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La componente dionisiaca: performance, teatro, rituale

1.5 La natura composita dell'opera di Eroda

1.5.1 La componente dionisiaca: performance, teatro, rituale

Nonostante la pervasività della simbologia dionisiaca nel Sogno, gli studiosi ne hanno per lo più sottovalutato la portata programmatica nel contesto generale della poetica erodea, limitandosi a ricondurla a una «sostanziale», quanto vaga, «drammaticità»276, oppure isolandone le varie implicazioni e mettendo in risalto soltanto singoli aspetti277.

276 Cfr. Di Gregorio 2004, 360.

277 Penso ad esempio ad un recente articolo di William Furley (cfr. Furley 2016), in cui lo studioso,

sviluppando una suggestione proposta da Veneroni 1971, 226-27 e ripresa da Fountoulakis 2002, 317, interpreta interamente il Mim. VIII nell'ottica di una iniziazione ai misteri dionisiaci da parte dell'autore: attraverso l' Ἐνύπνιον Eroda racconterebbe di aver avuto una visione del dio Dioniso, signore dei suoi riti di iniziazione, in cui avrebbe avuto luogo anche la sua chiamata all'attività poetica. In questo studio tutti i riferimenti al mondo dionisiaco e tutte le reticenze sono interpretate alla luce delle fonti tramandateci in merito ai misteri bacchici, arrivando alla conclusione che Eroda «intends his dream to allude to initiation into the Bacchic mysteries as his graduation to elite status in the Dionysiac art of writing theatrical verse» (p. 58). Nonostante la presenza di alcuni spunti interessanti, che verranno in seguito presi in esame, l'impianto generale di questa interpretazione poggia su basi fragili, in quanto le premesse sono viziate dall'idea che il mimiambo alluda costantemente ai misteri di Dioniso (i quali non potevano essere divulgati apertamente), perdendo di vista i riferimenti alle dimensioni performativa e teatrale, che costituiscono un aspetto fondamentale nel programma poetico di Eroda.

Pertanto è utile affrontare un riesame complessivo degli elementi dionisiaci presenti nell' Ἐνύπνιον, cercando di volta in volta di individuarne il significato e la funzione in rapporto al messaggio nascosto dietro al simbolismo del componimento.

Gli elementi di novità si riscontrano già a partire dall'ambientazione del sogno, che è quanto di più lontano possibile rispetto alle tipiche scene urbane dei Mimiambi; infatti, nonostante la lacunosità del testo, si capisce che il sognatore si muove in un ambiente caratterizzato da burroni, foreste di querce, spazi erbosi e popolato da becchi e caprai, ambiente quindi facilmente associabile alla presenza del dio Dioniso278. Così si presenta la scena in cui, ai vv. 16-17, ha luogo un'azione di primaria importanza per l'interpretazione del sogno: il sognatore sta trascinando con fatica un capro fuori da un profondo burrone, traendolo in salvo279. La bellezza dell'animale (v. 17 ὁ δ' εὐπώ[γω]ν τε κεὔκερως280) e la fatica derivata dall'atto di trascinarlo fuori dal burrone281 acquistano

278 Ritroviamo nell' Ἐνύπνιον alcune caratteristiche del paesaggio descritto nelle Baccanti di Euripide,

contraddistinto da prati, distese erbose, edera, fitte foreste di querce, di abeti, alberi ombrosi, cespugli, burroni, acque correnti, capri, giovenche, tori, pastori: cfr. Eur. Ba. 105-110, 135-140, 165-167, 217- 220, 684-685, 702-703, 714, 718-719, 726-727, 735-739, 866-876, 1137-1138, 1121, 1235-1237.

279 La maggior parte degli studiosi, tra cui Headlam-Knox 1922, 370 e Cunningham 1971, 52, ritiene che

la preposizione caduta al v. 16 prima di φάραγγος sia διά (congettura di Crusius 1905, 71); Pöhlmann 1998, 57-58 pensa che il narratore stia trascinando il capro attraverso il burrone per sacrificarlo al dio Dioniso, scena che, secondo Crusius-Herzog 1926, 180-181, potrebbe trovare un parallelo in una pittura parietale rinvenuta a Pompei, in cui un pastore spinge un capro attraverso una gola boschiva davanti a un piccolo santuario, situato in un luogo circondato da rocce, vegetazione, statue di culto e capre che pascolano (cfr. anche Webster 1964, 97 n. 1). Stando però ai vv. 69-72a, in cui il poeta dice che gli αἰπόλοι fanno a brani il suo capro ἐκ βίης (azione che rappresenta la distruzione della sua opera da parte dei critici), sembra più logico che il capro sia stato ucciso contro il volere del legittimo proprietario (legittimato da Dioniso, cfr. vv. 67-68). Inoltre, sulla base del v. 67 ....]ν αἶγα τῆς φ[άραγγος] ἐξεῖλκον, ritengo preferibile accogliere la proposta di Crusius 1914, che integra la preposizione ἐκ anche al v. 16, trovando il consenso di Di Gregorio 2004, 351-52 e Zanker 2009, 228.

280 Sulla scia di Stern 1979, 247-54, alcuni studiosi hanno visto nel βαυβών (Mim. VI 19), il fallo in

cuoio oggetto della conversazione privata tra Metro e Coritto, una rappresentazione simbolica della poesia di Eroda paragonabile al capro del Sogno; uno dei motivi che sorregge questa ipotesi, oltre ai vari riferimenti poetici sparsi nei Mimiambi VI e VII (cfr. Mim. VI 20, 31 e Mim. VII 57-58, 108-112), è la somiglianza nella caratterizzazione del capro e del βαυβών: di entrambi viene messa in risalto la bellezza (cfr. Mim. VIII 17, Mim VI 21 μᾶ, καλόν τι δώρημα e 66-67 ἐ[γὼ] μ̣έν - δύο γὰρ ἦλθ' ἔχων, Μητροῖ - / ἰδοῦσ' ἁμίλ̣λ̣η<ι> τὤμματ' ἐξεκύμηνα·) e la natura divina (cfr. Mim. VIII ...]ν αἶγα τῆς φ[άραγγος] ἐξεῖλκον / ... κ]α̣λοῦ δῶρον ἐκ̣ Δ̣[ιων]ύ̣σου e Mim. VI 65-67 τῆς Ἀθηναίης / αὐτῆς ὁρῆ̣ν̣ τ̣ὰ̣ς̣ χ̣ε̣ῖ̣ρας, οὐχὶ Κέρδωνος, / δόξεις); inoltre non sembra una casualità che un verbo come ῤάπτειν, «cucire insieme», così evocativo della professione poetica, sia utilizzato più volte in riferimento all'attività artigianale di Cerdone (cfr. Mim. VI 18, 43, 47, 48, 51 e Mim. VII 89, 129). Il termine con cui viene denotato il capro del Sogno, εὐπώ[γω]ν, «dalla bella barba», ricorre in riferimento a un capro anche in un epigramma di Leonida di Taranto (AP IX 99, 1 = 32, 1 G.-P. Ἴξαλος εὐπώγων αἰγὸς πόσις ἔν ποτ'ἀλωῆι / οἴνης τοὺς ἁπαλούς πάντας ἔδαψε κλάδους· Trad.: «Il balzante sposo bella-barba della capra in una vigna /divorò tutti i teneri tralci della vite») einNonn.D.XIX 61(καὶ τράγον εὐπώγωνα). Piacenza 2008 ritiene che nell'epigramma di Leonida il capro che divora i tralci della vite rappresenti un poeta colpevole di distruggere, attraverso il plagio o un'aspra critica, l'opera dell'avversario e avanza l'ipotesi che Leonida abbia ripreso la simbologia di Eroda per accusarlo di aver plagiato la sua opera e per difendere dalle accuse di Eroda l'opera dei caprai rappresentati nel Mim. VIII (dei quali forse faceva parte lo stesso poeta tarantino?). Certo, pretendere di individuare una figura storica di poeta

pieno significato quando, ai vv. 69-72, lo stesso rende esplicita la corrispondenza tra il τράγος e la propria opera, che, in linea con la concezione alessandrina della poesia come πόνος, viene definita τοὺς ἐ̣μ̣οὺς μόχθους (v. 71)282. L'importanza del capro viene rimarcata dal poeta ai vv. 67-68, in cui, se si considera δῶρον apposizione di αἶγα, viene detto che il capro è «un dono del bel Dioniso», ipotesi confortata dal parallelo che si verrebbe così ad instaurare con l'otre dei venti donato da Eolo ad Odisseo (v. 37) e dal fatto che il capro era tradizionalmente ritenuto il simbolo dionisiaco del genere drammatico, alla base dei Mimiambi283; non bisogna dimenticare che, nonostante la mancanza di testimonianze del fatto che in origine il premio degli agoni drammatici fosse un capro, in età ellenistica il termine τραγῳδία era abitualmente inteso come «canto per il capro» ed è quindi comprensibile che l'animale in questione riconduca «all'emanazione più diretta del dio, in campo letterario, cioè l'agone tragico e, per esteso, l'attività teatrale in genere»284. Constatando la predominanza della figura del

nell'epigramma di Leonida è – nel migliore dei casi – una mossa azzardata, ma a mio parere resta il fatto che esso possa davvero riflettere uno spaccato di società (o meglio, di un certo livello di società) che verosimilmente doveva essere turbata da continue dispute, liti, accuse di plagio e tentativi da parte dei poeti di crearsi un proprio pubblico, una propria fama, a scapito di quella degli avversari.

281 Il poeta vi fa allusione al v. 16, tramite l'uso del verbo ἕλκω, e, se con Crusius 1905, 71 integrassimo

[τοῦ κόπου] prima di ἑσσῶμαι e vi vedessimo un inciso, il motivo ricorrerebbe anche al v. 19, dove il poeta direbbe di essere vinto dalla stanchezza (cfr. Di Gregorio 2004, 352). Cunningham 1971, 198 pensa che ἑσσῶμαι sia da correggere in quanto commistione linguistica tra lo ionico ἑσσόομαι e l'attico -άομαι e, seguendo LSJ s.v. ἡσσάομαι e Schmidt 1968, 75, preferisce scrivere ἑσσῶμαι, perfetto di ἑσσόομαι; tuttavia a favore della prima forma si confrontino [Ἅ]ιδεω di Mim. I 32, χύτρη di Mim. VII 76, λείης di Mim. VIII 45 e ἀναρίτης di Mim. XI.

282 Gli sforzi poetici sono riflessi anche nella difficoltà con cui il poeta riesce a mantenersi in equilibrio

sull'otre nel gioco dell' ἀσκωλιασμός (vv. 41-47). Il motivo si ritrova spesso nelle opere dei poeti alessandrini: Filita di Cos ha formulato programmaticamente lo «sforzo» come poetica nel fr. 10, 3 Powell ἀλλ' ἐπέων εἰδὼς κόσμον καὶ πολλὰ μογήσας (cfr. Garriga 1989, 79-87); Callimaco in Ep. XXVII 3-4 Pf. scrive χαίρετε λεπταί/ ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης (si veda Cinn. fr. 11, 1 Mor.-Blänsdorf haec tibi Arateis multum vigilata lucernis); cfr. anche Call. Ep. VI 1 Pf. τοῦ Σαμίου πόνος εἰμί (detto a proposito di Creofilo); Crinagora in AP IX 545, 1=test. 4 Hollis chiama l'Ecale di Callimaco τὸ τορευτὸν ἔπος; nelle Talisie di Teocrito, Licida utilizza il verbo ἐκπονέω in riferimento a una canzone da lui composta (v. 51); in AP VII 11, 1 Asclepiade usa, in merito all'opera di Erinna, l'espressione γλυκὺς πόνος, mentre in un epigramma anonimo si parla dell'opera della poetessa come di un καλὸς πόνος (AP XII 12, 5); Meleagro, parlando della propria attività di raccoglitore di epigrammi, dice di aver raccolto in un'unica opera «le fatiche di tutti i poeti» (AP XII 257, 3 φαμὶ τὸν ἐκ πάντων ἠθροισμένον εἰς ἕνα μόχθον). Potremmo individuare questa concezione della poesia anche nella Nemea VII 15-16 di Pindaro, in cui la poesia è considerata una compensazione per le fatiche (ἄποινα μόχθων); tuttavia il ragionamento manterrebbe la sua validità solo nel caso in cui il punto di vista fosse quello del poeta, mentre se la prospettiva fosse quella del committente il significato cambierebbe.

283 Cfr. p. 46 n. del presente elaborato e Rist 2016, 122-123. Veneroni 1971, 226-27, Gigante Lanzara

1991, 233-34, Miralles 1992, 109-110 e Degani 2002, 51 ritengono, invece, che il dono di Dioniso possa essere anche il riconoscimento che è dato a Eroda, ossia la fama che otterrà con la sua opera.

284 Gigante Lanzara 1991, 234. Non si sa se il capro costituisse davvero il premio negli agoni drammatici,

ma questa era l'opinione diffusa in età ellenistica, come mostrato in Marm. Par. A. 43 (= FrGHist 239 A. 43), Diosc. 20 G.-P. = AP VII 410, Hor. Ars. 220-224; Cfr. anche Pickard-Cambridge 1962, 69, 123- 124 e Rosen 1991, 209 n. 17. Sul rapporto tra la dimensione dionisiaca e quella teatrale rimando a

capro in questo mimo, Bruna Veneroni ritiene che Eroda le abbia attribuito volutamente importanza e perciò avanza l'ipotesi che «il τράγος (da cui trae il nome la tragedia) potrebbe, in un certo senso, essere la σφραγίς dell'arte erodea», un modo per porre l'accento sul carattere drammatico della sua arte, rivendicandone l'originalità285.

William Furley ha notato la somiglianza dei vv. 16-17 con dei testi rinvenuti in Sicilia, nella Magna Grecia e a Creta, in cui è menzionato il trascinamento di un capro nel contesto di teletai orfico-dionisiache286; una delle lamine pubblicate da David Jordan contienele istruzioni per «trascinareaforzaun capro dalgiardino,un capro ilcui nome è Tetragos» (αἲξ - αἶγα βίαι ἐκ κήπου ἐλαύνετε, τῶι δ' ὄνομα Τέτραγος)287, situazione che ricorda anche quella tratteggiata ai vv. 8-12 dei cosiddetti Getty Hexameters288. Pur non condividendo l'interpretazione di Furley, convinto che l' Ἐνύπνιον vada letto interamente nell'ottica di una iniziazione ai misteri dionisiaci, penso che non debbano essere sottovalutati gli aspetti cultuali inerenti all'universo dionisiaco, i quali vengono rievocati a più riprese nel corso del componimento289 e potrebbero contribuire a creare un'atmosfera di autorevolezza funzionale per conferire legittimazione al sogno di Eroda. Facendo un breve riepilogo di ciò che è emerso finora si può constatare che:

• il capro corrisponde all'opera di Eroda e ne viene sottolineata la bellezza; • trascinare il capro fuori dal burrone è un'azione difficile e faticosa per il poeta; • il capro è un dono di Dioniso;

• dato il collegamento con il dio del teatro, il capro potrebbe rappresentare il carattere drammatico dei Mimiambi.

A questo punto sorgono spontanei alcuni interrogativi: che significato si cela dietro al salvataggio del capro da parte di Eroda? Come è possibile conciliare l'idea della poesia come dono divino con il ruolo attivo del poeta nel comporre la propria opera e la fatica che ne deriva? In cosa consiste effettivamente il carattere drammatico dei Mimiambi?

Massenzio 1995; partendo dagli studi di Brelich, Vernant, Kerényi, Sabbatucci e Vidal-Naquet, Marcello Massenzio esamina dalla prospettiva storico-antropologica il fenomeno teatrale dell'antichità classica nei suoi aspetti mitici, cultuali e simbolici, ponendolo in relazione con la figura di Dioniso.

285 Veneroni 1971, 227. 286 Cfr. Furley 2016, 56-58.

287 Cfr. Jordan 2000a, 96-101 e Jordan 2000b, 104-107.

288 Esametri Getty, lato A, col. I, vv. 8-12: ὅσσα κατὰ σκιαρῶν ὀρέων μελαναύγει χώρωι / Φερσεφόνης

ἐκ κήπου ἄγει πρὸς ἀμολγὸν ἀνάγκη[ι] / τὴν τετραβήμονα παῖς ἁγίην Δήμητρος ὀπηδόν, / αἶγ' ἀκαμαντορόα νασμοῦ θαλεροῖο γάλακτος /βριθομένην. Cfr. Faraone-Obbink 2013.

289 Non si dimentichi che nella sezione iniziale, ai vv. 11-13, il fattore sgrida la schiava Megallide perché,

a causa della sua pigrizia, non ha provveduto a lavorare la lana per confezionare le bende necessarie per celebrare i riti religiosi (sul loro utilizzo durante i sacrifici cfr. Headlam-Knox 1922, 380-381).

Per rispondere alla prima domanda mi rifaccio ad una proposta di Bruna Veneroni, che ha visto dietro al gesto di Eroda la volontà di dare un nuovo avvio alla poesia290: data la connessione tra il capro e la dimensione teatrale, ritengo possibile che il poeta intenda rappresentare il proprio tentativo di adottare le forme di un'arte essenzialmente drammatica che ormai aveva da tempo passato il suo momento d'oro ‒ il mimo letterario dei tempi di Sofrone e Senarco, ‒ donandogli nuova linfa vitale e rinnovandola secondo i gusti dell'epoca alessandrina, attraverso l'innesto del metro coliambico di Ipponatte. La risoluzione dei restanti interrogativi, invece, richiede di procedere con l'analisi del componimento e scoprire gli altri pezzi del puzzle onirico.

A partire dal v. 20 la frammentarietà del testo comincia a compromettere gravemente la comprensione dei contenuti, ma grazie all'interpretazione del sogno ai vv. 69-72a, si capisce che il poeta arriva in un luogo in cui dei caprai (v. 20 αἰπόλοι) stanno celebrano dei riti sacri in onore di Dioniso (v. 70 τ]ὰ̣ ἔνθεα τελεῦντες291); a differenza del narratore, che non viola la sacralità dell'occasione (v. 22 κἠγὼ οὐκ ἐσύλευν̣), il suo capro si ciba del fogliame di querce diverse (v. 23 καὶ ἄλλης δρυὸς), piante connesse con i riti dionisiaci292, comportamento dietro al quale Andreas Fountoulakis intravede l'allusione a una pratica comune nella poesia alessandrina, la contaminazione dei generi, che contraddistingue anche i Mimiambi, nati dall'unione della tradizione drammatica e di quella coliambica293. Ciò scatena la violenta reazione dei caprai294 (vv. 69-70):

... αἰ]πόλοι μιν ἐκ βίης [ἐδ]αιτρεῦντο τ]ὰ̣ ἔνθεα τελεῦντες καὶ κρεῶ[ν] ἐδαίνυντο

290 Cfr. Veneroni 1971, 226 (con cui concorda Degani 2002, 102 n. 140): «il gesto del poeta, che trascina

il capro fuori dal burrone, può stare a significare che egli ha liberato la poesia mimetica dalle panie in cui era invischiata, aprendole nuovi orizzonti e conferendole caratteri nuovi».

291 Cunningham 1971, 201 rende l'espressione con «carrying out their rites of communion with the god». 292 Cfr. Eur. Ba. 105-110 ὦ Σεμέλας τροφοὶ Θῆβαι [...] καταβακχιοῦσθε δρυὸς ἢ ἐλάτας κλάδοισι («Tebe,

patria di Semele, [...] celebra i riti di Bacco con rami di quercia o di abete»); Ba. 702-703 ἐπὶ δ' ἔθεντο κισσίνους / στεφάνους δρυός τε μίλακός τ' ἀνθεσφόρου («si mettono sulla testa corone di edera, di quercia e di tasso in fiore»); Theocr. Id. XXVI 3-9 χαἲ μὲν ἀμερξάμεναι λασίας δρυὸς ἄγρια φύλλα / κισσόν τε ζώοντα καὶ ἀσφόδελον τὸν ὑπὲρ γᾶς, / ἐν καθαρῷ λειμῶνι κάμον δυοκαίδεκα βωμώς, / τὼς τρεῖς τᾷ Σεμέλᾳ, τὼς ἐννέα τῷ Διονύσῳ [...] ὡς ἐδιδαξ', ὡς αὐτὸς ἐτυμάρει Διόνυσος («colsero il fogliame selvatico di una frondosa quercia, / l'edera viva e il terragno asfodelo, / e su un prato puro costruirono dodici altari, / tre in onore di Semele, nove di Dioniso [...] come aveva insegnato, come Dioniso stesso gradiva»); Nonn. D. XLVI 145 ἀλλ' ὅτε χῶρον ἵκανεν, ὅθι δρύες, ἧχι χορεῖαι / καὶ τελεταὶ Βρομίου θιασώδεες («ma, quando giunge nel luogo, là dove le querce, dove le danze / e i misteri del tiaso di Bromio»).

293 Cfr. Fountoulakis 2002, 310.

294 Barbieri 2016, 268 sottolinea che in due epigrammi dell'Antologia Palatina (IX 75 e 99) il sacrificio

Nel sacrificio del capro per smembramento295 e nel successivo cibarsi delle sue carni da parte dei caprai296, ‒ azioni per altro inquadrate nell'ambito di una celebrazione di riti sacri, ‒ è evidente l'evocazione di due momenti importanti e ad alto significato simbolico dei rituali misterici, ossia σπαραγμός e ὠμοφαγία, entrambi profondamente legati al mito secondo il quale il dio Dioniso venne fatto a pezzi e divorato dai Titani297; tale collegamento sarebbe ulteriormente avvalorato se si accogliesse la lezione proposta da William Furley al v. 70b: κρέα ὤμ' ἐδαίνυντο («si cibavano di carne cruda»)298. Rituali e sacrifici legati alla sfera di Dioniso sono ben testimoniati anche nell'arte: una

pelike databile all'inizio del V sec. a.C. mostra il dio Dioniso circondato dal suo tiaso e

colto nell'atto di brandire le due parti di un capretto smembrato davanti a un altare [Fig. 6]. Invece, nella parte superiore di un kantharos bifronte della prima metà del V sec. a.C. rinvenuto a Spina, è possibile osservare Dioniso disteso su un triclinio mentre attende di ricevere la sua offerta [Fig. 7]; infatti, sull'altro lato due uomini sono alle prese con la carcassa di un capro che è stato immolato in onore del dio [Fig. 8].

295 Il verbo δαιτρέομαι (v. 69) è un hapax per il più comune δαιτρεύω, il cui significato è propriamente

quello di «suddividere in parti»; infatti, come il successivo δαίνυμι, è imparentato con δαίομαι (cfr. Rundin 1996, 184-188).

296 Nel secondo emistichio del v. 70 abbiamo in P κρεω[...]νυντο (che veniva così integrato dal Weil:

κρεῶ[ν ἐδαί]νυντο); il POxy. XXII 2326 presenta la variante ]αμεδαινυντο (cfr. fig. 3, p. 17). Barigazzi 1955, 113-114 scarta la possibilità di conciliare i due testi scrivendo κρεῶ[ν] ἅμ' ἐδαίνυντο, poiché in Eroda l'anapesto in quinta sede si incontra in soli due casi all'interno di nomi propri (Mim. II 82 e IV 72). Barigazzi ritiene che κρέα (con -α lungo, mentre solitamente è breve: cfr. Antiph. fr. 21, 1 K.-A., a Timocr. fr. 727, 11 Page e a schol. in Aristoph. Pac. 192, p. 37 Holw.) sia preferibile a κρεῶ[ν] e perciò scrive κρέ[α] ἁμ' ἐδαίνυντο. Cunningham 1971, 201-202 non è d'accordo: la correttezza dei passi addotti dallo studioso italiano come paralleli per κρέα con alpha lungo è stata messa in discussione (cfr. le edizioni citate). Mettendo da parte sia un congetturale κρέᾱμα per mancanza di paralleli sia il suggerimento di Lloyd-Jones κρέ' ἅμ' (κρέα ἁμά, «le nostre carni») perché nei Mimiambi non compare questo aggettivo pronominale e il passo non sembra richiedere il significato in questione, Cunningham scrive κρεῶ[ν] ἐδαίνυντο (il verbo reggerebbe quindi un genitivo partitivo, anche se bisogna ammettere che l'uso di δαίνυμαι con questo costrutto è piuttosto raro) e considera ἅμα una glossa del papiro ossirinchita, aggiunta da qualcuno che intendeva esplicitare la successione delle azioni dei vv. 69-70: man mano che i caprai facevano a brani il capro si cibavano delle sue carni. Una proposta interessante è quella avanzata da Furley 2015, 95, che scrive κρέα ὤμ' ἐδαίνυντο («si cibavano di carne cruda»), con sinalefe delle vocali -α ω- (cfr. Mim. VIII 3 εὖ ἥλιος, 6 καὶ ἄψον, 13 τῆι οἰκίηι); una tale situazione avrebbe potuto generare facilmente confusione e sarebbe pertanto possibile giustificare sia la lezione di P del tipo κρεωμεδαινυντο sia la lezione del POxy. XXII 2326 κρεαμεδαινυντο. Oltre al vantaggio di preservare meglio tutte le lettere trasmesse, questa lettura permette anche di evitare il costrutto δαίνυμαι + genitivo e, quanto al significato, si adatta alla perfezione nel contesto dionisiaco del mimiambo e nell'evocazione dei rituali di σπαραγμός e ὠμοφαγία.

297 Cfr. Eur. Ba. 138-139 ἀγρεύων / αἷμα τραγοκτότον, ὠμοφάγον χάριν («mentre va alla ricerca / del

sangue di capri uccisi, delizia di carne consumata cruda»); Clem. Al. Protr. 12, 2 Διόνυσον μαινόλην ὀργιάζουσι βάκχοι ὠμοφαγίᾳ τὴν ἱερομανίαν ἄγοντες, καὶ τελίσκουσι τὰς κρεονομίας τῶν φόνων ἀνεστεμμένοι τοῖς ὄφεσιν («I Bacchoi celebrano ritualmente Dioniso furente e che fa impazzire, consumando carni crude mentre sono in preda a un sacro furore e attendono alla rituale spartizione delle carni con il capo incoronato di serpenti»).

298 Cfr. Furley 2015, 95. Dioniso è detto ὠμήσταν («crudivoro») in Alcae. fr. 129 V. e αἰγοβόλος

[Fig. 6] Pelike attica a figure rosse rinvenuta a Nola (Napoli), 480-460 a.C. Particolare lato A: Dioniso davanti a un altare brandisce un capretto diviso in due. Londra, British Museum (inv. n. 1867, 0508. 1126).

[Fig. 7] Kantharos bifronte a figure rosse da Spina, databile alla prima metà del V sec. a.C.

Particolare lato A: Dioniso disteso su un triclinio in attesa dell'offerta (vedi lato B). Ferrara, Museo Archeologico Nazionale (T.256 B VP).

[Fig. 8] Kantharos bifronte a figure rosse da Spina (prima metà del V sec. a.C). Particolare lato B: due uomini immolano un capro in onore di Dioniso. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale (T.256 B VP).

Cominciano qui ad emergere due delle dimensioni che denotano i riferimenti alla simbologia dionisiaca e che saranno fondamentali per la comprensione del programma poetico di Eroda: la dimensione rituale, che rinforza l'idea che il sogno sia di origine divina conferendo ulteriore legittimità alle pretese di gloria poetica di Eroda, e la dimensione performativa, implicita nel verbo τελέω (che ricorre anche al v. 40 ὥσπερ τελεῦμεν ἐγ χοροῖς Διωνύσου) e ‒ lo abbiamo visto ‒ evocata già nella sezione iniziale dell' Ἐνύπνιον attraverso la riproposizione di una tipica scena mimica.

Per giustificare la difesa della propria opera, ai vv. 71-72 la persona di Eroda svela la corrispondenza tra la scena cruenta del sogno e la sua personale esperienza poetica:

τὰ μέλεα πολλοὶ κάρτα, τοὺς ἐ̣μ̣οὺς μόχθους, τιλεῦσιν ἐν Μούσηισιν. ωδεγω̣[.(.)]το.

Stabilendo un parallelo con il comportamento dei caprai, il poeta afferma che là dove hanno la loro sede le Muse (questo sembra il senso della discussa espressione ἐν Μούσηισιν, molto probabilmente un'allusione al Museo di Alessandria299) molti criticheranno, quasi straziandola, la sua opera, definita τὰ μέλεα, un ricercato bisticcio

299 Cfr. Di Gregorio 2004, 387 e Cunningham 2002, 207. Seguendo Crusius 1905, 75-76, si potrebbe

considerare l'espressione ἐν Μούσηισιν un equivalente di ἐν μουσείῳ, in cui intravedere un'allusione di Eroda al Museo di Alessandria (cfr. Mim. I 31, in cui il Museo è annoverato nell'elenco delle meraviglie dell'Egitto proposto dalla mezzana Gillide), istituzione fondata da Tolemeo I Soter che, formalmente, era un santuario in onore delle Muse ed era presieduto da un sacerdote nominato dal re; lì erano mantenuti a spese statali poeti, filologi, scienziati e, probabilmente, tra di loro c'erano anche gli αἰπόλοι che criticavano aspramente l'opera di Eroda. Nonostante le voci contrarie di Vogliano 1906, 33 n. 3 e di Smotrytsch 1962, 606, questa ipotesi è stata seguita da vari studiosi, tra cui anche Herzog 1924, 419, 421, 431 che, pur collegando ἐν Μούσηισιν con πολλοί, coglie nell'espressione un'allusione al Museo di Alessandria (cfr. Edmonds 1925, 143: «in ἐν Μούσηισιν H.'s readers could hardly fail to see a reference to the Μουσεῖον at Alexandria»).Effettivamente ciò sembra rispecchiare una situazione che, all'epoca, doveva essere alquanto comune; a riguardo, basti pensare al Giambo I di Callimaco, dove Ipponatte redivivo convoca i filologi del Museo nel tempio di Serapide invitandoli a non essere invidiosi gli uni degli altri, oppure alla satira di Timone di Fliunte, fr. SH 786 = 12 Di Marco: Πολλοὶ μὲν βόσκονται ἐν Αἰγύπτῳ πολυφύλῳ / βιβλιακοὶ χαρακῖται ἀπείριτα δηριόωντες / Μουσέων ἐν ταλάρῳ («Nell'Egitto dalle molte razze molti si pascono / i libreschi animali da recinto, che infinitamente litigano / nella gabbia del Museo»); il passaggio in Athen. I 22d, in cui questi versi sono citati, indica che Timone si