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Inferno: la giustizia retributiva

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 48-50)

La maggiore o minore gravità del peccato commesso è manifestata dalla diversa collocazione dei dannati e dei penitenti: i dannati sono tanto più lontani da Dio quanto più gravi sono le loro colpe, i penitenti tanto più vicini a Dio quanto più forte è stata la loro risposta al Suo amo- re. È questa l’unica e inderogabile legge che presiede alla distribuzione degli spiriti nei due regni. La maggior lontananza da Dio implica dunque una maggior gravità della poena damni, ma non implica che la poena sensus sia progressivamente più dolorosa. La disposizione delle molteplici pene infernali e quella delle poche penitenze purgatoriali non risponde alla necessità di graduarle da un minimo a un massimo di dolore, ma ad altri crite- ri, che da un certo punto in poi sono stati identificati nell’applicazione del cosiddetto «contrapasso», termine introdotto dallo stesso Dante (If XXVIII 142), che l’En-

ciclopedia Dantesca (S. Pasquazi, voce Contrapasso)

spiega come «applicazione dantesca dell’antico principio detto “legge del taglione” (se ne veda la formulazione biblica in Ex 21, 23ss; Lev 24, 17-20; Deut 19, 21)». Essa pare tuttavia inadatta a rendere conto senza eccezioni della grande varietà delle pene dispiegata nell’Inferno: l’occhio per occhio, dente per dente non vi trova rigo- rosa applicazione, se non in qualche caso. Alla ricerca di principi generali, converrà accontentarsi di una cer- ta genericità e proporre quindi che il criterio regolativo faccia capo sostanzialmente a una idea retributiva della

giustizia (che è, del resto, la stessa a cui si ispirano lex

talionis e contrapasso), sintetizzabile nell’assioma ‘male

per male’. Nell’Inferno, l’applicazione della giustizia re- tributiva è aggravata da una sorta di ironia infernale, che fa sì che, quando possibile, la pena sia in qualche modo – per entimema, per contrasto, per analogia – si- mile, o anche solo collegabile, al peccato che punisce. La poena sensus, quindi, svelando la propria somiglian- za con la colpa, rivela anche che la colpa porta già in sé la propria pena, che la seconda è già inscritta nella pri- ma: è il peccatore che si condanna da sé a una pena che è latente nella colpa stessa, così come è il peccatore che, avendo voluto allontanarsi da Dio, si è condannato egli stesso alla poena damni che subisce. Dunque, la poena

damni è regolata da un criterio spaziale, di maggiore o

minor lontananza da Dio; la poena sensus è ispirata alla giustizia retributiva, con l’aggiunta, ove possibile, di un legame con la colpa.

Queste due caratteristiche sono comuni all’ordinamento morale dell’Inferno e del Purgatorio; nell’Inferno se ne aggiunge una che è specifica di quel regno e che pertiene alla natura sociale della colpa e della giustizia, che stava molto a cuore a Dante. La si trova già nel canto VII, quando avari e prodighi, ogni volta che si incontrano, si scherniscono e si rimproverano a vicenda, per l’eter- nità («Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì / si rivolgea ciascun, voltando a retro, / gridando: “Perché tieni?” e “perché burli?”»: If VII 28-30); nel canto successivo le «fangose genti» (gli iracondi) fanno «strame» di Filippo Argenti (If VIII 58-63), evento che si deve presumere si ripeta periodicamente, contro Filippo e contro altri suoi compagni di pena, stante la ripetitiva fissità che governa l’Inferno. Notissimo a tutti, poi, è l’episodio di Ugolino, che accresce la pena dell’arcivescovo Ruggeri rodendogli il cranio (If XXXII, 124-32) e si vendica di lui raccontando a Dante le terribili modalità della sua morte; ma già gli scialacquatori, per salvarsi dalle «nere cagne, bramose e correnti», che li inseguono, si rifugia- no tra gli sterpi, lacerando e straziando in tal modo i corpi-pianta in cui sono costretti i suicidi e accrescen- do quindi il loro dolore (reciprocamente, i corpi-pianta dei suicidi graffiano i corpi nudi degli scialacquatori: If XIII). Questo fenomeno si presenta nella sua forma più

pura e più concentrata in If XXV, che descrive la pena dei ladri: essa consiste nell’essere trasformati continua- mente o in forme mostruose, metà uomo metà serpente, o in serpenti veri e propri. Soprattutto, il dannato, una volta divenuto serpente, morde un altro dannato, provo- cando la trasformazione di questi in serpente e il proprio ritorno allo stato ‘umano’. Ci troviamo di fronte ad una delle tante straordinarie intuizioni dantesche, che anti- cipa di secoli una disperata e ormai proverbiale sentenza di Sartre: «l’enfer, c’est les Autres». Si potrà obiettare che ciò non avviene sempre, o almeno non sempre espli- citamente; ma l’obiezione cade se si ricorda che i custodi infernali non sono stati in vita niente altro che creature – alcune mitologiche, è vero – soggette al peccato: e che il loro compito precipuo è quello non solo di sorvegliare, ma anche proprio di punire i peccatori. Ciascun danna- to, dunque, è pena all’altro dannato: e ciò vale perfino per gli amanti per eccellenza, Paolo e Francesca. Del resto, l’Inferno è posto sotto la giurisdizione diretta di Lucifero, del quale i custodi infernali sono emanazio- ni, copie in piccolo, che imitano il loro modello: ad es., come Lucifero morde e graffia Giuda, Bruto e Cassio (If XXXIV 1-67), così Cerbero «graffia li spirti ed iscoia

ed isquatra» (If VI 18). Collocando l’Inferno sotto la so- vranità di Lucifero, Dante assegna a lui la responsabilità del tipo di giustizia ivi operante: tutto, naturalmente, di- pende dagli imperscrutabili disegni di Dio, ma l’Inferno intero porta l’impronta di Lucifero: già a partire dalla sua forma, perché la voragine infernale che lo ospita è stata causata proprio dalla caduta dell’angelo ribelle. Sua, dunque, è la giustizia sostanzialmente retributiva che lo governa; e poiché l’Inferno è un mondo alla ro- vescia, che esiste solo come un calco negativo del Pur- gatorio, un vuoto rispetto ad un pieno (poiché malum

est privatio boni) non sorprende che l’esercizio di questa

giustizia sia retto da una logica paradossale, che si ritor- ce contro chi la amministra, in una sorta di auto-canni- balismo: Lucifero vuole e deve premiare i suoi, e infatti lo fa tenendo i peggiori più vicini a sé, addirittura incor- porandoli tramite la masticazione. Terribile e blasfema parodia del sacrificio eucaristico. Inoltre, la caduta di Lucifero ha provocato, assieme alla voragine infernale, anche l’emersione della montagna del Purgatorio, cioè «di quel secondo regno / dove l’umano spirito si purga» (Pg I 5-6), chiamato a svelare l’inumanità delle regole del primo: Lucifero, nel momento stesso in cui sembra affermarsi, si autonega, nel momento stesso in cui di- venta re dell’Inferno dichiara la vanità (nel senso lette- rale del termine) del proprio regno. Allo stesso modo, ciò che Lucifero considera un omaggio alla fedeltà dei suoi si rivela, traguardato dalla prospettiva di Dio, e da quella dell’uomo da lui salvato, per quello che è vera- mente, cioè una terribile pena. Ugualmente, la giustizia retributiva rivela la sua caratteristica di vuoto modello formale, in cui la restituzione del male per male mani- festa la propria natura diabolica, la propria provenienza dal principe delle tenebre. Sarà il Purgatorio a smasche- rare un modello che costituisce una tentazione forse pe- renne per l’uomo, dovuta insieme alla sua semplicità e all’apparente ristabilimento di un equilibrio infranto, di una armonia formale tra offesa e pena. Luciano Eusebi (Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rile-

vante per l’ordinamento giuridico?, «Criminalia», 2010,

pp. 637-655) ha messo in rilievo che «la dinamica retri- butiva del punire» è da millenni data per scontata, come se si trattasse di un dato naturale, non culturale, al punto che «la gravità di quanto accaduto […] per secoli è stato inteso come ciò che la pena sarebbe chiamata a visualiz- zare mediante la sofferenza che arreca». L’ordinamento morale dell’Inferno dantesco risente di questa conce- zione, tanto diffusa da essersi resa quasi impercettibile; ma c’è anche da domandarsi quanto la Commedia abbia a sua volta rafforzato l’adesione, nel sentire comune, a un modello retributivo di giustizia. L’ambiente retribu-

Statua di Dante in marmo di Carrara di Ugo Zannoni (Verona 1836 - 1919) inaugurata il 14 maggio 1865. Piazza dei Signori, Verona.

S

tudi

tivo in cui Dante si trova immerso contagia anche lui. L’atteggiamento del Dante personaggio verso i dannati oscilla tra i due poli della compartecipazione (nelle for- me della pietà o dell’ammirazione ecc.) e del distacco, che può arrivare fino allo sdegno o alla vendetta irosa. Non possiamo esaminare tutti questi casi, che hanno provocato una discussione critica secolare: si potrebbe però tracciare una linea di tendenza, che vede prevalere la pietà nei primi canti (con l’acme del canto V, davanti a Francesca, e la notevole eccezione dell’atteggiamento fortemente vendicativo nei confronti di Filippo Argenti nel canto VIII). per poi passare a una sostanziale adesio- ne alla giustizia retributiva, evidente soprattutto negli ultimi canti.

L’adesione del Dante personaggio a una giustizia re- tributiva che è molto simile alla vendetta si spiega, dal punto di vista storico, con il fatto che per i suoi contem- poranei la vendetta non era altro che un dovere previ- sto e regolamentato dalle leggi e che Dio era concepito generalmente come un Dio che punisce. Sul piano er- meneutico occorrerà ripetere che nel regno di Lucife- ro il contagio del male non risparmia nessuno, neppure Dante. Il contesto storico, il diritto civile e canonico del Medioevo, la presenza di una simile concezione di giu- stizia in numerosi passi biblici veterotestamentari, l’in- contro con il male esperito nell’Inferno spiegano l’iden-

tificazione posta dal pellegrino tra giustizia retributiva e giustizia divina. Bisognerà attendere la conversione del

viator e l’attraversamento del Purgatorio perché egli si

renda conto che la giustizia praticata nell’Inferno è solo una maschera indossata dalla vendetta per ammantarsi di legalità o addirittura di moralità, dietro lo schermo di alcuni passi del Vecchio Testamento. La lode del «buon Marzucco», «forte» perché ha perdonato l’uccisore di suo figlio, affidata a Pg VI 17-18, sarebbe impensabile nell’Inferno. Dante personaggio sta compiendo un pro- prio itinerario di conversione, nel quale il rapporto con la giustizia divina riveste un ruolo tutt’altro che secon- dario: nell’Inferno, egli crede ancora che vendetta e giu- stizia siano in ultima analisi la stessa cosa, che Dio sia, sostanzialmente, un Dio castigatore.

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 48-50)