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Offrire qualità: le opportunità offerte dalla Via Francigena ad una destinazione vessata dal turismo di massa.

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Academic year: 2021

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U N I V E R S I T À D E G L I S T U D I D I P I S A

F O N D A Z I O N E C A M P U S

Corso di Laurea Magistrale in

Progettazione e Gestione dei Sistemi Turistici Mediterranei

TESI DI LAUREA

Offrire qualità: le opportunità offerte dalla Via Francigena ad una destinazione vessata dal turismo di massa

Relatore Chiar.ma Prof.ssa MARTHA MARY FRIEL

Candidato

GRETA GUERCINI

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A Babbo Gino e Mamma Tina, per avermi permesso di essere ciò che sono oggi

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2 Indice

Indice ... 2

Introduzione ... 4

Capitolo 1: Il turismo lento come forma di turismo sostenibile... 10

1.1 Sostenibilità: le tappe storiche fondamentali ... 10

1.2 Sostenibilità e sviluppo turistico ... 13

1.3 Le difficoltà di implementazione di uno sviluppo turistico sostenibile ... 16

1.4 Ruolo del turismo nella prospettiva di sviluppo sostenibile ... 24

1.5 Le origini del fenomeno slow: un nuovo modello culturale ... 29

1.6 Il turismo lento e il suo contributo allo sviluppo turistico sostenibile ... 33

Capitolo 2: La valorizzazione gli itinerari culturali e di pellegrinaggio come itinerari di turismo lento ... 42

2.1 Pellegrinaggio: prima forma di turismo? ... 42

2.2 Il turismo religioso ... 45

2.3 La valorizzazione degli itinerari culturali e di pellegrinaggio nella cornice del turismo lento ... 49

2.4 Gli Itinerari Culturali del Consiglio d’Europa ... 52

2.4.1 Finanziamento degli Itinerari del CoE e politiche per la qualità... 60

2.5 Itinerari culturali: casi studio ... 63

2.5.1 I Cammini di Santiago di Compostela ... 64

2.5.2 La Via per Gerusalemme ... 68

2.5.3 Itinerario di San Martino di Tours ... 71

2.5.4 Gli Itinerari del Patrimonio di Al-Andalus ... 74

Capitolo 3: Incamminarsi sugli itinerari culturali: il turista lento ... 78

Capitolo 4: La Via Francigena ... 97

4.1 La Via Francigena ieri e oggi ... 98

4.2 Le iniziative per l’implementazione e la valorizzazione dei percorsi della Via Francigena ... 105

4.2.1 Il quadro generale ... 105

4.2.1. A – Dai primi studi al percorso ufficiale: il ruolo di Itineraria ... 110

4.2.1 B – Il Progetto Interregionale Via Francigena ... 112

4.2.1. C – Il Progetto Per Viam, la rete universitaria e il CECTI ... 116

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4.2.2 Il quadro toscano ... 119

4.2.3 San Gimignano e la Via Francigena ... 127

Capitolo 5: La Via Francigena come laboratorio di turismo lento e sostenibile: le opportunità offerte alla destinazione San Gimignano ... 149

5.1 L’intervista agli esponenti del settore turistico sangimignanese ... 149

5.2 La Via Francigena: opportunità di sviluppo di turismo lento e sostenibile, i dati sul ritorno economico e qualche proposta operativa ... 158

Conclusioni... 189

Appendice 1: Il pellegrino medievale ... 199

Appendice 2: La Charta Peregrini (credenziale) ed il Testimonivm ... 212

Bibliografia ... 217

Sitografia ... 226

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4 Introduzione

Quando ho cominciato a pensare all’argomento della mia tesi di laurea, sapevo che di sicuro avrebbe riguardato il destination management ed il marketing di destinazione, e che quest’ultima sarebbe stata San Gimignano. Ho intrapreso il percorso presso il Campus Lucca, infatti, soprattutto perché alcune esperienze di lavoro nel settore turistico (presso l’Ufficio Informazioni e come receptionist in un hotel) ed il contatto con i disagi che ogni anno si ripropongono ai sangimignanesi, quando la presenza di visitatori si fa pressante, hanno sviluppato in me un interesse nei confronti del tema della gestione turistica dei territori: ho cominciato a chiedermi se necessariamente il rapporto fra turismo e destinazione debba essere così viziato, e – se no – se ci sia qualcosa che si può fare al riguardo o se non abbiamo altra scelta se non quella di ‘seguire il flusso’, prendendo il buono e il cattivo di quello che dà.

Mi sono accorta che la questione non si risolve con uno schiocco di dita, e che le cause della situazione turistica di San Gimignano sono molto complesse e talvolta da ricercarsi in un’attitudine alla gestione del settore che è un retaggio storico tipico italiano. Ho, allora, cominciato a cercare un taglio, un punto da cui cominciare, un’interpretazione e un esempio che mi aiutassero a dimostrare che:

 cambiare la situazione turistica di una destinazione è estremamente complicato e lungo, ma possibile;

 la chiave per farlo è la costruzione di un sistema di offerta turistica integrato, in cui gli attori pubblici e privati operano coerentemente e secondo un’ottica collaborativa e con l’obiettivo di migliorare continuamente la qualità e la sostenibilità dei prodotti e dei servizi, nonché la diffusione della cultura dell’ospitalità fra i residenti e gli operatori.

Un processo del genere implica la volontà di puntare su un tipo di turismo diverso da quello di massa e di scarsa qualità che costituisce la gran parte del flusso che approda oggi a San Gimignano. Non si vogliono certo minare principi democratici dicendo che la ‘selezione dei turisti’ la si fa permettendo

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l’accesso solo ad alcuni visitatori: il processo è esattamente quello contrario, ovvero quello per cui la città va resa appetibile ad un turismo qualitativamente migliore, dove migliore sta per interessato, culturalmente curioso, con un livello di istruzione ed una capacità di spesa medio-alti, ma, soprattutto, con la volontà di spendere (la famosa willingness to pay) in prodotti autentici, locali, di qualità, che rispecchino le eccellenze italiane e quelle locali, un turismo affascinato dal patrimonio materiale ed immateriale del territorio, e che non si ritiene soddisfatto da una breve visita per le vie del centro o dalla foto dello skyline turrita, o scattata dalla cima della Torre Grossa, un turismo, in poche parole, che valga la pena attrarre.

Ho cominciato ad interrogarmi su come identificare questo tipo di turismo. Più o meno nello stesso periodo, ed esattamente un anno fa, l’08 di agosto due persone a me molto vicine hanno cominciato il loro viaggio sulla Via Francigena, partendo da Lucca e giungendo a Roma il 23 agosto. I racconti di viaggio mi hanno fatto ricordare di quei famosi ‘pellegrini’ che puntualmente mi mettevano in difficoltà, quando lavoravo presso l’Ufficio Informazioni Turistiche, con le loro domande sui percorsi e sui sentieri e con le loro richieste di alloggio a prezzi modici in pieno agosto, tanto che di solito passavo la domanda alle colleghe più esperte e in grado di aiutarli. Ho constatato come questo tipo di turista sia bistrattato dall’opinione comune, perché visto come di passaggio, poco incline a spendere, e di contro molto esigente e spesso lamentoso. Nessuno si è mai posto il problema che probabilmente è la destinazione che non soddisfa a pieno le sue esigenze, e che tale situazione può migliorare se si crea attorno alla sua figura un buon sistema di offerta.

Sempre lo scorso anno, inoltre, un amico ha ottenuto il brevetto di guida ambientale, e grazie a lui e ai suoi colleghi ho riscoperto il sentierismo, il piacere di camminare, di farcela con le proprie gambe, di trascorrere una giornata in luoghi in cui il telefono non prende, di sentire la sana stanchezza fisica.

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E così, ho deciso che il tema sul quale avrei incanalato il mio ragionamento sulla destinazione San Gimignano sarebbe stato proprio la Via Francigena, come ‘pezzetto’ del lavoro che la città ha bisogno di fare per riqualificarsi turisticamente, e caso studio che può essere riprodotto su altre topologie di offerta. Reduce dei racconti di viaggio dei miei amici e dopo aver provato in prima persona il sentierismo, non mi tornava, infatti, che si riducesse l’immagine dei turisti-pellegrini a luoghi comuni come «spende poco», «è esigente», «si lamenta», e volevo scovare quello che c’è sotto, dimostrando che non si può pretendere un turismo meno superficiale, se i primi ad essere superficiali siamo noi nel gestire la destinazione.

Obiettivo dell’elaborato è, dunque, quello di dimostrare che la Via Francigena, come offerta di turismo lento, è un punto da cui partire e parte del lavoro da compiere per riqualificare turisticamente la città di San Gimignano, per invertire la rotta del turismo mordi e fuggi, in modo da migliorare la qualità di vita dei residenti e da improntare uno sviluppo turistico sostenibile per la destinazione stessa. Vengono, inoltre, presentati alcuni spunti per il miglioramento del tesissimo rapporto fra la destinazione e il target francigeno. Chi scrive è, infatti, estremamente convinto che il turismo lento sia un segmento fondamentale sul quale investire per avviare uno sviluppo turistico sostenibile e che renda giustizia ad una destinazione come San Gimignano. Sarebbe un peccato sprecare tale opportunità, offertaci dalla Francigena, a causa di un mancato approfondimento sui benefici che essa può portare alla destinazione. La mancanza di conoscenza, infatti, rende estremamente miopi.

Sono numerosissimi i progetti oggi implementati per dar spazio al turismo lento, e questa è già una buona dimostrazione del fatto che vale la pena quantomeno considerarlo nelle politiche di gestione turistica.

In mancanza degli opportuni strumenti di ricerca, ci si è appoggiati a scritti, analisi, pubblicazioni esistenti e a buone pratiche già documentate. Si è poi cercato di capire, attraverso l’analisi turistica e dell’offerta francigena sangimignanese, attraverso la prova dei percorsi ed i colloqui con gli

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esponenti del settore turistico locale, quali fossero i problemi della destinazione in oggetto con questo tipo di target.

Il primo capitolo offre una breve analisi delle tappe storiche dell’affermazione delle politiche per la sostenibilità e un approfondimento sullo sviluppo turistico sostenibile e delle problematiche che quest’ultimo porta con sé. Si argomenta, successivamente, il ruolo che il turismo dovrebbe avere all’interno dello sviluppo sostenibile, proponendone una duplice interpretazione. A questo proposito, si cita il turismo lento come forma di turismo fisiologicamente sostenibile, date le caratteristiche e le motivazioni che muovono tale tipo di segmento. Ci si concentra, poi, sul concetto di lentezza come filosofia di vita, nato con Slow Food e oggi declinato in ogni aspetto del vivere umano. Infine, si espone quale secondo il nostro parere debba e/o possa essere il ruolo e il contributo del turismo lento allo sviluppo sostenibile del settore.

Entrando nello specifico di uno dei prodotti turistici lenti per eccellenza, il secondo capitolo analizza l’itinerario culturale come nuova forma di offerta turistica integrata e composita, e che oggi sta registrando un forte successo. Il capitolo si apre con qualche cenno storico sul pellegrinaggio, dato che molti di questi itinerari nascono sulle orme dei pellegrini dell’antichità, per poi passare a quella che è considerata la naturale evoluzione del fenomeno sopracitato, ovvero il turismo religioso, sul quale incide oggi una commistione di motivazioni, che annacquano quella puramente spirituale anticamente legata al pellegrinaggio. A questo proposito, alcuni itinerari culturali (i cosiddetti lineari, in contrapposizione a quelli a rete) riprendono alcune antiche vie di comunicazione (e di pellegrinaggio), rivalorizzandole attraverso il filo conduttore del patrimonio europeo comune e condiviso e come potente strumento di diffusione del turismo della lentezza. Sempre nel secondo capitolo, si presenta il programma comunitario Itinerari Culturali del Consiglio d’Europa, attraverso il quale l’Unione appoggia i progetti di sviluppo di tale tipo di prodotto. Il capitolo si conclude con l’analisi di alcuni casi studio, alcuni dei quali appartenenti al Programma appena citato: il Cammino di Santiago, la proposta di The Ways of Jerusalem, l’Itinerario di San Martino di Tours, gli

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Itinerari del Patrimonio di Al Andalus. Tali casi studio dimostrano, ognuno secondo un’interpretazione diversa, la bontà degli investimenti nell’offerta relativa agli itinerari, e offrono buone pratiche per la loro implementazione.

Il terzo capitolo è dedicato alla figura del turista pellegrino. Il primo dato che si registra a tal riguardo è la quasi totale mancanza di indagini ad hoc. Nel presente elaborato, si prenderà come riferimento principale uno studio del TCI sull’utenza della Via Francigena italiana, insieme ad altre informazioni reperite da fonti disparate. Successivamente, si accosterà il tipo di turista legato all’itinerario culturale ad alcune macro categorizzazioni maggiori, che si intersecano a definire il segmento specifico. Esse sono essenzialmente il turismo culturale e quello lento, cui si aggiunge quello religioso.

Il quarto e il quinto capitolo rappresentano il cuore di tutto l’elaborato. In particolare, il primo è dedicato alla Via Francigena, alla sua storia, al ruolo che essa ha avuto nel determinare quello che San Gimignano è oggi, nonché alla sua riscoperta in tempi recenti. Saranno illustrate le iniziative per l’implementazione e la valorizzazione dei relativi percorsi ai vari livelli amministrativi, concentrandosi in particolare sui passi compiuti per definire il percorso ufficiale, sulla proposta per la Via Francigena del Sud e sul Progetto Per Viam – Pilgrims’ Routes in Action. Successivamente, ci si concentrerà su San Gimignano, presentandone una breve analisi turistica generale, per poi passare ad indagare il rapporto che intercorre fra la città e la Via Francigena, a farne emergere le lacune e i punti di forza, e presentare ciò che è stato già fatto per l’implementazione del relativo sistema di offerta.

Il quinto capitolo si apre con l’intervista agli esponenti del settore turistico sangimignanese, chiamati ad esprimere il loro parere sulla situazione turistica locale prima, e sul ruolo della Via Francigena nell’implementazione di uno sviluppo turistico sostenibile poi. Verranno successivamente presentati dati riguardanti il ritorno economico stimato per lo sviluppo dell’offerta relativa, e si cercherà di argomentare quali possono essere i benefici che quest’ultima può apportare alla città di San Gimignano, fermo

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restando che si lavori compatti su progetti di qualità, con l’obiettivo di migliorare sia l’esperienza di visita dell’utente francigeno, sia la qualità di vita dei residenti. In particolare, si ricercheranno le motivazioni che spingono gli operatori locali a non credere nelle potenzialità legate al turismo della Francigena, e si avanzerà qualche proposta operativa atta a sciogliere almeno qualche nodo e a colmare qualche lacuna.

Ci affascina, peraltro, pensare che la stessa Francigena, sulla quale San Gimignano ha fatto il proprio successo in tempi remoti, possa oggi costituire occasione di rinascita turistico-economica per la città.

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Capitolo 1: Il turismo lento come forma di turismo sostenibile 1.1 Sostenibilità: le tappe storiche fondamentali

La più comune definizione di sviluppo sostenibile oggi conosciuta è quella fornita dal Brundtland Report delle Nazioni Unite (1987), altrimenti noto come Our Common Future, e redatto dalla Commissione Mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED, presieduta dal Primo Ministro norvegese Gro Harem Brundtland). Secondo la Commissione (1987, p. 16), è sostenibile lo sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie. Il rapporto introduce un nuovo paradigma, imperniato su una vision sistemica, integrata e globale dell’utilizzo delle risorse (Nuzzo 2008, pp. 64, 65), per cui per la prima volta vengono considerati i limiti sociali ed ambientali imposti alla crescita, non solo in ottica di breve termine, ma anche per il futuro. Si afferma che le dimensioni economica, sociale ed ambientale devono concorrere in strategie di sviluppo integrate, non più improntate alla mera crescita economica. Tutela ambientale e socio-culturale non appaiono più, dunque, come limitazioni, quanto piuttosto come condizioni necessarie di sviluppo.

Prima del Rapporto Brundtland, la sensibilità nei confronti del tema dello sviluppo sostenibile era emersa già a partire dagli anni Settanta, in prima istanza nelle vesti di uno spiccato ambientalismo, per cui si era fatta strada la convinzione che politiche di governo rispettose delle risorse ambientali e naturali potessero produrre positivi mutamenti societari (Cassar e Creaco, 2016, p.96).

Nel 1972 aveva avuto luogo a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano, che aveva prodotto la Dichiarazione di Stoccolma, nella quale si afferma che lo sviluppo umano non può prescindere da istanze di tipo non solo economico, ma anche sociale e ambientale. L’umanità ha il dovere di intraprendere percorsi di sviluppo che tutelino la libertà, l’equità e l’uguaglianza, il benessere e le diversità sociali, la

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conservazione delle risorse, la protezione dell’ambiente, la cooperazione internazionale, nonché lo sviluppo economico e sociale.

In seno alla Conferenza era nato l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (sede: Nairobi, Kenya), con il ruolo di coordinare le azioni dell’ONU a favore della protezione ambientale e dell’utilizzo sostenibile delle risorse naturali.

A seguito del Rapporto Brundtland del 1987, il tema della sostenibilità viene ripreso a gran voce al cosiddetto Summit della Terra (Conferenza ONU sull’Ambiente e lo Sviluppo, Rio de Janeiro, 1992). Esso segna il passaggio da un interesse scientifico/informativo per il tema della sostenibilità ad un impegno politico preciso ad intraprendere, da parte degli stati aderenti, azioni concrete per un sviluppo sostenibile. I documenti più importanti che, approvati in occasione della Conferenza, segnano questo passaggio sono la Dichiarazione di Rio e la nota Agenda 21.

La prima sancisce un impegno ambientale e di sviluppo sostenibile, ed elenca i 27 principi sui quali si fondano le responsabilità e i diritti degli stati.

La seconda, Agenda 21, costituisce una vera e propria guida allo sviluppo sostenibile, un documento programmatico contenente strategie, obiettivi e criteri operativi che la comunità internazionale si impegna a perseguire per imboccare la strada dello sviluppo sostenibile. Il nome stesso del documento suggerisce la prospettiva di lungo termine del piano. Partendo dalla constatazione di fatto che non si può più proseguire per la strada intrapresa finora, che ha condotto a diseguaglianze sociali, povertà, disastri ecologici, inquinamento, degrado sociale e culturale e discriminazione delle minoranze, Agenda 21 sottolinea la necessità di un coinvolgimento su larga scala di tutti gli stakeholder, una sensibilizzazione di massa che porti alla formazione di cittadini quantomeno consapevoli.

A questo proposito, l’articolo 28 propone alle autorità locali la creazione, entro il 1996, di una Agenda 21 locale, da realizzarsi tramite un processo partecipato di consultazione dei cittadini e delle imprese, in modo da avere un modello di riferimento con fondamenta comuni, ma che tenga in

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considerazione le differenze contestuali proprie dei territori, e che trovi il consenso e la partecipazione delle popolazioni, senza le quali è impossibile pensare di avviare qualsiasi ipotesi di sviluppo sostenibile. Come sostiene Calzati (2015, p. 9), siamo di fronte ad uno spostamento da posizioni prevalentemente ambientaliste ad una concezione olistica del benessere, che metta al centro del discorso sulla sostenibilità non solo l’ambiente, ma anche lo sviluppo sociale ed economico. Il concetto di sostenibilità diviene così trilaterale, nel senso che presuppone un equilibrio fra le dimensioni ambientale, socio-culturale ed economica dello sviluppo. Considerando il lato economico e ambientale dello sviluppo sostenibile, infatti, si ha realizzabilità, mentre uno sviluppo economicamente e socialmente sostenibile è equo, come è vero che la sostenibilità ambientale e sociale porta ad uno sviluppo vivibile, ma in nessuno dei tre casi si può parlare di sviluppo sostenibile nel vero senso del termine.1

Figura 1: le tre dimensioni della sostenibità (elaborazione propria)

Sebbene Agenda 21 non sia un documento legalmente vincolante, si è profilata l’esigenza di un appuntamento periodico volto a fare il punto sui

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Campus Lucca, Corso di Laurea Magistrale in Progettazione e Gestione dei Sistemi Turistici Mediterranei - Politiche Territoriali e Management Culturale – A.A. 2014-2015, appunti del corso.

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risultati ottenuti. Di questi appuntamenti (1997, 2002, 2012), è opportuno fare menzione del Vertice Mondiale sullo Sviluppo sostenibile tenutosi a Johannesburg (Sud Africa) nel 2002, in seno al quale è stato partorito il Piano di Attuazione, che riafferma l’impegno della comunità internazionale nei confronti degli obiettivi di Agenda 21, ribadisce l’integrazione delle tre dimensioni chiave dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale), e articola l’azione internazionale sulla lotta alla povertà e ai modelli di consumo e produzione insostenibili, sulla gestione delle risorse naturali per lo sviluppo economico e sociale, sui diritti umani, la pace, la sicurezza, la salute, l’uguaglianza.

In occasione del Vertice, inoltre, si ribadiscono gli Obiettivi del Millennio sanciti dall’ONU due anni prima a New York: «eliminare la povertà e la fame, garantire l’istruzione primaria universale, promuovere l’uguaglianza di genere e rafforzare il ruolo della donna, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute in maternità, combattere HIV/AIDS, la malaria ed altre patologie, assicurare la sostenibilità ambientale, avviare una partnership globale per lo sviluppo»2.

Si profila un quadro internazionale, dunque, in cui sempre più importanza viene data al tema della sostenibilità. Tuttavia, come più dettagliatamente argomentato nei prossimi paragrafi, le difficoltà dell’applicazione concreta di uno sviluppo sostenibile sono numerose, per cui tutt’oggi esso è ancora troppo più nelle parole che nei fatti. Il settore turistico ha un suo specifico ruolo, che si va ad affrontare nei prossimi paragrafi.

1.2 Sostenibilità e sviluppo turistico

Il secondo dopoguerra ha registrato una crescita esponenziale del turismo internazionale, riconducibile ai cambiamenti socio economici (Berno e Bricker, 2001, p. 1) dovuti alle conquiste salariali e contrattuali (ferie retribuite, diminuzione progressiva dell’orario di lavoro), ad una più equa distribuzione del reddito, al boom del settore dei trasporti con l’avvento del

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Organizzazione delle Nazioni Unite, Millennium Summint (6-8 September 2000), in United Nations, Past Conferences, Meetings and Events, consultazione: giugno 2016, traduzione propria http://www.un.org/en/events/pastevents/millennium_summit.shtml.

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low-cost e del charter, agli strumenti tecnologici di messa in rete istantanea dell’informazione. Tutto ciò ha significato, in particolare negli ultimi decenni, un abbattimento delle distanze in termini sia geografici che economici (accessibilità fisica e finanziaria), e ha permesso una condivisione senza precedenti non solo di informazioni, ma anche e soprattutto di esperienze, con un conseguente profondo mutamento dei modelli di consumo turistico.

Ad essere attratti in particolar modo dalle possibilità di uno sviluppo turistico sono, nel post guerra, i cosiddetti LCD (paesi meno sviluppati). Il turismo, infatti, è un’attività basata essenzialmente sullo sfruttamento di risorse naturali, sociali, culturali e paesaggistiche, e richiede dosi contenute di capitale investito. Per gli stessi motivi, esso è inizialmente considerato un’attività a basso impatto ambientale, poiché utilizza risorse – come il sole, le bellezze naturali, le tradizioni, la cultura locale – pulite e rinnovabili. Inoltre, l’alto valore del moltiplicatore del reddito potenziale per questo settore, i conseguenti effetti diretti, indiretti e indotti sull’intero sistema economico della destinazione e il potenziale di creazione di posti di lavoro hanno contribuito a rendere quello turistico un settore appetibile per i paesi meno sviluppati, caratterizzati in genere da una scarsa diversificazione economica (Berno e Bricker, 2001, p. 2).

Tali rosee prospettive vengono presto messe in discussione, e già a partire dagli anni Settanta, in linea con gli albori del più ampio dibattito sulla sostenibilità, arrivano le prime critiche ad un settore che, a discapito delle apparenze, non può affatto definirsi come ‘poco impattante’. «Il nostro concetto di comfort corrisponde ad un privilegio il cui prezzo va ben al di là del conto saldato con una carta di credito. Perché i suoi costi ed i suoi effetti collaterali, per così dire, non sono soltanto economici, ma anche sociali ed ecologici».3

Inizialmente, il dibattito si concentra in particolar modo sulle ricadute socio culturali delle comunità più deboli, ma ben presto si comincia a discutere anche di problematiche ambientali ed economiche (Berno e Bricker, 2001, p.

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2). Le maggiori criticità vengono riscontrate nell’erosione dell’identità sociale e culturale della comunità ospitante, problemi di gestione dei rifiuti e dei consumi energetici e dell’acqua, le minacce per gli ecosistemi e la biodiversità, il deturpamento paesaggistico, il traffico, l’inquinamento nelle sue varie forme, la prostituzione.

Sempre secondo Berno e Bricker, è il settore pubblico che, come primo tentativo di combattere la crescita turistica insostenibile, mette in atto alcuni strumenti di gestione del flusso dei visitatori. Le iniziative, tuttavia, sono orientate al breve periodo ed hanno carattere frammentario, prettamente locale. Siamo, dunque, ancora lontani dal dibattito sulla sostenibilità del turismo considerata unitariamente.

A livello internazionale, le iniziative a favore della sostenibilità si intrecciano con quelle che riguardano in particolare lo sviluppo turistico.

Il 1995 vede la nascita della Carta del Turismo Sostenibile, realizzata in occasione della Prima Conferenza Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile tenutasi a Lanzarote (Spagna) con lo scopo di stabilire un piano internazionale di riferimento per la sostenibilità ambientale per il settore turistico, in linea con i principi di Agenda 21. La Carta del Turismo Sostenibile è particolarmente rilevante perché «costituisce il primo documento programmatico per la sostenibilità delle pratiche turistiche»4.

Ed infatti, sempre nel 1995 l’Organizzazione Mondiale del Turismo, il World Travel and Tourism Council e l’Earth Council (nato in seguito alla Conferenza di Rio) realizzano Agenda 21 for the Travel and Tourism

Industry: towards Environmentally Sustainable Development, che

contiene i principi base dello sviluppo turistico sostenibile. Nel documento, si dichiara sostenibile il turismo «(…) capace di soddisfare le esigenze dei turisti di oggi e quelle delle popolazioni ospitanti prevedendo ed accrescendone le opportunità per il futuro. Nell’attività turistica così concepita, le risorse devono essere gestite in modo tale che vengano

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V. Calzati, Nuove pratiche turistiche e sostenibilità. I profili del turista lento in Valnerina, Tesi di dottorato di ricerca in Sociologia, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2015, p. 30

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soddisfatte tutte le esigenze economiche, sociali ed estetiche, tutelando al contempo l’integrità culturale, i processi ecologici essenziali, la biodiversità e gli ecosistemi che permettono la vita dell’area in questione»5

. Da questa definizione derivano i quattro pilastri del turismo sostenibile: dimensione ambientale, socio-culturale, economica e soddisfazione del cliente.

Gli Anni Novanta, soprattutto dopo Agenda 21, si caratterizzano per la proliferazione di piani e progetti di sviluppo (e sviluppo turistico) sostenibile, e nel 2002, anno della seconda revisione dei risultati di Agenda 21 (Rio+10, Johannesburg), l’ONU annovera il turismo fra i settori che possono contribuire alla riduzione della povertà e alla tutela ambientale e del patrimonio culturale, e lo inserisce nelle linee del Piano di Attuazione citato nel paragrafo precedente.

Pochi mesi prima, a Quebec (Canada), si era svolto il Vertice Mondiale dell’Ecoturismo, patrocinato dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) e dall’Organizzazione Mondiale del Turismo. Il 2002, infatti, era stato proclamato dall’ONU Anno Internazionale dell’Ecoturismo. Lo scopo del Vertice era quello di delineare il ruolo dell’ecoturismo all’interno della più ampia cornice del turismo sostenibile.

1.3 Le difficoltà di implementazione di uno sviluppo turistico sostenibile

Nonostante una chiara e forte presa di coscienza, tuttavia, la strada verso la concreta implementazione e attuazione di piani concreti si rivela tutt’altro che lineare. C’è, innanzitutto, un problema concettuale, trattato da svariati autori (Berno e Bricker, 2001; Butler, 1999; Calzati, 2015). Basti pensare che con l’espressione turismo sostenibile si indicano sia il settore turistico come inserito in una più ampia strategia di sviluppo sostenibile, sia una particolare pratica turistica, sia il relativo segmento di mercato, sia il prodotto corrispondente.

Le definizioni di turismo sostenibile sono le più disparate. Questa mancata univocità semantica e la conseguente vaghezza interpretativa sono alla base della poca chiarezza sul ruolo e sulle responsabilità che il turismo assume

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nel discorso sullo sviluppo sostenibile globalmente considerato. Butler (1999, p. 9) afferma che tale vaghezza interpretativa ha portato ad un’accettazione su larga scala del concetto teorico, senza che però se ne accettassero (e forse anche comprendessero) le implicazioni concrete. Infatti, uno dei problemi relativi al turismo sostenibile è che tutti ne disquisiscono, ma senza mai trovare il modo e/o il metodo di calarlo nella concreta pratica turistica (consideriamo che l’autore scrive nel 1999). Sempre Butler (1999, p.13) suggerisce, inoltre, una riflessione interessante quando argomenta che ulteriore confusione è nata quando ci si è accorti della «marketability» (vendibilità, spendibilità comunicativa) del concetto, per cui si assiste ad una corsa all’offerta turistica sostenibile, in modo da potersi accaparrare un briciolo di competitività, quantomeno a livello comunicativo (si veda, a questo proposito, anche Bimonte e Punzo, 2005, p.1). Il risultato è un costellazione di micro iniziative sostenibili, o presunte tali, completamente scollegate l’una dall’altra e nella maggior parte dei casi estranee ad un qualsiasi ragionamento o processo di lungo termine, e dunque fini a se stesse. Ovviamente, tutto ciò non ha niente a che vedere con una progettazione – seppure di piccola scala – coordinata, olistica, appropriata di azioni di sviluppo sostenibile.

Diretta conseguenza di questo guazzabuglio semantico è la ben nota proliferazione di termini derivanti dal concetto di sostenibilità turistica: abbiamo sostenibile, responsabile, lento, rurale, ecoturismo, di comunità, pro poor, spesso – peraltro – erroneamente utilizzati come sinonimi. Senza entrare in dettaglio, si ripropone qui l’interpretazione di Calzati (2015, p. 43-46), che cerca di mettere ordine fra le varie ‘etichette’. L’ecoturismo si configurerebbe come una particolare pratica turistica caratterizzata da basso impatto ambientale e culturale, alto ritorno economico sulla comunità locale e forte soddisfazione del cliente. Inoltre, secondo quanto emerso nel 2002 al Vertice Mondiale dell’Ecoturismo, è definibile tale qualsiasi forma di turismo naturale motivato dal desiderio di osservazione e apprezzamento della natura e delle culture della destinazione e che presenti istanze educative ed interpretative. Con il termine turismo responsabile, di solito contrapposto al

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turismo di massa, si indica invece un tipo di domanda turistica consapevole, attenta al proprio impatto sulla destinazione, sensibile nei confronti della comunità che lo ospita, della sua cultura e delle sue tradizioni. È il tipo di turista che ultimamente le destinazioni cercano di attrarre in alternativa a quello di massa, che lascia poco alla destinazione, provocando al contrario un impatto non indifferente. Questa forma di turismo alternativo e responsabile predilige il viaggio sulle corte distanze (meno ecologicamente dannoso), possibilmente fuori dai periodi di maggiore congestionamento, e ricerca servizi offerti dalle piccole imprese locali, coerentemente con il suo interesse ad instaurare un rapporto con la comunità ospitante. Turismo

pro-poor e di comunità fanno anch’essi parte dei turismi alternativi: il primo si

caratterizza per un’attenzione particolare all’impatto socio-culturale ed economico della pratica turistica (costi e benefici equamente distribuiti, gestione autonoma dell’offerta da parte dei locali), mentre il secondo afferisce ad una visione dell’esperienza turistica che provochi effetti ambientali e socio-culturali minimi, e benefici economici massimi per la destinazione. Del turismo lento, infine, si discuterà ampiamente nei paragrafi successivi.

Se la ricostruzione della sfera semantica che gravita attorno al concetto di turismo sostenibile non fosse già abbastanza disorientante, a complicare il quadro c’è la profonda complessità del settore stesso preso in considerazione: il turismo, innanzitutto, coinvolge una miriade di stakeholder diversi, portatori di interessi differenziati e spesso contrapposti. Questa molteplicità di attori coinvolti deriva essenzialmente dal fatto che quello turistico è un prodotto composito, consistente a sua volta in una pluralità di servizi/prodotti i cui fornitori sono direttamente o indirettamente coinvolti dal fenomeno turistico. Inoltre, il prodotto turistico, essendo perlopiù composto da servizi diversi e complementari, è per sua natura tendenzialmente intangibile, il che provoca ripercussioni in termini di possibilità di stoccaggio, deperibilità, simultaneità di produzione ed erogazione, caratteristiche di

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19

ricerca6. È ben evidente come queste peculiari caratteristiche del prodotto turistico si ripercuotano sul comportamento dei diversi gruppi di stakeholder.

In riferimento a questi ultimi, di solito vengono individuati, come ricordano Berno e Bricker (2001, pp. 8-9), nelle seguenti macro-categorie:

- Il settore pubblico;

- Il settore privato (industria del turismo, direttamente o indirettamente coinvolta);

- Il privato non profit; - La comunità ospitante; - I media;

- I visitatori.

Ed è solo una macro-categorizzazione. Si buon ben comprendere, dunque, come gestire gli interessi portati avanti dalla nutrita pluralità degli stakeholder in una logica di sviluppo turistico sostenibile sia compito abbastanza arduo. Ognuno di loro concorre, infatti, all’utilizzo delle risorse disponibili con ruoli, obiettivi e motivazioni diversi. Il punto di maggiore scontro lo si ha quando l’interesse economico cozza con quello sociale, culturale e/o ambientale, ed è annosa la discussione sugli impatti devastanti della logica di sviluppo intensivo. La questione risiede prima di tutto su chi debba farsi portatore della logica di sviluppo sostenibile, come, e in base a quali principi, poteri e strumenti univocamente accettati e legittimati.

Sorge spontanea la riflessione sulla necessità di una risposta politica nella definizione di un equilibrio che deve essere mantenuto per consentire il soddisfacimento delle esigenze dei portatori di interesse e al tempo stesso la tutela dell’identità e del benessere di una destinazione.

La questione è tutt’altro che facilmente affrontabile. Non è obiettivo della presente trattazione entrare nel merito del tema, tuttavia è importante sottolineare che esiste una serie di problematiche che i vari livelli di governo

6

Si definiscono caratteristiche di ricerca «quelle che un consumatore può determinare prima di acquistare un prodotto». Ne sono ricchi, per loro natura, i prodotti tangibili, mentre proprie dei prodotti intangibili sono le caratteristiche di esperienza e fiduciarie (V.A. Zeithaml et al., Marketing dei Servizi. Terza Edizione, Milano, McGraw-Hill, 2012) p.47.

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pubblico si trovano ad affrontare. In primis, il turismo è gestito ad una pluralità di livelli (si pensi ad esempio all’Italia: locale, regionale, nazionale, comunitario, internazionale), che spesso fanno fatica ad integrarsi e a comunicare fra sé, il che inficia la possibilità di dar vita ad una serie di azioni congiunte e capillari in un’unica ottica omnicomprensiva.

Ad un’azione frammentaria e poco organizzata del settore pubblico, si contrappone l’influenza spesso imponente esercitata dalle potenti multinazionali, e il timore è che tale potere riesca in alcuni casi a soppiantare addirittura l’autorità pubblica (Berno e Bricker, 2001, p. 13). E spesso, l’interesse dei grandi colossi del mercato cozza con quello degli stakeholder locali, con conseguenze dannose sulla destinazione. Non a caso, l’Organizzazione Mondiale del Turismo esorta da tempo i governi ad introdurre ed implementare piani regolatori in linea con i capisaldi della crescita sostenibile. E data l’estrema eterogeneità dei contesti turistici da regolare, il ruolo degli enti locali è fondamentale in questo frangente.

Come si può ben dedurre, dunque, il discorso sull’applicabilità dei principi di sostenibilità ambientale, economica e socio-culturale non è semplice come si riteneva anni addietro e, soprattutto, non è automatica e priva di complicanze.

Chi scrive è, inoltre, profondamente convinto che un qualsivoglia tentativo di sviluppo sostenibile non possa prescindere da un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, e questo vuol dire far attecchire il concetto di sostenibilità nelle menti di tutti – turisti, cittadini, pubblici amministratori, fornitori di servizi – in modo da poter sviluppare politiche e strategie partecipate, irrealizzabili senza il coinvolgimento di tutti gli attori in campo. Le preferenze dei viaggiatori degli ultimi anni sono positive, a questo proposito.

Non a caso, uno dei punti focali del discorso sul turismo sostenibile è che quest’ultimo non può e non deve essere ricondotto a forme di turismo di nicchia (sebbene in crescita), ma che il concetto di sostenibilità deve essere applicato ad ogni ambito dello sviluppo turistico. Il motivo di questa

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affermazione è duplice: da un lato un turismo sostenibile esclusivamente élitario conterebbe numeri talmente esigui, rispetto al totale dei flussi, da non essere rilevante dal punto di vista del mutamento degli impatti ecologici, socio-culturali ed economici sulla destinazione; dall’altro, una sistema turistico che punti ad attrarre (con apposite strategie e politiche) soltanto tale nicchia di domanda turistica incorrerebbe nel rischio di gentrificazione7 (inglese: gentrification).

Savoja (2009, pp. 243-244) mette in guardia sul rischio di innescare meccanismi di esclusione, se il turismo sostenibile divenisse appannaggio esclusivo di un segmento elitario, in quanto la sostenibilità ha un costo per tutti gli stakeholder, turisti in primis. Il turista sostenibile, infatti, si caratterizza per una rinuncia alla bulimia consumistica tipica del nostro tempo, predilige scelte improntate più alla qualità che alla convenienza economica, è consapevole ed informato. In sostanza, è un turista con un livello di istruzione medio alto e, soprattutto, con una buona capacità di spesa. Il rischio, dunque, è di innescare meccanismi di esclusione che riguarderebbero inevitabilmente segmenti sociali più deboli (meno istruiti, anziani, meno abbienti), che costituiscono di per sé le fasce meno informate e consapevoli sulla questione stessa dell’impatto della propria vacanza.

Tale meccanismo esclusivo, oltre ad essere profondamente antidemocratico, induce il rischio di gentrificazione cui si accennava pocanzi: se la destinazione attira esclusivamente domanda di élite, i modelli di

7 Gentrification: «Processo afferente la sociologia urbana, che può comprendere la

riqualificazione e il mutamento fisico e della composizione sociale di aree urbane marginali, con conseguenze spesso non egualitarie sul piano socio-economico. Termine coniato nel 1964 dalla sociologa inglese Ruth Glass e derivante dal vocabolo gentry, ovvero la piccola nobiltà anglosassone. La g. è un processo proprio delle dinamiche socio-economiche della metropoli contemporanea, la quale ingloba al suo interno una grande eterogeneità di aree e quartieri con diverse caratteristiche socio-culturali e spaziali che possono attirare, per differenti ragioni, un interesse funzionale e/o economico proveniente dall’esterno. La g. può (…) attivarsi (…) tramite processi di rigenerazione ambientale di un’area prescelta da un determinato gruppo sociale e professionale (…). Il risultato è la sostituzione della popolazione locale, che generalmente occupa un posto marginale nelle gerarchie sociali, con i nuovi ‘coloni’ di fascia medio - alto borghese. Il maggiore potere d’acquisto di quest’ultimi provoca un notevole squilibrio nel sistema economico locale che, traducendosi nell’aumento dei prezzi degli affitti e del costo della vita, costringe la popolazione autoctona alla migrazione verso aree più sostenibili». Da Gentrification, in Treccani Enciclopedia Online (consultazione: giugno 2016) http://www.treccani.it/enciclopedia/gentrification/

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consumo, i prezzi, la tipologia di servizi offerti, gli spazi urbani, gli edifici, le infrastrutture si adegueranno alle esigenze della domanda turistica, causando uno snaturamento economico, paesaggistico e socio-culturale sul territorio ospitante, e nel peggiore dei casi un esodo della popolazione locale verso altre aree. E questo è esattamente ciò che il turismo sostenibile dovrebbe evitare.

C’è, peraltro, chi estremizza questa riflessione: Butler (1999, pp.12-13) afferma che non esiste pratica turistica, per quanto responsabile essa possa essere, che sia priva di impatti sulla destinazione, e che associare automaticamente le forme di turismo rurale o naturale alla sostenibilità, demonizzando quelle di massa, è «non solo errato, ma addirittura deleterio» (traduzione propria). Gli sforzi maggiori, dunque, dovrebbero concentrarsi sulla messa a punto di misure e metodi per limitare l’impatto del turismo di massa.

A questo proposito, c’è da precisare che quantificare l’impatto del turismo su una destinazione non è cosa di poco conto. Ed è anche vero che, senza un efficace sistema di indicatori e di monitoraggio, qualsiasi riflessione sulle misure di sviluppo sostenibili rimane priva di una qualsiasi evidenza e concretezza. Non a caso, il settore registra una profonda carenza in questo senso.

Uno dei metodi sui quali ci si è più concentrati è quello del calcolo della capacità di carico, che tuttavia è rimasto anch’esso più nelle parole che nei fatti, in quanto non esiste un modello che vada bene per tutte le destinazioni, e anche perché elaborarne uno è profondamente complesso, data l’eterogeneità degli aspetti da tenere in considerazione, la difficoltà nel misurarli, il concorrere di elementi fisici e oggettivi come di elementi soggettivi nella sua definizione (capacità di carico fisica e percepita), e la complessità che caratterizza la relazione fra turisti e comunità ospitante.

«La capacità di carico di una destinazione turistica (CCT) è rappresentata dal numero massimo di persone che può visitarla, senza compromettere le

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sue caratteristiche ambientali, fisiche, economiche e socioculturali e senza ridurre la soddisfazione dei turisti».8

La definizione ricalca esattamente i principi della sostenibilità turistica. La capacità di carico non è espressa da un numero definito, piuttosto può essere immaginata come un intervallo (lo ricordano Butler, 1999, pp. 15-16; Calzati, 2015, pp- 39-40; Bimonte e Punzo, data non disponibile, p. 4). Se si supera il limite superiore, ne risulteranno i danni tipici dello sviluppo turistico intensivo: ambientali, socio-culturali e di conseguenza economici, in quanto il depauperamento paesaggistico e ambientale, l’eccessivo affollamento, l’abbassamento della qualità di vita dei residenti e lo sfilacciamento del tessuto sociale, culturale e commerciale (con ripercussioni sulla buona disposizione dei locali nei confronti del fenomeno turistico, e sull’autenticità dell’esperienza) impatteranno negativamente sulla qualità della visita del turista, con un inevitabile calo della domanda nel lungo periodo, e/o una tendenza verso una domanda disattenta, disinteressata all’autenticità delle tradizioni e delle produzioni locali, interessata più all’aspetto commerciale del viaggio, che non a quello esperienziale e di accrescimento personale. Di conseguenza, un turismo non attento (e/o non consapevole) al proprio impatto sulla destinazione. Al di sotto del limite inferiore, invece, c’è spazio per lo sviluppo di alternative turistiche di nicchia, o per la totale chiusura alla pratica turistica (Calzati, 2015, p. 40).

La capacità di carico è significativa in quanto esprime il concetto di limite (ambientale, economico, sociale, di qualità della visita) dello sviluppo turistico. Per avere quantomeno un’idea di tale limite, sarebbe opportuno implementare un passaggio spesso mancante nelle politiche di gestione delle destinazioni: realizzare un sistema di indicatori di natura sia qualitativa che quantitativa specifico per ciascun territorio, che renda una visione olistica dell’impatto del turismo su quest’ultimo, e che permetta di sviluppare una riflessione, basata su dati concreti, sulle più urgenti aree di intervento e sulla

8

OMT citata da S. Bimonte e L. F. Punzo, Quanti (turisti) sono troppi? Città di Toscana, Osservatorio per il Turismo Sostenibile, EdATS, Università degli Studi di Siena (data non disponibile), p. 2

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messa a punto degli strumenti di sviluppo sostenibile necessari. Si passerebbe, peraltro, da un approccio teorico e definitorio del concetto di turismo sostenibile, ad un tentativo di trasformare i buoni propositi espressi sul tema in azioni concrete, in una visione olistica e complessa del tema. Ciò permetterebbe, inoltre, di creare consapevolezza e informazione a livello capillare, e dunque di contrastare la frammentazione delle iniziative, guadagnandosi l’indispensabile partecipazione di tutti i portatori di interesse. 1.4 Ruolo del turismo nella prospettiva di sviluppo sostenibile

La breve panoramica storica e l’esposizione delle problematiche legate allo sviluppo turistico sostenibile ci portano a riflettere su quale possa effettivamente essere il ruolo del turismo all’interno del più ampio dibattito sulla sostenibilità.

La prima considerazione da fare è che il turismo (anche e soprattutto quello di massa) non smetterà di crescere. Appoggiandosi alle statistiche dell’OMT, Federturismo registra che nel 2013 il numero degli arrivi internazionali ha superato il miliardo (+60% rispetto al 2000), generando una corrispondente spesa di 1.159 miliardi di dollari. Sono numeri da capogiro, soprattutto se consideriamo che continueranno a salire: ci si aspetta che entro il 2020 i viaggiatori internazionali possano arrivare a 1,3 miliardi, e nel 2030 a 1,8 miliardi. Questo corrisponde a una crescita dell’80% sul 2013.9

La mole del fenomeno turistico e dei suoi impatti ci dà una chiara idea di quanto questo settore non possa essere esonerato dalle strategie di sviluppo sostenibile a qualsiasi livello.

Inoltre, per quanto riguarda il turismo, l’adozione di modelli di sviluppo sostenibile risulta fondamentale ai fini del mantenimento della competitività della meta: come afferma Nuzzo (2008, p. 70) gli elementi di competitività turistica di un territorio possono essere identificati nella presenza delle risorse, nella fruibilità delle risorse, nella loro accessibilità e nell’immagine. «Il

9

Pragma (a cura di), Report: I numeri del turismo internazionale, in Federturismo Confindustria, Servizi, Osservatorio Turismo, Report, aggiornamento: 7 ottobre 2014, consultazione: maggio 2016 http://www.federturismo.it/it/i-servizi-per-i-soci/osservatorio-turismo/report/9487-report-i-numeri-del-turismo-internazionale-speciale-unwto

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territorio si configura al tempo steso come punto di partenza e di arrivo delle politiche di sviluppo»10. Bastano queste poche parole a farci capire in che misura il turismo dipenda dal patrimonio di risorse della destinazione. Va da sé, dunque, che conservare quelle risorse nel lungo termine è essenziale ai fini del mantenimento della competitività turistica. A questo proposito, è chiarissimo il pensiero di Savoja, che afferma: «(…) per mantenere una qualità adeguata e per continuare ad esistere nel tempo, le risorse turistiche dovrebbero essere fruite ‘sempre’ nella maniera più sostenibile possibile pena, appunto, il loro progressivo scadimento qualitativo e addirittura la loro scomparsa (…). Anche per questo, in campo turistico, l’idea di sostenibilità si è consolidata (…) come imperativo gestionale necessario per l’allungamento del ciclo di vita delle località turistiche e per la possibilità di offrire dei prodotti in grado di soddisfare le aspettative di turisti/consumatori sempre più sensibili alle caratteristiche di naturalità e di genuinità dei prodotti stessi».11

La seconda considerazione da fare riguarda i modelli di consumo. Il passaggio dal turismo moderno, caratterizzato ancora da una dimensione élitaria del fenomeno, al cosiddetto turismo di massa avviene a metà del Novecento, più precisamente negli anni Venti in Nord America e negli anni Cinquanta in Europa (Battilani, 2001, pp. 153-154), grazie ai mutamenti socio-economici esposti all’inizio del capitolo (conquiste contrattuali e salariali, boom dei trasporti e delle telecomunicazioni).

Come afferma Calzati (2015, pp. 25-28), in questo periodo la vacanza è vissuta come fatto sociale quasi indispensabile. Si tratta di viaggi programmati, standardizzati, tipici di un atteggiamento passivo alla vacanza, improntato su bisogni e desideri indotti dalla società e dalle istituzioni. Tuttavia, prosegue l’autrice, negli ultimi cinquanta anni si è verificata una crisi del turismo di massa a favore del post-turismo. Già a partire dagli anni Settanta, infatti, parallelamente e in antitesi alla spinta omologante e

10

M. Nuzzo, Turismo religioso: percorsi culturali-religiosi come leva di sviluppo territoriale, Tesi di dottorato di ricerca in Geografia economico-politica, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2008, p. 15

11

L. Savoja, La Stakeholder Responsibility nel turismo. I turisti oltre il confine della sostenibilità, «Notizie di Politeia», 25, 93, 2009, p. 240

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standardizzante della globalizzazione, si profilano grandi cambiamenti dei modelli di consumo turistici, derivati da uno sconvolgimento degli stili di vita per effetto dei trend globali. In questo contesto, acquistano un nuovo ruolo la diversificazione delle esperienze, la personalizzazione dei prodotti, la soggettività, e si hanno le prime avvisaglie di un modello turistico più attivo, che ricerca la spiritualità, il benessere, la territorialità, il contatto con la natura, l’esperienza, l’individualità e il distacco dalla massa, il rapporto con la comunità ospitante, l’identità.

L’annullamento nella massa, i ritmi frenetici, la produttività esasperata fanno, infatti, percepire all’essere umano un sentimento di insoddisfazione e inadeguatezza. Si assiste, in questo contesto, ad una forte diversificazione e frammentazione della domanda, e si comincia a sentir parlare delle forme di turismo alternativo e/o responsabile che si affermeranno definitivamente negli anni Ottanta e Novanta.

Questo ci porta a riflettere sul fatto che è la domanda stessa che sempre di più chiede un prodotto turistico sostenibile, che è il turista stesso ad essere interessato ad una vacanza a basso impatto. Nell’ambito di un’indagine della Hochschule Luzern – Lucerne University of Applied Sciences and Arts, il 22% dei rispondenti ha dichiarato che la sostenibilità rientra fra i primi tre fattori di scelta, nel momento in cui si prenota una vacanza12. Si tratta di quasi un quarto del totale.

Oltre, dunque, all’importanza etica e in termini di conservazione delle risorse del tema dello sviluppo sostenibile, c’è anche una spinta esercitata dalla stessa domanda sul mercato e sull’offerta, una spinta che non può non essere considerata. Savoja (2009, p. 240), addirittura, ritiene che, nel caso del turista sostenibile, le dinamiche dell’atto di consumo cambino, per cui l’ospite avverte completa soddisfazione nel momento in cui ha l’opportunità di partecipare alla tutela del bene che sta consumando. In questo senso, sempre Savoja (2009, p. 245) si esprime sulla responsabilità del turista

12

R. Wehrli, (et al.), Is there Demand for Sustainable Tourism? – Study for the World Tourism Forum Lucerne 2011―, ITW Working Paper Series Tourism 001/2011, Lucerne University of Applied Sciences and Arts.

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responsabile, che è in grado di influenzare e vincolare, con i propri comportamenti di consumo, i modelli stessi di gestione dell’offerta (p. 245).

Si profilano, dunque, due traiettorie da seguire per imboccare la strada dello sviluppo sostenibile: la prima si sostanzia nel creare e promo commercializzare un sistema di offerta appetibile per i segmenti di turismo a basso impatto. Ovviamente, questo vuol dire agire a livello sistemico (non con iniziative commerciali frammentarie e fini a se stesse), scegliere i target specifici a cui rivolgersi (si è già dato un’idea dell’estrema diversificazione della domanda), individuare i loro bisogni, costruire su di essi un’offerta di qualità. Oltre a questa traiettoria, tuttavia, c’è un tema più generale, che è quello più ampio e ben più arduo di diffusione della «cultura della responsabilità» (Calzati, 2015, p. 47) a tutti i livelli di servizio turistico. A prescindere dal target cui si rivolge l’offerta, infatti, pratiche che minimizzino gli impatti negativi ambientali, paesaggistici, sociali, culturali ed economici sono indispensabili a tutti i livelli e in tutti i servizi. In tale approccio, la diffusione della cultura della responsabilità avviene reciprocamente fra turisti e attori locali, per cui offrire qualità attrae sempre di più turismo responsabile, il che porta a sviluppare ulteriormente offerta di qualità, e ad acquisire vantaggio competitivo, e così via.

Le due traiettorie non sono parallele, bensì si intrecciano, e si potrebbe addirittura dire che la seconda ingloba la prima. Quello che è importante sottolineare è che nessuna delle due vie è percorribile senza il coinvolgimento diretto di tutti i portatori di interesse in campo, pubblici o privati che siano. Un’importante, prima azione che i governi dovrebbero impegnarsi a portare avanti è, dunque, quella che investe la formazione e la sensibilizzazione di tutti gli attori turistici, perché – purtroppo – tutt’oggi manca ancora un vero, motivato interesse ad applicare strategie di sviluppo sostenibile da parte di molti stakeholder. La causa è da ricercarsi dalla mancato riconoscimento da parte di questi ultimi sia delle ripercussioni di lungo periodo di uno sviluppo sostenibile, sia dell’urgenza con cui esso si rende oggi necessario.

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Sulla responsabilità degli stakeholder si spende molto Savoja (2009, p. 241, 242): in quello che l’autore definisce «turismo globalmente responsabile», a farsi carico della sostenibilità della pratica turistica sono tutti gli stakeholder in campo, in quanto portatori di interessi e di diritti nei confronti della risorsa, che è essa stessa uno stakeholder, detto implicito. I suoi interessi possono essere identificati nella propria stessa tutela per poter continuare ad essere un’attrazione turistica, e contemporaneamente nel bisogno di rendersi disponibile al pubblico intero, sia per poter essere valorizzata nel proprio ruolo di risorsa, sia per garantire un utilizzo equo e democratico della stessa. A rifletterci bene, questi due interessi sono di per sé contrapposti, in quando l’utilizzo presuppone un consumo della risorsa, dunque degli impatti. Per contenere il più possibile le ripercussioni negative del consumo turistico sul bene, e per poter soddisfare i due interessi impliciti citati pocanzi, occorre dunque che si attivi tutta una serie di misure da parte dei portatori di interesse. Risulta lampante, dunque, che l’accountability (che potremmo definire come la misura in cui un qualsiasi attore turistico è in grado e disposto a prendersi la responsabilità del proprio impatto sul territorio) non è da considerarsi solo come una pratica lodevole di ampio valore etico, quanto piuttosto una componente necessaria dell’offerta turistica.

Sempre a proposito degli stakeholder (in questo caso locali), Nuzzo afferma che «Il valore di un territorio, prima ancora che per i turisti, deve essere costruito, tutelato e valorizzato per i residenti, che sono il primo pubblico da persuadere, conquistare, fidelizzare, a garanzia dell’equilibrio che il territorio sarà successivamente in grado di sviluppare»13.

In conclusione, al di là del dibattito sullo sviluppo sostenibile e sulle problematiche ad esso legate, e al di là delle interpretazioni, chi scrive è fermamente convinto della necessità di portare la sostenibilità all’interno dello sviluppo turistico. E questo dipende dalla responsabilità di tutti gli stakeholder in campo. Ci sono, a questo proposito, due riflessioni da fare. La prima

13

M. Nuzzo, Turismo religioso: percorsi culturali-religiosi come leva di sviluppo territoriale (cit. nota 10), pp. 41-42

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muove dalla constatazione che la tendenza e le preferenze dei consumatori stanno già andando nella direzione di scelte improntate al rispetto ambientale e socio-culturale delle destinazioni, alla predilezione per mete meno battute, per i centri minori, per le esperienze di immersione nella natura e nella cultura locali. Questa crescita del segmento di turismo responsabile, attento al proprio impatto sulla destinazione, porta ad un adeguamento di molte aziende, che sempre di più puntano su certificazioni ambientali, qualità, autenticità, offerta esperienziale. È, dunque, il mercato stesso che spinge verso la direzione di una maggiore responsabilità sociale ed ambientale. Puntare su un’offerta di qualità, ispirata a politiche aziendali e di destination management attente al rispetto dei principi di sostenibilità, ed incentrata sul proposte che enfatizzino il genius loci di una destinazione è, dunque, già di per sé una buona e lungimirante scelta in termini di competitività.

A questo si aggiunge una riflessione sull’urgente necessità di operare scelte di sviluppo sostenibile di lungo termine, e in modo da non fagocitare e distruggere le risorse a disposizione. Imprescindibile, a questo proposito, è l’intervento del settore pubblico (a tutti i livelli amministrativi) con politiche, provvedimenti, normative, incentivi che muovano nella direzione di una crescita sostenibile. Ed è altrettanto fondamentale che tali politiche siano messe a punto ‘con le orecchie a terra’, ovvero tramite un profondo coinvolgimento degli stakeholder, perché non esiste politica che sia efficace, se non condivisa. Ne va della sopravvivenza e della competitività della destinazione stessa.

1.5 Le origini del fenomeno slow: un nuovo modello culturale

La società odierna, accecata dal paradigma della produttività, dell’efficienza e del guadagno economico, e tutta concentrata sui ritmi frenetici, sul tutto e subito e sulla smania della velocità, ha finto per autocondannarsi ad un perenne senso di inadeguatezza e di insoddisfazione, ad uno stile di vita in cui non si ha tempo né per se stessi né per i propri affetti, e in cui spesso si sacrifica il proprio benessere psico-fisico in virtù della corsa sfrenata alla crescita e alla produttività. Problematiche come lo

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stress, la depressione, l’insonnia sono tipici del nostro tempo, e rappresentano spesso causa o concausa di molte delle patologie maggiormente diffuse. La smisurata flessibilità richiesta oggigiorno agli individui ha ben oltrepassato i limiti umani di capacità di adattamento. È come se si fosse silenziosamente accettato un compromesso al ribasso in virtù di un qualche presunto guadagno, oppure solamente perché è la società a chiederlo. La lentezza è poco benvista, percepita come controproducente, non all’altezza (Romita, in Nocifora, 2011, p.112).

Riconoscere questa contraddizione del nostro tempo, questa paradossale «confusione fra efficienza e frenesia»14 ha portato, negli ultimi decenni, al rifiuto stesso della velocità, alla ricerca di un rinnovato equilibrio fra una modernità tecnologica che ci permette di essere sempre più veloci e i ritmi umani naturali, lenti, fisiologici. È così che comincia a delinearsi una nuova filosofia, un nuovo modello sociale e culturale, incentrato sulla lentezza, sulla riscoperta dell’equilibrio con se stessi e con gli altri, con il tempo, con i luoghi e i valori sociali che oggigiorno vengono tanto facilmente messi da parte.

Da anni, ormai, il PIL è considerato inadeguato e unidirezionale nella misurazione del benessere di una comunità, in quanto considera aspetti prettamente economici, mentre sorvola completamente su elementi come la qualità di vita, la felicità, la mortalità, l’aspettativa di vita, i parametri della qualità ambientale, della tutela del patrimonio e delle risorse culturali di un sistema sociale.

È in quest’ottica che nascono, agli albori degli Anni Ottanta, i primi movimenti lenti, proprio in antitesi a quella malata fast way of life che sta annichilendo la società occidentale. Il primo di questi movimenti è il ben noto Slow Food, «grande associazione internazionale no profit impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. Ogni giorno Slow Food lavora in 150 Paesi per promuovere un’alimentazione

14

S. Caramaschi, Slow Italy: turismo lento motore di rilancio, in Concorso IRSE EuropaEGiovani 2014, Tesine Premiate, Edizioni Concordia Sette – Quaderni 75, p. 127

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buona, pulita e giusta per tutti»15. Fondata nel 1986 da Carlo Pertini, Slow Food ha iniziato il suo percorso come associazione prettamente italiana, per poi internazionalizzarsi nel 1989. Oggi, il numero di associati è di circa 100.000 in 150 nazioni al mondo, ma i supporter di Slow Food raggiungono addirittura il milione (www.slowfood.com). Calzati (2015, pp. 75-76) enfatizza il rapporto fra la filosofia di Slow Food e i principi dello sviluppo sostenibile: l’operato dell’associazione è ispirato ad un approccio olistico, in cui vengono considerati gli aspetti non solo ambientali, ma anche sociali e culturali della produzione di cibo. I pilastri su cui si fonda l’operato di Slow Food sono, infatti, la tutela delle tradizioni gastronomiche e della biodiversità, la promozione di una rete di piccoli produttori e del dialogo fra produttori e consumatori, nonché la formazione di questi ultimi sui temi legati al cibo, al gusto, alla nutrizione e all’ambiente (Nilsson et al, 2010, p. 2). Lo slogan del movimento, «buono, pulito, giusto», rispecchia perfettamente la filosofia che sta dietro a tali linee d’azione, una filosofia che vede nella pietanza che arriva in tavola tutto un sistema di valori, tradizioni agricole, conoscenze, storie, rispetto e cura nei confronti della natura donatrice di materie prime: il cibo che, dunque, costituisce un legame diretto con il proprio territorio di origine.

In virtù di questo legame, la funzione del cibo è rilevante anche a livello turistico, soprattutto nell’epoca post-turistica, in cui si ricercano esperienze sensoriali e culturali autentiche. Il cibo offre un contatto con le tradizioni del luogo che si sta visitando, offre piacere per i sensi, benessere e genuinità, mostra un pezzetto della cultura locale, ed è sempre un piacere scambiare due parole con i gestori di un piccolo ristorante tradizionale. L’elemento enogastronomico può, dunque, essere integrato nel mix di elementi paesaggistici, sociali e culturali autentici che esprimono la territorialità dei luoghi e che ad oggi costituiscono la miglior leva per il vantaggio competitivo delle destinazioni.

Il successo di Slow Food e la coerenza dei suoi principi con le problematiche del nostro tempo hanno fatto sì che il movimento ispirasse un

15 Che cos’è Slow Food, in Slow Food – Buono, pulito e giusto, Chi Siamo, consultazione:

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potenziale modello di riorganizzazione sociale, in antitesi a quello della fast life (Nilsson et al, 2010, p. 3).

La lentezza diviene, dunque, un vero e proprio modello culturale, caratterizzato dalla ricerca di benessere considerato in senso olistico, il che presuppone un forte impegno e una forte responsabilità (de Salvo, in Nocifora et al., 2011, p. 47). Un modello che può dunque essere applicato a tutti gli ambiti della vita: se Slow Food interpreta e promuove le istanze della lentezza in campo enogastronomico, infatti, altre iniziative e movimenti applicano il paradigma slow ad altri ambiti della vita umana. Fra gli esempi più rilevanti, si tiene a citare Cittàslow, movimento nato nel 1999 da un’idea dell’allora Sindaco di Greve in Chianti (Firenze, Toscana), Paolo Saturnini, e presto sottoscritta dalle municipalità di Bra (Cuneo, Piemonte), Orvieto (Terni, Umbria) e Positano (Salerno, Campania). Cittàslow è impegnato nell’applicazione dei principi della qualità della vita e del benessere sociale allo sviluppo urbano, e nell’espansione della filosofia di Slow Food all’amministrazione e al governo delle città. Le città che ne fanno parte hanno o si impegnano a introdurre un sistema sociale in cui la società stessa è protagonista dello sviluppo lento, un modello che promuova il benessere della comunità locale, la valorizzazione delle tradizioni e delle eccellenze, del paesaggio antropico, delle produzioni genuine ed autentiche grazie ad uno stile di vita lento e sereno (www.cittaslow.org). La qualità della vita diviene, dunque, vera e propria strategia di sviluppo (De Salvo, in Nocifora et al., 2011, p. 49).

Al momento, del network fanno parte 225 città in 30 paesi, la maggior parte delle quali sono italiane (www.cittaslow.org). Possono accedere a Cittàslow i centri urbani con meno di 50.000 abitanti, e che siano in grado di provare il proprio impegno concreto nella valorizzazione del genius loci come base per lo sviluppo locale e nell’applicazione dei principi della sostenibilità, della qualità della vita e dell’accoglienza alla programmazione di tale sviluppo. Queste città, oltre ad avere a disposizione un modello guida alla lentezza e alla sostenibilità, beneficiano del marchio Cittàslow, in un processo di «messa in valore dell’identità» che attraversa tutto il percorso di

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