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La costruzione della memoria

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Academic year: 2021

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La costruzione della memoria

Francesca Mugnai

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Francesca Mugnai

La costruzione della memoria

Con scritti di: Lisa Carotti (L. C.), Giuseppe Cosentino (G. C.), Chiara De Felice (C. D. F.) , Valentina Ronzini (V. R.)

Collana Mosaico Comitato scientifi co

Stefano Borsi, Mario Pisani, Paolo Portoghesi, Nasrine Seraji

Metodi e criteri di referaggio

La collana adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (peer-review). I criteri di valutazione adottati riguardano: l’originalità e la signifi catività del tema propo-sto; la coerenza teorica e la pertinenza dei riferimenti rispetto agli ambiti di ricerca propri della collana; assetto metodologico e il rigore scientifi co degli strumenti utilizzati; la chiarezza dell’esposizione e la compiutezza d’analisi. Coordinamento Editoriale Antonio Carbone Progetto grafi co Valentina Ronzini Stampa

Centro Grafi co - Foggia

Prima edizione

2017

© Copyright

Casa editrice Libria Melfi (Italia)

Tel/fax + 39 (0)972 23 60 54 ed.libria@gmail.com www.librianet.it ISBN 978-88-6764-120-8

Si ringraziano per aver gentilmente concesso le immagini: Giovanni Chiaramonte, Martina Davanzo, Maria Grazia Eccheli, Jacopo Gardella (Archivio Storico Gardella), Miran Kambiĉ, Caterina Lisini, Letizia Gelli Mazzucato, Giorgio Grassi, Enrico Gugliotti, Alvaro Mugnai, Alberto Piovano, Michelangelo Pivetta, Paolo Quiresi, Marco Ravenna, Lidia Sasdelli, Armando Amedeo Tomagra, Pietro Valle (Archivio Studio Valle Architetti Associati), Paolo Zermani, Salvatore Zocco.

Quando non è specifi cata la provenienza della fotografi a, l’autore è Francesca Mugnai.

Sommario

Introduzione 8

Verso il monumento moderno 12 Figure simboliche 30 La pietra e il tumulo 38 Il recinto 46 La scala 54 Le rovine 66 La porta e la soglia 78 La croce 86 Il labirinto 94 Luoghi 108

Monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine (Roma) 116

Monumento alle vittime di Auschwitz-Birkenau 127

Monumento Nazionale Risiera di San Sabba (Trieste) 133

Memoriale a Gusen 139

Memoriale ai caduti di Sabbiuno 145

Monumento alla Resistenza partigiana di Cima Grappa 149

Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti (Auschwitz) 157

Memoriale della Deportazione a Borgo San Dalmazzo 163

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Introduzione

Alois Riegl defi nisce il monumento “un’opera fatta dalla mano dell’uo-mo, creata allo scopo preciso di mantenere sempre presenti e vivi nella coscienza delle generazioni future azioni o destini umani sin-goli (ovvero collettivi)”1. Esso risponde, inoltre, secondo la defi nizione di Gustavo Giovannoni, “a quel sentimento di continuità spirituale e materiale che costituisce l’istinto della specie umana”2.

Argine contro l’oblio e testimonianza del passato, le sue origini, insieme a quelle dell’abitazione, si possono far coincidere con la nascita dell’architettura stessa, se è vero che tra i bisogni prima-ri dell’uomo vi è anticamente, ancor pprima-rima della sopravvivenza, il bisogno di signifi cazione simbolica. Quest’ultimo è infatti intima-mente connesso al bisogno di relazione e di scambio che lega ogni individuo agli altri membri dello stesso gruppo3.

Tenere in vita la memoria degli accadimenti, per elaborare un si-stema più ampio di significati connessi, vuol dire alimentare una relazione col passato che non è fine a se stessa, ma funzionale alla costruzione dell’identità del singolo e del gruppo. “La memo-ria collettiva non è infatti resurrezione o reviviscenza del passa-to come tale. Essa è essenzialmente ricostruzione del passapassa-to in funzione del presente”4, nota Paolo Jedlowski.

Se la memoria è un ponte immateriale tra passato e futuro, il mo-numento commemorativo5 ne rappresenta la traduzione concreta, costruzione materiale che intrattiene con la memoria una stretta relazione di dipendenza reciproca, dove il bisogno di ricordare de-termina la costruzione del monumento e quest’ultimo è lo stru-mento che consente alla memoria di resistere al tempo. “E serbi un

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sasso il nome”, scrive Foscolo nei Sepolcri, così da mantenere quella necessaria “corrispondenza” che lega i vivi ai morti.

Il monumento è testimonianza del vincolo col quale una comunità decide di legarsi al proprio passato e la sua costruzione rappresenta un atto rilevante nell’ambito della defi nizione identitaria di una so-cietà. Privo di utilità pratica, esso è opportunità e strumento di coe-sione sociale, rispondendo a quel bisogno primario di signifi cazione simbolica sopra citato. “Il monumento signifi ca una dichiarazione di amore e di ammirazione in rapporto alle mete superiori che gli uo-mini hanno in comune”6, recita il noto manifesto di Giedion, Léger e Sert sulla monumentalità in architettura. Con questa ricerca di senso si può spiegare il fatto che proprio nell’epoca attuale, attraversata da rapidi e disorientanti mutamenti nell’assetto sociale di tutti i paesi del mondo, non solo è vivo il dibattito sul ruolo e sulla natura delle pra-tiche commemorative, ma ovunque ferve la costruzione di memoriali. Esistono molti testi sull’architettura per la memoria, che aff rontano l’argomento da tutte le possibili angolazioni. Questo volume, che non ha la pretesa di esaurire l’argomento, è dedicato ad alcune questioni prettamente compositive che riguardano il simbolismo e la trasfor-mazione del sito operata dal monumento eretto nel luogo dell’eccidio. Dopo un rapido excursus sull’evoluzione dell’architettura del monu-mento e del suo signifi cato in epoca moderna e contemporanea, si aff ronta il tema della fi gura simbolica come matrice del progetto che determina il signifi cato e il carattere del monumento.

Si tenta anche un catalogo delle fi gure più ricorrenti, correlandone il signifi cato alle implicazioni compositive e facendo riferimento a spe-cifi ci esempi di architettura commemorativa del XX e XXI secolo. Il fatto che lo stesso esempio possa talvolta essere citato come para-digma di più fi gure, se da un lato evidenzia i limiti descrittivi di tale classifi cazione (i cui fi ni sono quelli di chiarire le argomentazioni so-stenute), dall’altro è prova della ricchezza semantica di cui può essere capace l’opera architettonica.

Volendo circoscrivere la trattazione a quei monumenti nei quali la fi gura simbolica è parte sostanziale e determinante del monu-mento, si sono volontariamente esclusi da questa rassegna quegli

esempi che sono riconducibili a un ‘tipo’ architettonico, com’è il caso della cappella quando si confi gura come spazio liturgico. Si sono in-vece inclusi esempi di architettura funeraria se particolarmente signi-fi cativi sul piano del linguaggio simbolico.

Nel terzo ed ultimo capitolo si indaga il potenziale semantico del luo-go quando i monumenti sono eretti in situ, ovvero dove si è verifi cato l’evento che si vuole commemorare. Anche in questo caso le argomen-tazioni teoriche sono sostenute da schede critiche che circoscrivono l’analisi a monumenti realizzati da architetti italiani per ricordare fatti relativi alla seconda guerra mondiale. Pur adottando una prospettiva internazionale, l’Italia rimane infatti il terreno privilegiato d’indagine in virtù della sua consolidata tradizione architettonica nel campo dei memoriali, ancora in grado di fare ‘scuola’ in tutto il mondo.

Le schede sono da considerasi un’antologia coerente con le tesi sostenute. Infi ne, la trattazione non considera di proposito quelli che lo stori-co americano James Young ha defi nito “stori-contro-monumenti”7, ovvero quelle forme di memorializzazione che ricusano la permanenza e la sacralità del monumento architettonico, rinunciando a segnare il luo-go come atto estremo di pietà. Tale omissione coincide evidentemen-te con una scelta di campo.

Note

1 Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti antichi, Abscondita, Milano 2011

[1 ed. 1903], p. 11.

2 Gustavo Giovannoni, voce Monumento, Enciclopedia Italiana Treccani, 1934. 3 Cfr. Umberto Galimberti, La terra senza il male, VI, Feltrinelli, Milano 2012 [1 ed.

1984], parte prima, cap. 5, edizione digitale.

4 Paolo Jedlowski, Introduzione, in Maurice Halbwachs, La memoria collettiva,

Unicopli, Milano 2001 [1 ed. 1968], p. 23.

5 Da qui in avanti, ogni qual volta si nomina il monumento, ci si riferisce al

mo-numento commemorativo.

6 Questa sorta di manifesto, scritto nel 1943, compare nel capitolo Una nuova

monumentalità in Siegfried Giedion, Breviaro di architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008 [1 ed. 1956], pp. 83-87.

7 James Young, The Counter-Monument: Memory against Itself in Germany Today,

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Verso il monumento moderno

Almeno fi n dall’età classica, i monumenti intesi nell’originario valore di manufatti con fi nalità evocative, possono avere funzione funeraria o commemorativa, a seconda che siano costruiti in memoria di un defunto o di un accadimento di rilevanza collettiva. Tuttavia la distin-zione non è sempre così netta, il signifi cato religioso convivendo so-vente con quello civile: nei monumenti funerari la pietas, il dovere re-ligioso nei confronti del defunto, si intreccia col riconoscimento della sua partecipazione alla causa comune, che si tratti di gesta eroiche, di azioni politiche o di contributi artistici o intellettuali meritevoli di fama; d’altro canto nei monumenti commemorativi destinati a cele-brare fatti di importanza storica o sociale, il sentimento civile viene sovente espresso mediante un apparato simbolico e rituale di chiara ascendenza religiosa. Un esempio emblematico di tale ambiguità è la Colonna Traiana, che nasce come monumento funebre a carattere celebrativo e propagandistico ed è annoverata, nell’Ottocento, tra i modelli per la costruzione dei monumenti sia laici che religiosi. Nel tardo Settecento i valori di natura politica, civile, fi losofi ca adom-brano o sostituiscono quelli religiosi, accentuando il carattere lai-co del monumento, lai-con evidenti lai-conseguenze sul piano formale e simbolico. Scrive Reinhart Koselleck: “Il ricorso al repertorio di forme antiche ed egiziane, molto usato dal Rinascimento in poi, e il suc-cessivo utilizzo nel linguaggio di segni naturali e geometrici acquisi-scono, a partire dal tardo Illuminismo, un predominio tanto assoluto da escludere ogni interpretazione fi gurativa della morte di matrice cristiana”1. Roma antica off re un ampio catalogo di modelli per archi trionfali, pantheon, obelischi, colonne isolate e piramidi di tutta

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ropa, realizzati rispettando un preciso codice semantico che mette in relazione tipi e fi gure col ‘carattere’ dei monumenti. Basti pensare al cenotafi o progettato da Etienne-Louis Boullée per celebrare la scienza sperimentale incarnata da Newton. Per tale protagonista del sapere moderno Boullée guarda alla cupola del Pantheon e al mausoleo di Adriano, l’imperatore colto e liberale. Ma il cielo racchiuso nella gran-de sfera, anziché essere immagine terrena gran-del Divino, rappresenta la fi sicità dell’universo astronomico osservabile e misurabile con gli stru-menti della scienza. I disegni del cenotafi o ben descrivono la sacralità laica dello spazio: non più una terra che sostiene e un cielo ignoto che copre (da caelare)2, avvolge e trascina verso l’Alto la terra, bensì una terra (il basamento) che contiene un cielo conchiuso, penetrabile e co-noscibile, trasformato di giorno in planetario e rischiarato di notte da una grande lampada a forma di sfera armillare, entrambi simboli della riduzione del cosmo da soggetto metafi sico a oggetto fi sico.

Sebbene la democratizzazione della fama risalga alla Grecia clas-sica3, è sempre nell’orizzonte culturale di fi ne Settecento, segnato dall’aff ermazione del sapere scientifi co da una parte e dei principi democratici dall’altra, che compaiono i monumenti collettivi de-dicati non al singolo eroe, condottiero o generale, ma alla massa dei soldati comuni morti in nome della libertà e dell’uguaglianza. La Rivoluzione Francese inaugura il culto dei caduti, martiri della nazione che lo Stato vuole ricordare, uno ad uno, nelle lapidi che recano incisi i loro nomi. Ne consegue una proliferazione di monu-menti fuori dai recinti sacri dei cimiteri: nelle piazze, nei parchi o nei luoghi delle battaglie.

A Milano, per commemorare i caduti nel Campo della Federazione (1798), Giovanni Antolini disegna dodici piramidi dove il tipo funebre egizio si contamina col pantheon latino: nella costruzione del culto lai-co dei caduti, si eleva il soldato alla dignità dei principi e degli uomini illustri, avendo cura di evitare ogni riferimento alla morte cristiana. Se il signifi cato civile e politico del sacrifi cio attenua il senso trascen-dentale della morte, lo spirito romantico introduce a fi anco della me-moria un sentimento di compassione legato alla nostalgia del tem-po trascorso e delle cose perdute, così che proprio la consapevolezza

Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria. Vienna, 1798-1805 (dipinto di Charles Swagers), dominio pubblico, via Wikimedia Commons.

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della fi ne assegna un nuovo valore a ciò che non è più. “È nella mi-sura della distanza e della perdita insomma (a diff erenza che nella classicità, dove il passato aveva sempre per il presente un carattere esemplare, perenne)”, scrive Antonella Tarpino, “che il contatto col tempo andato assume un signifi cato”4. Si celebra dunque la sepa-razione defi nitiva, poiché la distanza, nebbia feconda che avvolge i ricordi, suscita quello che Leopardi defi nisce il “sentimento poetico”5. Nella tomba di Maria Cristina d’Austria, Antonio Canova fi ssa il mo-mento del distacco scolpendo una processione di fi gure in procinto di oltrepassare la soglia di un tumulo piramidale, per deporvi l’urna cineraria. Il varco, al centro della composizione e unica ombra del gruppo scultoreo, toglie adito a ogni speranza di salvezza. Tutta la scena, dove gli attori rivolgono i loro volti mesti verso il buio ingresso di un “nulla eterno” foscoliano, escludendo i vivi dai loro sguardi, in realtà coinvolge lo spettatore come temporaneo superstite, chiamato a sublimare la perdita nello struggimento.

Nell’Ottocento il monumento commemorativo si conferma come strumento politico e ideologico per aff ermare principi, verità e moti-vazioni dei governi nazionali, dei privati o delle associazioni cittadine. È la cosiddetta “monumentomania” ottocentesca6, che investe tutto il mondo occidentale e perdura fi no allo scoppio della Grande Guer-ra. Tale fenomeno, considerato da Wittkower la “iattura di tutte le città europee”7, invase da una pletora di monumenti talvolta retorici e banali, in Italia esplode a seguito dell’unifi cazione, quando nasce l’esigenza di ricordare gli eroi protagonisti dell’impresa unitaria per avviare il processo di coesione culturale e politica della nuova nazio-ne. Il linguaggio architettonico, che si affi da ancora alle colonne, agli obelischi e alle piramidi, si tinge ora di toni eclettici: il monumento ai caduti di Palestro (1893) di Giuseppe Sommaruga richiama “nel pro-fi lo l’antonelliana cupola novarese di San Gaudenzio, ma allo stesso tempo le più suggestive architetture Khmer o indiane”8; mentre la coeva torre di San Martino per i caduti di Solferino, realizzata da Gia-como Frizzoni e Luigi Fattori, vuole essere un mausoleo romano, ma allungato a dismisura in altezza per essere visibile da lontano.

In tale febbre commemorativa, nonostante il consenso diff uso sulla

necessità di una integrazione tra architettura e scultura alla maniera antica, queste appaiono in realtà sempre più antagoniste e alternative l’una all’altra, talvolta a scapito della prima per ragioni di economicità. Anche la cultura modernista, promotrice della sintesi tra le arti, pur-ché sotto il primato dell’opera architettonica, contribuisce in realtà alla loro separazione. La famosa aff ermazione di Loos che identifi ca nel tumulo la vera architettura, chiarisce al contempo cosa sia un monumento e quale la disciplina deputata ad occuparsene. Lo stes-so maustes-soleo disegnato da Loos per Max Dvořák (1921) è leggibile come traduzione in forma astratta di un tumulo: semplice paralle-lepipedo sormontato da gradoni, la cui tettonica viene scandita e ribadita dai blocchi scuri di granito svedese.

Al più è l’architettura ad assumere talvolta valenze scultoree, come avviene col monumento ai Caduti di Marzo di Walter Gropius, eretto tra il 1920 e il 1922 a Weimar per commemorare gli operai uccisi durante il tentato colpo di stato da parte di Alfred Kapp. Trasposizione plastica dell’espressionismo astratto, il monumento rappresenta un tentativo estremo di rinunciare a qualsiasi simbologia tradizionale, al punto di evitare ogni riferimento all’accaduto per aderire a una più generica rappresentazione del progresso affi data alla geometria spez-zata di una concrezione minerale che si erge verso il cielo.

In Italia anche i monumenti ‘neoclassici’ di Marcello Piacentini, pur “senza ripudiare per partito preso la carezza di una decorazione op-portuna”9, contribuiscono alla svolta architettonica in tema monu-mentale, inverando la formula “architettura e obbediente scultura” coniata da Ugo Ojetti10 nel 1919 e imprimendo a tutta l’architettura commemorativa anche un tono severo, ostentatamente maschio, che rompe col registro patetico del monumento risorgimentale per aderi-re al messaggio della propaganda fascista.

Una imponente solennità contraddistingue anche le opere degli ar-chitetti razionalisti. Lo stesso Giuseppe Pagano, pur in aperto dissen-so con l’idea piacentiniana di monumentalità, fondata sul “vertica-lismo” e sulla scelta congrua degli ordini, aff erma: “Eff ettivamente l’architettura aff ascina monumentalmente quando i rapporti di mas-sa sono trattati in modo da agire in senso grandioso, quando la scala

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21 Walter Gropius, Adolf Meyer, Monumento ai caduti di Marzo, Weimar, 1920-22, foto B/N, inv. n.

6464/1, © Walter Gropius, by SIAE 2017, Bauhaus-Archiv Berlin.

umana è applicata abilmente come elemento di misura immediato per far risaltare l’immensità dell’opera in contrasto con la piccolez-za dell’uomo”11. È il tipo di spazialità ricercato da Adalberto Libera nel vasto invaso circolare per il sacrario dei caduti fascisti, con cui si presenta al concorso per il Palazzo Littorio del 1933-1934. Un sim-bolismo arcaico pare dettare la composizione di questo tempio che è anche tholos, dove la croce cristiana posta al centro è ricondotta al suo signifi cato primitivo di palo sacrifi cale che congiunge la terra a un cielo qui rappresentato da un anello sospeso recante ripetuta-mente la parola “Presente” in forma di iscrizione luminosa12. Se la si-neddoche del Milite Ignoto intende celebrare il valore patriottico del sacrifi cio di massa evocando la tragedia consumatasi nelle trincee, la formula dell’appello, cui rispondono idealmente gli eroi del regime, trasforma abilmente la crudezza di una morte barbara nel mito folle della guerra, celando sotto la coltre della retorica la verità dei corpi dispersi o privi di identità.

Nell’intento di glorifi care il sacrifi cio collettivo, nel sacrario militare di Cima Grappa (1932-1935) Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni rea-lizzano cinque gironi ascendenti che rimodellano la cima dell’altura e conducono al tempietto posto in sommità. Ma ingaggiando una sfi da ardua con le vicine e imponenti cime alpine, la costruzione gradonata disegna uno scenario desolante, che esprime tutta la fragilità dell’esi-stenza e la vanità delle aspirazioni umane.

La fi ne del secondo confl itto mondiale spazza via ogni retorica, poi-ché qualsiasi tentativo di dare un senso ideologico o politico alla tra-gedia appena conclusa stride coi sentimenti di orrore e di vergogna suscitati dalla sconcertante realtà che si palesa defi nitivamente alla coscienza collettiva. Non sono più le battaglie perse o vinte l’oggetto del ricordo (almeno non nel loro signifi cato esclusivamente milita-re), ma l’ecatombe diff usa di civili, soldati e partigiani: Shoah, mas-sacro, Resistenza sono le motivazioni ricorrenti della costruzione di monumenti. Per questa ragione vocabolario e simbologia connessi all’epopea patriottica degli stati nazionali risultano superati, inadatti a signifi care le ferite di un trauma globale che diffi cilmente si presta ad essere investito di un ruolo fondante in senso aff ermativo13, anche

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quando sarebbe possibile l’identifi cazione del sacrifi cio con un ideale, come nel caso della lotta partigiana. Da qui in avanti la rifondazio-ne avvierifondazio-ne, semmai, sul rifi uto del passato recente, sulla condanna dei crimini ovunque perpetrati e sull’impegno, per l’avvenire, a rico-noscere e neutralizzare le forze antidemocratiche. “Mai più” è scritto sulla pietra di Treblinka.

Di fronte a una Storia inenarrabile e alle esperienze indicibili dei so-pravvissuti, non resta che una silenziosa contrizione, che si traduce, sul piano architettonico, in un vocabolario asciutto di forme pure e astratte, di spazi intensi ma privi di enfasi. Sperimentato dalle avan-guardie moderniste negli anni Venti del Novecento, quel vocabola-rio riaffi ora adesso arricchito di ulteriori signifi cati, espressione di un radicale mutamento socio-culturale. Già nel 1943 Siegfried Giedion, insieme a José Luis Sert e Fernand Léger, nei Nove punti sulla mo-numentalità come esigenza umana14, rivolge un invito agli architetti moderni ad abbandonare la diffi denza verso i monumenti per paura del monumentalismo e a costruire spazi autenticamente simbolici per nutrire il sentimento comunitario delle masse.

L’Italia è pronta a commemorare i propri morti già prima della fi ne della guerra. Com’è noto, la Storia dell’architettura italiana di Man-fredo Tafuri inizia signifi cativamente con “due commossi omaggi a ideali che avevano costituito, nel ventennio trascorso, fragili punti di appoggio per un’intelligencija costretta a ripiegare su se stessa”15: il monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine del 1944-1951 (di Ma-rio Fiorentino e Giuseppe Perugini con Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli), e quello per i caduti dei campi nazisti realizzato nel 1946 dai BBPR nel cimitero monumentale di Milano. Una “rifl essione conclusiva sul passato” il primo, “il punto di una situazione cultura-le ritenuta ancora operante”16 il secondo: comunque eredi entrambi di una tradizione complessa, contraddittoria, della quale si vorrebbe salvare la lezione di Persico e di Pagano, e censurare il resto. Ma il linguaggio messo a punto dagli architetti italiani in ambito monu-mentale dal dopoguerra fi no ad almeno gli anni Ottanta è, in real-tà, saldamente connesso a tutta l’esperienza maturata nel ventennio fascista, risentendo in maniera feconda delle diverse anime che ne

hanno contraddistinto la cultura architettonica. Il risultato è una mo-numentalità raffi nata di spazi ad alto contenuto lirico ed emozionale, ottenuti soppesando con cura tipi, fi gure e simboli, elementi ancora indispensabili della composizione ma di diffi cile riproposizione. In-sieme al timore di inciampi retorici, è sentita infatti la necessità di un linguaggio condiviso e inclusivo che esprima il dramma della Storia e la trascendenza della morte senza ricorrere a espressioni discrimi-nanti sul piano etnico, religioso e ideologico. Anche i monumenti ai caduti per la Resistenza (in Italia numerosi) evitano in genere rife-rimenti diretti al sistema di valori politici legati alla lotta partigiana, peraltro impliciti nelle motivazioni della costruzione.

Accanto alla tradizione consolidata di erigere monumenti sui campi di battaglia, si aff erma ora la consuetudine di commemorare le vittime, per lo più civili, nel luogo dell’eccidio. Trasformati o conservati, questi luoghi non si off rono solo come sfondo tragicamente evocativo, ma sono parte integrante del monumento, talvolta svolgendone la fun-zione in forma di ‘museo’ della memoria. Le varie gradazioni di tra-sformazione del sito vanno dal ridisegno complessivo (come avviene alle Fosse Ardeatine o, inevitabilmente, a Treblinka col memoriale di Adam Haupt e Franciszek Duszenko17) a interventi circoscritti (qual è il monumento nel lager di Auschwitz-Birkenau realizzato da Giorgio Simoncini e Pietro Cascella), fi no alla mera conservazione della strut-tura fi sica del luogo, tipicamente adottata nei campi di sterminio18. Talvolta sono le macerie a essere investite di signifi cato monumenta-le e utilizzate come metonimia del massacro: ne sono esempi famosi l’intero villaggio di Oradur-sur-Glane in Francia, la Gedächtniskirche a Berlino o la Genbaku Domu a Hiroshima.

Le molteplici forme di memorializzazione nate dopo la Seconda guerra mondiale sono signifi cative del dubbio sulla eff ettiva tra-smissibilità della memoria, assillo che la domanda posta da Primo Levi ne I sommersi e i salvati ben esemplifi ca: “Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra espe-rienza?”. Il timore che un patrimonio tanto pesante quanto fragile possa disperdersi senza lasciare traccia oltre il tempo delle gene-razioni dei testimoni, è all’origine di profonde rifl essioni, tuttora in

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25 Giovanni Greppi, Giannino Castiglioni, Sacrario militare del monte Grappa, 1932-35 (foto di

Enrico Gugliotti).

corso, condotte in vari ambiti (linguistico, fi losofi co ecc.) e riguar-danti anche il ruolo del monumento nell’epoca attuale. Strumen-to antico di trasmissione della memoria, la sua funzione, non più celebrativa o soltanto evocativa, è divenuta in tempi recenti quella di off rire un’esperienza emozionale, talvolta anche conoscitiva, che si fi ssi come tale nei ricordi dei visitatori. Ecco che il monumento, pensato per posteri immemori e potenzialmente ignari, si ibrida al-lora col museo della memoria, dove il percorso espositivo coincide con un percorso esperienziale-performativo che intende suscitare emozioni e sentimenti adeguati alla narrazione. L’esempio più noto è senz’altro l’ampliamento del Museo Ebraico di Berlino progettato da Daniel Libeskind (1989-2001), che tenta di dar vita a un’allegoria architettonica della tormentata storia ebraica.

Nella stessa città, il memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa re-alizzato da Eisenman (1997-2005), trasformazione di un progetto inizialmente concepito insieme a Richard Serra, off re al visitatore un’esperienza svincolata da una narrazione univoca, lasciando libertà di letture e di percorsi soggettivi entro la griglia formata dalle quasi tremila stele che lo assimilano a un’opera urbana di land art. La sua originalità, che è anche motivo di critiche, risiede nella caratteristica del monumento ‘aperto’, circoscritto ma non recintato, sempre frui-bile perché integrato nello spazio urbano; consiste nel suo essere un ibrido che oscilla tra scultura, architettura e giardino di pietra; nell’es-sere marchingegno che distorce le misure della città proiettando d’improvviso il visitatore in uno spazio ‘altro’, allusione a un dramma indicibile e come tale non rappresentabile se non in forma estrema-mente astratta. Nella versione originale le stele più alte avrebbero costruito uno spazio di maggiore effi cacia anche sul piano emoziona-le, ma furono proprio le richieste della giuria, preoccupata del monu-mentalismo dell’opera, a determinarne il ridimensionamento19. Tra le motivazioni che hanno fatto sì che il processo di memorializza-zione della Shoah e di tutta la carnefi cina prodotta dall’ultima guerra durasse fi no ai nostri giorni, c’è senza dubbio la convinzione che col-tivare la memoria possa contribuire a prevenire altre tragedie ana-loghe. Una fi ducia testimoniata anche dalla pletora di monumenti

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In questa pagina e nella seguente: Michael Arad, Peter Walker, 9/11 Memorial, New York, 2003-11 (foto di Giovanni Chiaramonte).

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alla pace sorti ovunque dal dopoguerra in poi, impliciti riferimenti in positivo a eventi che si avvertono come superati e di cui si scongiura il ritorno. La Main Ouverte di Le Corbusier a Chandigarh (1950-1965) rimane ancora il meno ovvio della categoria per la raffi nata allusione alla solidarietà come fondamento di una umanità pacifi cata, espressa con la peculiare cifra corbusiana.

Purtroppo altri olocausti, di natura assai diversa, impongono la presa d’atto dell’ineffi cacia preventiva dei monumenti e con essi di tutte le forze impegnate a coltivare terreni di dialogo. Nessuna possibilità di riscatto, nessuna salvezza né per i morti né per i vivi, comunicano i monumenti più recenti: solo una dolorosa constatazione intrisa di pietà. Così a New York, nel 9/11 Memorial (2003-2011), Michael Arad e Peter Walker scelgono di rimarcare l’assenza, trasformando i crateri lasciati dalla distruzione delle Torri Gemelle nell’invaso di due spec-chi d’acqua che rifl ettono una città sottosopra e l’angoscia di spec-chi vi si aff accia. Scrive James Hillman: “Ormai l’idea della distruzione appar-tiene a quel luogo […] è come una ferita che lascia una cicatrice”20. Nel Mare ‘Nostro’, sull’isola di Lampedusa, Mimmo Paladino erige un piccolo monumento intriso, anche nel nome, di una tragica iro-nia. La Porta d’Europa è un miraggio, il sogno di un approdo che può svanire anche a pochi metri dalla costa. Porta aperta eppure intransitiva, se guardata di taglio punta dritta verso il piccolo cimi-tero situato a poca distanza, esprimendo in un unico segno tutta la fragilità di un luogo “in cui lo smarrimento del tempo presente si manifesta nella sua concreta dimensione globale e cerca risposta rinominando i propri fondamenti”21.

Mimmo Paladino, Porta d’Europa, Lampedusa, 2008, ©Mimmo Paladino by SIAE 2017 (foto di Alvaro Mugnai).

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30 31 Note

1 Reinhart Koselleck, I monumenti ai caduti come elementi fondatori dell’identità

per i sopravvissuti, in Jeff rey T. Schnapp (a cura di), In cima. Giuseppe Terragni per Margherita Sarfatti. Architetture della memoria nel ‘900, Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 27.

2 Cfr. Réne Guénon, La grande triade, Adelphi, Milano 1980 [1 ed. 1946], pp. 32-34. 3 Cfr. Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il

Mulino, Bologna 2002 [1 ed. 1999], p. 46.

4 Antonella Tarpino, Geografi e della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani,

Einaudi, Torino 2008, p. 26.

5 “Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per

bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, aff atto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può essere poetico”. Giacomo Leopardi, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997 [1 ed. 1898-1900], p. 2985 [4426 nell’autografo].

6 Cfr. Fabio Mangone, Tra architettura e scultura: caratteri della

“monumento-mania” fra Ottocento e Novecento, in Maria Giuff rè, Fabio Mangone, Sergio Pace, Ornella Selvafolta, L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città, 1750-1939, Skira, Milano 2007, pp. 261-265.

7 Rudolph Wittkower, La scultura raccontata da Rudolph Wittkower. Dall’antichità al Novecento, Einaudi, Torino 1985 [1. ed. 1977], p. 279.

8 Massimiliano Savorra, Le memorie delle battaglie: i monumenti ai caduti per

l’indipendenza d’Italia, in Maria Giuff rè, Fabio Mangone, Sergio Pace, Ornella Sel-vafolta, L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città, 1750-1939, cit., p. 295.

9 Marcello Piacentini, citato in Giorgio Ciucci, Simonetta Lux, Franco Purini (a

cura di), Marcello Piacentini architetto, 1881-1960, Atti del convegno, Gangemi Editore, Roma 2010, p. 107.

10 Ugo Ojetti, Monumenti alla vittoria, in «Corriere della Sera», 3 aprile 1919, ora

in Flavio Fergonzi, Dalla monumentomania alla scultura monumentale, in Paolo Fossati (a cura di), La scultura monumentale negli anni del Fascismo. Arturo Marti-ni e il monumento al Duca d’Aosta, Allemandi, Torino 1992, pp. 133-199. Per una disamina approfondita del rapporto tra architettura e scultura cfr. Fabio Mango-ne, Tra architettura e scultura: caratteri della “monumentomania” fra Ottocento e Novecento, op. cit., e Massimo Martignoni, Il monumento e gli architetti italiani, 1920-1940, in Jeff rey T. Schnapp, (a cura di), In cima. Giuseppe Terragni per Mar-gherita Sarfatti. Architetture della memoria nel ‘900, cit., pp. 37-43.

11 Giuseppe Pagano, Del “monumentale” nell’architettura moderna, in «La Casa

bella», n. 40, 1931, ora in Cesare De Seta, Giuseppe Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Jaca Book, Milano 2008 [1 ed. 1976], pp. 89-95.

12 Il progetto è in realtà la rielaborazione di un allestimento dello stesso Libera

e di Antonio Valente per il sacrario alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 in occasione del decennale della marcia su Roma. Cfr. Gemma Belli, Liturgia fascista e progetti di sacrari, in Maria Giuff rè, Fabio Mangone, Sergio Pace, Ornel-la Selvafolta, L’architettura delOrnel-la memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città, 1750-1939, cit., pp. 385-389.

13 Aleida Assman spiega così la sostanziale diff erenza rispetto al passato: “La

memoria religiosa e nazionalista è piena di vittime e di sangue, eppure questi ricordi non sono traumatici perché sono considerati normativi e necessari per la fondazione del senso personale e collettivo”. Aleida Assman, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, cit., p. 364.

14 Siegfried Giedion, Fernand Léger, José Luis Sert, Una nuova monumentalità, in

Siegfried Giedion, Breviaro di architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008 [1 ed. 1956], pp. 83-87.

15 Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino

2002 [1 ed. 1982], p. 7.

16 Ibidem, pp. 7-8. Entrambe le opere sono analizzate più avanti in questo libro. 17 I nazisti tentarono di distruggere ogni traccia del campo.

18 Interessante il pensiero di Aleida Assmann riguardo a questa opzione, vista in

ogni caso come un intervento di trasformazione: “Questi luoghi della memoria trasformati in musei e siti commemorativi implicano un profondo paradosso: la loro conservazione volta a mantenere l’autenticità comporta innegabilmente una perdita d’autenticità”. Aleida Assman, Ricordare. Forme e mutamenti della memo-ria culturale, cit., p. 364.

19 Tra i membri della giuria anche James Young, che racconta le vicende del

con-corso in James E. Young, Germany’s Holocaust Memorial Problem-and Mine, in «The Public Historian», vol. 24, n. 4, 2002, pp. 65-80. Le modifi che richieste de-terminarono il ritiro di Richard Serra dal progetto.

20 James Hillman, Carlo Truppi, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo

Trup-pi, Rizzoli, Milano 2004, p. 95.

21 Marco Revelli, Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia,

Ei-naudi, Torino 2016, p. 236. L’autore dedica un intenso capitolo a Lampedusa descrivendo con cura il monumento di Mimmo Paladino.

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Figure simboliche

Trattando di monumenti commemorativi è d’obbligo aff rontare il tema del simbolismo con lo scopo di defi nire e comprendere il pro-cesso compositivo che presiede al progetto del monumento mo-derno a seguito dell’emancipazione dagli ordini architettonici e dal repertorio tipologico classicista (piramidi, colonne, obelischi ecc.), in sostituzione del quale la fi gura simbolica assume un ruolo centrale nel determinare il carattere e il signifi cato dell’architettura.

Senza approfondire la storia del simbolo nelle sue diverse interpreta-zioni, basterà qui accennare ad alcune questioni che ineriscono la sua natura e la sua applicazione nel nostro specifi co ambito.

Il concetto moderno di ‘simbolo’ deriva dalla formulazione datane da Kant come rappresentazione intuitiva e analogica, dotata di un grado di imperfezione che la rende fonte inesauribile di allusione. Goethe, che ne declina l’accezione in senso estetico distinguendo-lo dall’allegoria, pone l’accento sul potere del simbodistinguendo-lo di evocare la realtà trascendente, essendo immagine nella quale “l’elemento par-ticolare rappresenta quello più generale, non come un sogno o om-bra, ma come una rivelazione viva e istantanea dell’imperscrutabile”1. Lo stesso Goethe si cimenta nel progetto di un piccolo monumento simbolico dedicato alla propria buona sorte, Agathè Tyche, eretto nel 1777 nel parco della casa di Weimar. Le fi gure che lo compongono (un cubo con lato di 90 cm sormontato da una sfera con diametro di 73 cm, in pietra arenaria rossa) discendono dall’iconografi a medieva-le e rinascimentamedieva-le, che assegna al cubo il valore della stabilità e alla sfera quello della volubilità; così la sequenza delle due ‘pietre’, lavo-rate fi no a diventare fi gure geometriche fra le più pure e compiute,

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35 Johann Wolfgang Goethe, Agathe Tyche, Weimar, 1777.

allude a una costruzione raffi nata di sottili e ponderati equilibri. In reazione al positivismo e allo scientismo del XIX secolo, nel Novecento il simbolo diventa oggetto di indagine filosofica, psi-cologica e antropologica, affermandosi come “modalità autonoma di conoscenza”2 (non discorsiva) volta a penetrare la realtà meta-fisica. Il simbolo viene riabilitato come centro di quella immagi-nazione che anticipa e modera la ragione, ispira l’arte, le scoperte, il progresso, e rimuove il velo nel quale la ragione avviluppa l’in-conscio separando l’uomo dalla natura.

Se in origine indicava un oggetto diviso in due parti, che ricomponen-dosi erano la prova dell’avvenuto riconoscimento e della ricongiunzio-ne fra le due persoricongiunzio-ne in possesso dei frammenti, il simbolo è diventato nel tempo un dispositivo potente di espressione, che supera l’univocità del concetto per includere e tenere insieme, senza fi nalità di sintesi, si-gnifi cati opposti: “Il simbolo separa e unifi ca, presuppone entrambe le idee di separazione e riconciliazione. Rievoca un’idea di comunità che è stata divisa e può però riformarsi”3, scrive Jean Chevalier.

Vero e proprio scasso alla ragione, la sua forza evocativa risiede nell’ambivalenza del signifi cato, che consente di trascendere il visibile per rappresentare l’invisibile, di superare ciò che è noto per evoca-re l’ignoto. Superioevoca-re al linguaggio ordinario per effi cacia espressiva, quello del simbolo “costituisce il linguaggio iniziatico per eccellenza”4. L’espressione simbolica è dunque l’unica possibile chiave di accesso all’oscurità di un destino inconcepibile, sfuggente. E più tale espres-sione è arcaica, scevra da sovrastrutture, più essa è condivisa5. Per questo, ancorché criptico, il linguaggio del simbolo è universale e la sua ricchezza denota il grado di salute di una civiltà. Mircea Eliade ne identifi ca il ruolo sociale di strumento per “l’abolizione dei limiti di quel ‘frammento’ che è l’uomo entro la società e in mezzo al Cosmo, e la sua integrazione […] in una più vasta unità: la Società, l’Universo”6. Nel tempo i simboli si trasformano ma non cessano di esistere. Cuore della vita spirituale dell’individuo come del gruppo, essi possono al più essere camuff ati o degradati, ma mai cancellati, perché prodot-ti spontaneamente dalla psiche come i concetprodot-ti sono prodotprodot-ti dalla ragione. Però, mentre il simbolo (sym-ballein) è un’immagine che fa

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da ponte verso l’Inconscio, ovvero verso la natura più profonda e pri-mordiale dell’uomo, e in ultima analisi verso l’origine del mondo, il logos (concetto e parola) separa (dia-ballein) diabolicamente l’uomo da tutto questo. L’espressione simbolica sarebbe allora una forma di riequilibrio della forza separatrice della ragione7.

Nell’arte gli eff etti di questa nuova sensibilità sono dirompenti: dopo il simbolismo pittorico di fi ne Ottocento, l’arte dell’avanguar-dia, sia astratta che fi gurativa, identifi ca nelle fi gure geometriche o negli oggetti comuni potenziali frammenti del mistero del mondo: “L’oggetto si espande oltre i limiti della sua apparenza, in virtù del fatto che sappiamo che la cosa è ben altro da ciò che il suo aspet-to esteriore rivela ai nostri occhi”8, aff erma Paul Klee. Soltanto la forma è conoscibile; il contenuto rimane un enigma inaccessibile al concetto e penetrabile solo dall’intuizione, dal presagio. Le botti-glie di Morandi o le piazze di De Chirico esprimono in modi diversi un’analoga attesa della rivelazione in un tempo fuori dal tempo, dove tutto è pregno di un senso che rimane celato.

Anche la riduzione alle forme geometriche primarie applicata dall’architettura moderna al proprio linguaggio può in parte essere letta alla luce di questo nuovo interesse per il simbolo, se inte-so come propensione a raggiungere l’espressività attraverinte-so una selezione fi nissima di elementi signifi canti. Perfi no la macchina, elevata a mito dalla cultura modernista, è interpretabile come un simbolo spurio di trascendenza, che raccoglie le aspirazioni di una intera società sulla via del cambiamento.

Per l’architettura monumentale celebrativa tale ‘riduzione’ del lin-guaggio avviene per mezzo di fi gure simboliche archetipiche che paiono riaffi orare da epoche lontane. La loro universalità ben si attaglia alla ricerca compositiva avviata dal Movimento Moderno intorno all’espressione laica, pluralistica della morte e del dolore, come risposta universale, inclusiva e non dogmatica alla necessità di rappresentare il sacro. Ricerca che si fa ancora più urgente all’in-domani della Seconda guerra mondiale con la necessità di trovare un linguaggio che ricomponga le lacerazioni politiche, etniche e re-ligiose ancora drammaticamente vive. Nel suo appello agli architetti

moderni, Giedion aff erma l’importanza del simbolo: “Un’epoca che deprezza i simboli e ne ha smarrito il signifi cato non riuscirà a in-nalzare alcun monumento convincente”9.

Immagine in grado di esprimere un signifi cato che trascende la sua forma e la sua apparenza, la fi gura simbolica è la matrice del proget-to, svolgendo talvolta un ruolo analogo a quello del ‘tipo’. Rispetto al tipo, però, la fi gura simbolica è pre-architettonica, meno strutturan-te, poiché agisce sul piano semantico, iconico ed emozionale, piut-tosto che sull’articolazione del costrutto o sulle caratteristiche dello spazio. Si può dire che essa sia la traduzione concreta dell’archetipo junghiano, immagine primordiale di valenza simbolica che risuona a livello emotivo: “Gli archetipi sono contemporaneamente sia im-magini che emozioni. Si può parlare di archetipi solo quando que-sti due aspetti si manifestano simultaneamente. Quando c’è solo l’immagine si tratta di una notazione di scarso rilievo, ma quando è implicita l’emozione, l’immagine acquista un carattere numinoso (o un’energia psichica): essa diventa dinamica e deve produrre conse-guenze di qualche rilievo”10.

Dunque il monumento, per produrre signifi cato e consentire il rico-noscimento individuale e collettivo nelle proprie forme e spazialità, deve originare da una fi gura simbolica comprensibile e condivisa ma “indefi nitamente suggestiva” (per usare un’espressione di Chevalier), ovvero la cui potenza consiste nel solo accennare a una possibile rive-lazione, toccando le corde più profonde dell’animo umano in manie-ra soggettiva, variabile individualmente. È importante sottolineare la funzione allusiva e non esplicativa della fi gura simbolica, che mantie-ne la propria forza fi ntantoché conserva quel mistero e quella pluriva-lenza semantica necessari a suscitare l’immaginazione di chi guarda, trasformando lo spettatore in un attore in grado di alimentare a sua volta, con la propria risposta immaginativa, la potenza della fi gura. Se, al contrario, il signifi cato diventa ovvio e univoco, il potenziale simbolico svanisce, venendo meno questo dialogo fatto di risonanze fra l’architettura, l’individuo e la collettività.

La fi gura simbolica è tutt’altro che un segno inequivocabile: è un’immagine che avvolge di mistero una sovrabbondanza di senso.

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E proprio questa tensione fra riconoscibilità ed enigma, necessaria aff fi nché si generi il signifi cato, è fra i motivi per i quali siamo più propensi a lasciarci emozionare da un semplice tumulo di terra, tanto icastico quanto essenziale, piuttosto che da un obelisco in onore degli eroi del Risorgimento, che appare oggi come un segno convenzionale di un linguaggio non più condiviso.

Quando il monumento attraverso la fi gura simbolica fa proprie le qua-lità del simbolo, può aspirare ad assumerne anche il ruolo: esprimere l’ineff abile e rappresentarlo in forma mediata, radunare signifi cati e farsi ponte fra di essi, collegare l’uomo al mondo facendolo sentire non frammento isolato ma partecipe di una condizione sovraindivi-duale. In questo risiede l’enigma che induce lo sguardo a ‘farsi serio’.

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41 Franciszek Duszenko, Adamn Haupt, Memoriale di Treblinka, 1960-64.

La pietra e il tumulo

La pietra è simbolo antichissimo di trascendenza, rappresentando un movimento doppio di salita e di discesa dalla terra al cielo. Le pietre infatti cadono dal cielo, come la pietra nera incassata nel-la Ka’ba, e rimangono animate anche dopo nel-la caduta. Talvolta se-gnano l’omphalos, il centro del mondo dove il divino si manifesta, come la pietra nera di Cibele, legata al culto della Madre Terra, o quella dell’oracolo di Delfi . Parimenti gli altari di pietra, pagani o cristiani, sono il simbolo della presenza divina.

Ma la pietra grezza, non toccata dall’uomo e perciò sacra, è anche un elemento costruttivo con cui si erigono megaliti e betili, o si for-mano tumuli accatastando le pietre per coprire i corpi dei defunti. Poggiando la testa su di una pietra (in seguito chiamata Bet-El, Casa di Dio) Giacobbe si addormenta e riceve in sogno la rivelazio-ne sul destino della sua discendenza.

La pietra è anche simbolo di rigenerazione: dopo il diluvio provocato da Zeus, gli uomini e le donne rinascono dalle pietre gettate da Deucalio-ne e dalla moglie Pirra; Deucalio-nel Vangelo di Matteo si parla di trasformazioDeucalio-ne delle pietre in pane, mentre nel Vangelo di Luca Cristo è la pietra che i muratori hanno rifi utato ed è divenuta la pietra angolare dell’edifi cio. La lapide sulla tomba allude dunque alla trascendenza e alla rigene-razione: la pietra come simbolo di durata in opposizione alla preca-rietà dell’esperienza umana11.

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La fi gura della pietra si trova variamente declinata a seconda del si-gnifi cato che le è attribuito. Dei molti esempi che si possono citare, il monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine12 rimane tra i più ica-stici, assumendo insieme l’immagine del megalite come mezzo di ricongiunzione col cielo, l’immagine del tumulo come forma arcaica di sepoltura, quella dell’avello sollevato come simbolo di speranza: in un unico segno sono condensati trascendenza, pietas e rinascita. Di vari segni è fatto, invece, il memoriale che lo scultore Francis-zek Duszenko e l’architetto Adam Haupt realizzano nel sito dell’ex campo di sterminio di Treblinka (1960-1964), dove si consuma-rono violenze indicibili (tra le più efferate del genocidio ebraico), che i nazisti tentarono invano di nascondere distruggendone le tracce, già dopo la sconfitta di Stalingrado nell’inverno del 1942-1943. Ma la terra, testimone pietosa, ha continuato per anni a restituire i macabri resti dello sterminio.

Il memoriale rilegge la struttura del campo, segnando le tappe del destino atroce degli oltre 900.000 ebrei che vi trovarono la morte. Due blocchi di pietra disposti a cuneo indicano l’ingresso al campo; qui ha inizio una lunga fila di traversine ferroviarie di cemento terminante a fianco di un basamento in pietra, punto di arrivo dei deportati. Più avanti, nel luogo delle camere a gas, una moltitudine di pietre grezze di varie dimensioni forma un anello intorno a una sorta di costruzione megalitica su cui è scolpita una menorah. Come ultima tappa, una lastra nera di basalto fuso sor-ge dov’erano le graticole per la cremazione.

Il paesaggio pietrificato di Treblinka è arcaico, a tratti archeologico, disseminato di elementi misteriosi che paiono appartenere a que-sto luogo fin da un’epoca remota. Qui le pietre sono gravi e lievi allo stesso tempo: frammenti uranici adagiati su di un suolo in-sanguinato, riescono a connotare con la dovuta sacralità il luogo di un orrendo sacrificio, placando, senza cancellarla, la violenza che la terra avrebbe continuato a rigurgitare.

Anche la Necropoli simbolica di Šlobodište a Kruševac (1960-65), disegnata da Bogdan Bogdanović, evoca un paesaggio iniziatico modellato dal tempo, fatto di dolci movimenti del terreno da cui

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emergono enigmatici lacerti di pietra dall’aspetto primitivo: sono ali spiegate o forse proprio uccelli, appena posatisi o in procin-to di alzarsi in volo; sono simboli antichi di libertà e di trascen-denza che realizzano la conciliazione degli opposti (terra-cielo, vita-morte) evocando “una dimensione primordiale, spontanea nel senso della difformità e del disordine, il mondo surreale e fantastico della mitologia paleo-slava”13.

Una moltitudine di pietre in forma di lapidi o stele ricorda inevitabil-mente una folla di anime, che nel linguaggio razionalista dei BBPR diventa una trama di alte lastre in calcestruzzo a vista collocate nel cortile del Castello del Pio a Carpi, dove ha sede il Museo-monu-mento al deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti (1969-1973). Le stele, piantate entro uno scavo ritagliato alla base di ognuna, recano incisi i luoghi dello sterminio. Si genera così un felice contrasto fra la spietatezza del calcestruzzo, simbolo della segregazio-ne segregazio-nei lager, e la gentilezza della lapide che pare crescere dalla terra come un albero.

Su di un’analoga ambivalenza si fonda il Monumento alla Partigiana veneta a Venezia (1961-1969) di Carlo Scarpa e Augusto Murer (per la scultura). Sostenuti da un cassone galleggiante, i blocchi di pietra a base quadrata, di altezza diversa, formano un lembo di terra scon-quassato, mosso da un rollio continuo. È un ossimoro spiazzante il ‘basamento mobile’ che si off re come incerto sostegno alla vittima, riconsegnata come ‘scandalo’ alla memoria collettiva: fi gura retorica di una lirica intensa sulla fragilità della condizione umana e sull’in-certezza del destino dei popoli.

Nella tomba Galli di Carlo Scarpa e nel monumento alla Resistenza di Aldo Rossi a Cuneo, la pietra è un monolite che si sovrappone e si fonde con altre fi gure simboliche, ricevendone una precisazione del signifi cato.

Foto precedente: BBPR, Giuseppe Lanzani, Renato Guttuso, Museo-monumento al deportato politico e razziale nei lager nazisti nel Castello del Pio, Carpi, 1963-73 (foto di Marco Ravenna). In questa pagina: Carlo Scarpa, Augusto Murer, Monumento alla Partigiana veneta, Venezia, 1961-69 (foto di Maria Grazia Eccheli).

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49 Marcel Breuer, War Memorial, Cambridge (Massachussetts), 1944-45, foto del modello B/N, inv.

SL 10_260, by the Marcel Breuer Papers, Special Collections Research Center, Syracuse University. Immagine successiva: Gino Valle, Federico Marconi, Monumento alla Resistenza, Udine, 1959-69, Archivio Storico Valle Architetti Associati.

Il recinto

“Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo; presenta talune spaccature, o fratture: vi sono settori dello spazio qualitativamente diff erenti fra loro. […] Vi è dunque uno spazio sacro, quindi con una sua ‘forza’, un suo preciso signifi cato, e vi sono spazi non consacrati, quindi privi di struttura e di consistenza, in una parola: amorfi ”14. In questa argomentazione di Mircea Eliade c’è tutto il senso del re-cinto, segno o costruzione che separa due zone qualitativamente diverse: non solo il sacro dal profano, ma il noto dall’ignoto, il sal-vifi co dal malefi co, il reale dall’irreale. Solo istituendo dei confi ni è possibile inoltre individuare quello che Eliade chiama il “punto fi sso, l’asse centrale di ogni orientamento futuro”15, cosicché lo spazio sia sottratto all’omogeneità. Nell’omogeneità sta il Caos, la tenebra pri-mordiale, in opposizione al Cosmo, territorio organizzato dove si è manifestato il sacro. Il recinto è il margine fra le due entità e il suo tracciamento è il primo atto di una cosmizzazione che avviene sem-pre attraverso una ripetizione rituale della cosmogonia.

Peraltro nella Grecia antica il recinto, temenos, corrisponde a un appezzamento di terreno assegnato per atto pubblico a un privato, consentendo il dominio su di un luogo; la radice etimologica evoca il taglio (temnein), il dividere una parte da un insieme più ampio e indistinto, identifi candola.

Che il recinto assuma un valore sacro nella costruzione della città è ben noto dal mito della fondazione di Roma, che è preceduta dall’uc-cisione di colui che si rende colpevole di aver violato la sacralità del fosso di fondazione.

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sione al senso di sicurezza e di salvezza: entro le mura della città tutto ha un nome, le persone si conoscono reciprocamente (o se straniere sono soggette a una procedura di identifi cazione) e l’individualità si stempera nella civitas. Ancora in epoca medievale le mura conserva-no una funzione apotropaica, alla quale soconserva-no consacrate con appositi riti fi nalizzati a tenere lontani la morte e la malattia16.

Tra i primi monumenti commissionati verso la fine della Secon-da guerra mondiale, il memoriale di Cambridge (Massachusetts), disegnato da Marcel Breuer con Lawrence Andersen (1944-1945) in onore dei militari americani caduti, sarebbe dovuto sorgere lungo un percorso pedonale del Cambridge Common Park, vicino all’Università di Harvard. Un’“isola quadrata”17 la definisce Breuer, a significare la sua condizione di luogo ‘eterogeneo’, eccezione ‘costruita’ all’interno del parco e luogo consacrato alla memoria. I bordi, formati da panche in pietra, racchiudono uno spazio pa-vimentato sui cui insistono sette lastre di vetro traslucido, fis-sate in profondità nel terreno così da nascondere gli ancoraggi; solo una di queste reca impressi al suo interno i nomi di 16.000 soldati. La disposizione delle lastre, apparentemente casuale ma entro la regola dell’ortogonalità, non fa che ribadire la geometria del quadrato, individuando un vuoto centrale che corrisponde ai punti di rottura e di attraversamento del recinto. Recinto che si può assimilare a un basamento, su cui si elevano i setti in vetro semi-trasparente pensati per diffondere costantemente la luce (di notte illuminandosi artificialmente), in simbolico contrasto con l’opacità della pietra del pavimento. In questa piazza, che sorge inaspettata ma senza clamore all’interno di un parco cittadino, vi è racchiuso un mondo di frammenti, schegge nobilitate al rango di stele, metafora di un ordine diverso, nuovo, che nasce proprio a partire dalle macerie fisiche e morali della guerra. È, questo, lo stesso atteggiamento compositivo che si può ravvisare nel me-moriale a Gusen (BBPR) o alla Risiera di San Sabba (Romano Boi-co), che reinterpretano il recinto angoscioso del lager volgendone la violenza in una sacralità primordiale e conturbante.

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Nel Monumento alla Resistenza di Udine (1959-1969), opera di Gino Valle con Federico Marconi, il recinto è doppio: al livello infe-riore, un invaso circolare scende a una quota più bassa del piano stradale18 e accoglie un giardino, una fontana, una scultura in ferro di Dino Basaldella; al livello superiore, una cornice quadrata in cemento si stacca da terra e incombe su tutto il sistema prece-dente. Tra le due parti sovrapposte di questo ‘cosmo’, si inserisce la città e la sua vita quotidiana: aperto e percorribile, il monu-mento è concepito per essere vissuto nel ricodo costante della lotta per la libertà. Sollevandosi, il recinto esprime infatti quel “moto di popolo” celebrato dalle parole di Calamandrei incise nel-le sue pareti interne e, in questa tensione verso il cielo, consacra la Resistenza quale momento fondante della nazione.

In maniera molto razionale, il quadrato governa anche la pianta del Monumento ai Caduti della lotta partigiana nel cimitero Vantiniano di Brescia (1980-1989) di Ignazio Gardella; ma qui la fi gura è una matrice appena accennata, impronta a terra della quale il recinto occupa solo la metà. Il recinto è quindi un triangolo rettangolo che si spacca in corrispondenza del varco d’ingresso (lungo la diagonale del quadrato originario ovvero a metà dell’ipotenusa) e sul vertice dell’angolo retto, per consentire allo sguardo di muoversi da dentro a fuori e viceversa. Più che alla caratterizzazione del vuoto disegnato dal recinto, l’atten-zione di Gardella è rivolta ai margini di contenimento, concepiti come muri in mattoni che si compongono a formare una sorta di bastione difensivo, eroso dal tempo ed esplorabile fi n nelle sue viscere (dove si trova la cripta). Una costruzione che oscilla tra i due opposti dell’inte-grità e della dissoluzione, come nota Paolo Zermani: “Il contrappunto tra unità, rottura dell’unità, sua successiva ricomposizione nella forma originaria sembra essere la chiave per ragionare della confl ittualità avvenuta e della coscienza d’una condizione di pace ritrovata”19. Impenetrabile, il muro in calcestruzzo che recinge la tomba Brion (1969-1978) a San Vito d’Altivole separandola dal piccolo cimitero, corre continuo lungo i confi ni, inclinandosi verso l’interno quasi in un movimento di chiusura, come a voler celare la misteriosa cosmologia che oltre di esso prende forma: una concatenazione di ‘luoghi’

imma-Ignazio Gardella, Monumento ai caduti di Brescia, 1980-89, Mendrisio, Archivio del Moderno, Fondo Ignazio Gardella.

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55 Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito di Altivole (TV), 1969-78.

ginari che segnano le tappe del viaggio a tutti ignoto; una geografi a fantastica che celebra un aldilà gioioso, quasi di concezione etrusca. Il richiamo alla felicità della vita terrena che si prolunga oltre la morte, è ribadito proprio dalla volontà di includere, tra i topoi della tomba, la campagna che circonda il cimitero. Rialzando la quota del terreno, Carlo Scarpa riesce infatti a preservare la privatezza del luogo senza perdere la relazione visiva col paesaggio, che è insieme mondo dei vivi e mondo dei morti. Avviene, così, che passeggiando all’interno di questo paradiso orientale, si apra alla vista una campagna trevigiana ancora intatta, che si manifesta, in successione, coi campi di grantur-co, il campanile della chiesa di San Vito e le Alpi sullo sfondo.

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57 Questa immagine e la seguente: Giovanni Greppi, Giannino Castiglioni, Sacrario militare di

Redipuglia, 1935-38 (foto di Michelangelo Pivetta).

La scala

Universalmente esiste l’idea della perdita di un contatto primordiale fra terra e cielo che viene ripristinato con l’aiuto di una scala. Così il Libro dei Morti egizio fa riferimento alla scala che consente di vedere gli dei; nel famoso sogno di Giacobbe gli angeli salgono e scendono da una scala che viene dal cielo; per accedere al trono di Salomone è necessario salire dei gradini. La torre di Babele era probabilmente uno ziggurat costruito con l’ambizione di arrivare fi no al cielo, così come le piramidi, soprattutto quelle a gradoni, sono assimilabili a scalinate che puntano verso l’Alto. Simbolo dell’ascensione verso il cielo, i Padri della Chiesa e i mistici me-dievali ne fanno frequente utilizzo per signifi care il tragitto compiuto dall’anima nei vari gradi successivi, riprendendo la tradizione platonica che descrive l’elevazione dell’anima dal mondo sensibile verso l’intelli-gibile come salita di gradino in gradino. Lo stesso simbolo diventa per i Sufi ascesa verso la conoscenza mistica20. Per lo stesso motivo la Divina Commedia e la relativa cosmologia sono strutturate in forma di asce-sa, suddivisa nei vari ‘gradi’ che vanno dall’Inferno al Paradiso. La scala rappresenta, dunque, non solo l’elevazione spirituale ma an-che la conquista della conoscenza. D’altra parte, l’acquisizione del sa-pere o della consapevolezza è talvolta rappresentato da una discesa che è topos letterario. Scendono agli Inferi Ulisse, Eracle, Orfeo ed Enea; lo stesso Dante compie questo viaggio per penetrare nelle pro-fondità dell’animo umano.

Anche Cristo visita gli Inferi prima della resurrezione affi nché la redenzio-ne comprenda redenzio-nel suo abbraccio tutta l’umanità fi n dall’inizio dei tempi.

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La costruzione di una scala nel luogo della morte riconduce al signifi -cato primordiale del simbolismo connesso alla fi gura, stabilendo una relazione diretta fra il trapasso e l’ascesa al cielo.

In epoca fascista i monumenti commemorativi sono spesso concepiti come una scalinata solenne adagiata su un pendio. Fra gli esempi più noti, la maestosa scala metafi sica disegnata da Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni per il sacrario di Redipuglia (1935-1938), fonde l’immagine del Golgota con quella della schiera militare obbediente al proprio capo, dando vita a uno spazio palindromo che off re signi-fi cati diversi a seconda che si legga dal basso verso l’alto o viceversa. “Presente” riecheggia scolpito nei gradoni del monumento in onore di centomila assenti, di cui solo quarantamila identifi cati.

Sebbene di dimensioni più contenute, il precedente tipologicamen-te più prossimo al sacrario di Redipuglia è il Monumento ai caduti di Erba Incino (1928-1932) di Giuseppe Terragni, che aff ronta il tema della scalinata come progetto paesistico, condensando in un unico se-gno il percorso monumentale e l’ingresso al sovrastante parco del Li-cinium. Il carattere romantico che ne consegue, sottolineato dall’ese-dra del belvedere, riesce a contenere i toni potenzialmente enfatici della scalinata.

Sempre di Terragni, ma di tutt’altre dimensioni, è il monumento realiz-zato tra il 1934 e il 1935 in onore di Roberto Sarfatti sul Col d’Echele21, dove il giovane trovò la morte cadendo in battaglia durante la prima guerra mondiale. Prima di arrivare alla soluzione fi nale, Terragni esplora numerose possibilità, tutte accomunate dalla presenza di una scala che si compone con una stele o un monolite. In alcuni studi intermedi il mo-nolite, prima a U e poi cubico, è sospeso drammaticamente sulla scala, alludendo alla diffi coltà del passaggio prima di raggiungere il traguardo celeste. Nella versione realizzata, ridimensionata su richiesta della com-mittenza, la scala arriva a fondersi con l’immagine di un corpo disteso ed è assorbita nella fi gura di una croce di pietra adagiata sul terreno, dove il monolite cubico, che è lapide e altare allo stesso tempo, segna l’interse-zione dei bracci e diventa meta di un ideale percorso sacro.

Anche Aldo Rossi nel progetto per il monumento alla Resistenza di Cuneo (1962) combina il monolite con la scala, ricavando

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61 Giuseppe Terragni, Monumento ai caduti di Erba Incino, 1928-32.

tima nel volume di un cubo, perfetto nella sagoma ma eroso al suo interno. La scala penetra simbolicamente entro il corpo del monolite, conducendo il visitatore dall’oscurità di uno spazio cavernoso alla luce di una stanza a cielo aperto ricavata in sommità: sequenza che ricorda la versione non realizzata del monumento a Sarfatti. Questo passaggio dall’ombra alla luce, che avviene all’interno e per mezzo di un corpo originariamente puro e ora corrotto, pare contenere il concetto della rinascita più che della resurrezione, con riferimento al sacrifi cio dei partigiani quale atto fondativo dell’Italia repubblicana.

Lo stesso Rossi, nella fontana-monumento alla Resistenza di Segrate (1965-1967), evoca la diffi cile ‘ricostruzione’ del Paese, assemblando in maniera tettonicamente logica ma compositivamente misteriosa al-cuni dei pezzi di cui si compone il paesaggio italiano: una colonna, un tetto a due falde, una scala. La scala termina nel nulla, traendo da que-sta enigmatica assenza di utilità il suo valore simbolico di frammento di un tutto disgregato, da cui può comunque generarsi nuova vita. Scale rivolte verso il cielo di Berlino sono quelle che Paolo Zermani immagi-na per la cappella-monumento (1992-1993) collocata in prossimità dell’ex Muro. Pensato per sorgere vicino alla Porta di Brandeburgo, il monumento è una complessa “macchina di pietra”, come la defi nisce l’autore, “volta a perpetuare il gesto simbolico della riunifi cazione”22 attraverso un sistema di percorsi di valore quasi rituale. Il monumento disegna, infatti, una nuova topografi a a partire dalle tracce impresse dagli eventi della storia, traducen-do in architettura l’abbraccio tra concittadini che seguì alla caduta di quello che fu il simbolo della Cortina di Ferro. Ortogonali al tracciato del Muro, due coppie di alti setti murari, tra di loro paralleli e raccordati da una croce posta a metà, formano una ‘via sacra’ lungo la quale si realizza un percorso alla quo-ta di campagna. Ognuna delle spalle del monumento contiene però una scala che sale in direzione opposta rispetto all’altra, dando vita a due percorsi in quota rivolti l’uno a est e l’altro a ovest, e uniti, a metà della salita, dalla croce centrale che fa da ponte, consentendo il passaggio da un lato all’altro del monumento. Anche qui le scale non hanno altra funzione se non quella di condurre in cima a guardare le due parti ricongiunte della città, opponen-do all’invalicabilità dell’ex-Muro la fl uidità di una circolazione perenne, vero e proprio andirivieni che pare congegnato per gli angeli di Wenders.

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Giuseppe Terragni, Monumento a Roberto Sarfatti, Col d’Echele (VI), 1934-35. In questa pagina: disegno di studio 35/003/D/S/G, per concessione dell’archivio Terragni. Nella pagina a fi anco: il monumento realizzato.

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Aldo Rossi, Monumento alla Resistenza a Cuneo, 1962; piante, sezione, prospetti (disegno di

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Paolo Zermani, Cappella Monumeto sull’ex muro di Berlino, 1992-93. Nella pagina a fi anco: dettaglio del modello. In questa pagina: foto del modello e sezione trasversale (foto di Mauro Davoli).

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69 Mies van der Rohe, Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, 1926, foto B/N, ©Mies

van der Rohe by SIAE 2017, MoMA New York, digital image © 2017, The Museum of Modern Art/Scala, Firenze.

Le rovine

Ad epoche remote risale il simbolismo connesso alla ‘rottura’, che esprime la condizione duale di ogni essere vivente o inanimato nel mondo: tutto può essere ucciso o distrutto, ma proprio questa pre-carietà consente la rinascita e il rinnovamento.

La rovina come concetto fi losofi co-estetico compare già nella lette-ratura latina classica in riferimento alla caducità della vita del singo-lo individuo o dei popoli della Terra (nelle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio), e giunge fi no al Medioevo declinandosi nella forma del memento mori. Anche quando, a seguito della nascita dell’interesse per le rovine di Roma, già manifestatosi in autori come Petrarca, se ne aff erma la lettura in senso antiquario e documentario, la loro effi cacia evocativa non solo si conserva, ma si arricchisce di un ulte-riore signifi cato tuttora presente nella nostra concezione attuale: le rovine sono l’emblema della trasformazione incessante operata dal tempo, che tutto avvolge e consuma riconsegnando alla natura ciò che l’uomo ha da questa provvisoriamente sottratto23. Scrive Mar-guerite Yourcenar: “Quella linea cancellata, quella curva ora perduta ora ritrovata non può non provenire se non da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta fi nale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si aff erma sin in fondo nella rovina delle cose”24. Quello del tempo è un ciclo naturale e la rovina lo esprime in una forma tragica ma non triste, come nota Georg Simmel, “poiché la di-struzione in esse non è qualcosa di assurdo che proviene

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