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I distretti industriali come sistemi locali di innovazione: il caso del Distretto Conciario di Santa Croce sull'Arno

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Academic year: 2021

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SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO I - IL DISTRETTO INDUSTRIALE ... 7

1.1 IL DISTRETTO INDUSTRIALE E IL MADE IN ITALY ... 7

1.2 LA “SCOPERTA” DEI SISTEMI LOCALI DI PRODUZIONE ... 15

1.2.1 Il distretto marshalliano e le caratteristiche distintive di un sistema distrettuale ... 17

1.2.2 Il contributo di Becattini ... 22

1.2.3 Economie di localizzazione e scelte di esternalizzazione ... 25

1.3 IL CONCETTO DI NETWORKING O CLUSTERING ... 28

1.3.1 Il distretto ceramico di Modena e di Reggio Emilia ... 35

1.3.2 Il distretto cartario della Piana di Lucca ... 38

1.3.3 La nautica da diporto in Toscana ... 43

1.3.4 Il caso Silicon Valley ... 51

CAPITOLO II - I DISTRETTI INDUSTRIALI COME SISTEMI LOCALI DI INNOVAZIONE ... 55

2.1 LA STRATEGIA DI SPECIALIZZAZIONE PRODUTTIVA ... 55

2.2 IL VALORE DEL TERRITORIO NEI PROCESSI DI INNOVAZIONE ... 57

2.3 IL TRANSFER KNOWLEDGE TRA LE AZIENDE DISTRETTUALI ... 59

2.3.1 Stati della conoscenza e processi di esplicitazione ... 62

2.3.2 Trasferimento replicativo e adattamento della conoscenza ... 65

2.3.3 Absorptive capacity ... 70

2.3.4 La produzione di nuova conoscenza all’interno dei distretti ... 75

2.4 LO SPIN-OFF REPLICATIVO ED INNOVATIVO ... 78

2.5 L’APERTURA COGNITIVA DEI DISTRETTI NEI CONFRONTI DELL’AMBIENTE ESTERNO ... 80

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2.6 IL MOTORE DELLA CO-PRODUZIONE DEL VALORE ... 84

2.7 L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA COME FONTE DEL VANTAGGIO COMPETITIVO DELL’IMPRESA INDUSTRIALE ... 88

CAPITOLO III - IL DISTRETTO DEL CUOIO E DELLA PELLE DI SANTA CROCE SULL’ARNO91 3.1 L’INDUSTRIA CONCIARIA ITALIANA ... 91

3.2 BREVE DESCRIZIONE DEL DISTRETTO DI SANTA CROCE SULL’ARNO ... 97

3.3 I FATTORI DI SUCCESSO DEL DISTRETTO ... 101

3.4 GLI ATTORI LOCALI ... 106

3.4.1 Concerie ... 110

3.4.2 Conceria Mario Stefanelli & Figli S.r.l... 113

3.4.3 Lavorazioni conto terzi ... 116

3.4.4 Costruttori di macchine ed attrezzature per conceria... 118

3.4.5 Azienda Meccanica Italprogetti SpA... 121

3.5 IL DISTRETTO DAL LOCALE AL GLOBALE NEL CONCETTO DI MERCATO E DI INNOVAZIONE ... 126

3.6 L’INCIDENZA DELL’IMPRENDITORIALITÀ E MANAGERIALITÀ SULL’INNOVAZIONE ... 132

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ... 136

RINGRAZIAMENTI ... 140

INDICE DELLE FIGURE ... 141

INDICE DELLE TABELLE ... 142

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ... 143

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INTRODUZIONE

La struttura produttiva italiana ed il suo modello di sviluppo industriale hanno evidenziato sin dall’origine elementi di diversità, se non “anomalie” rispetto ai modelli esistenti nelle altre economie occidentali. La condizione di diversità maggiormente evidente è legata alla ridotta presenza nel nostro apparato produttivo di imprese di grandi dimensioni e alla notevole diffusione di piccole e medie imprese. Nonostante una tale struttura venga comunemente reputata inefficiente ai fini di un decisivo contributo alla crescita economica e non idonea ad affrontare la competizione internazionale, ad oggi possiamo notare il grande successo di tale modello e i grandi frutti che ha portato al sistema produttivo italiano.

Il processo di industrializzazione ha avuto avvio in Italia nel dopoguerra. Con tale processo il nostro paese ha visto la diffusione di molteplici specializzazioni localizzate sui vari territori e regioni. La crisi della produzione di massa e i seguenti cambiamenti nello scenario competitivo hanno portato ad un nuovo modello di industrializzazione, basato su un processo produttivo integrato e coordinato non più internamente dall’azienda, ma dall’esterno, a livello territoriale. È così che il distretto industriale (DI) si è affermato nel panorama economico-produttivo italiano generando un modello di sviluppo industriale “originale” che si è tradotto in performance di lungo periodo alquanto apprezzabili1. Una vasta letteratura ha sottolineato come tali risultati siano maggiormente riconducibili ad una serie di “economie esterne” (consistenti in economie di agglomerazione) che si generano quando le piccole e medie imprese decidono di localizzarsi in zone specifiche assumendo una struttura di “gruppo”, qualificata appunto come “distretto industriale”, una delle forme più diffuse e originali di struttura organizzativa che ha caratterizzato la crescita italiana a partire dalla seconda metà degli anni ‘90.

Il presente lavoro si articola in tre parti e si sviluppa allo scopo di comprendere il vantaggio competitivo dei sistemi distrettuali e le cause dello sviluppo dei DI e del loro grande successo nel sistema produttivo italiano. Adottando una prospettiva di analisi

1 GURRIERI A., LORIZIO M., Distretti industriali, Progresso tecnico e Crescita economica, giugno 2002.

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che riconosce il DI come un contesto, più precisamente un meta-contesto, caratterizzato da un’alta densità di luoghi in cui si producono conoscenze (rappresentati dai singoli contesti aziendali) e da un’altrettanto elevata densità di canali interni di trasferimento della conoscenza2, è possibile interpretarlo come sistema locale di innovazione. Potendolo considerare tale, il fine ultimo dell’elaborato sarà quello di capire come concettualmente l’innovazione si genera nei sistemi locali di produzione e quanto questo risulta importante ai fini della continuità e della competitività globale del distretto stesso. Analizzando inoltre i cambiamenti nello scenario competitivo mondiale, si prende in esame il problema delle sfide che molti distretti si trovano ad affrontare e delle trasformazioni in atto nei sistemi distrettuali.

Il primo capitolo mira ad analizzare le tipicità del sistema economico italiano, soffermandosi sulle caratteristiche del modello di sviluppo locale basato in Italia sui distretti industriali e la loro crescente importanza per l’intero sistema economico. Dopo un breve esame delle specializzazioni del Made in Italy, si illustra inoltre il grande contributo che tale marchio ha nella realtà italiana come marchio d’origine universalmente riconosciuto e che diffonde la qualità, la creatività e lo stile delle produzioni esclusive italiane.

L’analisi prosegue poi sulle origini del concetto di Distretto Industriale, che affonda le proprie radici nei lavori di A. Marshall (1890)3 e che sarà ripreso ed approfondito dai molteplici studiosi italiani. Infatti dopo il contributo teorico ed empirico di G. Becattini la letteratura si è arricchita nel corso degli anni anche dei contributi di autori come Bellandi, Dei Ottati, Brusco, Triglia ed altri.

In seguito l’elaborato propone una differenziazione dei cluster o sulla base della morfologia distrettuale oppure sulla base del core business. Tale distinzione permette di analizzare a livello teorico con maggior dettaglio somiglianze e differenze di ciascuno di essi, proponendo a titolo di esempio la descrizione (anche se di natura generale e non esaustiva) di alcuni distretti italiani (il distretto ceramico di Modena, il distretto cartario della Piana di Lucca, la nautica da diporto in Toscana) ed esteri (il caso di Silicon Valley).

2CAMUFFO A., GRANDINETTI R., I distretti industriali come sistemi locali di innovazione, Sinergie

Italian Journal of Management, 2006.

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Basandomi sui recenti studi che vedono i DI come sistemi cognitivi, la seconda parte di questo lavoro sviluppa un quadro concettuale che si propone di spiegare la produzione della conoscenza all’interno dei sistemi distrettuali, e le sue modalità di trasferimento tra i molteplici attori locali. Inoltre si affronta la tesi del nuovo scenario competitivo in cui sono collocate le aziende distrettuali, che spinge inevitabilmente all’apertura cognitiva dei distretti nei confronti dell’ambiente esterno. Infatti nell’attuale contesto economico, per rendere la propria competitività perdurante nel tempo e per continuare ad operare come sistema locale di innovazione, ogni distretto si trova ad interagire con un ambiente molto più ampio rispetto al contesto locale di riferimento.

Infine la terza parte si prospetta di analizzare più da vicino il distretto del cuoio e della pelle di Santa Croce sull’Arno. Il capitolo 3 si apre con una panoramica dell’industria conciaria italiana, soffermandosi sulla sua struttura (numero di aziende, valore produttivo, valore export, ecc.), sulle origini della pratica conciaria e sulle modalità di concentrazione della produzione conciaria nelle varie regioni italiane. Si sottolinea come l’industria conciaria detenga una leadership a livello globale forte e consolidata per l’innovazione tecnologica, la qualità e l’inventiva stilistica; e come la pelle italiana rappresenti le caratteristiche chiave del Made in Italy, ovvero la qualità, la bellezza, lo stile e la capacità di far tendenza.

Si prosegue con una breve descrizione del distretto di Santa Croce, dove si illustrano i principali dati del distretto, le modalità di approvvigionamento e le capacità produttive ed imprenditoriali del settore. Si pone poi l’attenzione sui fattori critici di successo di tale distretto, allo scopo di indagare sulle qualità intrinseche del sistema locale di produzione e quindi sulle caratteristiche a cui il distretto si è aggrappato per sfuggire all’attuale crisi economica e alla diminuzione delle performance degli anni passati. L’illustrazione di tutti questi aspetti aiuta il lettore a comprendere i vantaggi della prossimità territoriale e produttiva delle aziende del sistema distrettuale santacrocese, ed i processi di creazione e trasmissione della conoscenza e quindi dell’innovazione.

Questo capitolo inoltre dà una breve spiegazione di quali sono i principali attori locali presenti nel distretto di Santa Croce e quali sono le loro esigenze in funzione del settore di attività di appartenenza (concia, rifinizione, produzione attrezzature), oltre ad analizzare i fattori di successo di ciascuno di essi. È stato utile avere un riscontro

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diretto4 da parte dei soggetti coinvolti quotidianamente nelle attività del distretto per comprendere l’effettiva importanza/vantaggio dell’appartenenza ad un sistema distrettuale, e come la dinamicità e l’innovazione siano il cardine della competitività e della resistenza dei vari attori locali di fronte alla crisi.

In conclusione, viene proposta una riflessione sul passaggio del distretto da una dimensione locale ad una globale, sia dal punto di vista del mercato di riferimento sia di quello dell’innovazione. Inoltre si spiega come, nonostante il ruolo sempre più importante assunto dalle grandi aziende e delle forme di governo aziendale di tipo manageriale, all’interno del distretto di Santa Croce sull’Arno l’innovazione è soprattutto frutto della presenza di imprenditorialità marcata, che garantisce maggiore ricerca dell’innovazione all’interno del sistema locale e maggiore fiducia nei progetti innovativi rischiosi, frutto spesso delle idee dell’imprenditore stesso.

4 Interviste a: Azienda Meccanica Italprogetti SpA, Conceria Mario Stefanelli & Figli S.r.l, Rifinizione Pellami Iperfinish S.r.l.

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CAPITOLO I - IL DISTRETTO INDUSTRIALE

1.1 IL DISTRETTO INDUSTRIALE E IL MADE IN ITALY

L’interesse per il distretto industriale è legato al dibattito intorno al ruolo della piccola impresa nell’economia italiana. Un problema che già all’epoca del “miracolo economico” era rilevante nella realtà, ma che la teoria corrente d’allora - ancorata alle sole economie interne come fonte di efficienza della produzione - non poteva né riteneva necessario spiegare (Brunelli, 2014, p.8).

In seguito, dalla fine degli anni ‘70, gli studi economici e manageriali si sono incentrati molto su tale tematica, soprattutto in paesi, come l’Italia, caratterizzati da una larga diffusione della piccola e media impresa. Queste teorie si diffondono soprattutto con il definivo declino dei modelli organizzativi riconducibili alle teorie classiche dell’organizzazione, come quella dell’organizzazione scientifica del lavoro (Scientific

Management). Con la crisi del Taylorismo, dovuta alla saturazione dei mercati e

all’aumento della concorrenza e dell’insoddisfazione dei lavoratori, nasce l’esigenza di implementare un sistema produttivo nuovo che sia attento alla flessibilità, alla valorizzazione dei lavoratori e alla qualità.

Inoltre, il riconoscimento giuridico del distretto industriale (L. 317/91) e i provvedimenti di politica economica che ne sono derivati hanno definitivamente contribuito a rendere popolare il termine “distretto industriale”, facendolo diventare un’espressione del linguaggio corrente5.

I Distretti Industriali (DI) rappresentano la caratteristica principale del sistema produttivo italiano, che si differenzia per tale peculiarità dai sistemi produttivi dei paesi ad avanzato livello di sviluppo. Gli elementi fondanti dei nostri distretti sono: un’imprenditorialità vivace e diffusa, il grande dinamismo delle piccole e medie imprese, la loro presenza capillare sul territorio, le loro specificità territoriali oltre ad

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una elevata specializzazione produttiva nei settori tradizionali6 e nella meccanica leggera. Essi sono strettamente legati al cosiddetto “Made in Italy”, ovvero ai prodotti7 di un complesso di settori fortemente associati all’immagine del nostro paese nel mondo, quale essa appare attraverso i media8.

Le originarie specializzazioni artigianali presenti a livello locale su tutto il territorio italiano, anche se in maggior misura nel Nord e nel Centro, si sono evolute con gli anni, dando vita a delle realtà produttive locali capaci di conseguire posizioni di assoluta preminenza in termini di quote di mercato mondiale. Si potrebbe affermare che i Distretti rappresentano le “multinazionali” italiane.

Sulla base delle rilevazioni ISTAT (2015), nel nostro paese sono stati individuati circa 141 distretti industriali9, alcuni dei quali di grandissime dimensioni e specializzati in tutta la gamma dei settori manifatturieri tradizionali. Essi costituiscono circa un quarto del sistema produttivo del Paese, in termini sia di numero di sistemi locali del lavoro (il 23,1% del totale), sia di addetti (il 24,5% del totale), sia di unità locali produttive (il 24,4% del totale). L’occupazione manifatturiera distrettuale rappresenta oltre un terzo di quella complessiva italiana, in linea con quanto osservato 10 anni fa. All’interno dei distretti industriali risiede circa il 22% della popolazione italiana.10

Ogni distretto, in media, è costituito da 15 comuni (13 nel 2001), abitato da 94.513 persone (67.828 nel 2001) e presidiato da 8.173 unità locali (6.103 nel 2001) che assorbono 34.663 addetti (26.531 nel 2001).

Complessivamente, i distretti italiani sono presenti in 15 regioni: in Lombardia (29 distretti) e in Veneto (28 distretti) sono presenti il maggior numero dei distretti, all’incirca il 40% rispetto al totale; poi seguono le Marche (13,5%), la Toscana (10,6%) e l’Emilia Romagna (9,2%); i distretti del Mezzogiorno rappresentano il 14,9% dei distretti italiani; mentre sono meno diffusi nelle regioni come Liguria e Lazio e del tutto assenti nelle province autonome (Valle d'Aosta, Bolzano, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia).

6 I settori tradizionali: tessile-abbigliamento, pelli-calzature, legno-mobilio ecc.

7 Prodotti che costituiscono il “Made in Italy”: beni ad uso ripetuto, non di vasta serie, per la persona; i prodotti alimentari che fanno parte della “dieta mediterranea”; gli apparecchi meccanici e le macchine specializzate; prodotti di arredo-casa ecc.

8 SCHILIRO’ D., I distretti industriali in Italia quale modello di sviluppo locale: Aspetti evolutivi,

Potenzialità e Criticità, luglio 2008, p.12.

9 Si evidenzia una riduzione di 40 unità rispetto alla rilevazione del 2001.

10 ISTAT (2015), dove si fa riferimento ai dati delle unità economiche rilevati nel 2011 attraverso il 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi.

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Figura 1. Distretti industriali per tipologia produttiva

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I distretti del Made in Italy invece sono 130, ben il 92,2% dei distretti industriali del Paese, e sono maggiormente presenti nei settori della meccanica (il 27,0%), tessile-abbigliamento (22,7%), beni per la casa (17,0%) e pelli, cuoio e calzature (12,1%)11. Anche se possono essere considerati tradizionali, in quanto legati ad una lunga tradizione storica di eccellenza, sono al tempo stesso ad elevato valore aggiunto, innovativi (soluzioni organizzative e tecnologie sempre nuove) e complessi (soggetti a cambiamenti repentini a cui bisogna continuamente adattarsi).

L’espressione Made in Italy è diventata col tempo qualcosa di più importante di un semplice marchio d’origine: è divenuta un sinonimo di qualità ed affidabilità universalmente riconosciute. È un marchio collettivo che richiama alla mente l’immagine esclusiva delle produzioni italiane, la creatività degli imprenditori e lo stile di vita italiano.

Esaminando più da vicino le specializzazioni del Made in Italy e trascurando per semplificazione realtà di rilievo in settori come la chimica, l’automobile, la gomma e molti altri, possiamo affermare che l’Italia presenta sei grandi aree di attività (quattro manifatturiere e due terziarie) che la elevano ai vertici mondiali.

Esse sono:

❖ i beni per la persona, cioè tessile-abbigliamento, pelli-calzature, oreficeria-gioielleria, occhialeria;

❖ i beni per la casa, cioè legno-mobilio, piastrelle-ceramiche, pietre ornamentali, lampade e illuminotecnica;

❖ gli apparecchi meccanici destinati alla casa, come elettrodomestici, rubinetteria, caldaie, ferramenta; le macchine specializzate, come macchine tessili, per imballaggio, per l’industria alimentare, per la lavorazione delle pelli, del legno e delle materie plastiche; oltre alle moto, biciclette e imbarcazioni;

❖ i prodotti tipici del comparto agro-alimentare.

11 ISTAT (2015), dove si fa riferimento ai dati delle unità economiche rilevati nel 2011 attraverso il 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi.

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Figura 2. Distretti industriali per specializzazione. Anno 2011, valori assoluti e percentuali

(ISTAT, 2015)

A questi comparti andrebbero poi aggiunti quelli del turismo e della valorizzazione del patrimonio artistico-architettonico-archeologico, ricompresi nelle attività del settore terziario.

Un aspetto che colpisce molto è lo scarso numero in Italia di grandi gruppi o di grandi imprese sia nell’industria manifatturiera che nei servizi. Nel Paese prevale la dimensione aziendale medio-piccola, che ha complesse origini storiche e che ha segnato così la fragilità del grande capitalismo famigliare italiano, che aveva avuto i suoi grandi successi nel passato, ma che non ha poi saputo superare efficientemente la sfida della innovazione e della concorrenza. Ma nonostante tutte queste difficoltà l’Italia non ha perso la sua identità industriale. Nell’esperienza italiana i distretti sono stati la risposta “spontanea” di un sistema economico “periferico” ricco di grandi potenzialità, ma sostanzialmente ignorato da una politica industriale dapprima dirigista e poi assenteista (Quadrio Curzio e Fortis, 2005).

Il Distretto è un’espressione congiunta della società e dell’economia, come forma comunitaria, aggregativa, sociale, solidale. Nel momento di crisi delle grandi imprese pubbliche e private, negli anni Settanta e Ottanta, le PMI italiane sono riuscite ad attuare nei fatti il principio di sussidiarietà orizzontale. Questo ha consentito di trasformare l’unione di molte debolezze in forza.

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Nei distretti le imprese si dividono i compiti, alla stregua delle grandi imprese, ma con una flessibilità maggiore, grazie all’utilizzo dello specifico contesto territoriale. Inoltre, essi sono caratterizzati dall’integrazione orizzontale delle piccole e medie imprese. Questa concentrazione geografica di numerose imprese specializzate rende possibile un’organizzazione della produzione efficiente come in una grande impresa. Un’efficienza senza dubbio potenziata dai flussi di economie esterne che si generano localmente fra le imprese e che derivano dall’insieme di conoscenze, valori, comportamenti tipici e istituzioni attraverso i quali la società locale agisce sull’organizzazione della produzione12.

Un ulteriore elemento caratteristico del sistema italiano è il fatto di essere proporzionalmente più orientato alle attività manifatturiere rispetto ad altre nazioni evolute. Ci sono, tuttavia, anche settori manifatturieri in cui l’Italia è poco presente: l’elettronica, la chimica, la farmaceutica, il settore aerospaziale ci vedono in ritardo rispetto a nazioni come la Germania, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Giappone. Ciò è conseguenza di una “svolta manifatturiera anomala”, visto che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso l’Italia presidiava diversi settori high-tech che poi però sono declinati. Per contro l’Italia si è rafforzata negli ultimi quarant’anni in settori tipici del

Made in Italy, settori che dimostrano ancora oggi di essere fortemente radicati nel

territorio italiano e di rappresentare un elemento che traina l’economia italiana stessa. Non solo, essi mantengono anche un ruolo di rilievo in Europa e nel mondo, per la loro perdurante competitività con elementi di forza e punte di eccellenza straordinarie. L’analisi dei dati statistici elaborati dalla Fondazione Edison e condotta da Marco Fortis ha dimostrato che l’Italia, grazie a questi settori di eccellenza, vanta il secondo più alto surplus manifatturiero in Europa (96,7 miliardi di euro nel 2017) dopo la Germania e il quinto al mondo, dietro a Cina, Germania, Giappone e Corea del sud. A questo gigantesco avanzo manifatturiero italiano con l’estero concorrono tutti i settori di eccellenza del Made in Italy: la moda (19,8 miliardi), i beni per l’arredo e la casa, cioè mobili, piastrelle, pietre ornamentali (13,9 miliardi), i prodotti dell’industria alimentare e delle bevande, i mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli, gi articoli in gomma e materie plastiche e, soprattutto, le macchine e gli apparecchi meccanici13. Le fonti di

12 SCHILIRO’, I distretti industriali in Italia quale modello di sviluppo locale: Aspetti evolutivi,

Potenzialità e Criticità cit. p. 13.

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competitività di questi distretti sono basate sul design e la qualità del prodotto, sulla flessibilità organizzativa, sulla qualità del lavoro, sulla capacità di adattamento e diffusione delle tecnologie, sul marketing e i servizi dopo la vendita.

Dopo una lunga fase di analisi la letteratura, ormai molto ampia e ricca di casi studio, ha reso evidente la difficoltà di ricondurre la grande varietà delle forme distrettuali presenti in Italia ad un modello univoco. La vasta letteratura sia nel nostro paese che in campo internazionale è articolata intorno a tre approcci interpretativi: neo-marshalliano, cognitivo e relazionale.

Al primo approccio (trattato nel presente lavoro) si possono ricondurre gli studi di alcuni economisti e sociologi italiani come Becattini, Bellandi, Dei Ottati, Brusco e Triglia. Gli autori, partendo dall’idea originaria dell’economista inglese Marshall, hanno dato un contributo decisivo nel mettere in luce il concetto di distretto industriale come nuova unità di indagine dell’analisi economica, a cavallo fra il concetto di settore e quello di impresa. Essi concordano nel definire i distretti come realtà socio-economiche complesse, che presentano caratteristiche peculiari sia sotto il profilo economico-strutturale sia socioculturale.

L’associazione del distretto industriale viene definita, inoltre, come un modello di

flexible specialization alternativo alla produzione di massa (Piore e Sabel, 1984). Esso è

considerato alternativo al modello della grande corporation fordista, perché sostituisce l’integrazione verticale e il governo manageriale, tipici della grande impresa, con l’integrazione e il coordinamento esterno delle singole imprese di piccola e media dimensione.

Nella grande azienda fordista, che ha dominato la pratica industriale del ‘900, vigeva la logica dell’integrazione verticale, che portava ad interiorizzare o controllare non solo le diverse fasi della filiera, ma anche i processi di apprendimento e di programmazione dell’innovazione da introdurre. Il livello di comando veniva presidiato solo dal vertice aziendale, che coordinava e plasmava tutte le funzioni aziendali: la sequenza delle trasformazioni materiali e immateriali nella fabbrica, l’intelligenza creativa nella R&S, il knowledge management negli uffici e la visione e decisione strategica nel vertice manageriale. La divisione del lavoro, nelle grandi piramidi

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fordiste, era soprattutto verticale, tra chi ha potere generativo (al vertice) e chi svolge compiti esecutivi (alla base)14.

Quando, nel periodo 1970-2000, si è affermata la forma tipica del distretto industriale, le varie funzioni (prima internalizzate) sono uscite dai confini proprietari della singola impresa. Questo nuovo organismo produttivo che è la filiera (pluri-imprenditoriale) genera un valore che è considerato un valore condiviso, in quanto alla sua generazione contribuiscono in forme diverse una molteplicità di partecipanti. La filiera ha portato ad una ricombinazione, in cui la specializzazione per fasi ha selezionato i rapporti più affidabili tra le decine di alternative rese disponibili dalla specializzazione del distretto. La rete cognitiva (in quanto il distretto è un sistema cognitivo) ha collegato ogni singola impresa alle conoscenze sedimentate nel luogo, che sono diventate disponibili per un gran numero di potenziali concorrenti locali15.

La nascita del sistema locale di produzione è stata naturale, dovuta alla concentrazione in pochi chilometri di tutte le funzioni e le competenze richieste da un particolare settore industriale. Una concentrazione che ha consentito un interscambio virtuoso di idee e di esempi, alimentando l’imprenditorialità nascente dal basso e la continua rincorsa alle innovazioni di successo sperimentate da altri.

Senza dubbio, il sistema delle eccellenze italiane ha trovato nella piccola e media dimensione il giusto compromesso che ha permesso di coniugare gli aspetti culturali, tradizionali e territoriali e di incorporarli all’interno dei prodotti venduti in tutto il mondo. Elementi che si ripercuotono sul territorio anche in termini di valore aggiunto prodotto, dato che oltre il 65% della ricchezza viene realizzata dal sistema distrettuale italiano16.

14 Tratto da Idee, esperienze e progetti per rafforzare o ricostruire la competitività dei territori, dell’Osservatorio nazionale distretti italiani, 2014.

15 La trasparenza e quindi la disponibilità delle conoscenze si è diffusa per copia o imitazione. 16 Tratto da “Italia. Geografie del nuovo made in Italy”, Fondazione Symbola, 2013.

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1.2 LA “SCOPERTA” DEI SISTEMI LOCALI DI PRODUZIONE

Nel corso degli anni ‘70 e ‘80 molti studi si concentrano sulla tematica della “divisione spaziale del lavoro”. Oggetto di analisi è la dislocazione geografica delle diverse componenti del ciclo produttivo, e quindi il processo con cui la geografia dell’industria si organizza all’interno di filiere, reti di imprese e sistemi di produzione sempre più complessi e interconnessi.

Il passaggio dall’epoca industriale a quella terziaria segna la nascita di un modello produttivo che prende il nome di “Terza Italia”, che viene contrapposto al modello di sviluppo industriale dominante nei decenni precedenti, basato sulla grande impresa. Il successo di tale modello deriva soprattutto da un connubio perfetto tra l’ingegno industriale dell’imprenditorialità italiana e la qualità del territorio in cui essa operava. Ispirandosi ad altri sistemi economici, l’Italia negli anni Settanta inizia a farsi strada sui mercati internazionali, coniugando l’innovazione con il gusto e la raffinatezza provenienti dalla sua cultura millenaria.

È cosi che sono nate le realtà territoriali qualificate in produzioni di nicchia, che grazie alla loro professionalità e specializzazione sono riuscite a far emergere una capacità produttiva ineguagliabile, sostenuta dal giusto equilibrio tra competizione e cooperazione.

Dagli anni ‘70 in poi il tasso di crescita dei paesi avanzati si è dimezzato rispetto ai periodi precedenti, e le crisi economiche sono diventate un fenomeno ricorrente. L’ambiente d’impresa è sempre più imprevedibile, turbolento e competitivo. Quelli che erano punti di forza nel passato, come le grandi dimensioni e il perseguimento delle economie di scala interne, sono diventati sempre più fattori di crisi.

Per poter rimanere competitivi nel mercato odierno bisogna ricercare la riduzione dei costi, la riduzione dei rischi e l’adattabilità del sistema produttivo ad un contesto tecnologico e di mercato estremamente variabili. È proprio per rispondere a questi fattori di criticità che le grandi imprese hanno cominciato ad optare per una strategia di decentramento produttivo. Una strategia che ha portato anche allo sviluppo dei sistemi locali di produzione, dove il ciclo produttivo viene diviso in segmenti e funzioni che vengono scomposti e decentrati all’interno di una rete di imprese localizzate nella medesima regione, imprese di piccole dimensioni e autonome. Tale divisione del

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lavoro, esterna all’impresa, garantisce maggiore flessibilità produttiva e differenziazione dell’offerta. Questi gruppi di piccole e medie imprese autonome, flessibili, specializzate ed integrate nel medesimo processo produttivo (produzione di nicchia) danno luogo ai cosiddetti distretti industriali o cluster17.

La formazione di sistemi di produzione di specializzazione flessibile è anche il risultato di innovazioni tecnologiche sviluppatesi negli anni: innovazioni nei sistemi di trasporto che riducono le distanze economiche, innovazioni nelle tecnologie produttive, innovazioni nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che facilitano la comunicazione e il coordinamento delle singole unità produttive.

Il territorio italiano, dominato da molteplici realtà produttive, ha prodotto nel tempo una ricchezza non imitabile, grazie alla trasmissione di saperi e mestieri tra generazioni. Le imprese, che hanno fatto emergere i distretti industriali per come li conosciamo, spesso erano a conduzione familiare e grazie alle loro forme organizzative flessibili e alle capacità di apprendimento esplorativo degli imprenditori hanno reso l’Italia competitiva anche sui mercati esteri. La “scoperta” dei sistemi locali di produzione e della loro capacità competitiva, basata sull’interazione con il territorio di riferimento (territorio concepito come luogo dove società, economia e cultura si fondano in un unico elemento), ha decretato il successo dei prodotti italiani sia nel nostro Paese sia all’estero.

Nonostante la crescente competitività di costo dei Paesi emergenti e una domanda interna in recessione, i distretti industriali italiani riescono ancora oggi ad eccellere in qualità e far perpetrare l’immagine del made in Italy nel mondo.

17 Mentre il termine distretto industriale si riferisce a sistemi produttivi di piccole e medie imprese, il termine cluster ha un interpretazione più ampia.

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1.2.1 Il distretto marshalliano e le caratteristiche distintive di un sistema distrettuale

Alfred Marshall è un economista britannico che, nella seconda metà del 1800, non solo fu il primo a coniare il termine “distretto industriale”, ma introdusse anche l’importante concetto di economie esterne, che fu ripreso negli anni settanta dallo studioso fiorentino Giacomo Becattini, probabilmente l’autore più importante per quanto riguarda la letteratura distrettuale italiana.

Già nei Principles of Economics, Marshall si interrogava sulla presenza di industrie specializzate concentrate in località particolari, quali quella tessile presente nel diciannovesimo secolo nel Lancashire del Sud, e quella metallurgica nell’area di Sheffield e Solingen, e affermava che:

molte di quelle economie nell’uso di macchine e di capacità specializzate che si considerano comunemente alla portata di stabilimenti molto grandi, non dipendono dalla dimensione delle singole fabbriche. Esse si possono ottenere mediante la concentrazione di molte piccole imprese di natura simile che partecipano ad uno stesso processo produttivo, in località particolari, o, come si dice comunemente, mediante la concentrazione dell’industria18.

Quindi, in alcuni contesti, i vantaggi della produzione di massa possono essere conseguiti raggruppando in un’area geografica circoscritta un gran numero di piccoli produttori. Marshall nelle sue ricerche si concentra sui vantaggi che le imprese distrettuali possono trarre dalle economie di scala, ossia da “quelle economie derivanti da un aumento della scala della produzione di una determinata specie di merci”19. Nello stesso tempo l’autore distingue all’interno delle economie di scala due tipologie di economie: economie interne ed economie esterne. Il concetto chiave su cui si basa l’accezione marshalliana del distretto industriale sono le economie esterne, i cui vantaggi sono paragonabili a quelle delle economie interne delle grandi imprese, derivanti dalle dimensioni aziendali e quindi dall’aumento della scala di produzione. Secondo l’autore le economie esterne possono essere conseguite anche dalle piccole

18 MARSHALL A., Principi di economia, Utet, Torino, 1972. 19 Ibid.

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imprese, purché siano concentrate ed il processo produttivo sia scomponibile in fasi. Pertanto la competitività delle aziende dipende dalle economie interne (dipendenti dalle risorse delle singole imprese, dalla loro organizzazione e dall’efficienza della loro amministrazione) e dalle economie esterne (dipendenti dallo sviluppo generale del settore). I vantaggi conseguibili mediante queste economie esterne di agglomerazione possono essere tradotti in minori costi di produzione, minori costi di transazione e rapida circolazione delle idee e delle informazioni, che sviluppa il sapere e fa progredire la tecnica.

I fattori che determinano le economie di agglomerazione sono20:

1. divisione del lavoro tra le imprese (processo produttivo scomposto in fasi) 2. informazioni negli scambi (la circolazione delle informazioni sulla reputazione,

qualità, affidabilità delle varie imprese)

3. formazione e accumulazione di professionalità21 4. processi innovativi22

Marshall sottolinea che, affinché siano generate economie esterne di agglomerazione, non è sufficiente coinvolgere la struttura produttiva e rendere scomponibile il processo produttivo, ma è necessario che anche la comunità si riconosca nell’organizzazione distrettuale e che possegga le capacità di realizzarla23.

L’autore, inoltre, ha individuato tre ordini di motivi che spingono le imprese a concentrarsi in una determinata zona: geografico, storico-politico e psicologico. Col tempo il rafforzamento di questi motivi generano delle motivazioni nuove, come la diffusione di capacità e di know-how, lo sviluppo del commercio e dei trasporti, la continuità di innovazione, lo sviluppo della complementarietà fra industrie specializzate

20 BELLANDI M., Il distretto industriale in Alfred Marshall, L’Industria, n.3.

21 Un fenomeno con cui nel settore si genera una ricchezza di figure professionali che soddisfano le esigenze delle varie aziende distrettuali senza ricorrere ad una lunga fasi di formazione. Questo genera, inoltre, un’attitudine al lavoro, che si ricollega al concetto di “atmosfera industriale”, ovvero un processo culturale specifico del singolo distretto.

22 Le innovazioni incrementali non radicali, generate da alcune aziende del distretto, possono diventare patrimonio comune delle imprese dell’area mediante la rete delle connessioni formali ed informali presenti.

23 ANTONELLI G., Sistemi produttivi locali e cluster di imprese. Distretti industriali, tecnologici e

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per fasi, l’ampliamento del lavoro specializzato, la possibilità di contatti personali nei rapporti commerciali24.

In definitiva, per Marshall il distretto è un modello di produzione alternativo alla grande impresa, che può essere caratterizzato dai seguenti fattori:

• un sistema composto da piccole e medie imprese, perlopiù a conduzione familiare, caratterizzato da una forte specializzazione e dalla presenza di un imprenditore spesso impegnato nello svolgimento di compiti e mansioni di tipo pratico, oltre a quelle manageriali;

• la concentrazione delle imprese nel medesimo ambito geografico (vicinanza geografica).

Ulteriori caratteristiche distintive di un sistema distrettuale possono essere sintetizzate nel seguente modo: elevata concentrazione di imprese ed infrastrutture, divisione del lavoro e specializzazione della manodopera, cooperazione e competizione, diffusione di “un’atmosfera industriale”, ovvero un insieme di intangible asset che fanno parte di un particolare contesto sociale e che “si traduce in una maggiore conoscenza del come fare che cosa [… e] può diventare una barriera all’entrata per concorrenti che non operino in eguali condizioni di informazioni e coordinamento”25. Queste caratteristiche promuovono la riproduzione delle competenze e lo sviluppo di attività sussidiarie e industrie complementari, oltre a formare un mercato del lavoro specializzato.

All’interno del distretto le piccole imprese tendono a suddividere i processi produttivi in fasi distinte ed altamente specializzate. Questa suddivisione solitamente è spontanea e si rafforza nel tempo, dando la possibilità ai vari attori di accedere a competenze diverse ma estremamente qualificate, vista l’elevata specializzazione. In questo contesto diventa vitale l’esistenza di imprese specializzate nella produzione di macchinari necessari per svolgere ogni fase del processo e di imprese capaci di assicurare l’adeguata fornitura di servizi di distribuzione di materiali e prodotti.

24 Ivi, p. 13.

25 SAMMARRA A., Lo sviluppo dei distretti industriali: percorsi evolutivi fra globalizzazione e

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In un mercato di massa ormai saturo, dove la domanda di differenziazione da parte dei consumatori è sempre più crescente, un modello di industrializzazione distrettuale garantisce la necessaria flessibilità organizzativa per effettuare la produzione in piccola serie, sfruttare la lavorazione artigianale per particolari lavorazioni e mantenere elevata la capacità di adattamento alle esigenze dei clienti. La divisione del lavoro e la seguente specializzazione non solo hanno migliorato l’efficienza tecnica e la capacità di adattamento delle aziende alle richieste del mercato, ma hanno cercato anche di risolvere i problemi di coordinamento e di opportunismo (che si possono evitare solo mediante la diffusione di una cultura omogenea all’interno del distretto).

Come citato sopra, alcune delle caratteristiche fondamentali del modello distrettuale sono la cooperazione e la competizione che si instaurano fra le varie imprese. Si crea una forma di cooperazione per risolvere il problema di coordinamento fra imprese che svolgono attività complementari, come risposta alla divisione del lavoro verticale (la cooperazione risponde alla necessità di ridurre i costi di coordinamento per rendere economicamente conveniente il modello di specializzazione flessibile). Questo meccanismo di coordinamento quasi automatico si crea soprattutto grazie all’esistenza di consuetudini locali, del meccanismo della reputazione e delle sanzioni di carattere sociale, ovvero espresse dalla comunità.

Il meccanismo della reputazione è possibile perché: ❖ gli operatori risiedono stabilmente nella stessa località;

❖ hanno rapporti economici diretti e personali che rendono possibile osservare e ricordare il comportamento dei soggetti con i quali hanno precedentemente concluso delle transazioni;

❖ esiste una ampia possibilità di scambi ripetuti con gli stessi attori e per un lungo periodo di tempo.

Tutto ciò non esclude comunque la presenza di organizzazioni preordinate di coordinamento come le associazioni imprenditoriali, il governo locale ed i sindacati.

D’altra parte il frazionamento di una stessa attività fra imprese con specializzazioni simili favorisce la concorrenza e non più la cooperazione. A causa della

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divisione orizzontale del lavoro, esiste un mercato locale dove le imprese offrono beni e/o servizi sostituibili. Questo necessariamente pone le aziende in stretto rapporto in quanto ognuna deve adeguarsi alle innovazioni dell’altra per rimanere competitiva sul mercato, favorendo così la sempre crescente qualità dell’offerta ed efficienza su tutte le fasi del ciclo produttivo.

Per quanto riguarda il concetto di “atmosfera industriale”, esso è difficile da spiegare, essendo frutto di una combinazione di elementi tra loro spesso molto diversi. In un’accezione generale questa atmosfera si compone di: scambio di conoscenza, condivisione e senso di appartenenza, spirito di imprenditorialità, interdipendenza che connette una molteplicità di valori e consuetudini. Sicuramente possiamo ricollegare ad essa anche una storia condivisa nel tempo dalle stesse aziende, nonché una particolare cultura distrettuale e forma mentis della comunità coinvolta.

In una delle sue opere, Dei Ottati definisce il distretto industriale come un “mercato comunitario”, ovvero un mercato regolato da particolari vincoli di riconoscimento comunitario fra i partecipanti.

Questo mercato si caratterizza per:

• il ruolo attivo delle istituzioni locali (sindacati, scuole tecniche, consorzi di acquisto o di vendita, associazioni artigiane);

• il ruolo svolto dalle famiglie estese nelle relazioni di affari;

• la embeddedness delle relazioni economiche in una fitta rette di relazioni sociali, di amicizia e di parentela.

Il termine “embeddedness” indica il radicamento delle attività economiche nella società, che in questo modo dipendono infatti da fattori sociali come la cultura, le abitudini, il senso di responsabilità e la reciprocità verso gli altri.

Le relazioni dirette che si instaurano tra vari attori favoriscono un reciproco e rapido scambio di informazioni e conoscenze. Spesso tra le imprese si creano non solo canali formali e codificati di comunicazione, ma soprattutto quelli di tipo informale. La così stretta conoscenza tra soggetti attivi all’interno del distretto produttivo limita i comportamenti opportunistici, in quanto potrebbero gravemente ledere la reputazione del soggetto che li ha messi in moto e quindi escluderlo dalle future interazioni.

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La social embeddedness costituisce anche una forma di barriera all’entrata per i nuovi e potenziali entranti, poiché richiede necessariamente la costruzione di rapporti di fiducia con i membri già presenti nel distretto, per sfruttare tutti i vantaggi relazionali e informativi che generalmente si instaurano al suo interno.

1.2.2 Il contributo di Becattini

Malgrado per alcuni anni gli studi di Marshall furono quasi del tutto abbandonati, a partire dagli anni ‘70 iniziarono le numerose domande da parte degli studiosi su quale fosse il modello di sviluppo dell’economia italiana. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, Giacomo Becattini, nel tentativo di ricostruire lo sviluppo economico dell’area a industrializzazione leggera della Toscana, sposta l’oggetto di analisi: non la singola piccola impresa, ma i sistemi di piccole imprese. Questo cambiamento nel centro di analisi sarà decisivo e aprirà una ricca stagione di studi economici e sociologici, che porteranno a rivisitare il pensiero di Marshall26, il primo che ha introdotto i concetti di “distretto industriale” e di “economie esterne”. Tutte queste domande e riflessioni hanno dato avvio in Italia alla riscoperta del concetto di distretto industriale marshalliano come unità di indagine dell’economia industriale, come modello dell’industrializzazione leggera, come paradigma teorico per l’interpretazione del cambiamento economico27.

Il tessuto imprenditoriale italiano è costituito quasi per la sua totalità di imprese di piccola e media dimensione e da una percentuale altissima di micro imprese. Questa composizione distrettuale dell’economia italiana è di particolare interesse anche a livello internazionale, visto che il modello industriale distrettuale persiste nel tempo ed ha una rilevante importanza a livello di economia nazionale.

26 Per esempio, a metà degli anni ‘70, Sebastiano Brusco critica la nozione tradizionale di economie di scala e sostiene che anche le piccole imprese possono essere efficienti se inserite in contesti socio-economici favorevoli.

27 BECATTINI G., Dal settore industriale ad distretto industriale. Alcune considerazioni dell’unità di

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Il primo tra gli italiani ad occuparsi di distretti, basandosi sulle teorie marshalliane, è stato Giacomo Becattini. L’autore ha cercato di dare una definizione di distretto, che poi diventerà la “base” per altri molteplici contributi rispetto al tema.

Secondo Becattini il distretto industriale è “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”28.

Per capire meglio tale definizione è opportuno analizzare alcuni termini scelti dall’autore. Con il concetto di “comunità di persone” Becattini si riferisce ad un insieme omogeneo di persone, che possiedono un sistema omogeneo di valori che si esprime in termini di etica del lavoro e delle attività, della famiglia, della reciprocità e del cambiamento. Questo sistema di valori si forma nel distretto rapidamente e secondo modalità ancora poco conosciute. Esso costituisce un requisito fondamentale per la nascita del distretto e una condizione per la sua riproduzione.

Oltre al sistema di valori risultano necessarie una serie di norme e di istituzioni come: la scuola, la pubblica amministrazione, il mercato, la famiglia, entità religiose, politiche, assistenziali ed altre ancora. Le istituzioni, che dovrebbero essere permeate dallo stesso sistema di valori, favoriscono la diffusione di tali valori e la loro trasmissione di generazione in generazione. Questo non significa che non vi siano contrasti d'interesse fra i membri del distretto, o che tali contrasti non vengano percepiti, ma solo che essi sono sentiti e definiti in forme similari ed entro la cornice di una sorta di interesse superiore di tipo comunitario, interiorizzato dalla popolazione locale nel suo complesso29.

L’espressione “popolazione di imprese”, invece, indica un luogo dove la densità delle imprese per chilometro quadrato è molto elevata e dove la specializzazione delle stesse è altrettanto alta30.

28 BECATTINI G., Il distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico, a cura di F. Pyke, G. Becattini e W. Sengerberger, Distretti industriali e cooperazione fra le imprese in Italia, “Studi & Informazioni”, Quaderni n. 34, Banca Toscana, Firenze, 1991, p.51-66.

29 BECATTINI G., Il distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico cit., p.53. 30 ANTONELLI G., Sistemi produttivi locali e cluster di imprese. Distretti industriali, tecnologici e

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Nel distretto, a differenza di altri ambienti, la comunità e le imprese tendono ad interpretarsi a vicenda. La stretta relazione che si instaura fra queste due entità è il fattore chiave che spinge all’innovazione, alla conoscenza e alla qualità.

Il fatto che l’attività dominante sia quella industriale differenzia il distretto da una generica “regione economica”. L’autocontenimento, la progressività del processo di divisione del lavoro e la specializzazione produttiva fa sì che il distretto produca un surplus di beni che spesso non può essere venduto solo all’interno del sistema locale. Questo problema di sbocchi impone la nascita di una rete stabile di collegamenti del distretto con i suoi clienti e fornitori; “non si tratta, infatti, di una semplice forma organizzativa del processo produttivo di certe categorie di beni, ma di un ambiente sociale in cui le relazioni tra gli uomini dentro e fuori i luoghi della produzione, nel momento della accumulazione come in quello della specializzazione e le propensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il gioco, il rischio, ecc., presentano un loro peculiare timbro e carattere”31.

In sintesi, le caratteristiche determinanti del distretto nella concezione di Becattini sono le seguenti:

❖ un’attività dominante di natura industriale

❖ un sistema “abbastanza omogeneo” di valori, incorporato dalla comunità locale ❖ la concentrazione delle imprese deve essere legata a motivi storici e non

accidentali32

❖ scomponibilità in fasi del processo33 ❖ risorse umane molto specializzate ❖ multidisciplinarietà

Un altro aspetto peculiare dei distretti è la combinazione tra competizione e collaborazione che si crea tra imprese. Fortis spiega come all’interno del sistema locale

31 BECATTINI G., Il distretto industriale, Rosenberg & Sellier, Torino, 2000.

32 La popolazione di imprese non deve essere considerata come una molteplicità accidentale di imprese. Infatti, ciascuna è specializzata in una o alcune fasi del processo di produzione tipico del distretto, il quale si configura come un “caso di realizzazione localizzata di un processo di divisione del lavoro”.

33 I processi produttivi debbono potersi scomporre in fasi spazialmente e temporalmente separabili. In altre parole, sono necessarie condizioni tecniche tali da permettere la formazione di una rete locale di transazioni specializzate sui prodotti di fase.

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la competizione è molto forte e seleziona le aziende migliori e più efficienti. Nello stesso tempo, molte imprese dei distretti collaborano fra loro a progetti comuni, come, ad esempio, ad iniziative per la promozione all’estero dei prodotti del distretto34.

Quindi, nell’interpretazione becattiniana, la nascita e lo sviluppo di un distretto industriale non sono un semplice risultato “locale” dell’incontro di certi tratti socio-culturali di una comunità (un sistema di valori, di orientamenti e di istituzioni), di caratteristiche storico naturalistiche di un’area geografica (orografia, reti e nodi di comunicazione, forme di insediamento) e di caratteristiche tecniche del processo produttivo, ma anche il risultato di un processo di interazione dinamica fra la divisione-integrazione del lavoro nel distretto e l’allargamento del mercato dei suoi prodotti. I tratti fondamentali del modello distrettuale rivelano la vera natura del sistema locale, considerato sintesi di storia, cultura sociale ed organizzazione industriale, dove le economie esterne svolgono un ruolo cruciale e i costi di transazione sono sufficientemente bassi, e in cui si riscontra una combinazione diffusa di versatilità, qualità e innovazione35.

1.2.3 Economie di localizzazione e scelte di esternalizzazione

Le attività economiche (soprattutto quelle industriali) non si distribuiscono uniformemente sullo spazio geografico ma si concentrano in alcune localizzazioni specifiche. Questi processi di agglomerazione sono dovuti al funzionamento delle economie esterne (o esternalità) che non dipendono dalle caratteristiche delle imprese o dalle sue dimensioni, ma dal luogo dove queste si localizzano. Si possono individuare alcuni meccanismi che producono questo tipo di esternalità. Il primo consiste nella prossimità geografica e nei contatti informali, che facilitano la trasmissione di conoscenza tra le imprese e tra i lavoratori appartenenti alla stessa industria. La rapida diffusione di conoscenza, per effetto anche della mobilità della forza lavoro, favorisce

34 FORTIS M., I distretti produttivi e la loro rilevanza nell’economia italiana: alcuni profili di analisi, in Fortis-Quadrio Curzio, 2006, p. 120.

35 SCHILIRO’ D., I distretti industriali in Italia quale modello di sviluppo locale: Aspetti evolutivi,

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molto i processi innovativi, costituendo un traino alla crescita della produttività (Bronzini, 2004, p.6).

Il secondo meccanismo è legato ai vantaggi derivanti dalla creazione di un mercato locale di lavoratori specializzati. Il vantaggio per le imprese è un’abbondante offerta di lavoro specializzata; per i lavoratori è la numerosità delle imprese che riduce il rischio di rimanere senza occupazione.

Un ulteriore elemento tipico dei distretti è la specializzazione delle imprese in differenti fasi della produzione e il loro collegamento rafforzato da intensi rapporti di sub-fornitura36. Con i contratti di sub-fornitura le imprese affidano ad un’altra la commessa a produrre un certo tipo di bene o componente. I vantaggi del contratto sono dati dal fatto che i sub-fornitori sono in competizione e questo comporta spesso una riduzione dei costi; inoltre, l’azienda committente può esercitare un forte controllo sull’impresa fornitrice.

Quindi le economie di localizzazione (o di agglomerazione), ritenute capaci di ridurre i costi di produzione e di conseguenza di espandere i profitti, sono vantaggi connessi ai legami che si possono instaurare tra attività economiche dello stesso settore industriale. L’impresa che si localizza nella vicinanza di altre imprese può conseguire vantaggi derivanti da connessioni dirette - di produzione, di servizio, di mercato - oppure connessioni indirette, come una particolare cultura industriale, la riduzione dei costi di transazione per il legame di fiducia che si instaura, la riduzione dell’incertezza. Le economie di agglomerazione esistono in quanto esistono imprese in qualche modo collegate che appartengono allo stesso sistema industriale e allo stesso processo produttivo. Dato che ogni concentrazione di imprese si localizza in un’area particolare, solitamente ogni regione industriale è specializzata nella produzione di un numero limitato di beni.

In sintesi le più importanti economie di localizzazione sono:

1. la centralità rispetto al bacino di domanda e la prossimità con i clienti

2. la presenza di un bacino di lavoro specializzato, che dovrebbe ridurre i costi per le ricerca e formazione dei lavoratori

36 Questa profonda divisione del lavoro è uno degli aspetti peculiari che favoriscono l’efficienza dell’intero sistema di produzione locale.

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3. lo sviluppo di imprese specializzate nella fornitura di particolari servizi o specifici prodotti alle altre imprese

4. lo sviluppo di interdipendenze tra le imprese e di una particolare atmosfera industriale

5. lo scambio di informazioni e conoscenze tra imprese che porta alla produzione di relazioni e di nuove conoscenze

La decisione di localizzarsi in una specifica area geografica è guidata dalle condizioni particolari del territorio vantaggiose per l’attività produttiva. Dal punto di vista territoriale le economie esterne sono dovute a fattori naturali (risorse energetiche, idriche, climatiche), fattori antropici (presenza di una efficiente rete di infrastrutture e di trasporto, la vicinanza al mercato, presenza di università o centri di ricerca), fattori legati alla specializzazione produttiva (lavoratori qualificati, conoscenze ed informazioni specifiche) e al grado di sviluppo dell’area. L’insieme di questi fattori rende una località un “luogo privilegiato” e a volte “obbligato” per localizzare una particolare attività, determinando così anche una particolare “atmosfera industriale” e perfino un certo “ambiente culturale” che rende adatta la localizzazione per le imprese.

Attraverso la prossimità spaziale le imprese sviluppano varie forme di rapporti con le imprese dello stesso settore e con gli altri settori (relazioni orizzontali, verticali, laterali, di servizio). Tali rapporti si generano in funzione della scelta organizzativa tipica delle imprese distrettuali, ovvero l’esternalizzazione. L’acquisto dei beni sul mercato spesso comporta dei costi minori rispetto all’internalizzazione. Grazie a questa possibilità le imprese sfruttano un particolare vantaggio, perché si rivolgono a imprese maggiormente specializzate che sono spesso in competizione fra loro. La concorrenza favorisce la competitività ma anche la qualità dei servizi offerti.

Nello stesso tempo però, le transazioni di mercato comportano degli svantaggi, perché il livello di incertezza è maggiore rispetto allo svolgimento delle singole fasi di un processo produttivo all’interno. Tuttavia un’elevata internalizzazione può rendere la struttura organizzativa estremamente rigida e gerarchica, e il conseguente livello di burocratizzazione rende l’azienda incapace di rispondere rapidamente al mercato e adattarsi ai suoi cambiamenti. Ecco perché ogni azienda ricerca un perfetto ed efficace equilibrio tra internalizzazione ed esternalizzazione.

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La possibilità di esternalizzare una parte della produzione dipende soprattutto dalla possibilità di ridurre i costi di transazione; questi sono funzione di variabili economiche ed extra-economiche: la fiducia reciproca, l’affidabilità del rapporto cliente-fornitore, la certezza di ottenere i beni richiesti in termini di qualità, quantità e tempistica. La prossimità delle imprese è un potente fattore di abbassamento dei costi di transazione, perché le imprese possono instaurare con maggiore probabilità rapporti affidabili e di fiducia. Questo è possibile perché la vicinanza ed appartenenza alla stessa comunità linguistica, culturale, sociale e territoriale può favorire la frequenza dei contatti, la comunicazione tra le imprese e quindi la fornitura anche di beni non standardizzati ma sofisticati e altamente specializzati. La condivisone degli stessi valori sociali tra gli agenti dell’area distrettuale favorisce i rapporti di collaborazione e in ultimo potenzia l’efficienza dell’intero sistema produttivo.

Paradossalmente, in un’epoca di sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti che ha annullato l’effetto della distanza, il valore della prossimità tra imprese aumenta e non diminuisce. Qualsiasi scambio presuppone una relazione interpersonale tra aziende. Ognuna di queste relazioni prima di svolgersi nel contesto astratto del mercato è radicata nel territorio.

1.3 IL CONCETTO DI NETWORKING O CLUSTERING

Le piccole e medie imprese sono sempre state viste come poco competitive e scarsamente rilevanti per la crescita economica e lo sviluppo regionale rispetto alle grandi imprese, però dalla fine degli anni ‘70 si è cominciato ad osservare come i punti di debolezza della piccola impresa possono essere superati se queste operano all’interno di raggruppamenti e reti di imprese, definiti cluster.

All’interno del cluster le varie imprese partecipano allo stesso processo produttivo, in questo modo ognuna può ottenere a livello di territorio la stessa efficienza e specializzazione di una grande impresa, insieme ai vantaggi della flessibilità e della

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capacità di adattamento. La capacità di creare una fitta rete di relazioni e scambi materiali e immateriali può essere definita come networking o clustering.

Il concetto di network è utilizzato per descrivere le forme di cooperazione formale e informale tra imprese che possono essere anche distanti tra loro: contratti di sub-fornitura, relazioni commerciali, scambi di informazioni e conoscenze. Clustering, invece, fa riferimento ad un raggruppamento tra imprese localizzate nella stessa area e che partecipano al medesimo processo produttivo.

In particolare, Porter definisce i cluster come delle concentrazioni geografiche di aziende e istituzioni interconnesse in un uno specifico territorio. I cluster comprendono una serie di industrie collegate e altre entità importanti per la concorrenza. Includono, ad esempio, fornitori di input specializzati come componenti, macchinari e servizi e fornitori di infrastrutture specializzate. Essi spesso si estendono anche a valle verso i clienti e lateralmente ai produttori di prodotti complementari e alle aziende dei settori correlati per le competenze, tecnologie o input comuni. Infine, molti cluster includono istituzioni governative e di altro tipo, quali università, agenzie per la definizione di standard, gruppi di riflessione, fornitori di formazione professionale e associazioni di categoria, che forniscono formazione specializzata, istruzione, informazione, ricerca e supporto tecnico.

Questi sistemi locali promuovono sia la competizione che la cooperazione. I rivali competono intensamente per conquistare e fidelizzare i clienti, perché senza una forte concorrenza un cluster è destinato a fallire. Si crea anche una forma di cooperazione, in gran parte verticale, che coinvolge aziende delle industrie collegate e le istituzioni locali. La competizione può coesistere con la cooperazione perché si sviluppano su diverse dimensioni e tra diversi attori (Porter, 1998).

I cluster riescono ad influenzare la concorrenza in tre modi: in primo luogo, aumentando la produttività delle aziende con sede nell'area; in secondo luogo, guidando la direzione e il ritmo dell'innovazione, che è alla base della futura crescita della produttività; e in terzo luogo, stimolando la formazione di nuove imprese, che espande e rafforza il cluster stesso.

I vantaggi di un sistema locale di produzione stanno nel fatto che una pluralità di attori operano in un contesto concorrenziale mitigato da una subcultura condivisa e radicata, e ottengono dei vantaggi che singolarmente non potrebbero mai raggiungere.

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Inoltre, un cluster è un modo alternativo di organizzare la catena del valore. Rispetto alle transazioni di mercato tra acquirenti e venditori dispersi e casuali, la vicinanza di aziende e istituzioni in un unico luogo - e gli scambi ripetuti tra di loro - favoriscono un migliore coordinamento e fiducia tra operatori. Così viene mitigato ogni tipo di problema relazionale tra le aziende senza però imporre le inflessibilità dell'integrazione verticale o le sfide gestionali per creare e mantenere collegamenti formali come reti, alleanze e partnership. Questo particolare gruppo di società e istituzioni indipendenti e collegate in modo informale, tipico dei distretti, rappresenta una solida forma organizzativa che offre vantaggi in termini di efficienza, efficacia e flessibilità.

I distretti industriali e i cluster sono considerati come sistemi di specializzazione flessibile che consentono:

❖ alta differenziazione del prodotto,

❖ veloce adattamento ai cambiamenti del mercato, ❖ rapida diffusione di nuove tecnologie e informazioni,

❖ sviluppo di una forza lavoro qualificata, specializzata e flessibile.

In questo modo ciascun membro del sistema locale può beneficiare di tutti i vantaggi, come se avesse una dimensione aziendale maggiore o come se si fosse unito agli altri senza però sacrificare la sua flessibilità.

Considerando la morfologia distrettuale i cluster possono essere distinti in due categorie (fig. 3):

1. distretti industriali costituiti solo da piccole imprese (Marshallian ID)

2. sistemi di piccole e medie imprese organizzati attorno ad imprese leader di maggiore dimensione37 (Hub and Spoke District)

Affinché si possa parlare di cluster non è sufficiente la semplice collocazione delle imprese una vicina all’altra. Un cluster è un polo di crescita regionale che riesce a

37 Una grande impresa decide di esternalizzare parte del ciclo produttivo presso imprese collegate di dimensioni più piccole, creando un indotto industriale.

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sfruttare sia i vantaggi della prossimità che del networking per rafforzare la competitività della singola impresa e dell’intero territorio. Questi sistemi sono caratterizzati da dense relazioni tangibili o immateriali.

Figura 3. La rappresentazione grafica delle due diverse tipologie di cluster

(Markusen,1996)

Il distretto industriale marshalliano (DIM) rappresenta una realtà nella quale il commercio e le relazioni si attuano e si sviluppano, di norma, al suo interno, comportando spesso la stipula di contratti di lungo periodo. La maggior parte delle attività di natura economica avvengono in maniera localizzata, perché le piccole e medie imprese distrettuali comprano e vendono tra loro. Il processo completo di produzione, dall’approvvigionamento, fino alla vendita, avviene nel seguente modo: i materiali allo stato grezzo provengono dall’esterno della località, vengono lavorati al suo interno e poi venduti nuovamente all’esterno.

La peculiarità dei DIM, secondo Ann Markusen, consiste nella natura e la qualità del mercato del lavoro locale, interna al distretto e altamente flessibile (che permette ai lavoratori anche una grande mobilità da un’impresa ad un’altra). I lavoratori sono strettamente legati al distretto, percepito come un’unità relativamente stabile con un’unica identità culturale e un’unica specializzazione produttiva. Tutti questi elementi

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favoriscono il fenomeno dell’agglomerazione, il termine con il quale non si fa riferimento alla localizzazione geografica delle imprese ma alle economie esterne che si generano.

I distretti italiani, diversamente da quanto sostenuto solitamente sui tipici distretti marshalliani, sono soggetti a frequenti scambi di lavoratori tra offerenti ed acquirenti, inoltre, la cooperazione tra le imprese competitive ripartisce i rischi, stabilizza i mercati e dà luogo all’innovazione38.

Le caratteristiche dei DIM possono essere sintetizzate in:

❖ struttura commerciale dominata da piccole imprese locali ❖ economie di scala relativamente basse

❖ contratti di lungo termine e legami tra compratori locali e offerenti ❖ risorse di finanziamento specializzate

❖ evoluzione di un’unica identità culturale ❖ mercato stabile

❖ alti gradi di cooperazione tra imprese

Sostanzialmente diverso risulta invece il distretto definito Hub-and-Spoke, caratterizzato dalla presenza di una o poche imprese di grande dimensione, spesso prevalentemente con processi produttivi verticalmente integrati39. In questo caso, l’azienda Hub compra dai fornitori locali ed esterni e vende, principalmente, ai compratori esterni. Questo tipo di distretto è tipico dell’economia americana, nella quale, all’interno di una regione geografica, una o più grandi aziende svolgono il ruolo di polo di attrazione per la nascita di altre imprese, piccole e medie, che hanno poco potere contrattuale e che hanno ruolo di gravitare intorno alle prime, per svolgere attività di fornitori o di sub-appaltatori (Testa, 2012, p.87).

38 TESTA G., Il distretto petrolifero: Struttura e Funzionamento. Il caso Val d’Agri, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 86.

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