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Paradiso: la giustizia è misericordia

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 52-54)

Se il tema della giustizia percorre l’intera Commedia, nel

Paradiso Dante le assegna un luogo specifico: il sesto

cielo, quello di Giove, che ospita gli spiriti giusti. Essi si dispongono davanti a Dante in modo da formare la frase iniziale del biblico libro della Sapienza: «diligite iusti- tiam qui iudicatis terram» (Pd XIX 91-93); poi i bea ti che compongono la M finale si collocano in forma pri- ma di giglio, in seguito di aquila. Le anime raccolte nel becco dell’Aquila si rivolgono a Dante e ne formulano in sua vece la «question cotanta crebra» che lo tormenta da lungo tempo e che verte sulla condanna di quei giusti che, non avendo potuto, senza loro colpa, conoscere Dio, sono pur tuttavia esclusi dalla Sua visione (tra essi, gli spiriti magni condannati al limbo): «Un uom nasce a la riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva; / e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, / senza peccato in vita o in sermoni. / Muore non battezzato e senza fede: / ov’è questa giustizia che ‘l condanna? / ov’è la colpa sua, se ei non crede?» (Pd XIX 69-78). Dobbiamo porre attenzio- ne in particolare al penultimo verso, poiché non si tratta di sapere dove stia la giustizia, ma, ben più radicalmen- te, se ci sia una giustizia; non a caso una domanda così provocatoria, al limite della blasfemia, è posta in bocca agli spiriti giusti, non a Dante. È l’antichissima domanda di Giobbe a Dio, che ha permesso a Satana di provarlo fino al limite delle forze; la risposta dell’Aquila ricalca la risposta di Dio a lui, ponendo l’accento prima sulla piccolezza e insufficienza dell’uomo («“Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta di una spanna?”»: Pd XIX 79-81), poi dichiarando, come argomento conclusivo, l’i- dentificazione totale tra Dio e la giustizia: «Cotanto è

giusto quanto a lei [cioè, alla volontà divina] consuona» (Pd XIX 88). La risposta alla domanda suscitata dalle ingiustizie, di ogni tipo, che sgomentano e interrogano la nostra esistenza non può essere che una risposta di fede, dice l’Aquila: il fondamento della giustizia è Dio, quel che Lui vuole è giusto perché lo vuole; il fatto che a volte la sua giustizia sia incomprensibile, non significa che non ci sia ma solo che noi non siamo in grado di com- prenderla. Il nodo, in realtà, non è sciolto, come dimostra già il canto successivo, quando l’Aquila presenta a Dante le sei anime giuste che costitui scono il suo occhio: il pro- feta Davide ne è la pupilla, mentre a formare il ciglio si susseguono l’imperatore romano (e pagano) Traiano, il re giudeo Ezechia, l’imperatore Costantino, il re normanno di Sicilia Guglielmo II, infine l’oscuro guerriero troiano Rifeo, appena nominato di passata nell’Eneide. L’Aquila stessa non si stupisce dello stupore di Dante nel vedere in Paradiso il pagano Traiano e un pressoché ignoto guer- riero vissuto parecchi secoli prima di Cristo, per di più in terre lontane dall’ebraismo: «La prima vita del ciglio e la quinta / ti fa meravigliar, perché ne vedi / la regione degli angeli dipinta» (Pd XX 100-101). In effetti, al sen- tire siffatto elenco Dante era sbottato in un impetuoso «Che cose son queste?» (Pd XX 82), domanda che se- gnala lo stupore, la meraviglia, lo ‘scandalo’ di fronte al fatto che li provoca. Passi per Traiano, che una diffu- sa tradizione voleva risuscitato da san Gregorio Magno affinché potesse convertirsi, venire battezzato e quindi salvarsi; ma Rifeo, altrimenti ignoto? E perché – sem- bra sottintendere Dante – Rifeo sì ed altri no? Perché, ad es., il suo amato Virgilio no? Si tocca, quindi, il grande problema della predestinazione, legato a doppio filo con quello della giustizia divina: l’Aquila, ancora una volta, invita Dante, e tutti gli uomini, a prendere atto della loro limitatezza nei confronti di Dio e quindi a tenersi «stretti / a giudicar» (Pd XX 133-34).

Al termine di questi due canti, l’incomprensibilità e l’in- commensurabilità di Dio e della sua giustizia sono con- fermate e ribadite. Dante ha incontrato molte anime la cui collocazione tra i dannati o tra i salvati gli è parsa ingiusta, incomprensibile, scandalosa: dopo l’incontro con gli spiriti giusti lo scandalo, l’incomprensibilità, l’ingiustizia agli occhi dell’uomo permangono. Non sor- prenda il ricorso al termine «ingiustizia», che è usato da Beatrice stessa, quando deve spiegare a Dante come mai Piccarda e Costanza, che hanno abbandonato lo stato monacale non di loro volontà ma in quanto sforzate, go- dono perciò stesso di una minor beatitudine (oggettiva, non soggettiva): «Parere ingiusta la nostra giustizia / ne li occhi d’i mortali, è argomento / di fede e non d’eretica nequizia» (Pd IV 67-69). La condizione cui soggiaccio-

Maestro anonimo, Gli invidiosi, 1444/1450, dettaglio di una miniatura, Commedia di Ferdinando d’Aragona, British Library, Londra, Inghilterra.

no Piccarda e Costanza è duplice e contraddittoria: da un lato, sono collocate in un cielo minore perché hanno mancato, senza loro colpa, ai voti; e tuttavia, ciò non im- pedisce loro di godere della pienezza della beatitudine, poiché posseggono tutta quella che possono possedere e desiderare: pena e premio, giustizia e misericordia stan- no misteriosamente insieme. È «l’inspiegabile, l’ingiusta, la misteriosa, grande festa del Perdono» (V. Jankélévitch,

Il perdono, Milano 1968, p. 222). Dante ne aveva già avu-

to molte dimostrazioni in particolare nell’Antipurgato- rio, costellato di penitenti dell’ultima ora, che riscattano un’intera vita malvagia grazie ad «una lacrimetta» (Pg V 107): lo scomunicato Manfredi, Buonconte da Montefel- tro, vere e proprie incarnazioni narrative della splendida parabola dei lavoratori dell’ultima ora. Il Dante perso- naggio conosce, anche sul tema della giustizia, un iti- nerario di conversione, che potremmo così sintetizzare: passa dall’adesione, anche attiva, alla giustizia retributi- va nell’Inferno, alla condivisione – nei gesti, nelle paro- le, nel tono – della giustizia riparativa e riconosce infine l’eccedenza della giustizia/misericordia di Dio rispetto alle categorie umane («Misericordia non tollit justitiam, sed est quaedam justitiae plenitudo»: Tommaso, Summa

Theologiae, I, quaestio 21, art. 3 ad 2). Il riconoscimen-

to riposa su un atto di fede, di quella fede che viene in soccorso alla ragione, chiamata dalla ragione stessa che riconosce – proprio in quanto ragione e con un atto di ragione – i propri limiti.

E il Dante autore? Per il Dante autore, spiegare al lettore la teoria e la prassi della giustizia retributiva applica- ta nell’Inferno non è certo difficile; più difficile, forse, ma non troppo, indurlo ad accettare una concezione di giustizia non più rigidamente formale e prevedibile (e quindi anche rassicurante), ma traversata e aperta e modificata dall’amore che perdona e che salva. Il vero problema lo pone ciò che Dante apprende nel Paradi-

so: come comunicare ciò che è incomprensibile? Come

comunicare al lettore l’idea della incomprensibilità e nel contempo della profonda verità della misericordiosa giustizia di Dio? Il Dante autore rinuncia a razionaliz- zare e a verbalizzare ciò che non è né razionalizzabile né verbalizzabile, per quanti sforzi l’uomo faccia; deci- de invece, con uno dei suoi colpi di genio, di riprodurlo nel proprio poema. Se Dio pone davanti al pellegrino dei dannati che il giudizio del mondo presumeva salvi (si pensi solo ai numerosissimi religiosi, secolari o re- golari, papi compresi; o a Guido da Montefeltro); e, per converso, dei penitenti o dei beati che si supponevano condannati all’Inferno, fino al caso scandaloso di Rifeo, allo stesso modo il Dante autore, costruendo la propria opera, pone di fronte al lettore dei veri e propri enigmi:

citerei almeno il rilevantissimo ruolo assegnato a due pagani quali Virgilio e Catone, guida di Dante fino al Paradiso terrestre il primo, custode dell’intero Purgato- rio il secondo. Si aggiunga che il primo caso insolubile è costituito dallo stesso Dante personaggio: egli, di fatto già condannato dal «duro giudicio» di Dio, è miracolo- samente salvato dall’intervento della Vergine: «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ‘mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio la su frange»: If II 94-96. Anche quest’ultima scelta va aggiunta al no- vero delle tante «sorprese sconcertanti» (R. Hollander,

Ancora sul Catone dantesco, «Studi danteschi», LXXV,

2010, pp. 187-204) cui Dante ricorre; quelle che ho ap- pena ricordato servono a porre davanti al lettore una sorta di trascrizione narrativa, degli esempi viventi – e inspiegabili – dell’insondabile giustizia di Dio. Il Dante autore, non riuscendo a spiegare gli arcana di Dio, si fa dunque Suo imitatore: come la giustizia di Dio eccede le capacità di comprensione dell’uomo, così la Comme-

dia scardina le consuetudini mentali, le idee ricevute, i

paradigmi della giustizia umana, ponendo il lettore di fronte a scelte che sono insieme delle sorprese narrati- ve e degli enigmi irriducibili a ogni razionalizzazione: come la salvezza concessa a Rifeo eccede le capacità di comprensione dell’uomo, così la decisione di Dante di fare di Catone il custode del Purgatorio, di scegliere il pagano Virgilio come guida e di tacere sul suo destino una volta che egli ha esaurito la sua funzione, lasciano aperto un residuo di senso che nessuna interpretazione è riuscita – almeno finora – a saturare fino in fondo.

Pierantonio Frare Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Maestro anonimo, L’Aquila e gli spiriti giusti, 1444/1450, dettaglio di una miniatura, Commedia di Ferdinando d’Aragona, British Library, Londra, Inghilterra.

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tudi

Ulisse, il serpente e san Paolo:

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 52-54)