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La lingua del fattore: allusività e parodia

1.3 Eroda mette in scena Eroda

1.3.4 La lingua del fattore: allusività e parodia

È sufficiente leggere i primi versi del Mim. VIII per accorgersi di come Eroda ‒ profondamente distante dallo spirito del cosiddetto mimo popolare160, basato su estemporaneità e improvvisazione ‒ voglia invece porsi nel solco della più erudita e sofisticata tradizione letteraria alessandrina, facendo sfoggio di un considerevole bagaglio culturale e letterario; attraverso quest'ultimo egli può consapevolmente reimpiegare termini e stilemi della tradizione aulica e rielaborare intere scene o nuclei tematici piegandoli ai propri fini. Come abbiamo già avuto modo di constatare a proposito delle parole di Cinno (Mim. IV 48-51), questa studiata allusività161 non è fine

158 L'unica voce fuori dal coro è quella di Melina Pinto Colombo, la quale ritiene che Eroda sia più

interessato all'azione scenica che alla caratterizzazione dei personaggi; questi ultimi, con l'eccezione di Battaro e Bitinna, risultano, a suo parere, piatti e stereotipati (cfr. Pinto Colombo 1934b, 100-114).

159 Diom. Art. Gramm. Lib. III (1.491.13-16 Keil).

160 Per una disamina completa a proposito del fenomeno, a lungo sottovalutato, del mimo popolare si veda

Cicu 2012. Lo studioso sostiene che i due filoni ‒ quello del mimo letterario e quello del mimo popolare ‒ camminarono per molto tempo in parallelo, si sfiorarono, ma non si integrarono mai: pur condividendo spesso un repertorio comune di personaggi tipici (mezzane, lenoni, seduttori, mariti sciocchi, parassiti, schiavi, artigiani ecc.), i poeti scrivevano mimi letterari secondo i canoni dell'alessandrinismo, e facevano della parola l'unico e vero protagonista, mentre gli autori dei copioni teatrali scrivevano per il palcoscenico, dove la parola non aveva più valore della gestualità, della mimica, delle espressioni facciali, della danza o della musica; a causa di questo ruolo subalterno del testo, non si sviluppò una sistematica fissazione e circolazione della forma scritta e una riflessione critica, perciò la nostra conoscenza del fenomeno deriva soprattutto dai ritrovamenti papiracei di copioni o canovacci teatrali, come quello del Fragmentum Grenfellianum (cfr. Esposito 2005), del Charition (Mim. Pap. fr. 6 Cunningham) o della Moicheutria (Mim. Pap. fr. 7 Cunningham). Esposito 2009, 142-143, pur sottolineando la diversità tra i due canali di produzione, tiene a rimarcare il fatto che essi non si posero in rapporto di reciproca antitesi, ma di «intenso e dinamico scambio, interdipendenza e osmosi»; un tale discorso è valido soprattutto per il periodo ellenistico, caratterizzato da una «chiara volontà di recupero e valorizzazione proprio dell'elemento popolare e folclorico in tutte le sue forme».

161 Nel celebre articolo pubblicato nel 1942 col titolo Arte allusiva, Giorgio Pasquali spiega la differenza

tra reminiscenze, imitazioni e allusioni. Le prime possono essere involontarie, dal momento che un modello letterario può pervadere a tal punto la cultura di appartenenza del poeta da indurlo a richiamarlo inconsciamente. Imitazioni e allusioni, invece, sono sempre intenzionali e si differenziano

a se stessa: essa, incastonata all'interno di un contesto quotidiano e di un registro di tonalità bassa, trasforma anche i nessi aulici in elementi comici e produce un effetto umoristico che solo un pubblico altrettanto colto ed elitario, che avesse una certa familiarità con l'ipotesto cui si fa allusione, avrebbe potuto pienamente comprendere e apprezzare. Bisogna pertanto presupporre, nei lettori o negli ascoltatori, l'esistenza di una sorta di 'memoria poetica' in comune con il poeta, imprescindibile perché il meccanismo dell'arte allusiva entri attivamente in funzione162. In verità nel caso di Eroda, più che di semplice allusività, in cui la parola allusiva viene certo distanziata dall'ipotesto, ma mai stravolta completamente163, spesso è più opportuno parlare di allusività parodica, una forma particolare di allusività che prevede la detorsio del modello letterario: il poeta evoca un modello imitandolo e alimentando così determinate aspettative nel pubblico; allo stesso tempo, però, ne deforma il significato, sradicandolo dal suo contesto originario e innestandolo in un testo completamente differente, tradendo le aspettative del pubblico e lasciandolo disorientato e sconcertato164.

Per una migliore comprensione della poetica di Eroda, è utile soffermarsi brevemente sul concetto di parodia165, che spesso, nella coscienza comune, tende ad essere

fra loro in base alla disposizione nei confronti del destinatario; il poeta può infatti desiderare che le imitazioni sfuggano al pubblico, mentre il gioco allusivo produce l'effetto desiderato soltanto se il pubblico, in base alle proprie conoscenze, 'smaschera' il modello letterario cui l'autore fa riferimento.

162 Conte 1974, 10 sostiene che l'allusione si configura come «desiderio di risvegliare una vibrazione

all'unisono tra la memoria del poeta e quella del suo lettore in rapporto a una situazione poetica cara a entrambi». Inoltre lo studioso fa alcune considerazioni particolarmente interessanti sull'ambiguità della posizione assunta dal lettore (o ascoltatore) in un tale contesto: «da un lato il poeta non gli predispone un accesso facile e ovvio, lo costringe a leggere in filigrana; dall'altro egli stesso ha bisogno del lettore dotto. In certi momenti della sua storia sembra che la poesia, raggiunta ormai una salda sicurezza della propria esistenza, certa della propria salvezza, si diverta e giochi col lettore, lo inviti come in aenigmate. Ma questi, per attingerla, dovrà conquistare la solida sponda della 'dottrina'» (p. 35 n. 10).

163 Per Bonanno 1990, 15 la parola allusiva è «parola che riusa la parola altrui conservandone pur

relativamente il senso», mentre la parola parodica è «parola che introduce un significato opposto a quello della parola altrui». In chiave più generale, la studiosa definisce l'allusività come «la necessaria attitudine di una poesia che dialoghi sistematicamente con una tradizione data per compiuta, e dunque leggibile come un testo storicamente fissato per sempre, su cui riflettere, riflettendo altresì sulla formazione del testo. E la poesia alessandrina è la prima (nella cultura occidentale) metapoesia, che programmaticamente scopre le regole del gioco intertestuale, esponendo la propria poetica nel corso stesso del poetare: finendo per produrre taluni espliciti Programmengedichte (il prologo degli Αἴτια di Callimaco, le Talisie di Teocrito, il mimo VIII di Eronda) ma cominciando da unità progettuali minime, talora celate per stuzzicare il gusto della scoperta, magari affidate alla singola parola (allusiva) come alla più sottile, e tuttavia concreta, espressione del dire poetico» (pp. 24-25). Cfr. anche Fernández 2007, 227-228.

164 Questo 'tradimento' è l' ἐξαπατᾶν dei poeti parodici, come lo definisce Aristotele in Rhet. 1412a 30.

Cfr. Degani 1983, 7.

165 La bibliografia sull'argomento è molto ampia; rimando agli studi di Householder 1944, Koller 1956,

Pöhlmann 1972, Degani 1983 (= Degani 2004, 497-528), Beltrametti 1994, Di Massimo 2002; rimando in particolare a Magnelli 2004 per la ripresa parodica di Omero.

erroneamente considerato come un'etichetta generica comprendente forme di intertestualità tra loro diverse come il travestimento, il pastiche, la satira, il centone166. Una delle definizioni moderne più citate è quella di Hans Grellmann, il quale definisce la parodia, in senso stretto, come un'imitazione degli effetti comici, che conserva intatti gli elementi formali del suo serio modello, ma ne altera, in modo inadeguato, il contenuto167. Ma si può dare per scontata una sovrapponibilità o, perlomeno, una qualche continuità tra le definizioni antiche e moderne di parodia? Enzo Degani, che per primo in Italia ha affrontato lo studio della parodia nel campo degli studi di grecistica, ha segnalato la difficoltà degli studiosi moderni nel definire in modo esaustivo e rigoroso il fatto parodico, riconducendo la causa di questo imbarazzo alla scarsità di teorizzazioni antiche intorno alla parodia e, più in generale, a una mancanza di riflessioni su modalità, meccanismi, effetti e liceità della riscrittura e della ripresa orale168. Inoltre, nonostante i numerosi contributi sull'argomento, neppure il significato originario e l'evoluzione semantica dei termini παρῳδία, παρῳδός e derivati possono dirsi ad oggi del tutto chiariti. A causa della polisemia del prefisso παρά-, infatti, sono state avanzate varie interpretazioni del significato di παρῳδία, così riassunte da Degani:

a) παρά = «oltre», «dopo». Giulio Cesare Scaligero nel cap. 42 dei suoi Poetices

libri septem (1561) avanza l'ipotesi che in origine il termine παρῳδία indicasse

un canto immediatamente successivo a quello rapsodico o intervallato ad esso, riallacciandosi così all'uso aristotelico del vocabolo in qualità di termine tecnico169. Degani ammette di guardare con favore all'ipotesi di una derivazione della parodia in quanto genere dalla rapsodia.

166 Cfr. Beltrametti 1994, 275 e Degani 1983, 9-11.

167 Cfr. Grellmann 1926, 630. Degani 1983, 5-7 ritiene che Grellmann abbia giustamente sottolineato che

il fenomeno non si limita soltanto al campo letterario e a modelli 'concreti' e, soprattutto, che l'elemento comico è connaturato alla parodia, contrastando 'allargamenti' del concetto di parodia, che secondo il parere di alcuni studiosi avrebbe dovuto comprendere anche le imitazioni serie. Tuttavia secondo Degani risulta restrittivo il fatto che Grellmann abbia individuato come oggetti della parodia esclusivamente dei modelli 'seri' e che ritenga che l'elemento comico della parodia nasca semplicemente da un contrasto tra forma e contenuto.

168 Ciò è tanto più sorprendente se si pensa che, anche se «quanto noi conosciamo sotto l'etichetta di

letteratura greca è fatto di riprese massicce, fedeli o distorcenti, di rimandi costanti da un genere all'altro, da un testo all'altro, [...] nessuno in Grecia sembra aver fatto dell'intertestualità un tema degno di riflessione» (Beltrametti 1994, 280-281).

169 Cfr. Aristot. Poet. 1448a 12-13; nel contesto di un'analogia tra commedia e parodia come forme di

imitazione peggiorativa dell'oggetto, in opposizione rispettivamente a tragedia ed epos come forme di imitazione nobilitante, Aristotele indica come παρῳδίαι quei componimenti in esametri, strutturati nella forma ad imitazione dell'opera di Omero e dei rapsodi, ma di contenuto umile. Inoltre, sempre in questo passo, Aristotele definisce Egemone di Taso come ὁ τὰς παρῳδίας ποιήσας πρῶτος («colui che per primo compose parodie»); per alcune informazioni riguardo Egemone rimando alla n. 212 alle pp. 71-

b) παρά = «contro». Hermann Koller ascrive per primo il termine παρῳδία all'ambito musicale e, intravedendo nella preposizione παρά l'idea della «violazione», ipotizza che in origine la parodia fosse una violazione nell'esecuzione musicale, un canto «gegen die ᾠδὴ»170.

c) παρά = «accanto»,«a imitazione di». Henri Estienne nelle sue Parodiae Morales (1575) interpreta la παρῳδία come canto a imitazione seria o faceta di un altro canto171, estendendo di fatto l'area del parodico oltre la parodia dell'epica. Sulla sua scia, anche Egert Pöhlmann attribuisce al prefisso παρά il senso di «neben, gemäß, nach dem Vorbild von» e intende il testo parodico come un testo di secondo grado, che presuppone un modello, ossia un testo di primo grado172.

Enzo Degani fa però notare come il termine in questione possa essere compreso nella sua pienezza solo tenendo presenti entrambe le nozioni fondamentali espresse da παρά-, «vicino» e «contro», che non si escludono a vicenda, ma anzi sono complementari173. Si definiscono così le due componenti imprescindibili dell'atto parodico: la ripresa di un modello letterario (ossia il testo di primo grado) e lo stravolgimento di esso (perciò la parodia può essere definita come una forma letteraria di secondo grado).

72. La scarsità di notizie in merito all'esecuzione di tali παρῳδίαι negli agoni fa pensare che esse dovevano avere ruolo occasionale, ciononostante è interessante citare alcune iscrizioni agonali; tra queste la più antica, databile intorno al 340 a.C., è stata rinvenuta ad Eretria (IG XII 9,189 = Bechtel, SGDI 5315) e riporta i premi fissati per le singole specialità (ai parodi erano riservati i premi più modesti) previste in un agone musicale organizzato in occasione delle Artemisie cittadine. Inoltre esiste anche un'iscrizione di Delo (IG XI 2,120,48) che cita un παρῳδός tra gli artisti che si esibirono alle Apollonie del 236 a.C.; infine, grazie a un'iscrizione attica, databile tra il II e il III sec. d.C. (Corp. Inscr. Att. II 2153), dove vengono citati in una lista di artisti anche dei π]αρῳδοί (l. 9), si dimostra che gli agoni parodici continuarono anche in epoca imperiale, come testimoniano Dione e Galeno.

170 Koller 1956, 18. Pöhlmann 1972, 149-150, analizzando il caso del termine προσῳδία, mette

opportunamente in evidenza l’estrazione musicale dei composti di ᾠδή (-ῳδός, -ῳδέω, -ῳδία, -ῳδή). Anche Quintiliano riteneva che il termine greco παρῳδή avesse un'origine musicale: incipit esse quodammodo παρῳδή, quod nomen ductum a canticis ad aliorum (scil. canticorum) similitudinem modulatis, abusive etiam in versificationis ac sermonum imitatione servatur (Quint. Inst. IX 2, 35).

171 Cfr. ThGL 7,560A παρῳδέω: Canticum vel carmen ad alterius imitationem compono. Sic autem

compositum canticum vel carmen παρῳδὴ et παρῳδία appellatur. L'accezione di παρά, nel senso di 'presso', 'vicino' o 'a imitazione di', è attestata negli scolii di Aristofane (cfr. Householder 1944, 4-5).

172 Cfr. Pöhlmann 1972, 148.

173 Cfr. Degani 1983, 16. A sostegno di questa interpretazione, lo studioso cita la prima attestazione del

termine παρῳδός in Eur. IA 1146-47 (ἄκουε δή νυν· ἀνακαλύψω γὰρ λόγους / κοὐκέτι π α ρ ω ι δ ο ῖ ς χρησόμεσθ' αἰνίγμασιν), in cui Clitemnestra, rivolta ad Agamennone, gli dice che ha deciso di parlargli in modo chiaro, senza più utilizzare espressioni enigmatiche. Come sostiene Beltrametti 1994, le due traduzioni, «basta con enigmi contraddittori» e «basta con enigmi e circonlocuzioni», sono entrambe possibili: «a seconda che si dia a para valore di 'contro' o di 'presso', si può ricondurre l'oscurità degli enigmi alla contraddizione o alla parafrasi, al dire contro o al dire quasi» (p. 285). Cfr. anche Bonanno 1990, 15, che a questo proposito definisce la parodia come «teatro della lotta tra due intenzioni».

Alla luce di queste conclusioni, si deduce che la risposta dei destinatari del messaggio poetico costituisce un momento essenziale nel gioco allusivo e parodico: il pubblico di Eroda (o perlomeno la maggior parte di esso) non è soltanto il fruitore dell'allusione e della parodia, ma ne è anche il complice necessario174, dal momento che esse possono dirsi riuscite solo quando vengono smascherate e l'intenzione autoriale viene compresa, grazie al possesso di un certo background culturale e competenze esegetiche adeguate. Ecco uscire allo scoperto la cifra della poesia di Eroda: «un raffinato lusus letterario, sorretto da una vivace vena comico-parodica nei confronti della tradizione aulica»175. Questa è una caratteristica che innerva l'intera opera superstite di Eroda, ma non deve essere una mera casualità il fatto che proprio le parole poste sulle labbra del fattore, dietro cui si nasconde l'autore e tramite il quale Eroda intende veicolare il proprio manifesto di poetica, siano un tripudio di rimandi alla tradizione letteraria precedente: in questo dialogo176 verticale con le grandi opere del passato emerge la consapevolezza del mimiambografo di muoversi all'interno di una consolidata tradizione poetica, unitamente all'orgogliosa rivendicazione di potersi 'appropriare' di quei testi, innovandoli e manipolandoli per i propri fini in maniera originale. Il sincero amore che Eroda nutre per il patrimonio poetico della cultura greca non si fossilizza però in sterile reverenza, ma assume le forme giocose e umoristiche della parodia e dell'ironia, sviluppate in un fruttuoso dialogo orizzontale con il destinatario, fruitore e complice. Elena Esposito, sulla scia di Luis Alfonso Llera Fueyo, ha focalizzato la sua attenzione su questo aspetto della poetica di Eroda, concentrando l'analisi sui Mimiambi I e VIII, e gettando nuova luce sul rapporto di Eroda con l'epica, tutt'altro che superficiale177. In apertura del Mim. VIII, nella scena poc'anzi analizzata, la struttura dell'espressione del v. 1 ἄστηθι, δούλη Ψύλλα, costituita da un imperativo aoristo178 in posizione

174 In merito a questa nozione di 'fruitore-complice' e la sua 'necessità' cfr. Bonanno 1990, 13 e 25-26. 175 Esposito 2001, 142.

176 Bonanno 1990, 15 sottolinea che «la nozione del linguaggio poetico come 'dialogo' e 'ambivalenza'

risponde a un progetto che intende la scrittura come lettura della tradizione, ed il testo come assorbimento di ‒ e replica a ‒ un altro testo».

177 Cfr. Llera Fueyo 1991, Esposito 2001 ed Esposito 2010.

178 Per quanto riguarda l'imperativo con cui il fattore ingiunge alla schiava di alzarsi la forma attica

ἀνάστηθι (cfr. Mim. I 43 ἀναστήσηι e Mim. VI 2 ἀνασταθεῖσα) è impossibile metri causa; ci saremmo quindi potuti aspettare la forma omerica ἄνστηθι (cfr. ἀνστήσεις di Il. XXIV 561 e ἄνσταθι, ἄνστατε di Theocr. Id. XXIV 35. 50), ma l'esattezza di ἄστηθι con apocope nella preposizione sia di α sia di ν è confermata, oltre che dalla ripetizione al v. 6 e probabilmente al v. 14, anche da epigrafi di Epidauro (IV2, I, 121.112 ἀστάς e 122, 53 ἀστάσας) e dal dialetto eolico (ἀστ. = ὀστ.: cfr. Hesych. ο 1450 Latte

incipitale seguito da un vocativo179, e poi ripetuta ai vv. 6 (ἄστη]θ̣ι, φημί) e 13s. (δειλή, ἄστηθι), ricalca il modulo omerico delle sveglie e delle rampogne militaresche, in cui un personaggio che sta indugiando nel sonno viene esortato all'azione180; in questo caso, però, non incombe di certo una pericolosa battaglia, né siamo alle prese con eroici combattenti, bensì con un umile fattore intento semplicemente a rimbrottare le sue schiave fannullone: la pomposa formula omerica, decontestualizzata, risulta quindi parodisticamente distorta e al contempo ciò viene individuato dal colto lettore come uno degli espedienti prediletti dall'autore181.

Un effetto analogo deriva dalle parole che il fattore pronuncia immediatamente dopo: l'espressione μέχρι τέο κείσηι ricalca l'esordio del fr. 1 W.2 del poeta elegiaco Callino (μέχρις τέο κατάκεισθε;182); il nesso τέο μέχρις, di matrice omerica e di impiego generalmente epico183, è seguito da qualcosa che sovverte le aspettative del fruitore, ossia un inatteso, banale e prosaico ῥέγχουσα184, posto in rilievo tramite enjambement.

179 Come avviene frequentemente nella commedia con il vocativo παῖ, qui viene posto davanti al nome

l'appellativo δούλη: cfr. Aristoph. Plut. 624 παῖ Καρίων; Pax 255 παῖ, παῖ Κυδοιμέ; Euaggelos Com. I 8 παῖ Δρόμον; Men. frr. 107, 292 ὦ παῖ Σωσία. Per il nome della serva si rimanda a p. 53 n. 137.

180 Cfr. Il. III 250 ὄρσεο Λαομεδοντιάδη, X 159 ἔγρεο Τυδέος υἱέ· τί πάννυχον ὕπνον ἀωτεῖς; XVI 126,

XVIII 170 ὄρσεο, Πελεΐδη, πάντων ἐκπαγλότατ' ἀνδρῶν∙/ ...ἀλλ' ἄνα, μηδ' ἔτι κεῖσο; Od. VI 255 ὄρσεο νῦν, ὦ ξεῖνε, XV 46 ἔγρεο, Νεστορίδη Πεισίστρατε·, XXIII 5 ἔγρεο, Πηνελόπεια, φίλον τέκος. Il motivo della sveglia è ripreso, seppur in circostanze differenti, anche da Theocr. Id. XXIV 35-36 Ἄνσταθ', Ἀμφιτρύων∙ ἐμὲ γὰρ δέος ἴσχει ὀκνηρόν∙/ἄνστα, μηδὲ πόδεσσι τεοῖς ὑπὸ σάνδαλα θείης. Convinto che Eroda non sia estraneo al mondo culturale della Roma del I sec. d.C. (cfr. in merito Plin. Ep. IV 3-4), Marcantoni 1938, 152 ha notato alcuni punti di contatto (in verità alquanto labili e inconsistenti) tra il Sogno di Eroda e la terza satira di Persio: ha accostato siccas insana canicula messes / iam dudum coquit (vv. 5-6) a τὴν δὲ χοῖρον αὐονὴ δρύπτει (v. 2), findor ut Arcadie pecuaria rudere credas (v. 9) a τ̣ό̣ν̣θρυζε καὶ κνῶ (v. 8), nempe haec adsidue!.../.../stertimus (vv. 1-3) a μέχρι τέο κείσηι/ ῥέγχουσα; (vv. 1-2). Questi ultimi due passi presentano il motivo comune della sveglia, che il poeta latino avrebbe potuto trarre dal mimo di Eroda per dare un avvio vivace alla propria satira.

181 Cfr. Bernao Fariñas 2011, 32, il quale sostiene che dai numerosi esempi di procedimenti linguistici

tipici del mimiambo, concentrati nei versi iniziali, sia possibile dedurre che l'autore si sia sforzato di aprire uno scorcio in cui si concentrino le peculiarità che contraddistinguono il genere mimico. Anche nella sezione contenente il racconto del sogno abbondano gli ionismi e i termini aulici e rari, tuttavia, data l'importanza letteraria di questo passaggio, «el autor abandona los procedimientos normales de los que se sirve para provocar la risa (términos vulgares, juegos de palabras consistentes en la yuxtaposición de expresiones cultas y vulgares), de la misma manera que abandona el plano de lo real para penetrar en un mundo simbólico donde nada tiene un sentido unívoco» (Bernao Fariñas 2011, 36).

182 Anche Erodoto (VII 140,1) e Senofonte (An. III 1,13) si erano rifatti all'attacco della medesima elegia

di Callino ripresa da Eroda; essa è considerata un esempio di ψόγος conviviale, infatti κατακεῖσθαι è un verbo tecnico simposiale che in prima istanza significa «starsene distesi a bere durante un banchetto», mentre Eroda utilizza il verbo nel senso traslato di «starsene oziosi».

183 Cfr. Il. XXIV 128, ma anche Callim. fr. 203,19 Pf., Nonn. Dion. II 259, X 897, XI 331, XXIII 165,

XXXI 136, XXXV 283, Triphiod. 491.

184 Si tratta di una forma ionica, utilizzata al posto della più comune forma attica ῥέγκω, per la quale cfr.

Aristoph. Nub. 5 οἱ δὲ οἰκέται ῥέγκουσιν. Degani 1983, 9 sottolinea il parere concorde degli antichi retori sul ruolo essenziale dell'ἀπροσδόκητον quale mezzo per suscitare il riso (cfr. Aristot. Rhet. 1412b 7s.; Demetr. De eloc. 152; Tract. Coisl. p. 51 Kaibel = p. 65 Koster; Hermog. Meth. p. 451,10 ss. Rabe;

Non bisogna fare altro che proseguire nella lettura per trovare subito un'altra espressione interessante, trapuntata di vocaboli ricercati, di stampo elevato: τὴν δὲ χοῖρον αὐονὴ δρύπτει (v. 2). Qui e al v. 7 il termine χοῖρος è impiegato al genere femminile, tradendo la presenza di quel color hipponacteus che Eroda mostra di prediligere in vari punti della sua opera185. L'aggettivo che qualifica la scrofa, αὐονὴ, è in stridente contrasto coi contenuti di umile natura che descrive, poiché è una voce rara, attestata prima di Eroda soltanto in Archiloco (fr. 230 W.2=fr. 51 Tard.), Semonide (fr. 7,20 W.2) ed Eschilo (Eum. 333. 345). Quanto al verbo δρύπτω, usato in riferimento alla scrofa che soffre per la sete, una riflessione degna di nota è stata avanzata da Camillo Neri, il quale lo riconduce a contesti drammatici, sottolineando come i termini derivati dalla radice *druph- siano «legati a una lunghissima tradizione di γόοι femminili, in cui orfane, vedove, sorelle e madri rimaste prive dei loro cari si lacerano guance, capo e petto, si strappano capelli e vesti, e ripetono il planctus rituale in segno di lutto»186; associare ciò ai lamenti di una scrofa assetata produce una reazione comica suscitata dall'accostamento grottesco di immagini appartenenti a contesti d'origine opposti. Quella che al v. 3 parrebbe a prima vista un'altisonante indicazione temporale tipica dell'epica (cfr. ad esempio Il. XIX 308 δύντα δ' ἐς ἠέλιον μενέω) si rivela, ancora una volta, una contraffazione burlesca di noti stilemi omerici: il fattore, rivolgendosi alla serva dormigliona, le chiede in termini scurrili se abbia intenzione di aspettare un tramonto del sole affatto convenzionale per alzarsi187; τὸ]ν̣ κ̣ῦσον, volgarismo della lingua parlata188, è incastonato in posizione di rilievo, in enjambement, all'interno della

Schol. Aristoph. Pac. 898; Cic. De orat. 63, 255 notissimum ridiculi genus, cum aliud expectamus,