1.3 Eroda mette in scena Eroda
1.3.5 Il giambografo dietro Eroda
Avendo riscontrato nelle parole del fattore, dietro cui abbiamo detto nascondersi l'autore dei Mimiambi, un uso particolarmente intensivo dell'allusione e della parodia della tradizione aulica, unitamente ad alcuni tratti rimandanti a Ipponatte, è utile ricordare come parodia e, in particolare, detorsio Homeri abbiano avuto un ruolo tutt'altro che trascurabile anche nell'opera del giambografo di Efeso. Dal momento che quest'ultimo è individuato esplicitamente da Eroda come modello letterario, non escludo la possibilità che il mimiambografo, nel mettere in scena la propria figura autoriale, abbia voluto caratterizzarla attribuendole i medesimi espedienti linguistici cari al proprio modello. Anche se sarà oggetto di un'indagine più dettagliata nel capitolo sulla componente coliambica della poetica di Eroda, ritengo necessario accennare già ora alla fortuna di Ipponatte in epoca ellenistica, che ‒ come ha dimostrato Enzo Degani ‒ risulta facilmente comprensibile alla luce della vera natura della poesia ipponattea: «tutt'altro che volgare e grossolana, essa costituisce un felice e raffinato esempio di
Unterhaltungsliteratur, a sfondo essenzialmente parodico, letterariamente divertita e
consapevole»211. È possibile che il colto pubblico di Eroda, cui non doveva essere estraneo l'eco dell'atteggiamento entusiasta di poeti ed eruditi alessandrini nei confronti del giambografo di Efeso, avesse una qualche familiarità anche con la fama di εὑρετὴς τῆς παρῳδίας che Polemone di Ilio (220-160 a.C.), studiando nel Πρòς Τίμαιον l'origine della commedia e della parodia (frr. 39-46 Preller), attribuisce a Ipponatte212; l'erudito periegeta giustifica in questo modo la propria asserzione213:
211 Degani 1973, 100; vd. pp. 88-104 per una panoramica sulla fortuna di Ipponatte in epoca ellenistica.
Per quanto riguarda l'ormai superata etichetta di 'poeta plebeo e pitocco' attribuita ad Ipponatte, Degani 2002, 12 scrive: «l'elemento 'popolare' e farsesco, i contenuti volgari e spesso oltremodo osceni, rielaborati peraltro con intenti parodico-letterari, sono strettamente connessi al genere, che imponeva norme e ruoli ben determinati, non escluso quello del miserabile intirizzito e morto di fame».
212 Aristotele in Poet. 1448a 12-13 definisce Egemone di Taso ὁ τὰς παρῳδίας ποιήσας πρῶτος («colui
Λέγει γὰρ οὗτος ἐν ταῖς ἑξαμέτροις· Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεω τὴν ποντοχάρυβδιν τὴν ἐγγαστριμάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον, ἔννεφ’ ὅπως ψηφῖδι <κακῇ> κακὸν οἶτον ὄληται, βουλῇ δημοσίῃ παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.214 1 Εὐρυμεδοντιάδεω Wilamowitz : -δοντιάδεα A : -δοντία δῖα CE 2 ἐγγαστριμάχαιραν AC :
ἐν γαστρὶ μάχαιραν West 3 <κακῇ> Murus : <κακòς> Cobet : ὄληται codd. : ὀλεῖται Cobet
Leggendo questi esametri, che verosimilmente costituiscono l'esordio di un componimento, balza subito all'occhio, nell'invocazione incipitaria alla Musa, la
contaminazione215 del celeberrimo esordio dell'Iliade (vv. 1s. Μῆνιν ἄειδε θεὰ Π η λ η ϊ ά δ ε ω Ἀχιλῆος / οὐλομένην, ἣ μυρί’ Ἀχαιοῖς ἄλγε’ ἔθηκε), a cui si può
ricondurre l'uso del pomposo patronimico Εὐρυμενδοντιάδης216, con quello dell'Odissea (vv. 1s. Ἄνδρα μοι ἔ ν ν ε π ε, Μ ο ῦ σ α, πολύτροπον, ὃ ς μάλα πολλὰ / πλάγχθη), da cui sono ripresi il vocativo Μοῦσα e il verboἔννεπε, che però Ipponatte mette in rilievo con un forte iperbato. Metro, lingua e stile sembrerebbero proprio quelli di Omero ‒ ed
assume indipendenza di genere e dignità agonale» (Magnani 2014, 368): cfr. Athen. 15, 699a: τούτων δὲ πρῶτος εἰσῆλθεν εἰς τοὺς ἀγῶνας τοὺς θυμελικοὺς Ἡγήμων καὶ παρ' Ἀθηναίοις ἐνίκησεν ἄλλαις τε παρῳδίαις καὶ τῇ Γιγαντομαχίᾳ. Nonostante ciò, come sottolinea Degani 2002, 188, non c'è contraddizione con quanto riportato da Polemone: Ipponatte è il πρῶτος εὑρετὴς della parodia in quanto forma letteraria (nei suoi frammenti troviamo il primo esempio sistematico di detorsio Homeri), mentre Egemone è l'iniziatore della parodia in quanto genere letterario. Egemone, originario di Taso, si è trasferito ad Atene durante il primo periodo della guerra del Peloponneso; le fonti ci riferiscono infatti che è stato contemporaneo di Cratino (Polem. ap. Athen. 15,698c) e di Alcibiade (Chamael. 44 W.) e recitò la sua opera principale, intitolata Gigantomachia (per noi perduta), negli anni della disfatta siciliana. Il fr. 1 Br. è costituito da 21 esametri parodici in cui lo stesso Egemone parla in maniera scherzosa del modesto successo che riscontrò ad Atene agli inizi della sua carriera, della povertà e della fame patite (da cui il soprannome Φακῆ, «Lenticchia») e, infine, dell'intervento della dea Atena che, in una sorta di buffonesca investitura parodica, lo tocca con una ῥάβδος d'oro e gli indica nuovamente la via degli agoni (vv. 18-21). Per un'analisi più approfondita rimando a Magnani 2014.
213 Polem. Fr. 45 Preller apud Athen. 15, 698b.
214 Hippon. fr. 126 Degani = fr. 128 West. Trad.: «O Musa, il vortice marino dell’Eurimedontiade, / il
coltellaccio in pancia, – che non mangia certo con la debita etichetta – / narrami, ché con voto <negativo>dinegativo fatoegli perisca/perdeliberazione popolare,lungolariva del mare infecondo».
215 Cfr. Kleinknecht 1937, 113.
216 A livello morfologico si tratta di un composto formato dall'unione del nome proprio Εὐρυμέδων con il
suffisso -ιδ- tipico dei patronimici, qui non a caso ampliato in -ιαδ-, come nell'omerico Πηληϊάδης. Il nome Εὐρυμέδων ricorre più volte nei poemi omerici: nell'Iliade si chiamano così lo scudiero di Agamennone (Il. IV 228) e lo scudiero di Nestore (Il. VIII 114 e XI 620), mentre nell'Odissea Εὐρυμέδων è il re dei giganti, padre di Peribea, nonna di Alcinoo (Od. VII 58). Degani 2002, 191-195 sostiene che, con la correzione di Wilamowitz, il solenne patronimico Εὐρυμεδοντιάδεω, rifatto sull'iliadico Πηληϊάδεω, riacquisti la sua autentica connotazione parodica. È probabile che dietro l'Eurimedontiade si celi un nemico del poeta, ma non ci sono solidi appigli per avanzare proposte concrete (il ten Brick pensava a Bupalo). L'intento dissacrante nascosto dietro la finta solennità di questa invocazione è suggerito anche dall'iperbato del verbo principale (v. 3).
è così che Ipponatte mette in azione il suo gioco parodico ‒ ma poi le aspettative del lettore vengono intenzionalmente tradite attraverso il rovesciamento e la deformazione, a fini comico-parodici, del modello epico e dei valori ad esso associati217; ciò è ottenuto inizialmente mediante la richiesta alla Musa di narrare non la tremenda ira di Achille né il travagliato nostos di Odisseo, ma le 'virtù' del figlio di Eurimedonte, figura antitetica rispetto al tradizionale eroe epico: gli eccessi nel bere e nel mangiare sono rispettivamente rappresentati dagli altisonanti composti ποντοχάρυβδις e ἐγγαστριμάχαιρα. Il primo, il «vortice marino», è un hapax formato dall'unione di πόντος, voce aulica per indicare la distesa del mare, e Χάρυβδις, il mostro di omerica memoria che risucchiava le navi che passavano nello stretto di Messina218. Anche col secondo composto, il «coltello-in-pancia»219, Ipponatte fa sfoggio della sua inventiva linguistica e sfrutta ingegnosamente l'ambiguità semantica del termine μάχαιρα, che vede il proprio significato oscillare tra l'accezione militare e quella culinaria: essa indica la «spada» che gli eroi omerici tenevano in mano o il «coltellacio» che portavano appeso alla cintura220, ma può essere usato anche per il tipico attributo del μάγειρος, il «coltello da cucina»221. Anche la litote formulare οὐ κατὰ κόσμον è ripresa da Omero222 ed qui è usata per evidenziare in maniera ironica l'assoluta mancanza di decoro e convenienza con cui mangia questo insaziabile personaggio che, avendo un coltellaccio
217 Faraone 2004 è in completo disaccordo con l'interpretazione tradizionale del frammento come esempio
di parodia epica elaborata da Ipponatte per sminuire le grandi pretese del suo nemico, colpendone i vizi. Egli sostiene invece che il frammento rifletta lingua, metro e obiettivi di canti esametrici o incantesimi che servivano per espellere dalla città i dannosi demoni della carestia o i capri espiatori umani.
218 Cfr. le clausole omeriche: Il. I 439 ποντοπόροιο, II 771 ποντοπόροισι, III 283 ποντοπόροισιν. Degani
2002, 193 ritiene che il composto non sia una «tautologia priva di significato», ma che Ipponatte abbia voluto dare all'aulico ποντο- un valore espressivo, che ribadisce la nozione evocata da -χάρυβδιν (di omerica memoria: cfr. Od. XII 104-114), arricchendola e distorcendola con effetto parodico. Il nuovo composto ipponatteo anticipa formazioni comiche come γαστροχάρυβδις, «panciacariddi», di Cratino (fr. 428 K.-A.), ἐγχαρυβδίσαι, «cariddizzare», ossia «trangugiare», di Ferecrate (fr. 101 K.-A.) e μεθυσοχάρυβδις (adesp. 1077 K. ex Phryn. PS p. 88,14 de B. μεθυσοχάρυβδις: ἐπὶ γυναικὸς μεθύσου, οὐκ ἐπ' ἄρρενος.). Cfr. Aristoph. Eq. 248, in cui Cleone è chiamato φάραγγα καὶ Χάρυβδιν ἁρπαγῆς.
219 Cfr. Hesych. ε 122 L. ἐγγαστριμάχαιραν· τὴν ἐν τῇ γαστρὶ κατατέμνουσαν e formazioni
strutturalmente affini come ἐγγαστρίμαντις (Poll. 2,168, Suda ε 45 Adler) e ἐγγαστρίμυθος (Hippocr. Epid. 5,63, Luc. Lex. 20). La maggior parte degli studiosi considera il composto un equivalente di ἔχων ἐν γαστρὶ μάχαιραν (adducendo come parallelo Hymn. Ap. 535 ἔχων ἐν χειρì μάχαιραν), ma Degani 2002, 194-196, su cui mi sono basata per la traduzione del frammento, ritiene che il valore del composto in questione sia interamente incentrato su μάχαιρα e indichi, quindi, un certo tipo di μάχαιρα (una μάχαιρα ἐν τῇ γαστρὶ) come Esichio puntualmente conferma.
220 Cfr. Il. III 271, XVIII 597, XIX 252 e Hymn. Ap. 535.
221 Cfr. Eur. Cycl. 242, in cui il Ciclope-μάγειρος chiede a Sileno di andare ad affilare κοπίδας μαχαίρας
(«coltellacci taglienti») per andare a sezionare le carni degli stranieri.
222 Cfr. Il. II 214, V 759, VIII 12, XVII 205, Od. III 138, VIII 179, XIV 363, XX 181, Hymn. Merc. 255.
In un epigramma (AP IX 367) Luciano inserisce la stessa formula nel ritratto di un altro ghiottone: γαστρὶ χαριζόμενος πᾶσαν χάριν οὐ κατὰ κόσμον (v.9).
nella pancia, non ha neppure bisogno di tagliare il cibo prima di ingoiarlo. mmmmmmm Attraverso il rovesciamento parodico attuato da Ipponatte, al codice semiotico proprio dell'eroismo omerico, in cui cibo e bevande costituiscono un mezzo per combattere con più forza contro i nemici223, si sostituisce il codice altro del figlio di Eurimedonte, per il quale il cibo rappresenta il fine ultimo.
La detorsio del modello omerico, messa al servizio della ἰαμβικὴ ἰδέα, termina con l'auspicio di un sorte spietata e terribile per il 'prode' Eurimedontiade: Ipponatte invoca la Musa non per procurare l'immortalità all'eroe cantandone le imprese, ma per infangarne la memoria, facendolo condannare a una cattiva morte224 su giudizio popolare: che sia espulso dalla città, allontanato dalla comunità come un φαρμακός, un capro espiatorio225! Augusto Guida è convinto che non sia stata colta in tutta la sua pienezza la portata della clausola formulare finale παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο226, indicante il luogo deputato alla punizione del φαρμακός; infatti essa non esaurisce la sua funzione in un richiamo del solenne tono epico, ma è sapientemente costruita, in sintonia con le altre riprese omeriche intrecciate e deformate in questi versi, per provocare un effetto inatteso derivato dalla morte del ghiottone, adeguata per contrappasso al suo vizio: egli morirà lungo la riva di un mare ἀτρυγέτοιο, così chiamato, secondo i commentatori antichi, perché non produce alcun frutto227.
Comparando questi versi con quelli che nel Mim. VIII Eroda ha posto sulle labbra del fattore, è evidente che il mimiambografo non voglia attuare una superficiale imitazione di Ipponatte, limitandosi a sporadiche riprese linguistiche o a una pedissequa imitatio indiscriminata; al contrario, dietro alla volontà di riallacciarsi alla tradizione ipponattea, c'è in Eroda una profonda conoscenza di lingua, stile e intenzioni del proprio modello, che egli sfrutta con intelligenza e sensibilità. Un esempio è proprio la ripresa parodica
223 Cfr. Il. XIX 160-163, in cui Odisseo, in risposta ad Achille che vuole fare ritorno immediato sul
campo di battaglia, ribatte che cibo e bevande sono fonte di forze e che un uomo non può combattere per tutto il giorno se prima non ha mangiato.
224 L’espressione κακὸν οἶτον (v. 3) è frequente in Omero: cfr. Il. III 417 (dove ricorre con ὄληαι), VIII
34, 354, 456 (con ὄλωνται); Od. I 350, III 134, XIII 384.
225 Per ulteriori riferimenti al rito dell'espulsione del φαρμακός cfr. Hippon. frr. 5-10 West, Aristoph. Eq.
1405 e Ran. 733.
226 Cfr. Il. I 316 e 327, Od. X 179, Hymn. Dion. 2.
227 Guida 1994, 23-24. Cfr. Apoll. Soph. Lex. Hom. 46, 20-21 Bekker; schol. AbT in Hom. O 27; schol.
AabT in Hom. P 425b; schol. D in Il. I 316; schol. SE in Od. II 70; Hesych. α 8165 e 8167 Latte; Eust.
in Il. I 315, p. 108, 46 e Il. XV 27, p. 1003, 58-61. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étimologique de la langue grecque, 1, Paris 1968 s. v. ἀτρύγετος, p. 135: la spiegazione dell'aggettivo come «infecondo», «sterile» è quella maggiormente attestata.
della tradizione epica con cui il poeta ha caratterizzato la lingua del fattore, concentrando così nella rappresentazione della propria figura autoriale uno degli espedienti letterari prediletti del suo modello, di cui oltretutto era considerato inventore. Il celebre fr. 42 Degani = fr. 32 West offre un'ulteriore dimostrazione dei raffinati procedimenti parodici di Ipponatte, che anche questa volta troviamo espletati in un esempio di Gebetsparodie228, che ha dato adito a molti fraintendimenti; ecco il testo:
a Ἑρμῆ, φίλ’ Ἑρμῆ, Μαιαδεῦ, Κυλλήνιε, ἐπεύχομαί τοι, κάρτα γὰρ κακῶς ῥιγῶ καὶ βαμβαλύζω ... b δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.229
I moduli tipici della struttura cletica sembrano inizialmente rispettati: troviamo il rituale raddoppiamento del nome del dio Ermes (cfr. Il. V 31, Archil. fr. 177,1 W.), l'attributo indicante l'ascendenza (cfr. Od. VIII 335, XIV 435), il consueto epiteto «Cillenio» (cfr.
Od. XXIV 1; Hymn. Merc. 304, 318, 387, 408) e il verbo di caratura epico-tragica
ἐπεύχομαι, che ha numerose occorrenze nei poemi omerici e ricorre in Batrach. 2 con evidente impiego parodico. Tuttavia fin dal primo verso, attraverso l'impiego della confidenziale apostrofe φίλ’ Ἑρμῆ230, poco appropriata in un contesto solenne, e soprattutto del matronimico 'animalesco' Μαιαδεύς («pulcino di Maia», al posto del consueto Μαιάδης è utilizzato il suffisso -ιδευς, tipico dei nomina pullorum231), ci rendiamo conto che tali premesse fanno sospettare una svolta burlesca e paradossale. Quest'ultima non tarda ad arrivare: Ipponatte, perfettamente calato nel ruolo giambico
228 Per un approfondimento sull'argomento rimando a Kleinknecht 1937.
229 Trad.: «Ermes, caro Ermes, cucciolotto di Maia, Cillenio, / io ti invoco, infatti ho un grande, atroce
freddo / e batto i denti … / dà un mantello a Ipponatte, e una tunicuccia / e sandalucci e babbuccine, e d’oro puro / un sessanta stateri metti dall’altra parte».
230 Anche Aristofane sfrutterà ne sfrutterà la comicità riprendendolo in Nub. 1478, Pax 416 e 718; cfr.
anche Phryn. com. fr. 61,1 K.-A., Luc. Char. 1, Hymn. Merc. 477.
231 Cfr. Degani 2002, 189-191. Il Nauck afferma che il suffisso -ιδευς ricorre «proprie et si accurate
aestimaris unice in pullorum nominibus» (Aristoph. Byz. p. 114), di cui bisogna tenere conto ‒ sostiene Degani ‒ se si vuole cogliere nella sua pienezza il valore vezzeggiativo di Ἐρωτιδεύς in Anacreont. 25,13 Bergk (Ἐρωτιδεῖς δὲ μικροὺς / οἱ μείζονες τρέφουσιν), in cui gli amorini sono visti come una nidiata di νεοσσοί, pulcini (cfr. vv. 11-12 βοὴ δὲ γίνετ' αἰεὶ / κεχηνότων νεοσσῶν); oppure per afferrare il senso υἱιδεύς in Isocr. Epist. 8,1 Hercher (οἱ παῖδες οἱ Ἀφαρέως, υἱιδεῖς δ' ἐμοί) e quello ironico di Χαιριδῆς βομβαύλιοι in Aristoph. Ach. 866.
del miserabile accattone, chiama in soccorso il dio Ermes perché sta patendo un freddo tremendo (al v. a2 κάρτα γὰρ κακῶς ῥιγῶ si noti l'effetto cacofonico prodotto dall'allitterazione asindetica di κα-, evidenziata da quella di -ρ-), sottolineato dal battere dei denti, espresso con il verbo onomatopeico βαμβαλύζω; con tono beffardo avanza poi delle richieste ‒ abiti raffinati, calzature di lusso e sessanta stateri d'oro ‒ che spesso hanno generato sconcerto negli studiosi a causa del loro carattere paradossale.
Molto interessante è la presenza, in questo elenco, di tre vocaboli che ricorrono anche nei Mimiambi. Lamberto Di Gregorio ritiene che Eroda abbia attinto proprio da questo frammento di Ipponatte lo spunto per la descrizione fatta ai vv. 21b-23 del Mim. II dal lenone Battaro, in cui quest'ultimo rimarca, con pari esagerazione, sfrontatezza ed ironia, la differenza di condizioni economiche tra il ricco mercante Talete, che sfoggia un mantello (χλαῖναν) da tre mine, e se stesso, costretto ad andare in giro trascinando (ἕλκων232) un mantello consumato (τρίβωνα) e logore babbucce foderate (ἀσκέρας σαπράς). Inoltre, il diminutivo σαμβαλίσκα (v. 5) è costruito come κανναβίσκα (Mim. VII 58), una delle calzature presenti nel catalogo di scarpe stilato dal calzolaio Cerdone.
Questo era soltanto un assaggio, ma ‒ come vedremo in maniera più approfondita nel capitolo sulla componente coliambica che caratterizza i Mimiambi ‒ Eroda, forte di una profonda conoscenza del suo modello, utilizza in maniera originale spie linguistiche, stilemi e immagini ipponattee risemantizzandole sulle labbra dei suoi personaggi; per questo motivo le parole del fattore acquistano particolare pregnanza: da un lato esse sono in linea con quelle dei numerosi personaggi che animano i mimi di Eroda, dall'altro mostrano di aver colto linfa vitale dalla lezione della parola ipponattea.
Ciò costituisce un'ulteriore prova a testimonianza del fatto che Eroda abbia architettato abilmente la propria rappresentazione autoriale, caratterizzando la propria persona non solo con gli attributi e gli atteggiamenti comportamentali del suo modello poetico, ma anche con la sua lingua tagliente, la verve parodica e paradossale e il giambo scazonte.
232 Di Gregorio 1997, 135-136 rimanda a ἑλκετρίβων di Plat. com. fr. 132 K.-A., il quale è rifatto
parodisticamente sugli epiteti epici ἑλκεχίτων (cfr. Il. XIII 685) ed ἑλκεσίπεπλος (cfr. Il. VI 442, VII 297, XXII 105); Eroda forse riecheggia questo frammento di Platone comico, facendo dipendere anche l'accusativo τρίβωνα (termine che indica un mantelletto corto e miserabile) dal verbo ἕλκων, usato da Omero in riferimento a personaggi illustri che incedono in vesti lunghe e raffinate.