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1.3 Eroda mette in scena Eroda

1.3.3 Immedesimarsi nel personaggio

La presenza del dio del teatro, in veste di arbitro, nel gioco dell' ἀσκωλιασμός in cui il poeta dimostra la propria abilità nel rimanere in equilibrio saltando su un otre unto, ha portato gli studiosi a pensare che Eroda abbia in questo modo voluto evidenziare il carattere sostanzialmente drammatico dei Mimiambi127. Ma cosa si intende esattamente

quando si parla di drammaticità e performance in relazione a un prodotto letterario che presenta tutte le caratteristiche tipiche della raffinata letteratura libresca alessandrina128?

126 Cfr. Chesterton 2016, 151-152 porta a confronto due frammenti ipponattei (fr. 42 Deg. = fr. 32 W. e fr.

43 Deg. = fr. 34 W.), in cui «the irascibility of Hipponax’ persona is caused by unluckiness with regards to divine providence, a theme echoed in other poems in which the poet uses his own name as that of the speaker, but the specific request for a χλαῖναν, and the assertion that Hipponax’ persona has never received such an item, seems particularly significant when considering Herodas’ response to his poetic forebear. Herodas’ persona, in contrast to that of Hipponax, does receive his cloak which is, as shown, the final form of the divine gift of the goat. The ἐνδυτόν, therefore, not only symbolises the persona’s adoption of Dionysus’ legitimising power, but equally suggests that the persona is more highly favoured by the divine than his choliambic predecessor».

127 Cfr. Miralles 1992, 108: «Dioniso è un dio vincolato al giambo fino dagli inizi, è il dio del dramma e

in particolare della commedia, ed è dunque particolarmente adatto ad essere introdotto in un mimiambo che, di fatto, prova ad inquadrarsi in una commedia concreta». Cfr. anche Veneroni 1971, 227; Hutchinson 1988, 240; Gigante Lanzara 1991, 234ss.; Rosen 1992, 209; Hunter 1993, 35. Fountoulakis 2002, 301 sostiene che l'immaginario dionisiaco che pervade il Mim. VIII non sia indicazione dell'ipotetica natura drammatica dei Mimiambi, ma sia invece connesso con il mimo non letterario; attraverso il Sogno Eroda vuole convincere il suo pubblico del fatto che anche il mimo popolare abbia la dignità dei generi drammatici. Kutzko 2012, 376 critica Fountoulakis per non aver spiegato il motivo per cui Eroda adotta il dialetto ionico e il metro coliambico di Ipponatte e, inoltre, ritiene che collegare il Dioniso del Sogno solo col mimo e le sue origini drammatiche sia riduttivo, perché significherebbe limitare le influenze di Eroda a mimo e giambo, eliminando l'importante apporto della commedia.

128 Hunter 1992, 31 elenca alcune di queste caratteristiche: «characters drawn from socially humble

Coloro che criticano la posizione netta assunta da Giuseppe Mastromarco129, secondo il quale i Mimiambi sono stati composti per essere rappresentati sulla scena, sottolineano come la presenza di elementi che tradizionalmente si trovano in testi destinati ad una

performance130 non implichi necessariamente una vera e propria messa in scena.

Ad aprire la strada all'idea che il contesto performativo presupposto da Mastromarco per l'opera di Eroda sia in realtà artificialmente costruito, e non trovasse perciò effettiva corrispondenza in una messa in scena reale, è stato Gregory O. Hutchinson, per il quale «the dramatic elements must be considered in terms of the reader's perceptions»131. Seguendo la stessa pista, Richard Hunter sostiene che i Mimiambi siano stati composti per s u g g e r i r e una performance da parte di più attori, trovando una prova di ciò nei ripetuti e ambivalenti inviti dei personaggi di Eroda al 'vedere': consapevole delle potenzialità nascoste nell'ambiguità della dimensione performativa dei Mimiambi, Eroda gioca con l'impossibilità del lettore di vedere e, allo stesso tempo, compensa questa mancanza con efficaci descrizioni che sollecitano l'occhio dell'immaginazione132. Se non è certo da escludere una reale messa in scena dei Mimiambi, che si prestano ad essere rappresentati da una piccola troupe di mimi ‒ ed è anzi probabile che ciò sia avvenuto ‒ un'accorta analisi del Mim. VIII porta altresì a dubitare che nelle intenzioni del poeta fosse proprio quella la reale ed unica destinazione dell'opera. Per quale motivo Eroda avrebbe dovuto dare così tanta importanza, nel suo manifesto di poetica, alla difesa della dimensione teatrale e performativa della propria opera, se quest'ultima fosse stata composta in vista di una effettiva rappresentazione scenica? n

reconstruction of an artificial literary dialect; the reaching back to claim authority for poetic practice in a great figure of the past». Inoltre nota che molte di queste caratteristiche le ritroviamo anche negli Idilli di Teocrito, soprattutto negli Idilli II, III, XIV e XV.

129 Mastromarco 1979, 26-105.

130 Ad esempio la presenza di personaggi muti, di oggetti a cui i personaggi fanno allusione nel corso dei

loro discorsi e l'uso di pronomi deittici e aggettivi dimostrativi.

131 Hutchinson 1988, 241 (in generale cfr. pp. 236-257).

132 Hunter 1992, 38-39 (in generale cfr. pp. 31-44). Nel Mim. II il lenone Battaro invita la giuria a

guardare attentamente il corpo nudo di Mirtale (vv. 68-71). Il Mim. IV è incentrato interamente sulle percezioni visive e sul giudizio estetico delle opere d'arte ammirate da Cinno e Coccole nel tempio di Asclepio (per gli inviti a guardare le opere d'arte e i numerosi riferimenti alla vista cfr. vv. 23-24, 27, 35, 37-38, 39-40, 56-57, 63-64, 71, 76). Nel Mim. VI è particolarmente evidente l'evocazione di un contesto visivo e, data la sua effettiva mancanza, le parole di Coritto compensano con la descrizione all'amica dei falli in cuoio che ella ha potuto vedere e toccare (vv. 66-73). Richard Hunter avanza l'ipotesi che questo genere di appelli al 'vedere' fossero propri della tradizione mimica; è infatti verosimile che il mimo popolare facesse riferimento ad uno stage-setting più elaborato di quanto gli spettatori realmente osservassero. Inoltre egli sostiene che «this knowing game of 'revealing' and 'not revealing' would carry particular force in a written literature which always asks us to 'see' what we cannot actually see» (p.39).

In un brillante contributo, David Kutzko ha analizzato il rapporto tra Eroda e i suoi modelli drammatici e giambici, giungendo alla conclusione che il pervasivo immaginario dionisiaco del sogno non rifletta le origini drammatiche del mimo né l'aspirazione di Eroda che alla propria opera sia attribuita la dignità dei generi teatrali, ma mostri come i Mimiambi nella loro forma e, in parte, nel loro contenuto siano «an imitation of staged drama and its ritual context»133.

Inoltre, analizzando il Mim. I e confrontandolo con un epigramma attribuito ad Asclepiade (AP V 181 = Asclep. 25 G.-P.), Kutzko è giunto a interessanti conclusioni: con un espediente paragonabile a quello riscontrato nell'epigramma di Asclepiade, anche Eroda evoca la struttura e lo scenario di una scena teatrale e poi, attraverso la ripresa della tecnica drammatica del metateatro134, svela il suo artificio compositivo e la conseguente partecipazione alla mimesis da parte di un pubblico di lettori, condizione creatasi perché essi avevano familiarità con le convenzioni del teatro comico.

Lasciando per il momento da parte questa questione e l'analisi delle allusioni alla dimensione performativa dei Mimiambi presenti nel sogno ‒ avremo modo di ritornarci in seguito, ‒ ci concentreremo per il momento sull'interazione tra elementi teatrali e letterari nell' Ἐνύπνιον, che offre ad Eroda l'opportunità di esplorare la sua attività poetica e le operazioni di auto-rappresentazione e di legittimazione autoriale.

Nella prima parte del componimento (vv. 1-15) vengono predisposti un cast di personaggi e un'ambientazione fisica che, anche se con una certa approssimazione, riesce ad evocare un senso di spazio, implicando il tipico contesto scenico di una tipica rappresentazione mimica: siamo in una modesta fattoria, probabilmente non molto tempo prima del sorgere del sole, e un personaggio che detiene l'autorità sugli altri parla in prima persona dando ordini e sgridando in maniera vivida e colorita le sue serve135. In questo modo Eroda costruisce una scena teatrale evocativa di una vera e propria

performance, ma un dettaglio desta sospetto: nonostante i numerosi appelli alle serve, ‒

a Psilla (v. 1), a Megallide (v. 10) e ad Anna (vv. 14, 43, 66), ‒ il protagonista non riceve mai risposta e la sua voce campeggia solitaria in un silenzio anomalo; le azioni delle serve, il loro grattarsi e brontolare, il loro indugiare nel sonno, il verso sgraziato

133 Kutzko 2012, 367-390, in particolare p. 377.

134 Kutzko 2018, 157-171. In merito ad Asclep. XXV G.-P. cfr. anche Bettenworth 2002, 27-38. Degno di

nota anche il confronto istituito da Kutzko 2008 tra Mim. I 69-72, Theocr. Id. XV 87-88 e Virg. Ecl. III 84-85; lo studioso ritiene che questi passi siano accomunati dall'uso della tecnica drammatica del metateatro, adottata dai poeti per alludere all'artificio delle loro composizioni.

della scrofa assetata emergono e prendono corpo soltanto tramite le parole del padrone. Ciò porta a concludere che quella che in apparenza sembra avere tutti i requisiti propri di una messinscena mimica sia in realtà un'imitazione di una performance mimica. Infatti, questa sezione introduttiva si configura unicamente come una cornice mimetica che, insieme ai versi finali (vv. 65-79), abbraccia il corpo centrale del mimiambo occupato dal significativo racconto del sogno allegorico del fattore: in ciò si riflette la natura ambigua dei Mimiambi, che si presentano come un amalgama di poesia drammatica e poesia non drammatica; essa, infatti, è dominata dal metro coliambico e da un dialetto artificiale che tradiscono un artificio formale estraneo al mondo del mimo, ma nell'insieme riesce a catturare il senso profondo del teatro anche senza essere necessariamente vincolata a una rappresentazione vera e propria su un palcoscenico. Altrettanto rilevante, come ha giustamente osservato Claudia Fernández136, è il fatto che Eroda non si limiti a dipingersi semplicemente in qualità di autore di mimiambi, ma si mimetizzi con i suoi stessi personaggi, sottomettendosi in maniera giocosa e consapevole alle convenzioni che lui stesso ha creato. Per Eroda sfruttare gli artifici tipici del teatro significa prima di tutto calarsi nei panni di uno di loro, un padrone di fattoria alle prese con la pigrizia e l'indolenza delle sue schiave, Psilla e Megallide137. Non a caso Eroda deve aver scelto il motivo del servo, spesso pigro e ciondolone, che è costretto a sopportare i rimproveri e i brontolii del suo padrone: la scena ‒ sottolinea Di Gregorio138 ‒ costituisce un motivo che ci riporta alla commedia e alla stessa tradizione del mimo, con le quali Eroda mostra più volte di essere in debito139. Infatti, poiché

136 Fernández 2006a, 26-27. Cfr. anche Hutchinson 1988, 237-239.

137 Si tratta, probabilmente, di nomi parlanti. Nel caso del nome Psilla, che già Bücheler 1892, 59

collegava con il carattere parassitario della serva, l'effetto straniante e umoristico deriverebbe dalla contrapposizione κατ' ἀντίφρασιν tra gli agili e rapidi movimenti della pulce (in greco, appunto, ψύλλα) con quelli pigri e lentissimi di Psilla (Esposito 2001, 143-144); a questo proposito cfr. Aristoph. Thesm. 1180, in cui la danzatrice Ἐλάφιον è agile ὤσπερ ψύλλο κατὰ τὸ κῴδιο e Lycophr. Al. 166, in cui una cavalla molto veloce porta il nome parlante in questione. Per quanto riguarda la schiava Megallide, che potrebbe essere posta in relazione con l'aggettivo μεγάλη (cfr. Austin 1922, XVI-XVII), è ipotesi suggestiva che la fonte dello humour sia il fatto che, pur essendo grande e grossa, non si renda utile in nulla, anzi l'unico aspetto che rievoca una sua qualche 'grandezza' è la sua voglia di dormire il sonno eterno di Endimione (cfr. v. 10 δει]λὴ Μεγαλλί, κα̣[ὶ] σ̣ὺ Λάτμιον κνώσσεις;).

138 Di Gregorio 1995, 680-681, n. 38. Cfr. anche Bernao Fariñas 2011, 32-33.

139 Cfr. Aristoph. Av. 1323; Plaut. Stich. 58 ss., Rud. 920 ss., Pseud. 1103 ss. Di Gregorio 1997, 278

istituisce un confronto tra Mim. IV 42 e Mnesim. fr. 4, 21-22 K.-A., in cui qualcuno così si rivolge a un servo: μέμνησ' ἃ λέγω, πρόσεχ' οἷς φράζω. / χάσκεις οὗτος; Riprendendo un'osservazione di Headlam (vd. Headlam-Knox 1922, XXV n. 2), anche Kutzko 2012, 374 n. 28 rimanda a Sophr. frr. **10, 13, 14, 15, 16, *17 K.-A. e, forse, frr. 73-75 K.-A., in cui qualcuno viene insultato e minacciato (cfr. Hordern 2004, 180-81); pur trattandosi di un topos proprio anche della commedia, Kutzko ritiene probabile una connessione tra Eroda e Sofrone: una forte influenza mimica in questo genere di scene può essere

anche nell'esperienza di vita quotidiana non dovevano mancare situazioni in cui un padrone irascibile sfogava la sua rabbia prendendosela con i servi, essa a maggior ragione costituiva un escamotage per suscitare facilmente nel pubblico risate assicurate. Impossibile leggere l'inizio del Mim. VIII senza accorgersi della somiglianza con l'inizio delle Nuvole di Aristofane140, quando Strepsiade si lamenta della lunghezza infinita delle notti (vv. 1-2 ὦ Ζεῦ βασιλεῦ, τὸ χρῆμα τῶν νυκτῶν ὅσον· / ἀπέραντον. οὐδέποθ' ἡμέρα γενήσεται; ⁓ Mim. VIII 5) e dei suoi servi che, invece di lavorare, preferiscono stare a letto a russare (v. 5 οἱ δ' οἰκέται ῥέγκουσιν· ⁓ Mim. VIII 1-2141, 4-5, 10); il fattore del mimo non riesce più a dormire perché ha fatto un sogno che deve essere raccontato e interpretato, mentre Strepsiade perché è divorato dall'angoscia per le spese e i debiti a causa del figlio, perciò entrambi si alzano e ingiungono ad uno dei servi di prendere la lucerna e accenderla (v. 18 ἅπτε, παῖ, λύχνον ⁓ Mim. VIII 6). Possono essere individuate somiglianze anche con la parabasi: il corifeo, ossia l'autore, presentando la commedia come la più saggia delle sue commedie (v. 522), spiega che in essa non sono state fatte concessioni ai gusti di un pubblico che spera di trovarvi un motivo di riso nei soliti tipi e nelle situazioni di sempre, fra cui cita «quando il vecchio che recita i versi

colpisce col bastone chi ha a fianco, per dissimulare le battute volgari» (vv. 541-42):

οὐδὲ πρεσβύτης ὁ λέγων τἄτη τῇ βακτηρίᾳ τύπτει τὸν παρόντ' ἀφανίζων πονηρὰ σκώμματα

Questa scena-tipo ricorda da vicino due momenti del Sogno che, come abbiamo potuto vedere, sono strettamente interconnessi: quello ai vv. 8-9, in cui il fattore minaccia la serva Psilla di percuoterla col bastone, e quello ai vv. 59-60, in cui il vecchio Ipponatte rivolge la stessa minaccia al protagonista del sogno, usando proprio il termine βακτηρία.

suggerita anche dalla presenza di sgridate alle serve in Theocr. Id. II 18-21 e XV 27-33, due mimi che gli scoliasti collegano esplicitamente a Sofrone e che presentano notevoli affinità con alcuni mimiambi di Eroda (cfr. Hutchinson 1988, 238, 240 e Hordern 2002, 2).

140 Rudolf Herzog ha insistito, pur senza molto successo, sulla relazione fra il Sogno e la parabasi

dell'ἀρχαία (cfr. Herzog 1924, 387ss. e Crusius-Herzog 1926, 33-34). Riprendendo le osservazioni dello studioso tedesco, Miralles 1992, 106-107 ribadisce la presenza, nel Sogno di Eroda, di numerosi parallelismi con leNuvolediAristofane,inparticolareconlaparte inizialedellacommediaela parabasi. Cfr. anche Fountoulakis 2002, 305, Di Gregorio 2004, 336, 343, Graham 2009, 226 e Chesterton 2018, 32-34; quest'ultimo studioso ritiene che Eroda, attraverso il richiamo alle Baccanti di Euripide nella descrizione degli abiti di Dioniso e della propria persona, e attraverso l'uso delle Nuvole di Aristofane come modello per lo scontro con il vecchio Ipponatte, abbia intenzionalmente messo in scena la propria programmatica auto-rappresentazione in un contesto evocativo delle opere di celebri drammaturghi.

141 In Mim. VIII 2 troviamo la forma ionica ρέγχουσα, utilizzata al posto della più comune forma attica

ῥέγκω. Cfr. Cunningham 1971, 196; Di Gregorio 2004, 341; Graham 2009, 226. Puccioni 1950, 167 sostiene che ciò sia confermato dalla presenza di ῥέγχω non solo in Eroda e Ippocrate, ma anche nella κοινή (per es. in Plut. Cato ma. 9), il cui sfondo lessicale è eminentemente ionico.

Si tratta di un'ulteriore prova che testimonia come Eroda, attraverso l'uso di uno schema narrativo e di un linguaggio che richiamano il modello aristofaneo per descrivere la contesa tra la sua persona e il vecchio, voglia ribadire la propria autorità nel comporre mimiambi, una forma che si rifà tanto alla tradizione comica quanto a quella giambica. Ciò non stupisce affatto poiché, dati i numerosi punti di contatto e i riferimenti alla commedia in questo e anche negli altri componimenti, è plausibile che il nostro mimiambografo avesse familiarità con il mondo dell'ἀρχαία e, in generale, del teatro142. Inoltre, l'evocazione di mimo e commedia nella sezione introduttiva del componimento è funzionale a convalidare in anticipo la pretesa finale di Eroda di conseguire fama e successo attraverso l'uso dello stile drammatico con l'allegoria della competizione poetica, ma allo stesso tempo evoca l'ambiguo status letterario dei Mimiambi, a metà strada tra la ricezione libraria e performativa143.

Per quanto riguarda il mimo letterario, invece, ritroviamo il motivo dell'indolenza delle serve e dei relativi ordini e rimproveri da parte dei padroni, opportunamente variato a seconda dei casi, anche in Sofrone, in Teocrito e in altri mimiambi di Eroda144.

Christopher G. Brown145 nota alcune corrispondenze tra l'inizio del Mim. VIII e l'inizio del Mim. VI, in cui Coritto ha uno scoppio d'ira contro la serva, perché non ha prontamente fornito una sedia all'ospite di sua iniziativa, ma ha aspettato l'ordine della padrona146. Al v. 3 Coritto inveisce contro la serva chiamandola τάλαινα, «disgraziata», termine che ha un significato analogo a δει]λή, usato dal fattore nei confronti di Megallide ai vv. 10 e 13: entrambe le serve sono pigre e non svolgono i lavori di casa

142 Di Gregorio 2004, 57 parla di «paracommedia», in quanto Eroda «assimila il materiale di cui si serve

al livello basso del mimo e del giambo» (p. 347). Veneroni 1973 si concentra sui punti di contatto dei Mimiambi con la commedia nuova e la commedia latina, individuando le prove di uno stretto rapporto tra queste e il genere mimico (cfr. anche Kutzko 2012, 383-84).

143 Cfr. Chesterton 2018, 34.

144 Cfr. Sophr. frr. 10 (φέρ' ὧ τὸν δρίφον), 14 (πάρφερε, Κοικόα, τὸν σκύφον μεστόν) e 15 K.-A. (τάλαινα

Κοικόα, κατὰ χειρὸς δοῦσα ἀπόδος ποχ' ἁμὶν τὰν τράπεζαν); forse anche frr. 73-75 K.-A.; Theocr. Id. II 19-20 e XV 26-32; Mim. I 1; Mim. IV 41-51.; Mim. VI 1-11; Mim. VII 4-13. Simon 1991, 81 sostiene che la scena del rimprovero delle serve posta all'inizio del Mim. VIII metta in mostra l'autoironia di Eroda, che decide di citare uno dei motivi topici dei suoi Mimiambi. Bernao Fariñas 2011, 32-33 ritiene che questa scelta sia dovuta allo sforzo di Eroda di voler comporre, nella scena iniziale del proprio manifesto di poetica, «un mimo prototípico».

145 Brown 1994, 99 e n. 14.

146 Walter Headlam nota molte somiglianze tra questa scena e Plaut. Stich. 58ss. e ritiene che «since the

Stichus was adapted from the Φιλάδελφοι of Menander, the two passages may derive from that common origin» (Headlam-Knox 1922, 282). In merito al problematico esordio del Mim. VI si vedano Mastromarco 1976, 101-103 e Grossi 1984, 259-262.

(cfr. Mim. VI 5-6 μᾶ, λίθος τις, οὐ δούλη / ἐν τῆι οἰκίηι <κ>εῖσ' e Mim. VIII 11-13); la descrizione della serva nel Mim. VI 7 come τονθορύζουσαν è paragonabile con il τ̣ό̣ν̣θρυζε147 che il fattore rivolge con tono sarcastico a Psilla al v. 8.

Anche Coritto, infine, cerca di intimorire la serva dicendole che è solo merito dell'ospite se non le ha inferto anche punizioni corporali (Mim. VI 10-11 θῦέ μοι ταύτηι / ἐπεί σ' ἔγευσ' ἂν τῶν ἐμῶν ἐγὼ χειρέων), intimidazione che ricorda quella di Mim. VIII 8-9.

Molti punti di contatto si possono individuare anche tra la sfuriata del fattore-Eroda contro le sue serve e la tirata che nel Mim. IV Cinno fa alla sua serva Cidilla (vv.41-51):

Κύδιλλ', ἰοῦσα τὸν νεωκ̣ό̣ρ̣ο̣ν βῶσον. οὐ σοὶ λέγω, αὕτη, τῆι ὧ̣δ̣ε̣ κὦδε χασκεύσηι; μᾶ, μή τιν' ὤρην ὧν λέ̣γ̣ω̣ ποποίηται, ἕστηκε δ' εἴς μ' ὁρεῦσα καρ̣κ̣[ί]νου μέζον. ἰοῦσα, φημί, τὸν νεωκόρον βῶσον. λαίμαστρον· οὔτ' ὀργή σ[ε] κ̣[ρ]ηγύην οὔτε βέβηλος αἰνεῖ, πανταχῆι δ̣' ἴ̣σ̣η̣ κεῖσαι. μαρτύρομαι, Κύδιλλα, τὸν θ[ε]ὸ̣ν̣ τ̣ο̣ῦτον, ὡς ἔκ με κα<ί>εις οὐ θέλουσαν οἰδῆσαι· μαρτύρομαι, φημί· ἔσσετ' ἠμέ̣ρ̣η κείνη ἐν ἧι τὸ βρέγμα τοῦτο τὠσυρὲς κνήσηι.148 45 50

Volendo mostrare all'amica Coccale il dipinto di Apelle conservato all'interno del tempio, Cinno ordina alla serva Cidilla di andare a chiamare il sagrestano perché apra la porta; a suscitare l'esplosione di rabbia nella donna è la mancanza di reazione da parte della sua serva, che se ne sta a bocca aperta e la guarda con occhi da granchio149 - una

147 Cfr. Mim. VII 77 τονθορύζεις (ricorre nelle parole che una cliente rivolge al calzolaio Cerdone per

sapere il prezzo di un paio di scarpe senza che l'uomo faccia ulteriori giri di parole né borbottii). Headlam-Knox 1922, 353 osserva che il verbo τονθορύζω ricorre spesso in riferimento a un servo che non osa parlare con franchezza (cfr. Aristoph. Ra. 747; Vesp. 614).

148 Trad.: «Cidilla, va' a chiamare il sagrestano. / Non sto parlando con te, ehi tu!, che stai a bocca

aperta qua e là? / Oh!, non si è curata punto di quel che dico / ma se ne sta a guardarmi con occhi più grandi di quelli di un granchio. / Va', ti dico, a chiamare il sagrestano. / Buona solo a mangiare, né donna pura né impura / ti loda come utile a qualcosa ma in ogni dove sei ugualmente inutile. / Chiamo a testimone, Cidilla, questo dio, / ché mi fai avvampare pur non volendo gonfiarmi d'ira, / lo chiamo a testimone, ti dico: verrà quel giorno / in cui ti gratterai questa testa immonda».

149 In Xen. Symp. V 5 Socrate (che in Plat. Theaet. 209 C è definito ἐξόφθαλμος) paragona con ironia gli

occhi sporgenti del granchio ai propri. Qui, insieme allo stare a bocca aperta, è sintomo dello stordimento estatico tipico di chi sta osservando opere particolarmente realistiche: cfr. Mim. IV 64, in cui, per esprimere la portata dell'illusione derivante dal realismo che caratterizza delle pinze d'argento

sorta di stato di sonno ad occhi aperti paragonabile al sonno vero e proprio di Psilla e Megallide150. La ripetizione, al v. 45, dell'ordine di chiamare il sagrestano dato al v. 39, è posta in risalto dal parentetico φημί: anche il protagonista del Sogno utilizza i medesimi espedienti (v. 1 ἄστηθι, δούλη Ψύλλα ⁓ v. 6 ἄστηθι, φημί). In entrambi i casi troviamo insulti151, ordini, minacce, unite a un interessante uso di termini di marca stilistica elevata in contesti quotidiani e a tratti triviali, cifra espressiva particolarmente cara ad Eroda; Cinno infatti minaccia Cidilla riprendendo al v. 50 le parole della celebre predizione fatta da Ettore ad Andromaca (Il. VI 448):

ἔσσεται ἦμαρ ὅτ' αν ποτ' ὀλώλῃ Ἴλιος ἱρή152

Nella ripresa parodica che troviamo nel mimiambo, il giorno che verrà non sarà quello in cui la sacra Ilio verrà distrutta, ma quello in cui Cinno colpirà con un bastone la testa