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Eroda, Mimiambi I, IV e VIII. I principi costitutivi del programma poetico erodeo

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 3

1. Obiettivi e struttura della ricerca 3

2. Cenni biografici 5

3. I Mimiambi 8

4. Il pubblico di Eroda e la fruizione dei Mimiambi 11 5. I ritrovamenti papiracei e le principali tappe degli studi 15

Capitolo primo

Mimiambo VIII - Ἐνύπνιον

19

1.1 Introduzione alla lettura del Mimiambo VIII 19

1.2 Testo e traduzione 26

1.3 Eroda mette in scena Eroda 32

1.3.1 Chi racconta il sogno? 32

1.3.2 La costruzione di una persona autoriale 37

1.3.3 Immedesimarsi nel personaggio 50

1.3.4 La lingua del fattore: allusività e parodia 59

1.3.5 Il giambografo dietro Eroda 71

1.4 La ripresa di un fortunato topos letterario 77

1.5 La natura composita dell'opera di Eroda 92

1.5.1 La componente dionisiaca: performance, teatro, rituale. 92 1.5.2 La componente coliambica: sulle orme di Ipponatte 114

Capitolo secondo

Mimiambo I - Προκυκλὶς ἢ μαστροπός

133

2.1 Introduzione alla lettura del Mimiambo I 133

2.2 Testo e traduzione 136

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2.3.1 Modelli ripresi, modelli variati 144 2.3.2 Il riconoscimento del ruolo di ruffiana di Gillide 160

2.3.3 La rhesis di una docta tentatrice 165

2.3.4 Alcune riflessioni su Mim. VI 18-21 e Mim. VII 57-63, 108-112 184

2.4 Proposte di interpretazione del Mimiambo I 191

2.4.1 Il sottofondo demetriaco e giambico 191

2.4.2 La filigrana omerica 195

2.4.3 Svelare l'artificio compositivo: l'unione dei generi 199

Capitolo terzo

Mimiambo IV - Ἀσκληπιῷ ἀνατιθεῖσαι καὶ θυσιάζουσαι

204

3.1 Introduzione alla lettura del Mimiambo IV 204

3.2 Testo e traduzione 207

3.3 La costruzione della scenografia e dell'azione scenica 214 3.3.1 Seguendo Cinno e Coccale nel santuario di Asclepio 216 3.3.2 Corrispondenze tra l'Asklepieìon di Cos e il Mimiambo IV 225

3.3.3 Discussione delle obiezioni 244

3.4 L'incontro di arte e poesia nel Mimiambo IV:

un'occasione di riflessione poetica? 247

3.4.1 La ripresa delle tecniche dell'arte figurativa 253

3.4.2 La ripresa della critica dell'arte 266

3.4.3 La ripresa dei topoi della poesia ecfrastica 278 3.4.4 Influenza di Ipponatte nella critica contro i detrattori di Apelle 291

Riflessioni conclusive 296

Bibliografia 299

Indice delle figure 322

(3)

Introduzione

1. Obiettivi e struttura della ricerca

La presente ricerca si propone, attraverso la lettura di tre mimiambi particolarmente significativi, di individuare e analizzare i princìpi costituitivi del programma poetico di Eroda, ottenendo una chiave per comprenderne in maniera adeguata l'opera.

Nonostante negli anni più recenti si sia risvegliato un certo interesse nei confronti dei

Mimiambi, testimoniato dalla pubblicazione di nuove edizioni sempre più ricche e di

studi su argomenti specifici, manca quasi del tutto una riflessione che affronti in modo completo il tema della poetica erodea. Questa lacuna sorprende soprattutto alla luce del fatto che il Mim. VIII, vero e proprio manifesto poetico di Eroda, rappresenti una chiave d'accesso al pensiero del mimiambografo sulla natura e sulle finalità della sua poesia. Inoltre, negli anni più recenti sono state individuate implicazioni programmatiche anche in altri mimiambi, ma non è ancora stato affrontato un discorso che renda conto dell'importanza che ciò può significare per la comprensione della poetica erodea.

L'interesse per questa tematica nasce da una precedente ricerca personale sul Mim. VIII, che aveva fatto sorgere in me più interrogativi che risposte, in particolare in merito alla natura dell'opera erodea e alla sua fruizione originaria; entrambe le questioni dipendono dall'ambiguità connaturata ai Mimiambi, in quanto opera dalla duplice natura, formata da una componente teatrale, legata al mondo del mimo e della commedia, e da una non teatrale, individuabile nell'uso del metro coliambico e nell'influenza di Ipponatte.

Punto di partenza di questo studio sarà un'analisi del Mim. VIII, in seguito alla quale possa essere tracciato un quadro della personalità autoriale di Eroda, poeta ironico e dalla profonda competenza letteraria, e possa essere esposta la sua riflessione sulla natura composita dei Mimiambi, sulla scelta dei modelli letterari, ma anche sulla sua attività poetica e sulla problematica ricezione dell'opera da parte del pubblico.

Una volta superati gli ostacoli causati dal carattere allusivo e allegorico del Mim. VIII, le conclusioni desunte dall'esame del manifesto poetico di Eroda costituiranno una base solida per interpretare i Mimiambi I e IV a partire dalle indicazioni del loro autore.

(4)

Analizzando il Mim. I verrà affrontato un tema di primaria importanza per Eroda, ossia la caratterizzazione dei personaggi; esemplare è la figura della mezzana Gillide, creata a partire da modelli letterari adattati in maniera originale e dotata di un linguaggio che attinge alla poesia d'amore alessandrina, in stridente contrasto con la sua condizione socio-culturale. Inoltre, una breve riflessione su alcuni passi dei Mimiambi VI e VII sarà l'occasione per evidenziare la presenza di relazioni intertestuali rilevanti nell'opera erodea e individuare spunti di polemica culturale e allusioni ironiche dell'autore.

Il Mim. I offre terreno fertile anche per la ricerca di letture che vadano oltre la semplice situazione quotidiana messa in scena; questa indagine porterà alla conclusione che, sebbene con modalità meno esplicite rispetto al Sogno, anche il Mim. I abbia finalità programmatiche imprescindibili per la comprensione della poetica erodea.

Il Mim. IV permetterà innanzitutto di toccare un aspetto dei Mimiambi che solitamente viene trascurato: la costruzione dell'azione scenica e della scenografia. La ricerca al riguardo è finalizzata alla comprensione delle modalità di fruizione dei Mimiambi; se questi brevi mimi sono stati davvero concepiti come letteratura ad imitazione del teatro, è possibile che Eroda abbia ambientato il Mim. IV nel celebre Asklepieìon di Cos per aiutare i suoi lettori (o gli ascoltatori) a seguire senza difficoltà l'azione scenica e a vedere con gli occhi dell'immaginazione le opere d'arte e le strutture della scenografia. In secondo luogo ci soffermeremo sulle implicazioni programmatiche insite nei discorsi sull'arte delle due protagoniste, in cui è riflesso il pensiero di Eroda sui capisaldi della sua poesia, ispirata al principio dell' ἀλήθεια, ma esito di raffinate procedure poetiche.

Ciò che emerge dalla lettura di questi componimenti è la presenza costante, anche se abilmente camuffata dietro personaggi umili e moralmente ambigui, della voce autoriale; attraverso di loro, Eroda espone i propri gusti in materia letteraria, il proprio parere su tematiche culturali di attualità e fornisce spunti di riflessione sull'operazione poetica da lui attuata. Lungi dall'essere esposto solo nel Mim. VIII, il progetto poetico di Eroda è chiaramente percepibile in tutti i suoi mimi, uniti tra loro da fitte relazioni intertestuali che testimoniano la complessità e l'intenzionalità del disegno del mimiambografo.

Per questo motivo si rivela necessaria un'analisi testuale che parta dal programmatico

Mim. VIII e prenda poi in considerazione anche altri mimi, per arrivare a conclusioni

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2. Cenni biografici

Prima del 1891 Eroda non era che l'ennesimo autore antico condannato ad un quasi totale oblio: del più autorevole mimografo di età alessandrina, che Plinio il Giovane in un'epistola all'amico Arrio Antonino accostava a Callimaco1, si possedeva poco più di una ventina di versi sopravvissuti grazie alla tradizione indiretta2 e non vi erano informazioni affidabili riguardo la terra di origine, l'epoca di attività poetica e neppure la forma del nome, Eroda o Eronda. Data una tale scarsità di notizie, la pubblicazione, da parte di Frederic G. Kenyon, di un rotolo di papiro egiziano databile all'inizio del II sec. d.C. (British Museum Pap. 135 = Egerton Pap. 1) e contenente sette mimiambi e i primi tre versi dell'ottavo dava inizio ad una vera e propria riscoperta dell'autore.

Innanzitutto, grazie ad alcuni elementi testuali presenti nell'opera, è stato possibile, sebbene con qualche esitazione, datare l'attività letteraria di Eroda sotto il regno di Tolemeo II Filadelfo (285-247 a.C.); il Mim. IV, ad esempio, è stato probabilmente composto tra il 285 e il 265 a.C., mentre il Mim. I dopo il 272-271 a.C.3.

1 Plin. Ep. IV 3, 3-4: ita certe sum adfectus ipse cum Graeca epigrammata tua, cum mimiambos [Skutsch

1892, 118 corregge giustamente iambos in mimiambos] proxime legerem. Quantum ibi humanitatis, venustatis, quam dulcia illa, quam amantia, quam arguta, quam recta. Callimachum me vel Heroden vel si quid his melius tenere credebam; quorum tamen neuter utrumque aut absoluit aut attigit; quorum tamen neuter utrumque aut absoluit aut attigit («Sono rimasto davvero così impressionato leggendo di recente i tuoi epigrammi in greco, e i tuoi mimiambi. Che nobiltà vi è, e che eleganza! Quanto sono piacevoli, amabili, spiritosi e schietti! Credevo di avere tra le mani un Callimaco o un Erode o qualcosa di meglio; e tuttavia nessuno dei due raggiunse la perfezione in entrambi i generi e neppure li provò»). In questa epistola Plinio il Giovane elogia gli epigrammi e i mimiambi composti in lingua greca dall'amico Arrio Antonino, che fu console nel 69 e nel 97 d.C. e proconsole d'Asia nel 78 d.C.; per la lode di questi componimenti, Plinio adotta come termini di paragone quelli che dovevano essere i più illustri esponenti dei due generi letterari, Callimaco per gli epigrammi ed Eroda per i mimiambi. Da questa citazione è possibile desumere che l'opera di Eroda doveva godere, ancora nel I sec. d.C., di una discreta circolazione libraria e stima nel mondo romano.

2 Mim. I 15-16 = Stob. IV 50b, 52; Mim. I 67-68 = Stob. IV 50b, 59; Mim. III 10 = Zenob. VI 10; Mim.

V 32 = EM 411, 43 = Zon. Lex. I 957 Tittm.; Mim. VI 37-39 = Stob. IV 23, 14; Mim. VIII 59-60 = schol. in Nic. Ther. 377; Mim. X 1-3 = Stob. IV 50b, 56; Mim. X 4 = Stob. IV 50b, 55; Mim. XI Athen. 86 B; Mim. XII = Stob. IV 24d, 51; Mim. XIII = Stob. IV 34, 27.

3 Nel Mim. IV, ai vv. 21-26, si fa riferimento ai figli di Prassitele – Cefisodoto e Timarco – come viventi,

mentre ai vv. 72-78 si parla di Apelle al passato, perciò il mimo deve essere stato scritto tra il 285 e il 265 a.C. (cfr. Cunningham 1966, 117-118). Il Mim. I è stato composto dopo il 272-271 a.C., poiché la mezzana Gillide, nell'elenco delle meraviglie di Alessandria, menziona il «tempio degli dèi fratelli» (v. 30 θεῶν ἀδελφῶν τέμενος): Tolemeo II Filadelfo e la sua sposa-sorella Arsinoe ricevettero questo epiteto in quegli anni (in P. Hibeh 199, ll. 16-17, troviamo per la prima volta il titolo di ἱερ[εὺς Ἀλεξάνδρου] καὶ θεῶν Ἀδελ[φῶν). Purtroppo il riferimento al βασιλεὺς χρηστός (Mim. I 30) risulta per noi un po' vago, poiché, anche se la maggior parte degli studiosi ritiene che l'appellativo indichi il Filadelfo (si vedano le convincenti argomentazioni di Herzog 1927, 49-63 e Miralles 1969, 357-360), non si può escludere a priori che si riferisca a Tolemeo III Evergete; Vogliano 1925, 406-412 propende per questa seconda eventualità, ma, considerando troppo grande il lasso di tempo tra la composizione del Mim. I e del Mim. IV, giunge alla conclusione che i vv. 30-31 del Mim. I siano un'interpolazione attoriale, ipotesi però non condivisibile (cfr. p. 169 del presente elaborato). Infine, nel Mim. II il lenone

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Tarda a trovare una risoluzione definitiva la questione della patria del mimiambografo o, comunque, del luogo dove poter collocare la sua attività letteraria. Alcuni critici, affascinati da quello che potrebbe essere l'eco di una polemica letteraria con Callimaco, credono che Eroda abbia passato buona parte della vita in Ionia4; altri ritengono che la sua terra d'origine sia la Sicilia per via del legame con la tradizione mimica5; non è mancatoneppurechihavistonelMim.VIIIilriferimentoall'Atticaeallesuetradizioni6. Personalmente rimango convinta che dalla lettura dei Mimiambi emerga il riflesso inconfondibile della temperie culturale dei due centri culturali ellenistici per eccellenza, Alessandria e Cos, le quali all'epoca di Eroda erano unite da stretti legami politici, economici e culturali7. La prima, oltre ad essere elogiata dalla mezzana Gillide (Mim. I 26-35), è evocata anche nel programmatico Mim. VIII, in cui la persona di Eroda, interpretando il sogno, afferma che molti «fra le Muse» (v. 72ἐν Μούσηισιν) faranno a pezzi la sua opera, con chiaro riferimento al Museo di Alessandria e al suo ambiente caratterizzato da polemiche, invidie e rivalità (cfr. anche Mim. I 31 e Timo fr. SH 786); da ciò è lecito dedurre che l'attività poetica di Eroda si sia svolta, almeno in parte, proprio nella capitale del regno dei Lagidi. La seconda fa da scenario al Mim. II (cfr. vv. 95-98), molto probabilmente al Mim. IV e, secondo alcuni studiosi, anche al Mim. I8;

Battaro menziona la città di Ἄκη (v. 16), l'attuale S. Giovanni d'Acri: nel 266 a.C. fu chiamata Tolemaide in onore di Tolemeo Filadelfo, ma continuò ad essere usata anche la vecchia denominazione ed è quindi vano ogni tentativo di fondarsi su questo elemento per stabilire la cronologia del mimo.

4 Cfr. Wilamowitz 1924, 107, Puccioni 1950, 180 e Miralles 1969, 360-365. Puccioni ritiene che in Mim.

VIII 78 ἐ]μ̣ο̣ῖ̣ς̣, congettura di Herzog, sia attributo di Ξουθίδηις; perciò Eroda chiamerebbe gli Ioni «miei» per aver vissuto presso di loro e aver preso, presumibilmente, la cittadinanza di Efeso. Secondo lo studioso, questa spiegazione spiegherebbe anche la punta polemica del Giambo XIII di Callimaco, dove chi parla afferma di non aver dovuto frequentare gli Ioni né soggiornare ad Efeso per comporre coliambi (fr. 203, 11-14, 64-66 Pf.); tuttavia, sulla scia di Miralles 1969, 354-55, Cunningham 1971, 16 e Simon 1991, 76-77, non penso che ci siano prove sufficienti per parlare di una polemica letteraria tra Eroda e Callimaco, anzi tra i due ci sono importanti affinità: si veda p. 45 n. 109 del presente elaborato.

5 Pace 1932, 163, instaurando un parallelismo con Teocrito, prospetta anche per Eroda una possibile

origine siceliota, mettendo in luce gli elementi e i motivi che i Mimiambi devono alla tradizione mimica dell'isola (cfr. anche Llera Fueyo 1994, 91-102). Riguardo le origini del mimo greco, i suoi rapporti con la commedia, il mimo di Sofrone e i punti di contatto con i Mimiambi vd. Mastromarco 1991, 169-172.

6 A causa di un'interpretazione autoschediasta del Mim. VIII, Knox 1925, 13-14 ritiene che Eroda sia

ateniese e che abbia trascorso parte della sua vita «in a small attic country house»; Knox 1926, 255 n. 18 ha inoltre aggiunto, a sostegno di questa ipotesi, la menzione del gioco dell'ἀσκωλιασμός, collegato da alcune fonti con i rituali dionisiaci e con le Dionisie Rurali celebrate in Attica, e l'impiego del verbo τελέω alla prima persona plurale in Mim. VIII 40.

7 Questa è oggi la communis opinio della critica; il primo a ipotizzare un collegamento tra Eroda e l'isola

egea è stato Kenyon 1891a, 2, mentre Headlam-Knox 1922, IX propendono per l'altro importante polo culturale dell'epoca, Alessandria. Riguardo l'importanza economica e politica di Cos in età ellenistica e lo stretto legame con Alessandria cfr. Sherwin-White 1978, 90-107.

8 In merito all'ambientazione del Mim. I si veda la discussione a p. 134 n. 377 e, per quanto riguarda il

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la conoscenza affatto superficiale che Eroda dimostra di Cos e la forma dorica del suo nome inducono a condividere la tesi di chi ritiene che egli sia originario di Cos o, perlomeno, che abbia trascorso un periodo sull'isola e vi abbia composto parte della sua opera, rivolgendosi a un pubblico in grado di apprezzare i riferimenti al luogo9.

A onor del vero, tuttavia, ancora oggi rimane un certo imbarazzo da parte della critica sull'autentica forma del nome del mimiambografo, poiché nella tradizione indiretta essa non si presenta univoca e il σίλλυβος del papiro è purtroppo andato perduto.

La forma Ἡρώδας compare in vari passi di Stobeo, Ἡρώνδας unicamente in Ateneo (III 86 B), Ἡρώδης in Zenobio (VI 10) e Ἡρόδοτος è un evidente errore di grafia presente nell'Etymologicum Magnum (EM 411,43 Gainsford = Zon. Lex. I 957 Tittm. παρὰ Ἡροδότωι). La prima, di stampo dorico, è ritenuta da Lidia Massa Positano una forma tarda del nome originario Ἡρωΐδας, in cui il suffisso -ιδας, indicante la filiazione, conterrebbe in sé il senso di «discendente di un eroe»: col passare del tempo lo -ι- sarebbe stato ridotto dalla pronuncia a semplice segno ortografico e, scambiato per la prima asta di Ν, avrebbe avrebbe dato luogo all'errato Ἡρώνδας10. A differenza di quest'ultimo, il nome Ἡρώδας è sostenuto da un maggior numero di testimoni e può spiegare la confusione del copistadell'EtymologicumMagnum; senzal'infissonasale -ν-, invece, è difficile spiegare Ἡρόδοτος come corruzione della forma beotica Ἡρώνδας. Un ulteriore argomento a sostegno della forma Ἡρώδας è costituito da un'iscrizione pubblicata nel 1881, proveniente da Traiana Augusta, in Tracia, e databile al II o III sec. d.C. (IGBulg III.2 1578)11; dopo l'augurio «con buona fortuna», segue l'epigrafe:

Ἡρωδιανὸς Νεικίου πατρὸς ἔστησεν χάλκειον ἀνδριάντα πατρίδος ψήφῳ γνώμης τε ἕκατι — μείλιχος γὰρ ἦν πᾶσιν —

τερπνῶν τε μείμων, οὓς ἔγραψεν ἀστείως12.

Si tratta di un epigramma in metro coliambico contenente la dedica, da parte di un tal Erodiano, di una statua in bronzo in memoria del padre Nicia, mimografo. Otto Crusius

9 Si vedano in particolare Webster 1964, 97, Fraser 1972, 876-878 e Zanker 2009, 1. Contrario a questa

ipotesi è Knox 1925, 14, il quale considera il frequente riferimento a Cos un mero espediente letterario tipicamente alessandrino; Cunningham 1971, 2 n. 3 è invece scettico: «the widespread belief that Herodas was born or lived in Kos is without foundation (he may have done so, but there is no proof)».

10 Massa Positano 1970, 15-16. Cfr. anche Furley 1998, 455-458. 11 Cfr. Dittenberger 1881, 463.

12 Trad.: «Erodiano del padre Nicia collocò / una statua in bronzo per decreto della patria / a motivo

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ha acutamente avanzato l'ipotesi, recentemente ripresa da Franco Mosino, che il nome del figlio, Erodiano, sia un tributo del padre al celebre mimografo alessandrino13.

Negli ultimi anni, nonostante sia una forma isolata, ha incontrato un certo consenso tra gli studiosi anche il nome con il suffisso beotico, Ἡρώνδας. Lamberto Di Gregorio difende questa linea spiegando che il raro termine, derivato da Ἥρων, si inserisce nella serie dei patronimici in -ωνδας, -ωνδης, diffusi in Beozia, Focide, Eubea, Tessaglia e Megara e attestati sia in ambito letterario sia documentario14; lo studioso, sulla scia di Olivier Masson, considera Ἡρώνδας non una forma sovrappostasi a quella originaria in un'epoca successiva o un banale errore di copia, ma una lectio difficilior soppiantata quasi del tutto dalla facilior, Ἡρώδας; quest'ultima, pertanto, risalirebbe a un periodo posteriore, quando della forma originaria Ἡρώνδας si era persa traccia15.

Infine, la forma ionico-attica Ἡρώδης, con una normalizzazione del suffisso dorico -δας in quello attico -δης, è stata usata da Alfred Knox nella maggior parte dei suoi studi16. Benché la vexata quaestio non possa trovare risoluzione definitiva, ritengo preferibile la forma Ἡρώδας per i motivi precedentemente addotti e perché, se dai Mimiambi emerge un chiaro legame con l'isola di Cos e con l'area dorica in generale, anche in virtù della ripresa del genere mimico, non vi è alcun cenno alla regione beotica e al suo dialetto.

3. I Mimiambi

Il carattere peculiare dell'opera di Eroda emerge ancor prima di procedere alla lettura dei singoli componimenti: il titolo Μιμίαμβοι, indicante un connubio tra μῖμοι e ἴαμβοι, è un primo segnale della piena adesione di Eroda ai canoni della poesia alessandrina, di cui la cosiddetta Kreuzung der Gattungen è un tratto peculiare17; in questo modo Eroda si richiama fin da subito al genere mimico-comico, da cui attinge contenuti e forma

13 Cfr. Crusius 1892, 192 e Mosino 2000, 149-151. 14 Cfr. Di Gregorio 1997, XI-XIII.

15 Cfr. Masson 1974, 89-91 e Di Gregorio 1997, XII. Di Virgilio 1988, 100-104 suggerisce la possibilità

che l'espressione ταῦτ' ἔγραψε Χαιρώνδης, pronunciata dal lenone Battaro in Mim. II 48b, sia una σφραγίς nascosta del mimografo; in tal caso ΧΑΙΡΩΝΔΗΣ dovrebbe derivare dalla fusione tra il nome Ἡρώνδης e la particella καί e farebbe pensare ambiguamente sia al nome del poeta sia a quello del legislatore dorico Caronda, vissuto nel VI sec. a.C. (cfr. Castello 1990, 361-368). Di Gregorio 1997, 148 rigetta questa ipotesi perché Eroda non aveva motivo di trasmettere il proprio nome in forma ionicizzata e perché è più plausibile che la forma Χαιρώνδης sia un errore di Battaro per Χαρώνδας.

16 Cfr. Zanker 2009, 1: «Zenobios 6.10 has the Ionic-Attic Herodês, Ἡρώδης, but there is no convincing

argument that Herodas was connected with that dialect-area either».

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drammatica18, e a quello giambico per quanto riguardalinguaemetro19. Un'operazione di questo tipo ‒ l'unione di un genere teatrale con uno non teatrale ‒ provoca uno stato di tensione, che viene tematizzata dall'autore nel Mim. I e nel Mim. VIII per sviluppare riflessioni sulla propria attività poetica e sulle innovative modalità della composizione. Il risultato della sperimentazione poetica di Eroda è un prodotto originale e al passo coi gusti dell'epoca: brevi componimenti caratterizzati dal metro coliambico di ascendenza ipponattea20, da una minuziosa rifinitura formale21, dall'artificiosità della lingua22 e da contenuti umili e quotidiani23; sono infatti incentrati su personaggi perlopiù volgari e di

18 Come avremo modo di approfondire nel corso dell'analisi del Mim. VIII (pp. 92-114), la sostanziale

drammaticità dei Mimiambi è un tratto fondamentale della poetica di Eroda, più volte rimarcato tramite il ricorso a espedienti propri delle rappresentazioni teatrali, la ripresa e la variazione di modelli mimico-comici e una allusività utilizzata opportunamente, come quella alle Nuvole di Aristofane nel Mim. VIII. Purtroppo l'influenza della componente mimica, che doveva rivestire un'importanza fondamentale all'interno dell'opera, non è apprezzabile a causa del quasi totale naufragio della vasta produzione mimica antica (per un profilo storico-letterario del genere mimico si veda Andreassi 2001, 1-16). Eroda ha attinto sia al filone letterario del mimo, rappresentato principalmente dalla produzione del siracusano Sofrone (di cui ci sono giunti per tradizione indiretta poco più di 170 frammenti; cfr. Mastromarco 1991, 169-170) e di suo figlio Senarco, sia al filone popolare (cfr. Cicu 2012). Si pensi, ad esempio, alle affinità tematiche tra il Mim. V (La gelosa) e un mimo non letterario del II sec. d.C. (POxy 413 edito da Cunningham 2004, 47-51), intitolato L'adultera (μοιχεύτρια) e in cui la protagonista è una padrona attratta fisicamente dal suo schiavo Esopo, che però la respinge perché innamorato della schiava Apollonia; sul rapporto tra i due testi, sui parallelismi e le diversità che li caratterizzano, si vedano Arnott 1971, 124-127, Melero 1974, 313-314 e Andreassi 2001, 32-33.

19 Sarà riservata particolare attenzione alla componente giambica dei Mimiambi nel corso dell'analisi del

Mim. VIII (pp. 114-132), in cui Ipponatte viene presentato da Eroda quale proprio modello poetico.

20 Con l'adozione del metro coliambico ipponatteo, orgogliosamente ribadita in Mim. VIII 78-79 (μεθ’

Ἱππώνακτα τὸν παλαι[ / τ]ὰ κύλλ’ ἀείδειν Ξουθίδαις †επιουσι[...), Eroda si inserisce consapevolemente nella tradizione poetica alessandrina, in cui era in corso un revival della poesia di Ipponatte (cfr. Degani 1973, 88-104) e il conseguente dibattito sul legittimo uso del coliambo ipponatteo (cfr. Call.Iamb. XIII fr. 203, 11-14, 63-66). L'andatura prosastica del giambo zoppo si addice perfettamente ai Mimiambi, che vogliono essere imitazione della realtà, pur filtrata attraverso una variegata esperienza letteraria.

21 Non bisogna farsi trarre in inganno da temi e ambientazioni realistiche, infatti il verismo dei Mimiambi

è esclusivamente di maniera e l'elaborazione formale che Eroda riserva ai propri componimenti è squisitamente alessandrina. Nel Mim. VIII Eroda fa più volte riferimento alla concezione della poesia come πόνος e come caratterizzata dal labor limae: da notare la fatica con cui il fattore trascina il capro (simbolo dell'opera di Eroda) fuori dal burrone (vv. 16-17), la difficoltà con cui il protagonista riesce a mantenersi in equilibrio sull'otre fabbricato con la pelle del capro (vv. 41-47) e, ovviamente, il v. 71 τὰ μέλεα... τοὺς ἐ̣μ̣οὺς μόχθους (per i paralleli si veda p. 94 n. 282 del presente elaborato).

22 La lingua di Eroda è letteraria e composita: il substrato è sostanzialmente ionico, sul modello della

lingua di Ipponatte (sul color hipponacteus si vedano Ussher 1980, 72-73 e Degani 2002, 50-56), ma sono presenti anche iperionismi, diversi atticismi e alcune forme doriche ed eoliche; notevole è la presenza di particolarità stilistiche, quali hapax legomena, termini rari, arcaismi, doppioni morfologici, metafore, chiasmi, allitterazioni. Per approfondimenti sui singoli aspetti si vedano gli studi di Bo 1962 e di Schmidt 1968; Domenico Bo spiega come Eroda scriva «per raffinati dal palato delicato che sanno scoprire tutto il travaglio di creazione del poeta, che sanno apprezzare l'abilità tecnica, capirne l'accortezza nel collocare a bello studio una paroletta per creare una parodia, un proverbio o una frase sentenziosa di carattere moraleggiante per creare un paradosso» (Bo 1962, 132).

23 Degani 2002, 53 ritiene che la poesia di Ipponatte abbia catturato l'interesse di Eroda soprattutto per «la

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condizione bassa, colti nell'affaccendarsi della vita di tutti i giorni; la lingua da loro usata è un curioso e 'alessandrino' connubio di volgarismi, espressioni proverbiali, elementi peculiari dell'Umgangssprache24 e fini allusioni alla letteratura alta, in stridente contrasto con la loro posizione sociale25. Un simile prodotto letterario – è bene ribadirlo alla luce dei numerosi fraintendimenti cui ha dato luogo – è il risultato di raffinate procedure poetiche e può essere concepito ed elaborato soltanto da un poeta

doctus, perfettamente calato nel contesto culturale della prima metà del III sec. a.C.,

epoca caratterizzata, come mai prima di allora, da discussioni sulla natura di letteratura, poesia e arte. Nonostante una lettura superficiale dei Mimiambi dia l'impressione che il loro autore li abbia composti traendo ispirazione dalla vita quotidiana degli strati più umili della popolazione, la realtà che viene messa in scena è filtrata attraverso modelli letterari abilmente ripresi, variati e talvolta parodicamente distorti, tra cui è possibile citare Omero, Ipponatte, Saffo, Sofrone, Epicarmo, la commedia ἀρχαία e la νέα, la tragedia, l'oratoria attica, la poesia d'amore e la poesia epigrammatica ellenistica26. Inoltre, gli studiosi si sono concentrati su punti di contatto riscontrati tra alcuni mimiambi e l'opera di poeti contemporanei come Callimaco e Teocrito, e su frecciate di polemica letteraria rivolte alle poetesse Erinna e Nosside27. Eroda, insomma, dimostra di essere dotato di un notevole bagaglio letterario e di voler esprimere la propria

rispondente in pieno alle sue istanze di poeta di mimi che intendeva conferire ai suoi sorvegliati componimenti la spontanea immediatezza della vita reale».

24 Tra gli elementi che conferiscono all'opera uno studiato carattere popolaresco si possono ricordare la

prevalenza della paratassi sull'ipotassi, le proposizioni parentetiche, le espressioni proverbiali (cfr. Fernández Delgado 2010, 13-19), i termini scurrili ed le espressioni colloquiali.

25 Si veda in particolare il caso della mezzana Gillide nel Mim. I (cfr. pp. 165-183 del presente elaborato)

e quello del lenone Battaro nel Mim. II (cfr. Maiuri 2012, 107-127).

26 L'impressione di vivace spontaneità e il realismo di maniera dei mimi di Eroda ha tratto in inganno

alcuni studiosi (Reinach 1981, 231-232, Smotrytsch 1962, 613, Smotrytsch 1966, 323-335, Gigante 1971, 89-94), che hanno visto in Eroda un 'antico realista', portatore di ideali alternativi e oppositore della cultura ufficiale, che si fa carico della causa degli umili e che scrive i suoi mimiambi per larghe masse popolari. Tuttavia, come ha ribadito Mastromarco 1979, 134-135, nei Mimiambi la realtà è quasi sempre filtrata attraverso l'esperienza letteraria di un poeta doctus, il quale scrive per un pubblico elitario, altrettanto dotto; pertanto non è possibile riscontrarvi né istanze sociali né politiche. Per quanto riguarda i modelli letterari citati, essi verranno affrontati nel dettaglio nel corso della presente ricerca; per il momento basti il rinvio ad alcuni studi di riferimento: per i poemi omerici e Ipponatte vd. Esposito 2001, Llera Fueyo 1991 ed Esposito 2010; per Saffo e la poesia d'amore vd. Mastromarco 1991; per Sofrone vd. Kutzko 2012; per la commedia archaia vd. Herzog 1924, Miralles 1992 e Chesterton 2018; per la commedia nuova vd. Veneroni 1973; per l'oratoria attica vd. Maiuri 2012.

27 La particolare natura del rapporto tra l'opera di Eroda e quella di Callimaco e Teocrito verrà indagata a

più riprese nel presente elaborato; per alcuni approfondimenti rimando in via preliminare agli studi di Simon 1991, 74-82, Stanzel 1998, 143-165, Ypsilanti 2006, 418-31, Fernández 2007, 215-31, Stanzel 2010, 187-207 e Bernao Fariñas 2011, 25-58. Per quanto riguarda gli spunti polemici a Erinna e Nosside si vedano Neri 1994, 221-232, Skinner 2001, 201-222 e le pp. 184-190 del presente elaborato.

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opinione su questioni culturali di attualità, partecipando «attivamente, dall'interno, al vivace dibattito culturale ed artistico in atto tra i poeti-critici di Alessandria»28.

Ciò è testimoniato anche dalla natura programmatica del Mim. VIII, in cui Eroda, nei panni di un fattore, intavola una riflessione sui principi costitutivi della propria opera, difendendolacon vigore dalle critiche dei suoi avversari; il carattere allusivo e allegorico del messaggio rende per noi difficoltoso il riconoscimento dei protagonisti e dei termini specifici della polemica, ma aiuta a contestualizzare meglio l'attività poetica di Eroda. Da ultimo ‒ ma non per importanza ‒ una considerazione in merito alla natura dell'opera erodea: l'individuazione di implicazioni programmatiche anche in altri mimiambi, tra loro uniti da una fitta rete di relazioni intertestuali, induce a prendere in considerazione l'ipotesi, a più riprese accantonata, che vede dietro ai Mimiambi un ben preciso progetto autoriale e non li considera soltanto un aggregato casuale di sketch comici d'autore.

4. Il pubblico di Eroda e la fruizione dei Mimiambi

Benché inizialmente Eroda sia stato accolto come un 'antico realista' che scriveva per la massa del popolo ‒ complice la pubblicazione del papiro londinese in pieno clima verista ‒ ben presto F. Blass e U. von Wilamowitz hanno preso le distanze da questa interpretazione, comprendendo la natura squisitamente alessandrina dei Mimiambi e la profonda dottrina del loro autore29. Il loro giudizio trova conferma quando, grazie alla ricomposizione dei frammenti papiracei e al paziente lavoro filologico di A. D. Knox e poi di R. Herzog, viene alla luce il Mim. VIII; in esso Eroda accenna al Museo di Alessandriaemenziona,intermini intenzionalmente vaghi, vari personaggi riconducibili ad una cerchia ristretta di poeti. Questo carattere fortemente allusivo, insieme a una lingua artificiale, ad una sofisticata tecnica parodica e all'uso di modelli letterari alti che l'uomo del popolo non avrebbe saputo apprezzare, dimostra che i Mimiambi erano rivolti a un pubblico d'élite, dotato di una considerevole cultura e informato riguardo alle polemiche in atto tra le diverse correnti letterarie e artistiche del tempo30.

Il problema del tipo di pubblico cui erano rivolti i Mimiambi porta con sé un'altra questionespinosa:in qualimodalitàè avvenutala loro'pubblicazione'? Inaltreparole,

28 Mastromarco 1979, 123.

29 Cfr. Blass 1892, 230 e Wilamowitz 1896, 221. 30 Cfr. Mastromarco 1979, 109-142.

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che genere di fruizione aveva in mente per la sua opera Eroda quando l'ha composta? I Mimiambi erano destinati alla lettura o alla rappresentazione teatrale da parte di una compagnia di attori mimici? O forse alla recitazione monologica di un singolo attore? L'ipotesi dei Mimiambi come Buchpoësie risale a Giovanni Setti, ma è stato Giovanni Pasquali il primo a difenderla adducendo varie argomentazioni testuali, tra cui la povertà e la disorganicità dell'azione scenica, l'elevato numero di attori per mimi così brevi, i cambiamenti di scena, l'apparato scenico troppo elaborato del Mim. IV31. Se la tesi di Pasquali non ha avuto particolare seguito, la maggior parte degli studiosi propende (anche se spesso senza particolare convinzione) per la soluzione proposta nel 1902 da Philippe-Edouard Legrand; a suo parere, un unico attore sarebbe stato in grado di interpretare questi brevi mimi, attraverso la modulazione della voce e la gestualità32. L'ipotesi della rappresentazione teatrale dei Mimiambi viene invece abbracciata da Otto Crusius, il quale ritiene che alcune scene possano essere pienamente comprese soltanto attraverso un'adeguata messa in scena ad opera di più attori e che sia sufficiente un apparato scenico modesto33. Nonostante l'ammonizione di Wilamowitz («Gott verzeihe es denen, die sich das wirklich gespielt denken»34), nel 1902 Crusius riprende la propria tesi, supportandola con un ritrovamento archeologico dell'anno precedente: una lampada di terracotta, forse prodotta ad Alessandria, databile al III sec. a.C. e rinvenuta sul versante occidentale dell'Acropoli di Atene [Fig. 1]. Carl Watzinger ritiene che il bassorilievo scolpito su di essa raffiguri tre attori mimici, abbigliati con vestiti di tutti i giorni e senza maschera: la figura di destra rappresenta un anziano, come si evince dalla calvizie, quella di sinistra un uomo giovane con folti ricci e un rotolo di papiro in mano; entrambe indossano un lungo himation e hanno lo sguardo rivolto verso il personaggio centrale. Quest'ultimo indossa un chitone corto e ha tratti riconducibili alla figura del μωρὸς φαλακρός, garante di un tipo di comicità legata all'improvvisazione, che il mimo condivideva con fliaci e Atellana: è calvo, ha orecchie sproporzionate, labbra carnose, naso largo e aquilino, ventre prominente e indossa un corto chitone35.

31 Cfr. Setti 1893, LVI e Pasquali 1907, 15-21. L'ipotesi è accolta anche da Puccioni 1950, XI e presa in

considerazione da Massa Positano 1972, 56, Massa Positano 1973, 22 e Simon 1991, 14.

32 Cfr. Legrand 1902, 5-35. Tra gli studiosi che hanno condiviso l'ipotesi della recitazione monologica si

annoverano Wilamowitz 1907, 126, Cunningham 1971, 15-6, Melero 1974, 303-16 e Zanker 2009, 4-6.

33 Cfr. Crusius 1892, 97 e Crusius 1893, XXXVIII-XXXIX. 34 Cfr. Wilamowitz 1899, 288.

35 Cfr. Watzinger 1901, 1-8. In merito all'interpretazione della lampada di Atene si vedano anche i

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[Fig. 1] Attori mimici. Lampada di terracotta rivenuta sul versante occidentale dell'Acropoli di Atene e databile al III sec. a.C.; Atene, Museo Archeologico Nazionale (inv. n. 12424).

Nella parte posteriore della lampada, sulla base, è riportata l'iscrizione ΜΙΜΟΛΟΓΟΙ / ΗΥΠΟΘΗΣΙΣ / ΕΙΚΥΡΑ; essa indica che i tre personaggi sono degli attori mimici che interpretano una hypothesis36 intitolara Suocera, ed è considerata da Crusius la prova che nel III sec. i mimi erano messi in scena da almeno tre attori, come quelli di Eroda. Nonostante il titolo della pièce rinvii a temi di letteraria memoria37, bisogna tener presente che l'opera di Eroda è stata concepita in un contesto differente rispetto a quello della terracotta ateniese; per questo motivo non si può seguire Crusius nello stabilire un'equivalenza tra lo spettacolo cui fa riferimento la lampada di Atene e i Mimiambi. Dopo Crusius, il più convinto sostenitore della teoria di un enacting dei Mimiambi da parte di più attori è Giuseppe Mastromarco, il quale nega che il papiro londinese presenti le caratteristiche di un testo dialogico dedicato alla lettura (manca circa un terzo delle paragraphoi che indicano gli interventi dei personaggi e sono assenti dicola

e segni nominali); inoltre sottolinea che la mancanza nel testo di un adeguato «sistema di avvertimento» non avrebbe causato alcun problema di comprensione a un pubblico di spettatori a teatro, ma, al contrario, avrebbe disorientato un pubblico di lettori38.

36 Plutarco (Quaest. Conv. 712 E-F e De Soll. 973 E) distingue due tipologie di mimo, ὑποθέσεις e

παίγνια: i primi hanno un intreccio più complesso, prevedono un copione, e si adattano difficilmente a un simposio, i secondi, come si evince dal termine usato per definirli («scherzi»), sono brevi sketch di carattere volgare e destinati sia al palcoscenico sia al simposio (cfr. Cicu 2012, 79-81).

37 Sofrone ha scritto una Πενθέρα (fr. 13 K.-A.) e il commediografo Terenzio, per la sua Hecyra, si è

servito come modello della Ἑκυρά di Apollodoro di Caristo.

38 Cfr. Mastromarco 1979, 26-105. Cfr. anche Terzaghi 1925, 12-13, Bo 1962, 90-91 e Finnegan 1992,

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Nonostante l'impegno profuso dagli studiosi citati nella difesa dell'una o dell'altra teoria non sembrano esservi prove che risolvano in maniera definitiva la vexata quaestio; spesso, anzi, gli studiosi nell'incertezza propendono dubbiosamente per una 'via di mezzo' (la recitazione monologica) o parlano di «equilibrio tra lettura e performance»39. Personalmente credo che debba essere presa in considerazione una quarta possibilità, da alcuni anni proposta timidamente da voci isolate ma mai seriamente discussa.

M. Fantuzzi, G. O. Hutchinson e R. Hunter ritengono probabile che Eroda, pur avendo concepito la sua opera per la lettura, abbia voluto mantenervi le caratteristiche tipiche del mimo popolare che, come dimostra la lampada di Atene, era rappresentato sulla scena da un gruppo di attori40. A loro dire, la presenza di elementi che tradizionalmente si trovano in testi destinati ad una performance (personaggi muti, oggetti cui viene fatta allusione, pronomi deittici e aggettivi dimostrativi) non implica per forza una vera e propria messa in scena, ma può essere il risultato di una costruzione artificiale e fittizia. Questa ipotesi, a differenza delle precedenti, basate su elementi testuali suscettibili di interpretazioni soggettive, può trovare conforto nel manifesto poetico di Eroda, il Mim. VIII, in cui viene fatto ricorso massiccio agli elementi dell'immaginario dionisiaco ed è difesa e fortemente rimarcata la dimensione teatrale e performativa dell'opera41.

L'analisi dei Mimiambi I, IV e VIII offrirà l'occasione per riflettere sulle potenzialità nascoste nell'ambiguità della loro dimensione performativa e per spiegare in che modo Eroda sfrutti la familiarità del suo pubblico con le convenzioni del teatro comico, giochi con l'impossibilità del lettore di vedere ciò che dovrebbe essere rappresentato e, al contempo, compensi questa mancanza con espedienti che sollecitano l'immaginazione. Pretendere di aver risolto la questione della destinazione dei Mimiambi è senza dubbio troppo pretenzioso; non è infatti possibile escludere che i Mimiambi siano stati portati sulla scena ‒ essi si prestano, anzi, ad essere rappresentati da una piccola troupe di mimi ‒ oppure recitati da un singolo attore davanti a un ristretto pubblico.

39 Cfr. Barbieri 2016, 26.

40 Cfr. Fantuzzi 1979, 723, Hutchinson 1988, 236-257 e Hunter 1993, 31-32. Anche Di Gregorio 1997,

XVII sembra attratto dall'idea che i Mimiambi siano «un'imitazione letteraria dei testi destinati alla performance teatrale». Negli anni più recenti hanno abbracciato e sviluppato questa ipotesi anche Kutzko 2012, 377, Chesterton 2016, 170-195 e Kutzko 2018, 157-171.

41 Nel corso dell'analisi del Mim. VIII questi aspetti saranno esaminati nel dettaglio, perciò rimando alle

pp. 92-114 per un maggiore approfondimento. Mastromarco 1979 ha per qualche motivo escluso dal suo studio il Mim. VIII; esso riveste senz'altro un ruolo particolare tra i componimenti erodei tramandatici, ma non vedo perché non prenderlo in considerazione, se si ritiene che i Mimiambi siano stati composti per la messinscena e che il papiro londinese riporti un copione destinato alla scena.

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Tuttavia ritengo che sia utile spostare l'attenzione dai singoli elementi formali dei mimi e del supporto che li contiene alle indicazioni che lo stesso Eroda ha inserito nel suo manifesto programmatico, in cui chiarisce e difende la natura sui generis dell'opera. Un'accorta analisi del Mim. VIII porterà altresì a dubitare che la messa in scena fosse, nelle intenzioni del poeta, la reale ed unica destinazione dell'opera.

5. I ritrovamenti papiracei e le tappe principali degli studi

Nel 1889 il British Museum acquista un rotolo di papiro rinvenuto in Egitto, il British Museum Pap. 135 (P. Lond. Lit. 96 = Egerton Pap. I = P), lungo 5 m, alto 12,4 cm, ma privo della parte finale: delle originarie 60 colonne, ce ne sono rimaste 46, alte 8-8,5 cm e contenenti ciascuna un numero di linee che varia da 14 a 19; la porzione superstite di testo comprende sette mimiambi più o meno integri, mentre l'ottavo e i versi iniziali del nono sono stati in parte recuperati negli anni successivi grazie a un intenso lavoro filologico. Il testo è vergato in un'onciale chiara e di piccole dimensioni, leggermente trascurata, come è possibile vedere alla fig. 2, in cui è presente il facsimile della col. 19 del papiro, con la parte iniziale del Mim. IV, ben conservata. Sono presenti correzioni di prima mano e di almeno un'altra mano; testo e correzioni sono stati datati da Ian C. Cunningham agli inizi del II sec. d.C., sulla base di forti rassomiglianze paleografiche con P. Oxy. 221 e P.Lond. Lit. 14042. Il copista ha commesso (o ha copiato fedelmente) un certo numero di errori, ma si tratta quasi sempre di banali errori di copia quali dittografia, aplografia, inversione, confusione tra lettere simili; alcuni li ha corretti lui stesso nel corso della scrittura, altri più tardi, probabilmente senza aver guardato di nuovo il suo modello. Inoltre, un correttore successivo deve aver emendato il testo, concentrandosi soprattutto sui primi tre componimenti, con l'ausilio di un'altra copia. Alcune caratteristiche: è presente una certa ricerca di normalizzazione dialettale, generalmente ι è scritto al posto di ει, le parole solitamente non sono separate, ricorre l'uso di accenti, spiriti e punteggiatura in alcuni dei passi più complessi, l'alternarsi degli interlocutori non è segnalato dalle sigle nominali ma dalle paragraphoi, che tuttavia ‒ lo ha sottolineato Mastromarco ‒ vengono talvolta omesse43.

42 Cfr. Cunningham 1971, 17 n. 2. 43 Cfr. Mastromarco 1979, 26-43.

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[Fig. 2] British Museum Pap. 135, col. 19.

Mim. IV 1-16 (Le donne che offrono un ex-voto e fanno un sacrificio ad Asclepio)

Un altro piccolo frammento di papiro, POxy. XXII 2326 [fig. 3], della fine del II sec. d.C., è stato rinvenuto a Ossirinco in Egitto ed è stato pubblicato nel 1954 da Edgar Lobel, il quale, riconoscendovi la chiusa di versi scazonti, ha pensato a Ipponatte. L'anno successivo è stato identificato da Adelmo Barigazzi come la parte finale dei vv. 67-75 del Mim. VIII di Eroda44. Il testo, vergato in una chiara onciale, sembra sembra essere qualitativamente inferiore rispetto a quello di P e, poiché nel giro di poche parole presenta due varianti rispetto a P (v. 70 ]αμεδαινυντο ⁓ κρεω[...]νυντο; v. 75 ρινθεντι ⁓ ορινθεντι), Barigazzi ha ipotizzato che una tale alterazione del testo sia dovuta al fatto che i Mimiambi nell'antichità fossero molto rappresentati o ‒ aggiungo io ‒ letti45.

44 Cfr. Barigazzi 1955, 113-114.

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[Fig. 3] P.Oxy. XXII 2326. Mim. VIII 67-75. [Fig. 4] P. CtYBR inv. 457 (r). Mim. II 69-83. Nel 2013 è stato pubblicato da Rodney Ast un nuovo frammento papiraceo ‒ P. CtYBR inv. 457 ‒ contenente, sul recto, alcuni versi dei Mimiambi e databile tra il I sec. a.C e l'inizio del I sec. d.C.46; si tratta di una scoperta di rilievo, dal momento esso diventa il più antico testimone di Eroda in nostro possesso. Nonostante la ridotta leggibilità dovuta allo scurimento e all'abrasione delle fibre, si riesce a intravedere la parte finale dei vv. 69-83 del Mim. II, vergati in una rilassata scrittura calligrafica [fig. 4]. Ast pone l'attenzione su una variante significativa, che potrebbe offrire una nuova e coerente lettura di un passo problematico del Mim. II: nel papiro londinese il v. 71 termina con la parola γῆρας («vecchiaia»), mente sul papiro di Yale si legge [..]κειηι, probabilmente la fine della parole αἰ]κείηι, dativo singolare di ἡ αἰκείη, «violenza» o «aggressione»47. Grazie alle citazioni di tradizione indiretta, il testo del papiro londinese è stato subito attribuito a Eroda da Frederic G. Kenyon, che nel 1891 ne ha pubblicato un'edizione diplomatica in un addendum dei Classical Texts from Papyri in the British Museum, contenente i primi sette mimiambi e i primi tre versi dell'ottavo (ossia gli ultimi tre righi

46 Cfr. Ast 2013, 145-156. Sul verso il frammento contiene i vv. 232-249 del libro VI dell'Iliade, scritti da

una mano databile a un'epoca successiva rispetto a quella che ha vergato i Mimiambi sul recto.

47 Cfr. Ast. 2013, 150-152. Stando al papiro londinese, il lenone Battaro, dopo aver deplorato Talete per

aver violentato Mirtale, una delle prostitute del suo bordello (vv. 68-71), si interrompe bruscamente: Talete deve ringraziare l'età avanzata di Battaro (v. 71b ὦ γῆρας) se è stato solo trascinato in tribunale. Con un costrutto meno macchinoso, nel papiro di Yale Battaro accusa Talete di aver violato la legge avendo fatto violenza a Mirtale con un'aggressione (v. 71b ἐβιάζετο αἰκείηι) e gli dice di rigraziare lei (Mirtale, che era lì presente) se lui non gli ha fatto sputare sangue (cfr. Mim. VI 10-11).

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della colonna 41). Seguono, pochi mesi più tardi, l'edizione di Rutherford, con l'assegnazione delle battute ai vari interlocutori, e le edizioni e i commentari di F. Bücheler (1892), O. Crusius (1892-1914), R. Meister (1893), senza contare i suggerimenti di lettura, i supplementi e le interpretazioni pubblicati su riviste specializzate da F. Blass, O. Crusius, H. Diels, W. Headlam, A. Palmer e H. Stadtmüller; i frutti del lavoro filologico e interpretativo di questo primo periodo sono stati raccolti e riassunti nell'edizione dei Mimiambi curata da J. A. Nairn (1904).

In un contributo del 1901, Kenyon pubblica altri 58 frammenti appartenenti allo stesso papiro, corrispondenti alle colonne 42-46 e acquistati l'anno precedente dal British Museum48; comincia così il complesso lavoro di ricomposizione del Mim. VIII, che, nonostante gli sforzi di O. Crusius e A. Vogliano, non vedrà la luce prima del 1922, anno della pubblicazione da parte di A. D. Knox di una valida edizione dei Mimiambi con traduzione e note, in cui lo studioso inglese ha raccolto il materiale preparato da W. Headlam, prematuramente deceduto49. Der Traum des Herodas è il titolo di un articolo pubblicato nel 1924 su Philologus da R. Herzog; esso costituisce una pietra miliare nella storia dell'interpretazione del manifesto poetico di Eroda.

Sono seguite varie edizioni: quella di Herzog e Crusius (1926), quella di Knox (1929) e quella con traduzione francese di Laloy e Nairn (1928). In epoca più recente è stata seguita dagli editori la tendenza moderna di non accogliere nel testo supplementi incerti: così hanno fatto Q. Cataudella (1948), G. Puccioni (1950), L. Massa Positano (1970, 1971, 1972, 1973), Cunningham (1971, 1987, 2002) e B. G. Mandilaras (1986). L'edizione critica con commento ad oggi più ricca e completa è quella curata da L. Di Gregorio in due volumi (1997, 2004); per la presente ricerca è stata usata la sua edizione come testo di riferimento. Interessanti osservazioni si trovano anche nelle edizioni di G. Zanker (2009), soprattutto riguardo al Mim. IV, e di V. Barbieri (2016), che nonostante il taglio divulgativo offre un commento competente e aggiornato. La lingua di Eroda è stata oggetto di studio di D. Bo (1962) e di V. Schmidt (1968); sul pubblico di Eroda e sulle modalità di ricezione dei Mimiambi ha invece lavorato G. Mastromarco (1979). Infine, in merito agli aspetti metapoetici dei Mimiambi cito i contributi di C. Miralles (1992), Kutzko (2008, 2018) e B. Chesterton (2016, 2018).

48 Si veda Kenyon 1901, 379-387 per la descrizione dei frammenti. Cfr. anche Kenyon 1891b, 480-483. 49 Cfr. Headlam-Knox 1922, 399-400, in cui Alfred D. Knox espone analiticamente il lavoro si

ricomposizione dei frammenti del Mim. VIII, svolto in collaborazione con H. I. Bell e c. T. Lamacroft del British Museum e approvato da Kenyon.

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Capitolo 1

Mimiambo VIII - Ἐνύπνιον

1.1 Introduzione alla lettura del Mimiambo VIII

La 'scoperta' del Mimiambo VIII, avvenuta in seguito alla pubblicazione dei frammenti delle colonne 42-46 del papiro londinese da parte di Kenyon e grazie a un paziente lavoro di ricostruzione filologica50, ha svolto un ruolo fondamentale nel restituire a Eroda la fama di poeta doctus negatagli dai precedenti studiosi51. Fino agli anni Venti, infatti, la maggior parte dei critici considerava realismo, facilità e popolarità i tratti distintivi dei Mimiambi e pensava che la loro lingua derivasse dal sermo cotidianus. All'inizio degli anni Trenta, sulla scia dei lavori critici ed esegetici di W. Headlam e A.D. Knox, da una parte, e di O. Crusius e R. Herzog, dall'altra, comincia a prendere consistenza quella figura di poeta ‒ dotto, ironico, raffinato ‒ intuita da Wilamowitz già svariati anni prima. Si deve in particolare a Herzog il merito di aver interpretato il Mim. VIII intavolando una discussione finalizzata a gettare nuova luce sulla poetica erodea; nello scritto intitolato Der Traum des Herodas, egli contestualizza la composizione dei

Mimiambiall'interno dell'ambiente culturale alessandrino e indaga il caratterefortemente allusivo che contraddistingue l'identità dei vari personaggi del Mimiambo VIII52.

Dopo una battuta d'arresto negli studi, dovuta alla limitatezza dei tentativi di spiegare le allegorie oniriche con l'identificazione di precisi personaggi, negli ultimi anni il Sogno di Eroda ha nuovamente risvegliato l'interesse degli studiosi; osservando il testo da diverse angolazioni è stato possibile coglierne sfumature mai sospettate prima, come, ad esempio, l'allusività parodica nei confronti della tradizione aulica, una ispirazione ipponattea affatto superficiale e l'evocazione di un contesto drammatico e performativo in un'opera dotta che ha i tratti peculiari della raffinata letteratura libresca alessandrina.

50 Per una disamina delle fasi del lavoro di ricostruzione dei frammenti appartenenti al Mim. VIII,

rimando a Puccioni 1950, 162, Cunningham 1971, 195 e Cunningham 2004, 30.

51 La storia della valutazione di Eroda è paragonabile a quella di Ipponatte: «nel caso di Ipponatte come

nel caso di Eroda oscilliamo fra il fango, la turpitudine e la decadenza dei Greci della sua epoca riflessi nella sua poesia da un lato, e dall'altro una cauta valutazione dei suoi versi come poesia ricca di allusività letteraria, fino alla definizione di poeta doctus» (Miralles 1992, 89-90; cfr. Mastromarco 1979, 109-140). Nonostante fosse ormai accettato che la costruzione allegorica del Sogno nascondesse l'impronta di un poeta erudito, negli anni '60 Smotrytsch, Luria e Gigante hanno promosso l'immagine, ormai obsoleta, di un Eroda realista e portatore di ideologie vicine agli strati più bassi del popolo.

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L'importanza del ruolo che questo carme riveste all'interno della produzione erodea si spiega in quanto in esso il mimiambografo espone, in modo squisitamente alessandrino, le linee guida del proprio programma letterario, riflette sui propri modelli poetici e difende la legittimità di determinate scelte di poetica53, collocandosi all'interno di una delle numerose dispute letterarie che animavano il vivace ambiente culturale alessandrino del III sec. a.C. e che, forse, coinvolgevano anche Callimaco e Teocrito. Non è possibile datare in modo preciso il componimento ma, dato che esso si configura come risposta polemica del poeta ad una precedente ricezione della sua opera, si suppone che sia stato scritto successivamente almeno a una parte della sua produzione54. Uno dei particolari che ‒ a mio parere ‒ desta maggior interesse, e da cui ho cominciato la mia ricerca, è il modo attraverso cui Eroda dimostra profonda consapevolezza del proprio ruolo di poeta e della propria attività poetica, intesa come il risultato di una serie di scelte artistiche deliberate e perfettamente inquadrabili nel rinnovato gusto alessandrino. Egli si cala nell'opera vestendo i panni di uno dei suoi personaggi e, appellandosi all'autorità del dio del teatro e del suo modello Ipponatte, rivendica con orgoglio l'originalità della sua operazione: ha saputo dare nuova vita a un genere teatrale che al tempo conosceva un momento di esaurimento, il mimo letterario, donandogli la freschezza e l'immediatezza della veste metrica dei giambi scazonti di Ipponatte.

Nonostante le ancora ampie lacune, è stato possibile ricostruire tutto questo grazie ad un paziente lavoro filologico, che ha permesso di apprezzare il mimiambo e nella forma e nei contenuti generali, incastonati in una struttura compositiva studiata ed elegante55.

53 Questa è la communis opinio della critica; l'unico studioso a trovarsi in disaccordo è Frank-Joachim

Simon, il quale considera privi di fondamento i tentativi di interpretare il Mim. VIII di Eroda come serio Programmengedicht, in cui riconoscere le tracce di un dibattito poetico. Per difendere la sua posizione, Simon sostiene che il cenno ai critici del Museo, che fanno a pezzi l'opera di Eroda (Mim. VIII 72), non si riferisce a un'opposizione basata su principi letterari contrastanti, ma potrebbe piuttosto essere intesa come una critica di carattere metrico-filologico (cfr. Simon 1991, 80-81).

54 Cfr. Gigante Lanzara 1993, 338-339 e Zanker 2009, 225.

55 La raffinata struttura dei Mimiambi III, IV e VIII costituisce per Di Gregorio 1997, XVII un'ulteriore

conferma del fatto che Eroda scrivesse i Mimiambi per l'élite intellettuale, curandoli nella forma e nella struttura e filtrando la realtà attraverso la sua solida cultura letteraria; quella di Eroda è poesia dotta per i dotti: egli non si rivolge al popolo, né si lascia unicamente ispirare dalla realtà in cui vive (cfr. ad es. Romagnoli 1938, 145). Come ha osservato Cunningham 1971, 103, il monologo di Metrotime, che occupa la prima parte del Mim. III, è caratterizzato da una elaborata struttura circolare (a b ... b a): esso incomincia (vv. 1-4) e termina (vv. 56-58b) con un augurio di buona fortuna rivolto al maestro Lamprisco e con la richiesta di punire l'indisciplinato figlio Cottalo; inoltre il motivo delle conoscenze di Cottalo, che non sono quelle che ci si aspetterebbe da un bravo scolaro, ricorre ai vv. 8-13 e ai vv. 53-55. Anche il Mim. IV è caratterizzato, ma questa volta nella sua interezza, da una studiata Ring-Komposition (cfr. Cunningham 1971, 127 e p. 204 del presente elaborato).

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Possiamo infatti suddividere il componimento in tre parti: un corpo centrale, costituito dal racconto del sogno, e due sezioni, entrambe di quindici versi, che lo incorniciano56. Nella sezione introduttiva (vv. 1-15) la scena è ambientata in una fattoria di campagna57 e siamo probabilmente nella stagione invernale, quando le notti sono lunghissime58. Un fattore, sotto il quale in realtà si cela il poeta stesso, destatosi quando il sole non è ancora sorto, sveglia la serva Psilla, rimproverandola con un linguaggio a tratti scurrile per la sua pigrizia e intimandole, con la minaccia delle bastonate, di accendere la lucerna e dare inizio ai lavori del giorno: è necessario portare al pascolo la scrofa assetata. Ma i rimproveri alla servitù non sono ancora terminati; accortosi che anche la

56 Naturalmente non ci troviamo di fronte a una semplice coincidenza, dal momento che, come sottolinea

Graham Zanker, «it is typical of an Alexandrian poet's procedure that the framing sections are of precisely equal length» (Zanker 2009, 147).

57 L'ambiente contadino è deducibile in virtù del riferimento ad una scrofa nei versi iniziali (vv. 2 e 7);

anche l'ambientazione del sogno è agreste, data la presenza di capri e caprai (vv. 16ss., 20ss.). Gli studiosi che pongono l'accento sull'abitus programmatico del Sogno ipotizzano che l'azione si svolga là dove ha luogo la polemica letteraria i cui tratti salienti vengono allegoricamente delineati nel componimento; in questo caso l'attenzione ricade su due grandi centri culturali della prima età ellenistica: Cos e Alessandria. Molti studiosi, infatti, ritengono che gli αἰπόλοι, i detrattori dell'opera di Eroda, possano essere i poeti bucolici (secondo Herzog αἰπόλοι = βουκόλοι), ossia coloro che gravitavano attorno a Teocrito oppure quelli raccolti a Cos, in una specie di cenacolo, intorno al vecchio Fileta (cfr. Herzog 1924, 430ss.; Romagnoli 1938, 141, 145; Webster 1964, 96-97; Rist 1997, 362). D'altro canto, però, è bene prestare cautela: come fanno notare Crusius-Herzog 1926, 33 e Smotrytsch 1962, 606, le scene agresti nel mimo costituiscono lo sfondo richiesto dalle maschere del contadino e dei pastori, ma ciò non comporta necessariamente che l'azione del componimento si svolga a Cos. Neppure considerando l'espressione ἐν Μούσηισιν (v.72) un'allusione al Μυσεῖον di Alessandria avremmo una prova consistente per identificare l'ambientazione del mimo con un luogo reale.

58 La particolare locuzione νύκτες ἐννέωροι (v. 5) ha messo in imbarazzo gli studiosi, che ne hanno

derivato le più svariate letture (cfr. Di Gregorio 2004, 327-330). Esposito 2001, 144s. ha notato che l'espressione αἰ δὲ νύκτες ἐννέωροι presenta la stessa matrice strutturale e ritmico-sintattica delle parole pronunciate dal porcaro Eumeo in Od. XV 392 (αἵδε δὲ νύκτες ἀθέσφατοι∙) e che entrambe le espressioni si riferiscono alla durata infinita delle notti in rapporto al sonno (cfr. anche Bo 1962, 123). La studiosa, pertanto, propende per un'interpretazione figurata di ἐννέωροι, che letteralmente significa «di nove anni» e che, legato a νύκτες, costituisce un'iperbole. L'interpretazione pragmatica di Casanova 1989, 134-42 («la notte è a tre quarti»), oltre ad avere alcuni punti deboli, rischia di banalizzare la ripresa dello stilema omerico; inoltre non si capisce su quale base lo studioso ambienti il mimiambo in inverno. Infatti è stato proprio il riferimento alla lunghezza infinita delle notti ad aver spinto la maggior parte degli studiosi a ritenere che l'azione del mimo si svolga nella stagione invernale; a questo proposito rimando a un passo di Luciano in cui, in riferimento al racconto molto lungo di un sogno, si dice: «un sogno d'inverno, quando così lunghe sono le notti» (Luc. Somn. 17 χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισταί εἰσιν αἱ νύκτες). Gli studiosi si sono basati anche sul cenno che compare ai vv. 36 ss. al gioco dell'ἀσκωλιασμός. Pickard-Cambridge 1968, 45 rileva la connessione di questo gioco con i rituali dionisiaci e, in special modo, con le Dionisie Rurali celebrate in Attica nel mese Posideone, che corrisponde approssimativamente al nostro mese di dicembre (cfr. Virg. Georg. II 380ss. e Cornut. 30, p. 60, 23 Lang). Una voce fuori dal coro è quella di Herzog 1924, 393-394, il quale è convinto che l'azione sia ambientata nella stagione estiva perché si dice che la scrofa è straziata dalla sete (v. 2) e perché, in base alla sua interpretazione dell'oscuro aggettivo ἄναυλον (v. 7), essa è tenuta non in una stalla ma all'aperto e deve essere condotta al pascolo prima del sorgere del sole (cfr. Varr. De r. r. II 4, 6 e Geop. XVIII 2, 3.7). Di Gregorio 2004, 329-330 espone i motivi che lo inducono a non seguire l'ipotesi di Herzog, che, d'altra parte, è stata accolta soltanto da Romagnoli 1938, 139. Degna di considerazione è l'integrazione apportata da Headlam-Knox 1922, 370 al v. 19 ἠ[οῦ]ς φα[ούσης, sulla base della quale l'inizio del sogno si svolgerebbe all'alba; questa proposta ha trovato il consenso di Cunningham 1971, 198, il quale considera ἕω, posto sopra η, una glossa (cfr. Cataudella 1948, 124).

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schiava Megallide sta ancora indugiando nel sonno e che in casa mancano le bende per i riti sacri, le ordina bruscamente di alzarsi. Oltre ai paralleli con mimo e commedia, è possibile notare, già in questi primi versi, qualcosa che sarà costante nell'opera di Eroda: il consapevole reimpiego di termini e stilemi della tradizione aulica che, utilizzati in un contesto quotidiano e all'interno di un registro di tonalità bassa, suscitano un effetto umoristico che soltanto un pubblico altrettanto colto avrebbe potuto apprezzare59. Diverso è l'atteggiamento che il fattore riserva ad una serva ritenuta più assennata rispetto alle prime due, Anna60, la quale viene incoraggiata ad ascoltare un sogno particolarmente significativo.

Inizia, a questo punto, la parte centrale del componimento con la narrazione del sogno (vv. 16-64), in cui gli attori in scena si fanno portavoce di un articolato discorso sull'arte; esso ha come obiettivo la difesa dell'opera dell'autore dalle critiche dei contemporanei attraverso il chiarimento delle radici letterarie della sua poetica e il collegamento con generi poetici del passato. Frank-Joachim Simon ha individuato nel cambio di ambientazione, tra la scena iniziale tipica del genere mimico con il motivo del rimprovero delle schiave e quella del racconto del sogno, una netta cesura tra il piano del reale, in cui a ciascun termine corrisponde un solo significato, e l'ambiguo piano del simbolico, dove è necessario prestare particolare attenzione a tutti gli elementi presenti nella narrazione e ai differenti significati che possono nascondere61.

Nonostante la lettura sia gravemente ostacolata dallo stato lacunoso del testo, è possibile ricostruire, con un discreto margine di affidabilità, quanto accade nel sogno: al protagonista è parso di trarre fuori da un burrone un capro e, capitato in un luogo dove

59 Cfr. Llera Fueyo 1991, Esposito 2001, Esposito 2010 e le pp. 59-71 del presente elaborato.

60 L'identificazione di questo terzo personaggio, a differenza di Psilla e Megallide che portano nomi

inequivocabilmente femminili largamente attestati e sono senza dubbio due schiave, ha causato numerosi problemi alla critica. Infatti, il vocativo Ἀννᾶ (v. 14), che in P ha l'accento circonflesso sulla seconda sillaba, potrebbe presupporre sia il femminile Ἀννα sia il maschile Ἀννας (cfr. Schmidt 1968, 47 n. 1), la cui accentazione è in entrambi i casi incerta. Di Gregorio 2004, 334-335 ha rilevato come il nome femminile sia maggiormente attestato rispetto a quello maschile tanto in ambito letterario quanto documentario e sia diffuso in Beozia, Tessaglia ma, soprattutto, in Asia Minore centrale e meridionale. Anche se Cunningham 1971, 198 propende per la scelta del nome maschile, sembra più logico pensare, con la maggior parte degli editori, che il fattore si stia rivolgendo ad un'altra schiava, una donna come Psilla e Megallide, ma più assennata e matura rispetto a loro e, di conseguenza, da queste distinta anche dalla particolare forma del nome. Puccioni 1951, 170-171, sicuro che si tratti di una schiava, mette in luce l'origine semitica del nome, dato che in ebraico Hannà e poi Annà significa «grazia» (cfr. Giovanna: «la grazia di dio»), che qui avrebbe proprio l'accentazione ebraica sull'ultima sillaba. Anna Rist avanza l'ipotesi che l'origine semitica del nome della schiava possa essere ricondotta ad una presunta abilità nell'arte dell'interpretazione dei sogni: «we recall how in the Bible Joseph, as a slave in Egypt, was known as an interpreter of dreams» (Rist 2016, 125 n. 6).

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alcuni caprai stanno celebrando una festa in onore di Dioniso, assiste all'immolazione della bestia (rea, forse, di aver brucato foglie di piante sacre62) da parte di quegli stessi caprai, che poi banchetteranno con le sue carni. Che questi αἰπόλοι rappresentino in maniera simbolica i detrattori dell'opera di Eroda è lo stesso autore a rivelarcelo ai vv. 69-72, ma l'identità di costoro non è specificata e la critica li ha perlopiù identificati con i seguaci della moda bucolica63. Infatti anche Teocrito, archegeta di questo filone poetico, ha tentato come Eroda di rinnovare il genere mimico combinandolo con un metro non mimico e un dialetto artificiale64, ma l'approccio dei due poeti all'impresa è divergente: gli Idilli di Teocrito, caratterizzati da un'atmosfera ovattata e trasognata, sono l'emblema di una poesia prevalentemente descrittiva, che ricerca la raffinatezza e si nobilita attraverso l'adozione del metro dell'epica, l'esametro; al contrario, Eroda scrive mimiambi che sembrano davvero composti per la scena e sono contraddistinti dall'azione e da un senso di crudo realismo – seppur tutto di maniera – che il filtro letterario non riesce a smorzare del tutto, a causa dell'aggressività del giambo scazonte. Successivamente viene descritto nel dettaglio l'abbigliamento di un giovane (vv. 28-33), identificato dalla maggior parte degli studiosi con Dioniso. La pelle del capro appena sgozzato viene destinata alla fabbricazione di un otre che, una volta gonfiato e sigillato, è utilizzato nel gioco dell'ἀσκωλιασμός, cui partecipa anche il fattore: egli soltanto, tra tutti i partecipanti, riesce a saltare per ben due volte sul viscido supporto mantenendosi in equilibrio. Tuttavia, pur essendo acclamato vincitore dai presenti, la sua vittoria viene contestata da un vecchio iracondo, perlopiù identificato con Ipponatte, che lo minaccia

62 Fountoulakis 2002, 310 interpreta il comportamento del capro descritto ai vv. 22-23 (la bestia si ciba di

foglie di querce diverse) come un riferimento alla Kreuzung der Gattungen, molto diffusa in età alessandrina (cfr. Rossi 2000, 153-359 e Fantuzzi 1993, 31-66). Sebbene lo stato lacunoso del testo non garantisca un sufficiente margine di sicurezza, guardano con favore a questa ipotesi anche Di Gregorio 2004, 353, Piacenza 2008, 35 e Bernao Fariñas 2011, 45.

63 Cfr. Gigante Lanzara 1993, 238 e Di Gregorio 2004, 337-339. Maria Ypsilanti, convinta che il Sogno

'conversi' in forma allegorica con le Talisie, ritiene che i caprai siano un'allusione al mondo prediletto da Teocrito nei suoi Idilli; tuttavia crede che non si debba dedurre dal loro comportamento violento che Eroda volesse avanzare un'accusa contro la 'scuola' di Teocrito: d'altronde anche il vecchio si scaglia contro il nostro poeta, ma l'arte di Eroda non è affatto opposta a quella di Ipponatte (cfr. Ypsilanti 2006, 420-424). Cunningham 1971, 194 e Simon 1991, 68 sono dell'idea che tentare di individuare specifici personaggi storici dietro ai caratteri del Sogno sia uno sforzo inutile; tuttavia Simon 1991, 77 nota che i caprai del Sogno ricordano i filologi e i critici di Callimaco, convocati dall'Ipponatte redivivo davanti al tempio di Serapide nel Giambo I (Call. fr. 191, 9-11, 26-28 Pf.). Bisogna infine ricordare, come sottolinea Rosen 1992, 210, che «even though the goathers are later claimed to represent hostile antagonists, there is a point at which they must welcome the dreaming narrator into their competition, i.e., into their own Dionysian celebration. The narrator, in turn, seems to embrace the competition with good cheer in spite of the fact that his competitors had just committed an act of violence against him».

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