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Il poema del desiderio

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Academic year: 2021

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M A G G IO

9

MAGGIO 2020

ALIANE S.p.A. Sped. in

A.P

. - D.L. 353/2003 (conv

. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - LOM/BS/02953 – Edizioni Studium – Roma - Expédition en abonnement postal taxe perçue

tassa riscossa - ISSN 1828-4582-Anno XXXVII

LA COMMEDIA:

LETTERATURA PER LA VITA

PENSIERI, EMOZIONI E RISCOPERTE, AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

IL PRIMATO DELLA FILOSOFIA PER EMANUELE SEVERINO LA LAUDATO SI’ E LA GEOGRAFIA

(2)

www.edizionistudium.it

CARTA

Il pagamento può essere effettuato

anche tramite Disoccupazione e inoccupazione giovanile sono

un problema drammatico di molti paesi e, tra i più colpiti, il nostro. Le conseguenze sul piano socio-economico si toccano con mano, perché quella che stiamo vivendo è una crisi di sistema: famiglie in difficoltà, crollo demografico, assenza di progettualità, disintegrazione sociale. Oltre a quella strettamente economica, altrettanto grave, anche se non ha la risonanza che merita, è la ricaduta della crisi lavorativa sulle persone, sulla loro identità ed esistenza presente e futura. Che cosa avviene nella vita di quanti si trovano improvvisamente emarginati, esclusi, “disaffigliati”, stanchi di bussare a porte sbarrate per lungo tempo? Sono questioni che attendono certamente risposte di ambito economico (analizzate nella prima parte del volume), ma che oggi richiedono una prospettiva di più ampio respiro, oggetto della seconda parte del volume. La tesi proposta è questa: accanto all’economia serve il coinvolgimento delle scienze umane e sociali, in primis la pedagogia: di qui la scelta di un approccio interdisciplinare.

Andrea Cegolon

OLTRE LA DISOCCUPAZIONE

Per una nuova pedagogia del lavoro

pp. 224 – € 24,50

«Qual è il metodo più efficace perché i bambini imparino a leggere e a scrivere?». È davvero ben posta questa domanda, che spesso interpella gli insegnanti (ma anche i genitori)? Ha ancora senso oggi, oppure, grazie alle neuroscienze o alla Evidence-Based Research, il problema della scelta del metodo è definitivamente risolto a favore del metodo della corrispondenza «fonema-grafema»? Il riduzionismo condotto anche a favore delle teorie scientifiche migliori, più efficaci, ha sempre fatto danni, nella storia. Meglio, dunque, non indulgere a questa tentazione. Ogni bambino, infatti, è unico, diverso da tutti. E pure il suo ambiente di vita. Impossibile che esista un metodo efficace sempre e in ogni caso. La pedagogia d’altra parte si interessa proprio del «caso singolo»: non si può tradire un bambino perché non apprende a leggere e a scrivere in maniera canonica. Da qui la necessità di modulare i metodi e di usarli per ciò che possono aver di buono e per quanto servono, fosse anche in un solo caso.

Adriana Lafranconi

APPRENDERE A LEGGERE E SCRIVERE Come e perché

(3)

Nuova Secondaria

Mensile di cultura, ricerca pedagogica e orientamenti didattici

maggio2020

9

Nuova SecoNdaria ricerca

(SezioNeoNliNe)

Il Latino nella secondaria di primo grado Atti del Seminario per Docenti della Scuola secondaria

Liceo Scientifico “Enrico Fermi” di Padova Introduzione, a cura di Gianni Colombo, pp. 3-4

I. Competenze e contenuti nella Secondaria di primo grado attraverso l’insegnamento-apprendimento del Classico

Augusta Celada, La lingua e la città: insegnare l’antico nel primo

ciclo di istruzione, pp. 6-11

Emanuela Andreoni Fontecedro, La motivazione dello studio del

Latino: il Latino dell’Europa, pp. 12-21

II. La competenza alfabetico-funzionale

Marco Agosti, Il modello Andreoni Fontecedro nella scuola

secondaria di primo grado, pp. 23-32

Alessandro Fonti, Esperienze e proposte per lo studio della lingua

latina nella scuola secondaria di primo grado, pp. 33-40

III. La competenza in materia di cittadinanza

Maria Pia Baccari Vari, L’importanza del Latino per un giovane del

XXI secolo, pp. 42-52

Anna Spata, Figli di un dio minore… voci dal silenzio, pp. 53-66

IV. La competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali

Alessandra Menegazzi, Arturo Zara, Patavium: la Padova romana

con lo sguardo di oggi, pp. 68-79

Claudia Mizzotti, Siste viator iter animumque intende et lege: il

racconto delle pietre, pp. 80-94

P

roblemi

P

edagogicie

d

idattici Michele Corsi, Pensieri, emozioni e riscoperte,

ai tempi del coronavirus 12

Pierre de Gioia-Carabellese, Coronavirus:

UK vs Italian approach 16

Giulio Goggi, Il primato della filosofia nella scuola,

secondo Emanuele Severino 19

Fernando Bellelli, Le quattro fasi della questione

rosminiana e la pedagogia 23

S

tudi

Pierantonio Frare, La Commedia: letteratura

per la vita 28

Marco Giola, I nuovi testi critici della Commedia

dantesca: piccolo discorso sui metodi 30

Luca Carlo Rossi, Per una lettura in aula della

Vita nova di Dante Alighieri 34

Erminia Ardissino, Il poema del desiderio 38

Emiliano Bertin, Cinque percorsi biblici nella

Commedia dantesca 42

Pierantonio Frare, La giustizia della Commedia 46

Emiliano Bertin, Ulisse, il serpente e san Paolo:

una proposta per Inferno XXVI 52

Giuseppe Ledda, «L’acqua ch’io prendo già mai

non si corse». Riflessioni e proposte per la didattica

del Paradiso 56

Marco Petoletti, Un testo a torto trascurato:

le Egloghe 60

Alberto Casadei – Elisa Squicciarini, Dante

e il Novecento: qualche spunto per la didattica 64

P

ercorSi

d

idattici

Alice Locatelli, Il dialogo tra Roma e il mondo

ellenico (2). Il latino “agricolo”, “medico”

e “culinario” nel De agri cultura di Catone 67

Angelo Angeloni, Il canto dei trionfi di Cristo,

di Maria e della Chiesa (3). Paradiso, XXIII 71

e

ditoriale

Giuseppe Bertagna, Educare i talenti tra meritocrazia

e meritorietà. Una sfida che aspetta di essere raccolta 3

F

attie

o

PiNioNi

Bioetica: questioni di confine

Francesco D’Agostino, La Bioetica nelle Società

multietniche 9

Vangelo Docente

Ernesto Diaco, La scuola unisce, anche a distanza 10 Parole «comuni»

(4)

Direttore emerito: Evandro Agazzi Direttore: Giuseppe Bertagna

Comitato Direttivo: Cinzia Susanna Bearzot, Cattolica, Milano - Letizia Caso, Bergamo - Flavio Delbono, Bologna - Edoardo

Bressan, Macerata - Alfredo Canavero, Statale, Milano - Giorgio Chiosso, Torino - Claudio Citrini, Politecnico, Milano - Salvatore Colazzo, Salento - Luciano Corradini, Roma Tre - Pierantonio Frare, Cattolica, Milano - Pietro Gibellini, Ca’ Foscari, Venezia - Giovanni Gobber, Cattolica, Milano - Angelo Maffeis, Facoltà Teologica, Milano - Mario Marchi, Cattolica, Brescia - Giovanni Maria Prosperi, Statale, Milano - Stefano Zamagni, Bologna

Consiglio per la valutazione scientifica degli articoli (Coordinatori: Luigi Caimi e Carla Xodo): Francesco Abbona (Torino) -

Emanuela Andreoni Fontecedro (Roma Tre) - Dario Antiseri (Collegio S. Carlo, Modena) - Gabriele Archetti (Cattolica, Milano)

- Andrea Balbo (Torino) - Daniele Bardelli (Cattolica, Milano) - Ashley Berner (Johns Hopkins, Baltimora) - Raffaella Bertazzoli

(Verona) - Fernando Bertolini (Parma) - Serenella Besio (Bergamo) - Lorenzo Bianconi (Bologna) - Maria Bocci (Cattolica, Milano)

- Marco Buzzoni (Macerata) - Luigi Caimi (Brescia) - Luisa Camaiora (Cattolica, Milano) - Renato Camodeca (Brescia) - Eugenio

Capozzi (Suor Orsola Benincasa, Napoli) - Franco Cardini (ISU, Firenze) - Andrea Cegolon (Macerata) - Luciano Celi (Trento) - Luigi Cepparrone (Bergamo) - Mauro Ceruti (IULM, Milano) - Maria Bianca Cita Sironi (Milano) - Michele Corsi (Macerata) - Vincenzo Costa (Campobasso) - Giovannella Cresci (Venezia) - Costanza Cucchi (Cattolica, Milano) Luigi D’Alonzo (Cattolica, Milano) - Cecilia De Carli (Cattolica, Milano) - Pierre de Gioia Carabellese (Edith Cowan University, Perth, Australia) - Floriana Falcinelli (Perugia)

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Anna Lazzarini (Bergamo) - Giuseppe Leonelli - (Roma Tre) - Carlo Lottieri (Siena) - Stefania Manca (CNR - Genova) - Gian Enrico Manzoni (Cattolica, Brescia) - Emilio Manzotti (Ginevra) - Alfredo Marzocchi (Cattolica, Brescia) - Vittorio Mathieu (Torino) - Fabio Minazzi (Insubria) - Alessandro Minelli (Padova) - Enrico Minelli (Brescia) - Luisa Montecucco (Genova) - Moreno Morani (Genova)

- Didier Moreau (Paris 8, France) - Gianfranco Morra (Bologna) - Amanda Murphy (Cattolica, Milano) - Maria Teresa Moscato

(Bologna) - Alessandro Musesti (Cattolica, Brescia) - Seyyed Hossein Nasr (Philadelphia) - Salvatore Silvano Nigro (IULM) - Maria

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(Verona) - Erasmo Recami (Bergamo) - Enrico Reggiani (Cattolica, Milano) - Filippo Rossi (Verona) - Guido Samarani (Ca’ Foscari, Venezia) - Giuseppe Sermonti (Perugia) - Daniela Sorrentino (Calabria) - Ledo Stefanini (Mantova) - Guido Tartara (Milano) - Filippo

Tempia (Torino) - Marco Claudio Traini (Trento) - Piero Ugliengo (Torino) - Lourdes Velazquez (Northe Mexico) - Marisa Verna

(Cattolica, Milano) - Claudia Villa (Bergamo) - Giovanni Villani (CNR, Pisa) - Carla Xodo (Padova) - Pierantonio Zanghì (Genova)

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Chiara Andrà, Domenico Brunetto, Alessia Pini,

Differenze di genere, tecnologie digitali e conoscenza matematica: una fotografia degli studenti

immatricolati ai corsi universitari in Ingegneria (2) 75

Saverio Mauro Tassi, Educare allo spirito di

ricerca: una proposta di didattica multidisciplinare

integrata (2) 80

l

iNgue

Simona Anselmi, Facing the challenge of assessing key

competences: an art-based learning task 86

Elena Freda Piredda, Raz, dva, tri! Un nuovo manuale

per l’insegnamento della lingua russa ai livelli A1-A2 91

(5)

Educare i talenti tra meritocrazia

e meritorietà

Una sfida che aspetta di essere raccolta

Giuseppe Bertagna

G

aio Igino, mitografo romano non si sa ancora bene se del I sec. a.C. o del II sec. d. C., epoca antonina, nel suo Fabulorum Liber, ci ha tra-smesso un racconto mitologico che Heidegger usa in

Essere e tempo (1927) per dire quanto ogni uomo possa

essere tale e crescere come tale soltanto se «dipende» anche in senso etimologico, da Cura, ovvero dalla solle-citudine degli altri, a partire dai genitori, e da quella del mondo e della storia.

Nel racconto, Cura dà forma all’essere umano plasman-dolo nel fango. Giove, invitato da Cura a infondere lo spirito al suo pezzo di creta, volle imporre il suo nome, ma Terra, il fango, intervenne reclamando che venisse data a questa creatura il proprio nome, perché era stata lei a donarle parte del suo stesso corpo.

Saturno, eletto a giudice, decise che questo essere vivente si sarebbe chiamato homo (da humus, fango, terra), che Giove ne avrebbe avuto lo spirito al momento della mor-te, mentre Terra ne avrebbe ricevuto il corpo che gli aveva donato. Cura, tuttavia, lo avrebbe posseduto integralmen-te per tutta la vita, poiché per prima gli aveva dato forma umana e poi perché è la condizione per mantenerla.

Gli insegnamenti del mito

Il racconto ci vuole dire che nessuno essere umano è au-tosufficiente, può fare da solo, senza aver bisogno della cura degli altri, del tempo e dell’ambiente in cui vive. Siamo sempre e tutti immersi in una relazione più o meno simbiotica con gli altri (nella famiglia, nella città, nella scuola, nei gruppi…), con il mondo (a partire dal nostro patrimonio biologico per giungere all’ambiente naturale in cui viviamo) e con la storia.

Da queste relazioni dipende la possibilità di afferma-zione della nostra identità personale e la nostra stessa dignità umana. Per questo abbiamo tutti il dovere di col-tivarle.

Se leggiamo, dunque, il brano di Matteo 25,14-30 (pa-rabola dei talenti) non con gli occhiali dell’economia e

della finanza, come se Dio fosse un investitore, ma con quelli dell’antropologia biblica, dobbiamo riconoscere due insegnamenti:

a) tutti, nessuno escluso, nella più sfortunata delle ipote-si, riceviamo almeno un talento, un’eccellenza; non esi-ste nessun essere umano, disabile o superdotato, quindi, che non abbia qualcosa da far «fruttare» nelle relazioni con gli altri e con il mondo, nel tempo; bisogna solo sco-prire questo talento e metterlo in gioco; talento che può essere anche soltanto chi si è, con la dignità e identità di cui ciascuno è portatore;

b) tutti, nessuno escluso, se non usiamo il talento che abbiamo come occasione per costruire relazioni positive con gli altri e con il mondo, o perché ci pensiamo auto-sufficienti (peccando di superbia, egoismo, narcisismo) e ci ripieghiamo in noi stessi o perché non ci diamo da fare per averle, visto il naturale desiderio di amicizia e di compagnia che è in tutti, ci comportiamo come il servo malvagio e pigro della parabola, e ne dobbiamo subire le conseguenze.

Se tutti, dunque, siamo e abbiamo talenti da scoprire e da valorizzare, mettendoli poi in gioco nello spazio pubblico, si possono identificare tre strategie per una pedagogia che ci cauteli dall’essere risucchiati nell’at-teggiamento del servo malvagio e pigro.

1. Essere autonomi, non autosufficienti

Come si può subito intuire, esiste una rilevante differen-za tra decidere di fare e voler fare una cosa da sé e

pre-tendere di farla e di volerla fare da soli, isolati. Nel

pri-mo caso siapri-mo nell’orizzonte dell’autonomia personale. Nel secondo in quello nell’autarchia individualistica, chiusa agli altri, al mondo e alle dinamiche della storia. Nel primo caso la relazione pedagogica tra un magis-ter (etimologicamente «chi è di più tra due»: il «maestro») e un minus (l’altro dei due che è di meno: il discepolo) resta. Anzi è centrale. Maria Montessori nella prima metà del secolo scorso, ha scritto, ad esempio, pagine

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e

ditoriale

furiose contro i «maestri» che si sostituiscono all’au-tonoma iniziativa del bambino pensando di far loro del bene. Per dirla con la poesia di Alda Merini, infatti,

«chi è convinto di farci del bene spesso ci rovina».

Purtroppo. Però, come ricorda sempre la Montessori, nessun «minore» può fare qualcosa di buono per sé e per gli altri se chi è «maggiore» lo lascia solo e non ha creato e non crea le condizioni relazionali, ambien-tali, culturali perché questo non accada. Ecco perché, nell’ambiente montessoriano, i bambini «innanzi tutto cercano di rendersi indipendenti dall’adulto, in tutte le azioni che possono compiere da se stessi: manifestan-do chiaramente il desiderio di non essere aiutati, se non in caso di assoluta necessità»1. Questo non significa,

tuttavia, né che siano lasciati soli né che non abbiano la sicurezza di avere un «maestro» (sia esso il coetaneo grandone o mezzano sia esso l’educatore o il genitore) che li accompagna e li aiuta quando ne avessero biso-gno e lo domandassero.

Molto diverso il caso, invece, dell’autosufficienza autar-chica e individualistica. Qui ciascuno è un atomo isolato dagli altri, pensa solo a se stesso e pretende di essere il giudice sovrano e la misura di tutto quanto lo circonda e lo riguarda. In questo caso, lo ricordavano Thomas Hob-bes nel 1600 o Charles Darwin nell’ottocento, non c’è fi-ducia reciproca, ma paura, timore e diffidenza degli altri, nel mondo e del proprio tempo, cosicché si finisce per viverli come minacce paralizzanti e per ingaggiare con loro la competizione del più forte, la cosiddetta lotta per la sopravvivenza dell’homo homini lupus. La pedagogia è ridotta, cioè, o ad etologia e zoologia o a mero esercizio del potere (politica). Siamo animali, certo, diceva Aristo-tele. Ma razionali, cioè relazionali, sempre in una giusta distanza con gli altri e con quanto ci è dato vivere.

2. Non confondere meritocrazia e meritorietà

Il termine meritocrazia deve la sua notorietà al libro di Michael Young The Rise of Meritocracy 1870-2033, uscito a Londra nel 19582.

Sociologo e politico laburista inglese, autore del manife-sto che nel 1945 portò al successo elettorale il partito la-burista e aprì la strada al governo di Clement Attlee con-tro quello conservatore di Winston Churchill che aveva guidato il paese alla vittoria, Young scelse il filone della letteratura distopica (il contrario di quella utopica) per raffigurare gli esiti temibili a suo avviso provocati in modo solo apparentemente paradossale dalla volontà di abolire i privilegi della nascita e della ricchezza attra-verso una soluzione, quella meritocratica appunto, che invece li moltiplica.

Il narratore è un sociologo paladino della «meritocra-zia» e critico ironico delle posizioni di coloro che si ostinano a frenare l’avvento definitivo del nuovo ordine. Il racconto si snoda nel corso di un secolo e mezzo, il lungo periodo nel quale alcune riforme fondate sull’e-guaglianza delle opportunità – in particolare nel campo dell’istruzione – sono promosse attraverso una selezione basata prevalentemente sulle prove di intelligenza e sui punteggi acquisiti nei titoli scolastici e universitari. Questa metodologia, secondo Young, trasforma gradual-mente il sistema scolastico in una struttura più selettiva e gerarchizzante di quella iniziale. Come quella dise-gnata da noi nel 1923 dalla riforma Gentile. In questo senso, pensando ai consigli orientativi ancora dispensati oggi, quasi 100 anni dopo la riforma Gentile, alla fine della scuola media, i talenti eccellenti, sono indirizzati al liceo classico o ai licei, quelli un po’ meno eccellenti agli istituti tecnici, quelli ancora meno eccellenti all’i-struzione professionale, quelli ritenuti senza alcun talen-to apprezzabile ai Cfp e quelli ritenuti del tuttalen-to privi di talento sarebbero solo «adatti al mondo del lavoro». Ma davvero possiamo accettare che il lavoro sia concepi-to come un’implicita condanna alla macina da mulino (il

pistrinum di Erasmo e Comenio) o comunque come un

luogo di tortura e afflizione a cui questa mentalità «orien-tativa» (?!) allude? Possibile, scriveva la Montessori3, che

il lavoro sia «l’adempimento di un dovere» che «reca gioia e felicità», oltre che mille occasioni motivanti di scambi sociali e di straordinario sviluppo dell’intelligenza, del sa-pere e delle competenze nell’età infantile, mentre a mano

1. M. Montessori, Il bambino in famiglia, [1923], trad. it., Garzanti, Milano

2000, p. 8

2. M. Young, L’avvento della meritocrazia [1958], trad. it. Ed. di Comunità,

Torino 1962.

3. M. Montessori, La mente del bambino. Mente assorbente, [1949], trad.it.,

Garzanti, Milano 20074, p. 31.

Winston Churchill (30 novembre 1874 - 24 gennaio 1965) e Clement Attlee (3 gennaio 1883 – 8 ottobre 1967).

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a mano si diventerebbe adolescenti e adulti «rappresenti generalmente una funzione piuttosto penosa», nella quale non si apprende più nulla, se non la ripetizione di com-portamenti stereotipati e meccanici nei quali non c’è più alcun gusto4 e che non portano a diventare migliori?

Solo certi tipi di lavoro, guarda caso quelli per cui si fanno lavorare gli altri, sarebbero «fecondi» di stimoli culturali e sociali e «degni» di giovani ed adulti dav-vero eccellenti? Bisognerebbe allora domandarsi perché grandi della storia passata e recente che ricordiamo con ammirazione, da Leonardo e Buonarroti a Caravaggio, da Galileo a Edison, da François Michelin a John Elkan, da Coco Chanel a Cucinelli, da Sergey Brin e Lawrence Page di Google a Steve Job di Apple, fino al più modesto Fabio Volo dei nostri giorni, abbiano «sfondato» non a scuola e in università ma in «impresa», incontrando e sviluppando con studio e intelligenza il proprio lavoro. Uno dei patrimoni più grandi dell’Italia è rappresentato dal lavoro artigiano, basato sull’eccellenza, sulla mae-stria, su quel gusto del fare, e del far bene, che il genio dei nostri padri ha saputo estendere dalle piccole bot-teghe artigiane fino a molte delle nostre medie e oggi anche grandi imprese. Non dovrebbe stupire, quindi, che questo lavoro, se «ben fatto», «a regola d’arte», ed essendo ben consapevoli di quanto è tale e perché, crei vera e ampia cultura, stimoli la formazione di sé, accen-da nuovi orizzonti di creatività e innovazione, consolidi motivazioni all’imprendere, offra soddisfazioni tanto in chi lo esegue, quanto in colui che a vario titolo ne usu-fruisce, insomma sia un’occasione preziosa per quelle soft skill oggi tanto ricercate.

Ha senso, in questo contesto, come fa qualcuno5, ridurre

i talenti delle persone a quelli che si affermano soltanto dentro il modello scolastico e universitario che cono-sciamo? Sarebbe solo questo il segno dell’aristocrazia dell’ingegno: prendere 110 e lode agli esami di stato6 e

poi giungere alle lauree magistrali e ai dottorati di ricer-ca con il massimo dei voti?

Al tempo di Giovanni Gentile su 100 ragazzi che par-tivano al primo anno delle scuole allora chiamate «ele-mentari» solo quasi 4 arrivavano all’università. Oggi la situazione è sicuramente migliorata. Ma possiamo dav-vero vantarci del fatto che su 100 ragazzi che partono nella scuola primaria soltanto 26 arrivino all’università, 4 alla cosiddetta istruzione terziaria oggi composta da Accademie di Belle Arti, Ifts e Its e meno di 2 tra questi 30 ai dottorati di ricerca?

Chi non riesce a giungere in fondo a questo percorso con voti brillanti e resta sul terreno della dispersione scola-stica e universitaria sarebbe privo di eccellenze possibi-li e, soprattutto, socialmente riconosciute e avvalorate,

così che da doversi sentire svilito, se non addirittura fal-lito, ostaggio per l’intera vita della sindrome della

lear-ned helplessness7?

In verità, senza per questo voler mettere in discussione la qualità di chi vince la corsa alla meritocrazia scola-stica e universitaria (cosa peraltro molto dubbia visti i risultati Ocse Pisa ed Invalsi), non siamo nelle condi-zioni di poterci permettere questo spreco di risorse in-tellettuali e professionali. Tutti sappiamo, infatti, che i nati dagli anni trenta fino alla fine degli anni sessanta del secolo scorso hanno oscillato tra gli 800 mila e il milione, mentre oggi sono scesi al numero da collasso demografico di 435.000. I giovani sono la risorsa più importante di un paese. In questo contesto, perdere, o non coltivare al meglio, anche il talento di un solo nato è autolesionista sul piano economico, non rispettoso della dignità delle persone sul piano etico e quasi criminoso su quello pedagogico.

4. P. Warr, G. Clapperton, Il gusto di lavorare. Soddisfazione, felicità e

lavo-ro, Il Mulino, Bologna 2011.

5. R. Abravanel, Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento

e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, Garzanti, Milano 2008.

6. Paradosso dei paradossi: contro ogni insegnamento della pedagogia,

del-la psicologia, dell’economia, delle scienze dell’organizzazione e dell’etica sull’efficacia educativa degli incentivi economici estrinseci, nel 2007, l’al-lora ministro Fioroni fece approvare una legge che assicurava a tutti questi studenti «migliori» un bonus di quasi mille euro. Da allora, mentre è dimi-nuito il numero degli studenti, il numero degli «studenti migliori» è talmente aumentato (soprattutto in Campania, Puglia e Sicilia dove invece i risultati delle prove Invalsi e Ocse Pisa sono largamente insoddisfacenti) che lo scorso anno, essendo il budget rimasto fermo alla posta di bilancio del 2007, il bonus è sceso a 255 euro.

7. Tendenza ad attribuire i propri fallimenti a fattori interni e gli eventuali

propri successi a cause esterne (Ch. Ptersen et alii, Learned Helplessness.

A Theory for the Age of Personal Control, Oxford Univ. Press., New York

1995; M. V. Williams-W.H. Barber, The Relationship of Locus of Control and

Learned Helplessness in Special Education Students, in «Journal of Special

Educational», n. 1, 1992, pp. 1-12).

(8)

e

ditoriale

Non dobbiamo dimenticare, del resto, che le eccellenze talentuose di ogni giovane, nessuno escluso, sono sem-pre analoghe e differenti tra loro, mai univoche e uni-formi per tutti. Non c’è un solo modo di essere «bravi». Tanto meno si è «bravi» soltanto sul metro della me-ritocrazia scolastica e universitaria. Peccheremmo di riduzionismo e ci comporteremmo come Procuste che invece di adattare il proprio letto alle misure dei suoi ospiti, faceva il contrario.

Nella distopia di Young, la stratificazione sociale creata dalla meritocrazia che aveva descritto nel suo racconto avrebbe intensificato le tradizionali, storiche, ma ini-que disuguaglianze di nascita e di ricchezza. Per cui gli esclusi dalla meritocrazia avrebbero maturato un risen-timento talmente violento da sfociare, nel 2033, in una vera e propria rivolta sociale che avrebbe fatto crollare anche l’economia. Il 2033 ci è vicino. Che abbia visto bene Young?

Proprio per rendere giustizia alla parabola dei talenti e all’antropologia positiva che essa suggerisce bisogna allora passare quanto prima dalla logica della merito-crazia a quella della meritorietà personale. Riconoscere che non c’è nessuno senza merito, che non abbia qualche talento da far fruttare. Non tutti i talenti sono scolasti-ci. Molti, anzi la maggior parte, almeno statisticamente, sono extrascolastici: riguardano ad esempio i lavori di cura, l’azione sociale, le arti, i mestieri, i nuovi lavori della rivoluzione digitale o l’ingegno di cambiare, tro-vando le giuste alleanze cooperative e sindacali, i con-notati di un lavoro che non piace perché magari solo obsoleto o peggio ancora non rispettoso della dignità di chi lo svolge. Nel frattempo imparando, studiando, ri-flettendo, informandosi per raggiungere lo scopo. Non è talento, e della miglior specie, anche questo?

Ai veri «maestri», soprattutto oggi, si chiede di fare ogni sforzo per portare alla luce tutte queste eccellenze non sovrapponibili a quelle premiate dalla meritocra-zia classica. Anche se se ne trovasse una sola (l’unico talento della parabola), infatti, poiché, come ammoni-va Blaise Pascal8, «il più piccolo movimento interessa

tutta la natura» e «il mare intero muta per una pietra» che vi è lanciata, proprio quest’unica eccellenza in qual-cosa, esclusiva, che nessun’altro ha, diventa la leva di Archimede a disposizione di veri e sapienti «maestri» per far lievitare la formazione integrale della persona che la possiede. Come ricordava il grande sociologo George Simmel, infatti, «da ogni punto della superficie più indifferente, meno ideale, dell’esistenza, è possibi-le gettare un filo a piombo che ne attinga gli strati più profondi» ed è possibile scoprire «il significato dell’esi-stenza nel suo insieme», nel tempo e nello spazio che è

dato vivere9. Perché, ed era Seneca a ribadirlo a Lucilio,

«subsilire in caelum ex angulo licet: exsurge modo […]

et te quoque dignum finge deo»10. In questo modo, non

si perderebbe davvero nessuno dei già scarsi effettivi di ogni leva d’età e discorsi come quelli dell’inclusione e della lotta alla dispersione formativa non resterebbero soltanto compulsivamente proclamati, ma davvero con-cretizzati.

Michael Young, poco prima di morire nel 2002, affidò alle pagine di un giornale inglese una caustica lettera aperta al premier labourista Tony Blair. Lo accusava di aver messo a punto politiche formative che scambiava-no la sua distopia negativa del 1958 come una utopia addirittura positiva per il futuro11. E contro

l’equipara-zione «merito uguale a lauree e dottorati in università di prestigio», ricorda polemicamente che, ad esempio, nel gabinetto del labourista Clement Richard Attlee del 1945 uno dei ministri più influenti fosse Ernest Bevin che aveva lasciato la scuola a 11 anni per fare il famiglio, successivamente il garzone di cucina, il fattorino, l’auti-sta, il conduttore di tram, prima di gettarsi, all’età di 29 anni, nell’esperienza sindacale. Nello stesso gabinetto, ricorda Young, sedeva anche Herbert Morrison, prima fattorino, poi garzone in drogheria, quindi commesso, poi centralinista, infine eletto alla contea di Londra, fino a diventare ministro dei trasporti, capace del mi-racolo di unificare il servizio passeggeri di superficie e sotterraneo della capitale. Tutto il contrario, accusava Young nel 2001, del gabinetto Tony Blair (1997-2007), espressione paradigmatica della meritocrazia titolata, ma incomparabile con la meritorietà dei self made man del gabinetto Attlee.

3. Individualizzazione e personalizzazione.

Nelle Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento (dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia) allegate al DM 12 luglio 2011 e conseguenza della legge 8 ot-tobre 2010, n. 170 troviamo la seguente definizione del primo termine: «Più in generale - contestualizzandola nella situazione didattica dell’insegnamento in clas-se - l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe, ma è concepita adattando le metodologie in funzione delle

8. Pensiero n. 505, ed. Brunschvicg, in B. Pascal, Pensieri [1670], trad. it.

di G. Auletta e Ines e V.G. Rossi, Paoline, Cinisello Balsamo 1986, p. 294.

9. Dalla presentazione preparata da G. Simmel per la sua Filosofia del

dena-ro 1907 (riportato in G. Poggi, Denadena-ro e modernità. La ‘Filosofia del denadena-ro’ di Georg Simmel, Il Mulino, Bologna 1998, p. 74).

10. Seneca, Lettera a Lucilio, IV, 31, 11.

(9)

caratteristiche individuali dei discenti, con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento delle competenze fondamentali del curricolo».

Il movimento dell’individualizzazione si inaugura, dun-que, dall’alto verso il basso. È deduttivo, discendente. Lo Stato, attraverso il Ministero, quindi, stabilisce ciò che tutti i ragazzi italiani dovrebbero sapere e saper fare alla fine di ogni ciclo scolastico per essere eccellenti e talentuosi. Compito dei docenti e delle scuole sarebbe quello di trovare i modi adatti perché ogni studente si impadronisca di quanto stabilito, e sia amministrativa-mente «promosso».

Nonostante l’individualizzazione, tuttavia, l’Italia è ai primi posti per dispersione scolastica e universitaria e, soprattutto, non brilla nelle indagini internazionali in fatto di qualità delle competenze linguistiche, matema-tiche e scientifiche, senza pensare poi a quelle civiche. Ciò significa che non tutti i nostri studenti trovano in questo modo di concepire e praticare la scuola la loro

scholé, ovvero il loro spazio di felice compiutezza e

realizzazione del desiderio di conoscere che Aristotele poneva ad esordio della sua Metafisica come innato in ogni essere umano.

Diverso invece il movimento della personalizzazione. La persona, infatti, diceva Leibniz, è una monade. Non nel senso che sia chiusa e senza finestre come un atomo, ma nel senso più profondo che ogni monade (ogni persona, cioè) è sempre, anche senza esserne consapevole, in rela-zione con tutti e con il tutto e contiene in sé, ciascuna a modo proprio, il mondo e la storia interi, di ieri e di oggi. Per questo, personalizzare l’apprendimento invece che individualizzare l’insegnamento significa intraprendere un cammino creativo che parte dal basso, induttivo, da

ciascuno, e da qui ascende, si innalza a mano a mano, anche occasionalmente, per scoprire ed aiutare lo stu-dente a riconoscere in modo critico i talenti che possiede nella sua organizzazione razionale del mondo e nel suo modo riflessivo di vivere le relazioni sociali e storiche. In questo modo, si stimano tutti campi in cui una perso-na eccelle, siano essi ritenuti dalla mentalità comune no-bili o plebei, di successo o di sconfitta, veri o falsi, come la vena più preziosa che permette di inoltrarsi nell’aurea miniera inesplorata di ciascuno. Il talento, che sia uni-co o plurale, quindi, da adoperare uni-come grimaldello per entrare nella monade e renderla consapevole non solo di sé e della propria posizione attuale nella società e nel mondo, ma anche e soprattutto di quella possibile, che sarebbe bene assumesse per rendere migliore la propria vita e, tramite questa, quella degli altri, nell’ambiente che si abita.

Con la personalizzazione, quindi, non si tratterebbe più di insegnare a tutti le stesse cose già predeterminate dall’alto, con gli stessi orari di insegnamento, gli stessi giorni di scuola, gli stessi docenti per anno ecc. Bensì si sarebbe chiamati ad accompagnare ogni studente a prendere atto che, in modi diversi e unici, non ripetibili, ciascuno a modo proprio, abbiamo tutti a che fare con le stesse cose, vivendo la stessa società e lo stesso mondo, e pure tutte le società e i mondi che ci sono stati. E a prendere atto che, dovendo narrare queste nostre rela-zioni eco-evo-devo12 nella storia personale e sociale,

sia-mo chiamati tutti a ricondurle ad una unità di senso che ci permette il confronto e l’incontro con altre storie, in un cammino inesauribile di reciproca scoperta. Quindi il sapere e il saper fare comune e condiviso si costruisce a partire dalle specificità di ognuno, con tempi, modi, luoghi, itinerari, contenuti differenti, sempre pattuiti dal soggetto minus con il soggetto magis (da cui maestro, mastro, mago) nel percorso agogico tipico dell’educa-zione.

A maggior ragione in una società digitale orizzontale nella quale i percorsi formativi, siano essi condotti nelle scuole/università o nei luoghi di vita sociale e di lavoro, non sono più quelli canonici e preordinati, ma si pre-sentano intrecciati, imprevedibili, inattesi e, quindi, più cairotici che cronologici o topologici, più bisognosi di teste ben fatte che piene (Montaigne).

Giuseppe Bertagna

12. L’Eco-Evo-Devo (Ecological evolutionary developmental) è la

teo-ria unificata della attuale biologia evoluzionistica (cfr. S. F. Gilbert, D. Epel,

Eco-Devo. Ambiente e Biologia dello Sviluppo, trad. it. di D. Rubolini, A.

Romano, C. Bandi, Ed. Piccin, Padova 2018)

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CARTA

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anche tramite VOL. 1

Dall’antichità a Comenio

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La prima infanzia è, sul piano educativo e pedagogico, una «scoperta» moderna o affonda le sue radici nella storia più antica? Per rispondere in maniera critica e documentata a questo interrogativo, l’autrice esplora in due volumi (vol. I Dall’antichità a Comenio, vol. II Da Locke

alla contemporaneità) le concezioni pedagogiche e le pratiche educative che hanno, di fatto,

accompagnato la condizione delle bambine e dei bambini nella fascia d’età compresa fra 0 e 3 anni dall’antichità fino ai giorni nostri. La ricostruzione è anche occasione per riscoprire le radici epistemologiche di una agoghé del pâis progressivamente finalizzata a gettare le basi di un’educazione capace di confrontarsi con i caratteri precipui della «natura umana». Dall’analisi della prima comparsa di un pensiero «intenzionalmente » pedagogico fra età antica ed età medievale (vol. I), si è passati (vol. II) allo studio della formulazione in età moderna e contemporanea di una pedagogia sistematica della prima infanzia, distinta (anche se mai separata) dai saperi della letteratura, della teologia, della filosofia. Il ricorso ad una pluralità di fonti storiche ha consentito di far emergere dai «silenzi dell’educazione» la figura ancora poco abbozzata dell’infans, riconosciuto però nel corso del tempo come portatore

di un lógos in potenza e, in quanto tale, protagonista e destinatario di un’educazione secundum naturam.

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Da Locke alla contemporaneità

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LA SCOPERTA DELLA PRIMA INFANZIA.

Per una storia della pedagogia 0-3

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Bioetica: questioni di confine

di Francesco D’Agostino

La Bioetica nelle Società

multietniche

Che l’Europa debba ormai preparar-si (e rassegnarpreparar-si!) a diventare mul-tietnica non può creare alcun dubbio, se non in coloro che testardamente rifiutano di ragionare sugli inequi-vocabili dati economici, demogra-fici, politici, religiosi e bioetici del nostro tempo. Come però si possano costruire comunità multietniche pa-cificate, solidali, scevre da tensioni razziali, religiosamente tolleranti, e soprattutto bioeticamente eque, questo nessuno è ancora in grado di dire: le dinamiche volte a costruire e consolidare un diritto alla salute aperto a una piena integrazione degli immigrati, anche le più illuminate e le più generose, si stanno rilevando faticose, equivoche, per non dire fal-limentari. Qualche rapido esempio: crea grosse difficoltà ragionare se-renamente sul modello adottato nel Regno Unito, che ha favorito (con quanta consapevolezza è difficile a dirsi) il riconoscimento al proprio interno di ordinamenti giudiziari etnici e bioetici autonomi, paralleli a quello tradizionale anglosassone: in tal modo si sono di fatto avallate legalmente pratiche familiari per noi europei assolutamente inaccettabi-li, come quelle calibrate su modelli di carattere pesantemente paterna-listico, che negano alle giovani ge-nerazioni – quelle nate nel Regno Unito! – ogni possibilità di auto-determinazione. A sua volta Il mo-dello francese, illuministicamente e ingenuamente convinto del primato ideologico del principio di laicità, ha favorito il crearsi di inquietanti spazi territoriali non solo

etnica-mente e bioeticaetnica-mente differenziati, ma anche socialmente e sanitaria-mente inquietanti, come percepisce immediatamente chiunque, ad es., abbandoni il centro di per avventu-rarsi nelle “banlieues”. Né meglio sta funzionando il modello scandi-navo, che ha deciso orgogliosamente di venire incontro con generosi sus-sidi sociali ed economici ai problemi degli immigrati, ma che alla fine è giunto a riconoscere l’impossibilità di realizzare un ragionevole equili-brio tra le esigenze crescenti delle loro comunità e gli ancor più cre-scenti disavanzi dei bilanci pubblici. La realtà è che l’integrazione etnica, se è difficile a livello sociale, lo è infinitamente di più a livello etico e bioetico: si tratta infatti di una dina-mica multifattoriale, che nessuno è ancora riuscito ad esplorare fino in fondo e che ha al suo centro il nodo gordiano dell’identità: un nodo che

nessun algoritmo riuscirà mai a con-trollare, perché in esso si intrecciano esigenze antagonistiche, spirituali e materiali, individuali e collettive, radicate in una storia passata, che non è più proponibile, e proietta-te in paradigmi futuribili illusori, ambigui e problematici. La verità è che nel mondo di oggi una compiuta integrazione etnica e bioetica è tan-to necessaria quantan-to utan-topica e che ogni passo in avanti che facciamo per realizzarla si accompagna inevi-tabilmente a tanti passi indietro, di cui spesso non prendiamo nemmeno coscienza. La vicenda della diffu-sione del Coronavirus è istruttiva: se è un principio bioetico assoluto quello di garantire a tutti i malati le cure opportune, l’individuazione per ciascun malato, di ciascuna etnia, della cura più opportuna apre dibat-titi laceranti e allo stato attuale non componibili.

Ecco perché gli innumerevoli pro-getti, gli interminabili dibattiti, i no-bili auspici che hanno al loro centro le dinamiche migratorie suonano alle orecchie della maggior parte di noi quasi sempre a vuoto. Il che natural-mente non comporta né giustifica

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F

atti e

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PiNioNi

teggiamenti di resa, nei confronti di quello che ormai appare chiaramente come il più complesso problema dei primi decenni del terzo millennio. Ma è comunque giunto il tempo di assumere, nei confronti di un’uma-nità che ha fatto del “nomadismo” il suo tratto più caratteristico, un atteggiamento che superi gli angusti confini delle scienze umane e della stessa bioetica pensata come disci-plina accademica: è indispensabile assumere un atteggiamento diverso, che si dovrebbe avere il coraggio di definire, senza timidezze, “sapien-ziale”. Il nomadismo non andrebbe analizzato, come si continua a fare, studiando in primo luogo le masse, ma ragionando sugli individui, quin-di anche, e soprattutto, su noi stessi. Dobbiamo riconoscere e mettere in discussione il vuoto di identità che ci è stato trasmesso dalle generazio-ni che ci hanno preceduto: un vuoto che il più delle volte la maggior parte di noi non è più nemmeno in grado di riconoscere. Dobbiamo percepire come un dovere inderogabile quello di costruire, insieme ed accanto agli altri, una nuova identità umana, che sostituisca quella di oggi, così fran-tumata, umiliata e violentata. Infatti, in qualunque modo si struttureranno eticamente le società multietniche di un futuro, che è già, sotto molti profili, un presente, esse non potran-no che essere società “nuove”. E per affrontare il “nuovo” nella sua im-prevedibilità si richiede non solo co-raggio, ma volontà di operare per il

bene: una categoria, questa del bene,

che le scienze umane hanno da de-cenni indebitamente trascurato, ma di cui devono riappropriarsi e che deve tornare a muovere, costi quello che costi, le intenzioni profonde di ciascuno di noi.

Francesco D’Agostino Università di Roma Tor Vergata e Pontificia Accademia per la Vita

Vangelo Docente

di Ernesto Diaco

La scuola unisce, anche a

distanza

L’emergenza provocata dalla diffu-sione nel nostro Paese dell’epidemia da Covid-19 ha messo fortemente alla prova il mondo dell’educazione. Le scuole hanno dovuto sperimenta-re forme inedite di organizzazione e di didattica e al momento è diffici-le intravedere gli sviluppi che tutto questo avrà sull’anno scolastico, gli apprendimenti, gli esami.

Alcune cose però paiono acquisite. In primo luogo, la grande prova di disponibilità e creatività da parte de-gli insegnanti, dei dirigenti e dede-gli stessi alunni. La scuola non sarà più come prima, hanno detto in molti. Fra i segni che rimarranno, vi sarà certamente il valore di un momento che, facendoci sentire tutti più uniti fra noi, al di là dei ruoli, ha esaltato alcuni aspetti essenziali della scuo-la, a partire dall’insostituibilità della relazione educativa. Le tecnologie possono agevolarla e supportarla, mai rimpiazzarla.

Oltre alla nostalgia di quel vivere go-mito a gogo-mito nelle aule, confessata dai giovani anche sui social, è emer-so forte il biemer-sogno di significati e di parole per esprimerli. O anche solo

per descrivere gli stati d’animo che prendevano forma col passare dei giorni. Spesso è venuta in soccorso la nostra storia e cultura: fin dal pri-mo diffondersi del virus, sui media – e in tante conversazioni – era tutta una citazione di Manzoni e di Boc-caccio. Pare che anche le classifiche librarie ne abbiano positivamente ri-sentito. D’altronde, senza la cultura ci mancano le parole, e siamo ancora più esposti e vulnerabili.

Un senso di gratitudine e di atten-zione per il mondo educativo, colpito ma non affondato, è giunto da diver-se parti. Anche alcuni vescovi hanno preso carta e penna (o webcam) per far sentire la loro vicinanza. Uno fra tutti: mons. Claudio Cipolla, vesco-vo di Padova. “Solitamente il valore di una cosa la si percepisce quando essa viene a mancare”, ha scritto. “Rendiamoci sempre più consape-voli che la scuola costituisce un mo-mento indispensabile per costruire la città di oggi e di domani e sentia-moci felici – anche come cristiani – di contribuire al suo compito e di accrescerne la qualità”.

Ernesto Diaco Direttore dell’ufficio nazionale per l’edu-cazione, la scuola e l’università della CEI

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Parole «comuni»

di Giovanni Gobber

Smart

Il virus costringe a stare a casa e a fare lezioni guardando attraverso uno schermo, confidando

nell’ap-prendimento a distanza.

Quest’e-spressione è un anglicismo, e lo è anche didattica a distanza: sono cal-chi su distance education e distance

learning.

La matrice inglese non è subito vi-sibile perché le parole e la loro co-struzione sono italiane: l’inglese usa due nomi e il primo (distance) deter-mina il secondo. L’italiano inserisce una preposizione per legare le due parole, che rispetto all’inglese sono invertite: nell’ordine tipico delle lin-gue romanze, il determinante è po-sto dopo il determinato.

Molte espressioni del linguaggio scolastico recente sono ricalca-te sull’inglese, ma questo influsso sfugge, perché le forme sono quelle dell’italiano. Pensiero globalizzato (espresso con un inglese di sapore sovietico), ma forme italiane. È il progresso nell’epoca del virus Co-rona, che tutti chiamano, all’ingle-se, Coronavirus (vi è chi pronuncia “vairus”, ma passerà anche questo). Più esplicito è l’anglicismo che si manifesta come prestito: in tal caso, oltre al senso e alla costruzione, è imitata la forma fonetica o grafica, e in questo modo è subito chiara la matrice inglese. L’emergenza sani-taria ci fa restare in casa? Ed ecco avanzare il ricorso allo smart

wor-king. Alcuni, ancora legati alla

lin-gua nostra, impiegano lavoro

intelli-gente. Altri usano lavoro agile e non

si capisce perché: smart ha proprio il senso di ‘intelligente’. Ci sono an-che le smart cities ‘città intelligenti’,

perché ovunque è digital tripudio; ci sono anche le smart bombs ‘bom-be intelligenti’, che ammazzano, ma giusto quel tantino che serve. Va dunque bene lavoro

intelligen-te – sempre meglio che le bombe. È

tuttavia lecito chiedersi perché mai il telelavoro sia così ben visto dal pensiero dominante (oddio, l’uso di

pensiero dà per scontato che i

por-tatori di espressioni nel global

main-stream occidentale pensino ancora –

e forse non sempre ciò accade). Può darsi che si apprezzi la riduzione della persona ad agente intelligen-te. Beh, non disperiamo. Il valore dei rapporti umani nel lavoro si ve-drà una volta terminata l’emergenza sanitaria – che poi è un anglicismo su sanitary emergency. Avanti così e ci accorgeremo che stiamo usan-do espressioni inglesi rivestite alla bell’e meglio. Sono espressioni de-cise negli ambiti socio-culturali di prestigio, che hanno voce in capitolo quando si tratti di elaborare

l’agen-da della comunicazione pubblica

in quest’epoca. Sarebbe bello se la scuola decidesse di passare al va-glio tutte queste espressioni, per far emergere i contenuti impliciti e met-terli in discussione. Si tratterebbe di doverosa attività di critical thinking – cioè di ragionamento onesto, per dirla in modo chiaro; a ben vedere, un pensiero deve essere critico, se vuol essere pensiero nel senso della tradizione occidentale – perché mai aggiungere critical a thinking? Se si pensa, si giudica, quindi si è critici. Se non si giudica, non si pensa, ma si riproducono stereotipi o, nel mi-gliore dei casi, pensieri altrui mal digeriti.

L’intelligenza fa male. Il pensiero cri-tico duole là dove si diffondono paro-le intelligenti. A ben vedere, la stessa parola smart racchiude tutto questo: tale voce inglese, infatti, è di schiet-ta matrice germanica. Oltremanica è partito dal senso di ‘tagliente’, che può recar dolore; per immagine, è passato a ‘incisivo, mordace’ ed ‘ele-gante’, giungendo al senso odierno. Ma nelle pianure del continente il parente prossimo di smart è il nome tedesco Schmerz ‘dolore’, che resta legato all’antico uso germanico. Del resto, secondo alcuni studiosi, in queste parole potrebbe esservi una radice indo-europea *mer- col sen-so di ‘far male (perché sfrega, scor-tica)’: è la stessa radice dell’italiana

morte. Da soli, non si impara né si

insegna. L’isolamento dagli altri fa male alla persona.

Giovanni Gobber Università Cattolica di Milano

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P

roblemi

P

edagogici e

d

idattici

Pensieri, emozioni e riscoperte,

ai tempi del coronavirus

Michele Corsi

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on sarà quasi sicuramente, questo, un testo line-are. Perché non lineari sono i nostri pensieri e le nostre emozioni, in questo momento. Spesso mescolati assieme, in uno strano coacervo. Con pensieri «sporchi» e sentimenti confusi e contorti. Che si conta-minano reciprocamente. Accentuati dall’isolamento, pur se non emozionale, che stiamo vivendo.

Del resto, ad adottare il modello analitico-transazionale della strutturazione del tempo e i suoi sei livelli o gradi1,

la solitudine è la sua forma peggiore. Quella, appunto, che favorisce tristezza, melanconia, sino a stati depres-sivi, o prossimi a quest’ultima condizione2, incertezza,

inquietudine e quant’altro di «non leggero» che ci può riguardare.

Di contro all’intimità che, in questa scala, è la sua mo-dalità opposta, fatta di abbracci, carezze psicologiche e fisiche, vicinanza e autenticità.

Una solitudine forzata, e per questo innaturale, o in ge-nerale inumana, cui siamo quotidianamente chiamati, al presente, a dare un senso e a prestargli un significato. Con indubbia fatica, spesso notevole. A seconda anche delle singole storie personali, dei vissuti degli individui e delle esperienze pregresse di tali esistenze.

Con una crescita straordinaria della dimensione dell’in-trospezione e dei processi di autoeducazione e autofor-mazione.

Il tempo sospeso

È la situazione che viviamo, più meno indistintamen-te, con eccezione di quegli irresponsabili, eppure

total-mente egoisti, che vanno ancora in giro per l’Italia e nel

mondo. E non sono pochi: a Trani, il sindaco ha dovuto richiedere l’intervento dell’esercito; a Bari, il sindaco sta richiamando «all’ordine» anziani e giovani e ha messo in funzione i droni; a Milano, i treni della metropolitana sono tuttora affollatissimi; e Parigi, una per tutte, fino

a «ieri» presentava vie frequentate ecc.; convinti o au-to-convinti che l’epidemia da coronavirus sia poco più di un’influenza.

Un tempo «senza i piedi per terra». Senza limiti e con-torni. Indefinito. Un tempo inquieto e assurdamente protratto, come la stagione adolescenziale di questo lun-go periodo di crisi della nostra società contemporanea3.

Con un presente che si proietta su un futuro non dato, e sottratto al nostro potere. Vago, indistinto, come la neb-bia fitta di certe giornate, in cui non vediamo a un palmo dal naso. E ci assalgono l’ansia e la paura. Di sbagliare e di farci del male.

Sospesi per aria.

Un’aria pesante e non salubre. Nettamente contraria agli stili di vita ordinaria e ai presupposti che la go-vernano. Con routine di cui sentiamo fortemente la mancanza.

Solitamente, infatti, siamo tutti più o meno abituati a programmare le nostre giornate (qualcuno, più ne-vrotico, addirittura nei minimi particolari e nelle più piccole frazioni di tempo), a prendere decisioni e ad attuarle lì per allora, a scegliere e a operare con suffi-ciente immediatezza. Prevalentemente all’esterno delle nostre abitazioni, nei luoghi di lavoro e d’incontro so-ciale. Con gli altri.

Ora tutto questo ci è negato, se non in sparute e circo-scritte condizioni legate per lo più al soddisfacimento di taluni bisogni primari come l’approvvigionamento alimentare, le spese sanitarie e quant’altro di simile.

1. Cfr. E. Berne, «Ciao!»…e poi? La psicologia del destino umano,

Bompia-ni, Milano 1979.

2. Cfr. M. Stramaglia, M.B. Rodrigues, Educare la depressione. La

scrittu-ra, la lettura e la parola come pratiche di cuscrittu-ra, Junior, Bergamo 2018.

3. Cfr. P. Blos, L’adolescenza. Una interpretazione psicoanalitica, Franco

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Con modelli di autocertificazione che sono cambiati in 48 ore. In una sorta, nondimeno, quasi da «Stato di polizia», che controlla gli spostamenti delle persone attraverso le celle telefoniche4.

Ma, soprattutto, la domanda che ci poniamo è: fino a

quando?

Questo è il quesito fondamentale, e angosciante, che ognuno di noi si rivolge con assillante insistenza. Certe scadenze, infatti, magari indicateci oggi, nel nostro Paese, dal Governo, pensiamo, e sentiamo, che verranno sicuramente prolungate oltre le date stabili-te (come, di fatto, è già più volstabili-te avvenuto e accadrà). Perché l’alba del superamento del picco e quella della diminuzione del contagio sono tuttora un traguardo lontano. Con l’ulteriore sospensione, così, di ogni pos-sibile sospensione. Sostenendo, fra l’altro, che, prima di riprendere una vita normale, dovremmo arrivare al cosiddetto paziente «meno uno».

Come ai tempi di guerra.

E delle grandi guerre, in particolare.

Con un coprifuoco che è palpabile nelle nostre città. E con gli stessi medici che vengono detti «essere al fronte» o «in trincea».

Tutti, quindi, ad ascoltare i vari, continui, notiziari te-levisivi come fossero, appunto, bollettini bellici. Di una guerra ora virale. Meno violenta e sanguinosa

di quelle politiche e militari. Più sottile e invisibile. Ma tremenda. Dove il nemico adesso è l’altro che incon-triamo nelle nostre rare uscite da casa, il vicino, e forse anche il familiare. Il loro respiro. Con, al posto degli elmi medioevali, le introvabili mascherine. Vestiti di ferro un tempo, e attualmente di occhiali di plastica, guanti e camici. A ricercare, come nelle pesti del mil-lennio precedente, gli untori e, cioè, i pazienti zero o uno di questa pandemia. In una globalizzazione, tutta da investigare e forse riscrivere, come ai tempi della prima grande pandemia semi-mondiale del 1346-48, che si estese dall’Himalaya alla Cina, e poi a Caffa in Crimea, per essere infine portata, in larga parte di Eu-ropa, dai mercanti-navigatori genovesi. O in occasio-ne della «spagnola», di cent’anni fa, che di vittime occasio-ne fece, complessivamente, tra i 60 e i 90 milioni.

Nella farmacia e nella panetteria vicine alla mia abi-tazione, sui lati dei banconi, rivolti al pubblico, hanno «alzato» delle paratie di vetro o di plastica per «proteg-gersi», il personale, dai clienti potenzialmente infetti. Saranno tolte, quando tutto questo passerà?

O una coda di reciproco sospetto rimarrà nei nostri comportamenti nondimeno abituali?

Ovvero, fuori dagli alimentari e dai supermercati, dove si entra uno o due per volta, chi è fuori ferma con un gesto perentorio della mano, e con un’aggressività nemmeno semi-latente, il successivo avventore (vicino

o nemico?), prescrivendogli di fare la fila.

Uno scenario in chiaroscuro

Una dimensione sociale questa, al presente, fatta di luci e di ombre. Talora pure di messaggi-massaggi contrad-dittori. Che ha capovolto molte delle nostre condotte quotidiane.

E con scoperte o riscoperte impensabili fino a poco tempo fa.

Abbiamo individuato il vicino – come si è scritto poc’anzi –, o la prossimità abitativa, ma rimanendo

di-stanti e ognuno a casa propria, come una risorsa.

Non è più soltanto il rompiscatole rumoroso o la per-sona con cui litigare nelle riunioni di condominio, ma è colui con cui cantare dai balconi, o dalle finestre, canzoni di vario genere.

E, fra tutte, in questo perenne flash mob, l’inno di Ma-meli.

4. Tanto che qualcuno disserta, anche criticamente, di libertà, individuali

e costituzionali, soppresse. Mentre, personalmente, sono a favore di misure ancora più drastiche e severe da parte dello Stato e delle regioni. Che il pre-mier Conte ha preso, ad esempio, il 21 marzo. Con altro di maggiormente restrittivo che verrà forse deciso in futuro.

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idattici

Il concetto di Patria dilaga in lungo e in largo, e il senso di comunità è continuamente proposto come un valo-re altissimo, in parte già valo-realizzatosi e in parte tutto da perseguire.

Su molti balconi e sui portoni di molte abitazioni è appe-so il tricolore italiano.

E questo è un bene: una condizione luminosa.

Ma, sino a ieri, tutto questo non era demodé o destrorso? L’Italietta anche recente, che una parte di Europa pareva snobbare, il Paese della pizza, degli spaghetti e dei man-dolini ecc., ora sembra diventato una grande nazione: il «modello Italia» da imitare pure al di fuori dei nostri confini.

Con la bandiera illuminata sulle cascate del Niagara come sul Municipio di Sarajevo o sul Cristo di Rio de Janeiro. Oltre che su numerosi palazzi delle nostre isti-tuzioni nazionali.

L’Unione Europea procede, però, ancora in ordine spar-so, anche se sta correggendo molti dei suoi «egoismi», come ha affermato, di recente, David Sassoli. E

speria-mo che questo avvenga maggiormente in futuro. Dando

spazio all’affermazione delle singole nazioni. E dove ognuna si difende come ritiene più utile o necessario,

alzando barriere scomposte. Col trattato di Schengen in buona parte sospeso, all’interno e all’esterno. Tanto da dover invocare la non limitazione della libera circola-zione delle merci. E pure immaginando una sotterranea guerra commerciale fra Paesi. Invitando ad acquistare, da noi, prodotti solamente italiani. Con un strisciante anti-europeismo che si fa ogni giorno più evidente. Da cui origina una domanda fondamentale: ci saranno più Europa o meno Europa, dopo questa terribile pandemia? Nondimeno auspicando con forza, e al tempo stesso, re-golamentazioni generalmente condivise a livello euro-peo e risorse economiche in ottima quantità da mettere a disposizione. E criticando certe affermazioni trascorse di pseudo-indifferenza (verso lo spread che è cresciuto, anche se a fasi alterne) o d’inconcepibile «rigorismo» a opera della BCE. Che però ha finalmente cambiato rotta, immettendo, sul mercato europeo, e sinora (ma molto ancora, e di utile, si dovrebbe, o potrebbe, verificare in futuro), 1.100 miliardi per contrastare l’epidemia. Pure se non risolvono, come sostengono taluni economisti, la spaventosa, attuale, crisi di liquidità. Già esistente in Italia; e, a breve, dovunque.

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ascoltatori o, piuttosto, un certo fastidio ed emozioni di segno contrario. E, qualche volta, pure rabbia e una la-tente, confusa, situazione prossima alla depressione. Rivolgiamoci, adesso, proprio al sistema sanitario pub-blico, in particolare.

Con numeri non irrilevanti di questo personale conta-giato nel prestare soccorso (in Italia l’8,3%, al 21 marzo, più del doppio di quanto è accaduto, a un tale livello, in Cina).

Ed esaltato, oggi, a ragione.

Con tagli, invece, che sono stati operati sulla sanità, nell’ultimo decennio e oltre, in una «cattiva program-mazione», e con un errore clamoroso al riguardo. Al pari degli scarsi investimenti, da sempre, a favore della ricer-ca scientifiricer-ca.

E con il decreto «Cura Italia» che è di fatto, attualmente, una manovra in controtendenza nondimeno rispetto alla precedente e a quelle del passato, indirizzata principal-mente, e in forma consistente, a tre grandi indicatori del Paese, e del Welfare, oltre che giustamente alla protezio-ne civile, quali la salute, le famiglie e il lavoro. Ma con soli 25 miliardi in proposito, a fronte delle centinaia di miliardi messi a disposizione da Paesi quali la Francia, la Germania e la Spagna o dei mille miliardi di dollari degli USA.

Con la laurea in medicina diventata ora abilitante, e assumendo da subito medici e infermieri. Ma non so-stituendo, fino a ieri, chi andava in pensione. E con la prevenzione divenuta, al presente, una specie di «grida manzoniana».

Infine, e concludo, anche se potrei portare numerosi al-tri esempi, parlando delle carceri.

Figuratevi se posso condividere le recenti rivolte che vi sono avvenute. Ma di questo poco civile «cassonetto so-ciale» del nostro Paese, dove l’affollamento è straziante, e il contagio, se si realizzasse, avrebbe una rapida dif-fusione, non si potrebbe pensare a forme di detenzione domiciliare per chi sconta, ad esempio, una pena di un anno o di pochi mesi, o per chi, di giorno, va a lavorare al di fuori di esse?

Michele Corsi Università di Macerata

Mentre, sempre in Europa, c’è chi comincia a proporre i coronavirus bond, a fronte di quegli Eurobond messi sotto accusa, non molto tempo fa, come un pericolo-so azzardo. E si è invocata la pericolo-sospensione del patto di stabilità (ora raggiunta), che è stata alla base di tutte le manovre economiche e delle leggi finanziarie pure dei Paesi cosiddetti non virtuosi: dalla Grecia all’Italia ecc., e l’utilizzo dei fondi del MES «senza vincoli».

O lamentando il comportamento della Gran Bretagna (ormai in exit U.E.) che, però solo recentemente, ha «in-vitato», ma non prescritto, a non uscire, specie gli ultra 70enni, e a evitare i luoghi affollati. Ma che non sem-bra avere tuttora rinunciato al principio dell’immunità

di gregge, attuabile, di prassi, quando è disponibile un

vaccino, che qui non c’è. O con la Lega di quel Paese che ha sospeso le partite di calcio, ma non il suo Governo. Anche se, finalmente, ha deciso adesso la chiusura di tutte le istituzioni scolastiche e dei locali pubblici, an-corché, questi ultimi, «a singhiozzo»5.

Ma, pure a livello degli Stati europei nel loro complesso, siamo convinti che molto ancora di urgente e necessario, di comunitario, si dovrebbe realizzare nelle settimane e nei mesi a venire. Con uno scenario, dunque, in continua evoluzione.

Comunque: auto-regolamentazione, «nazionalismi di ri-torno» o etero-regolamentazione?

C’è un po’ di tutto questo, al presente, in un magma spesso non separabile.

E domani?

Veniamo ora alla nostra televisione di Stato. Continui, e insistenti, i notiziari televisivi e le disposizioni perento-rie a rimanere a casa. Con un martellamento incessante. Al più «distantimauniti», come in uno spot dell’Ufficio governativo per lo Sport.

Ma poi immagini, parimenti incalzanti, di familiari

vi-cinissimi sui balconi a cantare di tutto e di più6. O altro

di simile.

Oppure, come in un’altra ripresa, abbiamo assistito an-che a taluni operatori sanitari, uno sull’altro, affacciati a una finestra, che cantavano l’inno nazionale.

E con una pubblicità a intervallare, in aggiunta, tutto questo, che ci rappresenta feste, movide e assembramen-ti di ogni assembramen-tipo. E che solo da pochissimo tempo, e con una percentuale minima, si sta «adattando», o riciclan-do, conformemente alla situazione attuale.

È il dio denaro che fa da padrone a quest’ultima o è la speranza in un ritorno alla precedente economia di mer-cato?

O certe trasmissioni televisive odierne d’intrattenimen-to (senza volerle citare), per le quali c’è da chiedersi se aiutino davvero l’insorgenza di sentimenti positivi negli

5. Col sindaco di Londra che ha messo finora a disposizione dei senza tetto

300 stanze di alberghi. E colla Caritas italiana che ha assunto provvidenze similari.

6. Per contro, un servizio televisivo ci ha fatto vedere un convento fuori

Roma in cui l’apparecchiatura, nella sala del refettorio, dei quattro frati lì residenti, prevedeva, a tavola, il distanziamento di un metro. E il convento è la «casa» dei religiosi.

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