di IV secolo a.C.

Dopo la scoperta, l‟Apollo di Lillebonne fu acquistato da un mercante d‟arte inglese che prima tentò di venderlo al British Museum, per poi però cederlo nel 1853 al Louvre di Parigi, dove è ancora oggi esposto72.

Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del XIX secolo furono rinvenute due statue in bronzo, poi diventate estremamente note, che andarono ad alimentare due tra le principali collezioni dei Musei Vaticani: il Museo Gregoriano Etrusco e il Museo Pio Clementino. Nel 1835 a Todi, in Umbria, fu trovata una statua in bronzo a grandezza naturale rappresentante un guerriero intento a compiere riti propiziatori prima della battaglia. La figura, detta poi Marte, presentava un‟iscrizione dedicatoria in lingua umbra trascritta però con alfabeto etrusco: Ahal Trutitis dunum dede [trad: (la statua) la dette in dono Ahal Trutitis]. L‟opera è probabilmente da datarsi al terzo quarto del V secolo a.C.; dal punto di vista stilistico presenta alcune affinità sia con modelli fidiaci che policletei, e se ne è ipotizzata la produzione in ambito volsiniese73. La statua fu rinvenuta adagiata all‟interno

70 DE TOMMASO 2005, pp. 219-221.

71 ROLLEY 1994, p. 341; VLAD BORRELLI 2003, p. 26. 72

TAILLEZ 1982, pp. 81-88.

73

(25)

25

di una cassa in lastre di travertino; il bronzo non fu quindi abbandonato ma rispettosamente sepolto, forse dopo che un fulmine lo aveva colpito.

Nel 1837 il Governo Pontificio acquistò il Marte di Todi per esporlo all‟interno del nuovo Museo Etrusco Vaticano voluto da papa Gregorio XVI (oggi Museo Gregoriano Etrusco), dove si trova attualmente74.

Gli stessi motivi che portarono nel corso dell‟antichità al volontario seppellimento della statua del Marte sono condivisi anche da un altro bronzo rinvenuto a Roma nel 1864. L‟Ercole del teatro di Pompeo, così denominato data la prossimità del luogo di recupero con l‟antico edificio per spettacoli, fu rinvenuto al di sotto del cortile di palazzo Pio Righetti, vicino Campo dei Fiori e poco dopo fu donato a papa Pio IX. La statua, un bronzo dorato di dimensioni più grandi del vero, presenta confronti con la produzione attica di IV secolo a.C. ed è stato datato tra il I e il II secolo d.C. Al momento della scoperta, l‟Ercole si presentava inserito all‟interno di una cassa di travertino sul cui coperchio si trovava un‟iscrizione: fulgur conditum summanium. La statua era stata colpita da un fulmine e per questo sepolta. Il bronzo dell‟Ercole del teatro di Pompeo è sempre stato esposto a Roma; oggi si trova all‟interno della Sala Rotonda del Museo Pio Clementino, uno dei complessi più ampi dei Musei Vaticani.

Ancora di ambito romano sono gli scavi che alla fine del XIX secolo portarono alla scoperta di alcune opere in bronzo confluite poi nella nuova istituzione del Museo Nazionale Romano, inaugurata nel 1889.

Nel 1885, durante gli scavi condotti per la costruzione del Teatro Drammatico Nazionale in via Nazionale (oggi via IV novembre),75 laddove in antico erano le Terme di Costantino, furono messe in luce due statue di bronzo: il cosiddetto Principe ellenistico e il Pugilatore o Pugile delle Terme.

Sulla datazione e sull‟attribuzione autoriale delle due opere si è molto discusso. In un primo momento il Pugilatore fu associato al nome dello scultore ateniese Apollonios, attivo nel corso del I secolo a.C., alla luce delle incisioni, forse casuali, poste su un caestus dell‟atleta interpretate come firma dell‟autore. L‟ipotesi sembrava avvalorata dall‟identificazione di certi segni, letti come un‟alpha e un‟A capitale, individuati sul corpo

74 SERRA RIDGWAY 2001, p. 363. 75

Oggi il Teatro Drammatico Nazionale non esiste più. Nel 1929 l‟istituzione fu definitivamente chiusa e nel 1934 al suo posto fu costruito il nuovo palazzo dell‟INAIL.

(26)

26

del Pugilatore, nonché dalla somiglianza con il Torso del Belvedere76. Successive indagini hanno tuttavia smentito l‟esistenza di tali iscrizioni impresse sulla superficie del bronzo77

. Sebbene ad oggi non sembra esservi uniformità circa l‟attribuzione del Pugilatore a una particolare personalità della storia dell‟arte antica, l‟archeologo Paolo Moreno è propenso a riferire l‟opera alla mano di Lisippo78.

Per ciò che riguarda il Principe ellenistico, sono state evidenziate corrispondenze con modelli classicheggianti altresì attestate nell‟Alessandro con lancia anch‟esso attribuito all‟opera di Lisippo, e la sua datazione oscilla tra il II e il I secolo a.C. Nel Principe

ellenistico si sono voluti leggere più personaggi. Secondo l‟interpretazione maggiormente

accreditata, questa figura doveva raffigurare un sovrano o generale ellenistico di II secolo a.C. prima della sua ascesa al trono, forse Alessandro I Balas o Antioco I di Siria.

Altre ipotesi interpretano invece le figure del Principe e del Pugilatore come parti di un gruppo statuario più ampio, del quale alcuni personaggi sarebbero andati perduti. Secondo questa teoria nel pugile a riposo si dovrebbe leggere Amykos, re dei Bebrici contro il quale si batté Castore, mentre il bronzo in piedi rappresenterebbe Polluce. Di questo ipotetico gruppo mancherebbe quindi proprio la figura di uno dei due Dioscuri.

Il combattimento tra Amykos e Castore era interpretato dagli antichi come rappresentazione simbolica della vittoria romana su Mitridate. Secondo questa lettura, nella figura del pugile/Amykos si dovrebbe dunque intravedere proprio il re del Ponto. Il

Principe rappresenterebbe allora Silla, e l‟ipotetica figura di Castore l‟effettivo vincitore di

Mitridate, Lucio Licinio Lucullo. Quest‟ipotesi non è stata uniformemente accettata e i detrattori l‟hanno messa in discussione, evidenziando le differenze stilistiche tra i due bronzi.

Paolo Moreno interpreta la figura del Principe come Tito Quinzio Flaminio, generale il cui trionfo fu celebrato nel 194 a.C. proprio con la dedica di una statua all‟interno del Circo Flaminio. La possibile associazione tra la figura del Principe e quella di T. Quinzio Flaminio sarebbe resa possibile da alcuni ritratti monetari del generale romano che, secondo Moreno, trovano confronti con la fisionomia del volto della statua bronzea79. Ad oggi, quindi, non sembra esservi uniformità nella lettura delle due figure, e poco si sa anche della loro collocazione originaria a Roma. L‟unica cosa certa è che in un

76 Il Torso del Belvedere è attribuito all‟opera dello scultore Apollonios seppur in qualità di copista; VASORI

1979, pp. 194-198.

77 MORENO 1996. 78

ROLLEY 1999, p. 338; COLACCHI ALESSANDRI, FERRETTI, FORMIGLI 2013, p. 26.

79

Riferimenti

Documenti correlati

It is well known that the power electronic converters play an important role in the hybrid micro-grids in the context of conversion, generation, distribution and power flow control

© The Author(s). European University Institute. Available Open Access on Cadmus, European University Institute Research Repository... The number of non-profit

Psoriatic Arthritis Response Criteria (PsARC), ACR response criteria (20, 50 e 70%) and EULAR response criteria based on Disease Activity Score (DAS) were used to assess joint

(Figure 1), one of the most potent known hDHODH inhibitors, to induce in vitro and in vivo differentiation in mouse AML models, (3) highly encourages researches to design

In the context of the complex debate on the formation of the gentes of the period of the Migrations, the ethnogenesis of the Germanic populations has been attributed to

Giovanni Tabacco, La relazione fra i concetti di potere temporale e di potere spirituale di ogni parte d’Europa e la sede apostolica tendono a impoverire il regno di quel

This paper presents statistical methods which face these problems and analyze the geographical pattern of the spatially ref- erenced socio-economic data by incorporating the

Alcuni liberti, con la funzione di actores ossia rappresentanti legali, della inlustris femina Gundihild – una nobildonna di evidente estrazione gota – presentano