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Arte del dialogo e teoria della comunicazione nelle Diatribe di Epitteto ('in riferimento costante a Socrate')

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea magistrale in Filosofia e Forme del

Sapere

TESI DI LAUREA

Arte del dialogo e teoria della comunicazione nelle

Diatribe di Epitteto

(‘in riferimento costante a Socrate’)

RELATRICE

Prof.ssa Maria Michela Sassi

CORRELATORE

Prof. Jean-Baptiste Gourinat

CANDIDATO

Gabriele Flamigni

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Indice

Introduzione p. 3

Parte prima. Fondamento antropologico

Capitolo I. La questione dell’appropriazione epittetiana della dialettica socratica p. 5 1) Il paradigma socratico per i filosofi della Stoa p. 5 2) Le tattiche persuasive della dialettica socratica p. 11 3) La possibilità di un parallelo tra la dialettica socratica e quella epittetiana p. 17 Capitolo II. L’antropologia dell’antica e media Stoa p. 24

1) La dicotomia genetica zenoniana p. 24

2) Lo statuto dei προκόπτοντες p. 39

a) La κατάληψις non è la forma di conoscenza peculiare dei προκόπτοντες p. 42 b) Il καθῆκον non è la forma di azione peculiare dei προκόπτοντες p. 45

3) La dottrina dei πρόσωπα di Panezio p. 60

a) Contestualizzazione della dottrina p. 60

b) Esposizione della dottrina p. 65

Capitolo III. L’antropologia di Epitteto p. 76 1) La ricezione epittetiana della dicotomia zenoniana p. 76 2)La ricezione epittetiana della dottrina dei καθήκοντα p. 90

3) La dottrina degli σχέσεων ὀνόματα p. 104

a) Esposizione della dottrina p. 104

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Parte seconda. Teoria della comunicazione

Capitolo IV. Il carattere e il talento degli interlocutori di Epitteto p. 134

1) Sulla nozione di caratterizzazione p. 134

2) Il ritratto vivente di un uditorio variegato: gli interlocutori reali p. 145 3) Le voci della perfetta e dell’imperfetta ragione: gli interlocutori fittizi p. 155 Capitolo V. La dottrina epittetiana della comunicazione p. 176

1) L’adattamento al progresso dell’interlocutore p. 176

a) L’adattamento nel contenuto p. 176 b) L’adattamento nel linguaggio p. 195 2) La valutazione della ricettività dell’interlocutore p. 196 3) La considerazione del carattere dell’interlocutore p. 200 a) L’elaborazione di argomenti ad personam e la capacità empatica p. 200

b) L’ascesi di riabituazione p. 206

Capitolo VI. Verifica empirica della tattica della singolarizzazione p. 227

1) Variazioni sull’antropologia p. 229

2)Variazioni sull’eudemonologia p. 236

3) Variazioni sulla filosofia p. 249

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Introduzione

Il presente lavoro è il precipitato di una ricerca condotta nell’intersezione tra gli studi sulla ricezione di Socrate presso Epitteto e quelli di retorica del discorso filosofico. Sebbene tale ambito abbia ricevuto le attenzioni della critica fin dall’opera di Théodore Colardeau e sia stato più di recente oggetto di alcuni importanti contributi di Anthony A. Long, un suo aspetto pare essere per lo più trascurato dagli storici della filosofia, nonostante la sua cardinalità nella dialettica socratica: il costante tentativo di accordo della parola con l’individualità del suo destinatario, fondato sulla convinzione che l’applicazione di questa tecnica massimizzi la persuasività di ogni proferimento, e che al contrario la sua mancata applicazione renda inefficace l’interazione comunicativa. La verifica della condivisione da parte di Epitteto di questa esigenza, espressa da Socrate in diversi luoghi platonici, costituisce il fine di questo scritto.

Dato il carattere dialogico della principale testimonianza pervenutaci sul pensiero di Epitteto, le Diatribe del suo discepolo Arriano, la verifica procederà su due fronti e secondo due metodi ermeneutici diversi, volti a palesare come una tale condivisione avvenga tanto sul piano teorico quanto su quello pratico: da un lato si cercherà di rintracciare nel corpus arrianeo relativo al maestro asserzioni di quest’ultimo che consentano la ricostruzione di una sua dottrina della comunicazione del sapere filosofico; dall’altro si proporrà un’analisi di alcuni capitoli delle Diatribe che tenga conto delle risorse pedagogiche esibite contestualmente da Epitteto non meno che del significato del suo messaggio dottrinale.

La propedeuticità di un’indagine teorico-filosofica rispetto a quella empirico-letteraria è determinata in primis dalla volontà di elaborare uno schema che funga da strumento di interpretazione testuale, oltre che dall’ovvio quanto corretto principio che la comprensione della forma di un discorso non può prescindere dalla familiarità con il suo contenuto. Ma essa è giustificata anche dall’opportunità di tematizzare i concetti operanti nella riflessione retorica preannunciata, quelli di individuo e di individualità, senza postulare una coincidenza semantica tra tali nozioni, intese intuitivamente oppure secondo una concezione propria di pensatori moderni o contemporanei, e il riferimento a esse degli antichi. Perciò, dato il soggetto di questa tesi, sarà esaminata in particolare la concezione stoica dell’individuo, al fine tanto di coglierne il significato ontologico quanto di enuclearne le caratteristiche pertinenti per i partecipanti a una situazione dialogica quale quella esemplificata in numerosi capitoli delle Diatribe.

Il presente scritto è suddiviso in due sezioni che rispecchiano parzialmente l’organizzazione della materia appena presentata.

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Nella prima parte, anzitutto si esporranno in modo sintetico i principali elementi del debito dottrinale degli Stoici nei confronti di Socrate, si formulerà nei termini di quest’ultimo la tattica della ‘singolarizzazione’ retorica e si mostrerà la possibilità di discernere nella dialettica epittetiana il senso e l’applicazione della medesima tattica (capitolo 1). Si discuterà poi il ruolo dell’individuo nell’antropologia veterostoica, a partire dalla classificazione genetica di Zenone, problematica per il proposito di questa tesi, fino al riconoscimento di un criterio per l’individualizzazione antropologica nel contributo di Panezio all’etica (capitolo 2). Alla luce di ciò, si passerà in seguito a descrivere la peculiarità della dogmatica epittetiana e a considerare la definizione dell’individuo che le pertiene (capitolo 3).

La seconda parte sarà dedicata in primo luogo a una catalogazione degli interlocutori del filosofo nelle Diatribe, evidentemente indispensabile per poter condurre l’analisi che ci si è prefissi e osservare la messa in atto, da parte di Epitteto, di una singolarizzazione del proprio discorso rispetto al suo destinatario (capitolo 4). Tramite una collazione di passaggi dalle Diatribe e dal Manuale ci si cimenterà quindi, come anticipato, in una ricostruzione di una dottrina epittetiana della comunicazione pedagogica del sapere filosofico, prestando precipua attenzione ai luoghi in cui emerge l’esigenza di adeguare l’eloquio all’intelligenza, al carattere e alla condizione dell’interlocutore (capitolo 5). Infine, selezionati alcuni capitoli delle Diatribe e raggruppatili per tema, li si analizzerà sotto il profilo retorico per verificare la realizzazione pratica dell’intento teorico espresso dal filosofo sul modello socratico (capitolo 6).

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Parte I. Fondamento antropologico

Capitolo I. La questione dell’appropriazione epittetiana della dialettica socratica

1) Il paradigma socratico per i filosofi della Stoa

Chi voglia selezionare, dal corpus di Epitteto, un passaggio che attesti la sua ammirazione per Socrate si trova imbarazzato di fronte alle numerose menzioni del filosofo ateniese. Più volte, nel Manuale come nelle Diatribe, a supporto della tesi che sta argomentando Epitteto cita, per parafrasi o letteralmente, affermazioni di Socrate che trovano quasi sempre corrispondenza nelle opere di Platone o Senofonte a noi pervenute1. Talvolta, allo scopo di

fornire un paradigma etico al proprio interlocutore, riferisce episodi biografici di Socrate, come la sua partecipazione a campagne militari (Diss. IV 1.160), la sua provocazione dei giudici durante il processo (II 2.18) o i suoi ultimi istanti di vita (I 29.65-66)2. Altrove Socrate è lodato

per alcune sue particolari virtù, quali la modestia (Ench. 46.1), la devozione (Diss. I 9.23-24) o l'autocontrollo (II 18.22)3. Ci sono poi occasioni in cui Epitteto semplicemente manifesta la

propria stima per il filosofo ateniese (I 19.5-6, IV 7.28-29), il proprio desiderio di assomigliargli (Ench. 33.12) e la consapevolezza dell'irrealizzabilità di questa aspirazione, data l'eccezionalità

1 Cfr. ad esempio Ench. 32.3, Diss. I 26.18, II 12.5, III 22.26, IV 4.21, confrontabili rispettivamente con Mem.

I.1-7, Apol. (PLAT.) 38a, Gorg. 475a-b, Clit. 407a-b e Crit. 43d. Senofonte, Platone e Aristofane – riconosciuto però

come testimone inattendibile (IV 11.20) – sono i soli autori che Epitteto citi nominalmente come proprie fonti circa la biografia e il pensiero di Socrate. Dato tuttavia che le Diatribe ci sono pervenute in uno stato incompleto (FOT.,

Biblioth. 58 ci informa che l’opera integrale constava di otto libri), non si può escludere che nei capitoli perduti

Epitteto menzionasse altri autori come fonti socratiche. Data la non corrispondenza di tutti i riferimenti epittetiani a Socrate con passaggi analoghi di Platone, Senofonte o Aristofane (cfr. ad esempio i frr. 11, 28a Sch; il riferimento è all’edizione di Epitteto curata da Heinrich Schenkl, EPICTETUS, Dissertationes ab Arriano digestae, bearbeitet von H. SCHENKL, Teubner, Leipzig 1916; di seguito pertanto i frammenti di Epitteto saranno indicati con la sigla

Sch), è in effetti assai plausibile che egli si servisse di altre fonti. Sul tema, cfr. K. DÖRING, Socrates bei Epiktet,

in Studia Platonica. Festschrift für Hermann Gundert, bearbeitet von K. DÖRING & W. KULLMANN, Grüner,

Amsterdam 1974, pp. 195-226, J.-B. GOURINAT, Le Socrate d’Épictète, in «Philosophie Antique», 1 (2001), pp. 137-165. Cfr. anche F. SCHWEINGRUBER, Sokrates und Epiktet, in «Hermes», 78 (1943), pp. 52-79, in cui si formula l’ipotesi che anche per l’allusione alla scontrosità di Santippe (Diss. IV 5.3,33) Epitteto non sia tanto debitore di Senofonte (un episodio raccontato in Mem. II.2 implica che la moglie di Socrate avesse un ‘brutto carattere’), quanto piuttosto si inserisca nella tradizione, forse originata da Antistene, di un topos aneddotico (cfr. ad esempio il riferimento di Diogene di Sinope all’intrattabilità di Santippe attestato in MAX. TYR., Diss. XXII.9, corrispondente alla testimonianza V B.298 nella collezione delle Socratis et Socraticorum reliquiae, voll. 4, a cura di G. GIANNANTONI, Bibliopolis, Napoli 1991, di seguito abbreviata in SSR). Ad ogni modo, Francesca Alesse (La

Stoa e la tradizione socratica, Bibliopolis, Napoli 2000, pp. 127 ss.) ha giustamente ipotizzato l’importanza delle

menzioni di Socrate nel corpus aristotelico come fonti per gli Stoici del pensiero socratico, nonché (pp. 137 ss.) dei λόγοι σωκρατικοί composti da Eschine e da Antistene, note ai primi Stoici secondo la testimonianza di Diogene Laerzio (Vit., VII.19, 60-61). Altra testimonianza socratica per Epitteto potrebbero essere le Apologie di Socrate composte da Zenone di Sidone e da Teone di Antiochia, i cui titoli e niente più ci sono noti grazie alla Suda (rispettivamente in Z 78.3 e Θ 204.2).

2 I tre brani citati sono confrontabili rispettivamente con Symp. (PLAT.) 219e-221b, Apol. (PLAT.) 36d e Phaed.

116d-117d.

3 I tre brani citati sono confrontabili rispettivamente con Prot. 311a-316a, Apol. (PLAT.) 28d-e e Symp. (PLAT.)

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del modello (Diss. I 2.35-36). Non pare pertanto esagerata la definizione di Socrate come «archegeta della filosofia stoica» nell'opinione di Epitteto, proposta da Max Pohlenz4: per

Epitteto Socrate è il filosofo per eccellenza, al punto che, come a ragione commenta Anthony A. Long, chi approcciasse lo Stoicismo tramite Epitteto si convincerebbe che il suo fondatore fu Socrate5. Lo stesso Arriano di Nicomedia6, discepolo di Epitteto e redattore del corpus

epittetiano pervenutoci, dovette cogliere l’importanza dell’esempio di Socrate per il suo maestro quando scelse di concludere il Manuale (§ 53.3-4) con una citazione dal Critone (43d) e una parafrasi dall’Apologia platonica (30c-d).

«È cosa nota che la Stoa abbia fatto riferimento al magisterio socratico per tutto il corso della sua storia» fin dalle proprie origini7. Diogene Laerzio inizia il settimo libro delle sue Vite,

dedicato agli Stoici, con la biografia del fondatore della scuola, Zenone di Cizio, raccontando questo aneddoto8:

Mentre esportava a scopo commerciale della porpora dalla Fenicia, naufragò nei pressi del Pireo. Già trentenne, ascese ad Atene e si sedette nel negozio di un libraio. Ascoltando questi leggere il secondo libro dei Memorabili di Senofonte e trovando piacevole la lettura, gli domandò dove vivessero uomini siffatti. Dato che propiziamente si trovava nei paraggi Cratete, il libraio glielo indicò e disse: "Segui costui". Da allora [Zenone] divenne uditore di Cratete (VII.2-3)9.

Così, secondo le parole del dossografo, Zenone incontrò il cinico Cratete, che nella

4 M. POHLENZ, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Bde 2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1949;

trad. it. La Stoa. Storia di un movimento spirituale, voll. 2, traduzione di V. E. ALFIERI, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. II, p. 105.

5 Cfr. A. A. LONG, Socrates in Hellenistic philosophy, in «Classical Quarterly», 38 (1988), pp. 150-171 (p. 150). 6 In merito al quale cfr. Dictionnaire des philosophes antiques, voll. 7, édité par R. GOULET, CNRS, Paris

1989-2018, vol. I, pp. 597-604.

7 ALESSE, La Stoa, cit., p. 13. Sul tema cfr. anche A. A. LONG, Socrates in later Greek philosophy, in The

Cambridge Companion to Socrates, edited by D. MORRISON, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp.

355-380, e ALESSE, La Stoa, cit., pp. 179 ss.

8 Un utile compendio delle notizie biografiche su Zenone si troverà in GOULET (ed.), op. cit., vol. VII, pp. 376 ss.,

redatto da Jörn Lang.

9 Tutte le traduzioni di passi greci e latine sono mie. Il passaggio in questione costituisce la testimonianza I.1 nella

raccolta dei frammenti degli Stoici antichi, Stoicorum Veterum Fragmenta, Bde 3, bearbeitet von H. VON ARNIM,

Teubner, Leipzig 1903-1905; trad. it. Stoici antici. Tutti i frammenti, a cura di R. RADICE, Bompiani, Milano 2002, di seguito abbreviata in SVF. Per le testimonianze sugli Stoici si è fatto riferimento anche a The Hellenistic

philosophers, voll. 2, edited by A. A. LONG & D. N. SEDLEY, Cambridge University Press, Cambridge 1987, di

seguito abbreviata in LS. Quanto alle fonti diogeniane, cfr. le due posizioni contrastanti di J. MANSFELD, Diogenes

Laertius on Stoic philosophy, in «Elenchos», 7 (1986), pp. 295-382 e V. CELLUPRICA, Diocle di Magnesia fonte

della dossografia stoica in Diogene Laerzio, in «Orpheus», 10 (1989), pp. 58-79 sul ruolo del dossografo cinico

Diocle di Magnesia, autore di una raccolta di biografie e di un’opera dossografica nota come Ἑπιδρομὴ τῶν

φιλοσόφων, ‘Compendio dei filosofi’, che Diogene cita come proprie fonti in più occasioni (Vit., VII.48 in

relazione all’esposizione della logica stoica, §§ 162, 166, 179 e 181 come testimonianza biografica rispettivamente su Aristone, Dionigi e Crisippo).

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testimonianza laerziana figura come il primo e il più importante maestro di filosofia dello Stoico10. Successivamente Diogene riporta una versione alternativa e meno ‘avventurosa’ del

loro incontro: citando l'opera perduta di Demetrio di Magnesia Sui poeti e gli autori omonimi, il dossografo riferisce che il padre di Zenone, Mnasea, era portato spesso ad Atene dalla propria professione di mercante e ne tornava con «molti [libri] dei Socratici» per il proprio figlio, quando egli era ancora un bambino (VII.31 = SVF I.6); introdotto così alla filosofia dell’Alopecese, sarebbe plausibile ipotizzare che Zenone sia salpato per Atene non per motivi mercantili, ma con la precisa intenzione di affidare la propria anima alla cura di un filosofo socratico, se lo stesso Laerzio non fornisse una versione decisamente più prosaica e realistica sul movente della venuta di Zenone in Grecia, ma anch’essa alternativa alla storia del naufragio: «Si dice che egli sia venuto in Grecia portando seco oltre mille talenti e che li investisse nel settore nautico prestandoli a interesse (ταῦτα δανείζειν ναυτικῶς)» (ivi § 13)11. Comunque, è a

partire dalla narrazione di questi episodi che nelle Vite è stabilito un legame diretto e per così

10 Non il solo, tuttavia: Diogene Laerzio (VII.2), basandosi sulla testimonianza di un certo Timocrate, menziona

come maestri di Zenone anche il megarico Stilpone e gli accademici Senocrate e Polemone. Nonostante affermi che egli fu loro uditore per vent’anni (VII.4), il ruolo di iniziatore di Zenone alla filosofia riconosciuto a Cratete e lo spazio che Diogene Laerzio gli concede nella Vita di Zenone, assai maggiore rispetto a quello concesso agli altri tre maestri – Senocrate è nominato solo in VII.2, Stilpone è menzionato all’interno di un dialogo tra Zenone e Cratete in VII.24, mentre un breve dialogo tra Zenone e Polemone è riportato in VII.25 –, palesano l’intenzione del dossografo di mettere in primo piano la discendenza dello Stoicismo dal Cinismo, i. e. da Socrate ma non per il tramite di Platone. Allo stesso fine concorre il riconoscimento in Antistene del fondatore del Cinismo e del padre spirituale di Diogene di Sinope, operazione palesemente artificiosa in quanto attestata solo a partire dal II secolo a. C., dunque ben due secoli dopo la morte del filosofo, all’interno di uno schematismo diadochistico nella dossografia filosofica. Sul tema cfr. G. GIANNANTONI, Antistene fondatore della scuola cinica?, in Le Cynisme

ancien et ses prolongements, édité par M.-O. GOULET-CAZÉ & R. GOULET, Puf, Paris 1993, pp. 15-34, Alesse, La

Stoa, cit., pp. 15 ss., 47 ss. Una breve riflessione merita la notizia, trasmessa da Diogene Laerzio e da Eusebio

(Prep. evang. XIV.5 = SVF I.11), i quali citano a loro volta come proprie fonti rispettivamente l’epicureo Timocrate e il neopitagorico Numenio, che Zenone fu discepolo di Senocrate. Dato che nella narrazione laerziana il discepolato presso Cratete precede quello presso Senocrate, mentre in quella numeniana Zenone avrebbe frequentato prima l’Accademico e poi il Cinico, Francesca Alesse (La Stoa, cit., p. 102) ne inferisce che esistevano almeno due tradizioni antiche indipendenti che confermano la veridicità della notizia. Questa può del resto essere messa in dubbio (cfr. ad esempio LS, vol. II, p. 271) solo accogliendo la cronologia della biografia zenoniana documentata da Perseo (presso D. L., Vit. VII.28), in base alla quale Zenone sarebbe nato nel 334/333 e sarebbe venuto ad Atene nel 312/311, dunque dopo la morte dell’Accademico, avvenuta nel 314 (ivi IV.14). Per la cronologia di Senocrate cfr. T. DORANDI, Chronology, in The Cambridge history of Hellenistic philosophy, edited

by K. ALGRA & J. BARNES & J. MANSFELD & M. SCHOFIELD, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 31-54 (pp. 31-32).

11 Questa seconda versione della conversione filosofica di Zenone è supportata da una testimonianza di Temistio

(Orat. XXIII.295d = SVF I.9) secondo la quale il futuro fondatore della Stoa si trasferì dalla Fenicia ad Atene dopo la lettura dell’Apologia di Socrate (non è specificato se si tratti di quella platonica, di quella senofontea o di un’altra opera ignota di un altro discepolo di Socrate); la testimonianza temistiana è isolata e se ne ignora la fonte, ma l’esegeta bizantino afferma che questo dettaglio biografico su Zenone è notissimo (ἀρίδηλα) e «declamato da molti» (ᾀδόμενα ὑπὸ πολλῶν). Diogene Laerzio (Vit., VII.2) riferisce anche un’altra versione del ‘riallacciamento’ di Zenone al pensiero di un filosofo antico quale Socrate: «Ecatone e Apollonio di Tiro nel primo libro Su Zenone affermano che, dopo che egli ebbe interrogato un oracolo su cosa fare per vivere nel modo migliore (τί πράττων

ἄριστα βιώσεται), e il dio gli ebbe risposto di mettersi in contatto con i morti (εἰ συγχρωτίζοιτο τοῖς νεκροῖς), da

ciò egli inferì di dover leggere le opere degli antichi». Francesca Alesse (La Stoa, cit., pp. 174-175) vede in questo racconto l’espressione di un tentativo di creare un parallelo tra l’inizio del magistero zenoniano e quello socratico (cfr. PLAT., Apol. 20e ss.).

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dire ‘genetico’ tra Socrate e Zenone: Cratete avrebbe subìto una forte influenza dagli insegnamenti di Diogene di Sinope (VI.85), di cui Laerzio è tuttavia cauto a definirlo discepolo, vista la testimonianza contraria di Ippoboto12; Diogene di Sinope, a sua volta, sarebbe stato

discepolo di Antistene (VI.21), uditore di Socrate (VI.2)13. Entrambi i racconti biografici su

Zenone, anche se è possibile che siano apocrifi14, attestano o comunque danno conto della

centralità del retaggio socratico nella formazione filosofica di Zenone15.

Tuttavia, nelle testimonianze e nei frammenti di Zenone e degli Stoici successivi, i riferimenti espliciti a Socrate sono scarsi16. Inoltre non ne è sempre comprensibile la rilevanza,

perché si tratta per lo più di citazioni parafrasate ed estrapolate da un'opera che non ci è pervenuta e di cui non ci è noto il contenuto17. Ad esempio, nel quattordicesimo libro dei

Deipnosofisti di Ateneo (643f = SVF III.AT65) si accenna a un diverbio tra Socrate e la moglie Santippe, citando come fonte uno scritto Sull'ira, di cui conosciamo solo il titolo, di Antipatro

12 Autore ignoto di una perduta Lista dei filosofi (I.42) e di un’altra opera perduta dal titolo Le scuole dei filosofi

(I.19).

13 L’utilizzo dei condizionali è imposto dai sospetti devono sorgere dalla constatazione che Diogene Laerzio è la

sola fonte a nostra conoscenza dell’esistenza di alcuni di questi legami, che egli potrebbe non aver inventato ma comunque valorizzato di più rispetto ad altri al fine di rendere lineare la successione dei vari libri delle Vite e offrire al lettore una giustificazione biografica dell’influsso socratico sulla filosofia stoica. Sul tema cfr. D. R. DUDLEY, A history of Cynicism, Methuen, London 1937, pp. 1 ss., ALESSE, La Stoa, cit., pp. 47 ss., 87 ss., I.

GUGLIERMINA, Diogène Laërce et le Cynisme, Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2006, pp. 17 ss., I. CHOUINARD,

Les maîtres de Cratès, in «Revue de Philosophie Ancienne», 33 (2015), pp. 63-94. Sul rapporto tra la scuola cinica

e quella stoica cfr. C. GILL, Cynicism and Stoicism, in The Oxford handbook of the history of ethics, edited by R. CRISP, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 93-111, M.-O. GOULET-CAZE, Les Kynica du Stoïcisme, Steiner

Verlag, Stuttgart 2003, nonché SVF III.743-756, che Von Arnim intitola Cynica e che contiene alcune tesi stoiche radicali, ritenute influenzate dai Cinici. A sostegno di una posizione scettica nei confronti della successione attestata da Diogene Laerzio, Francesca Alesse (La Stoa, cit., pp. 70 ss.) ricorda che in Suda Σ 829.3-4 (= SSR I H.7) la linea diadochistica che conduce da Socrate a Zenone passa non per Antistene e i Cinici, bensì tramite Euclide e la scuola megarica; esisteva dunque una tradizione che privilegiava il discepolato di Zenone presso Stilpone su quello presso Cratete. Palesemente improbabile per ragioni cronologiche, ma comunque fonte della diffusione della tradizione attestata da Diogene Laerzio, è la ricostruzione della discendenza genetica degli Stoici a partire da Socrate presentata in PS.-GAL., Hist. phil. 3, in cui Antistene è descritto come seguace di Socrate e

fondatore del Cinismo (τὴν Κυνικὴν εἰς τὸν βίον παρήγαγε), Diogene di Sinope come suo «ammiratore e imitatore» (ζηλωτὴς καὶ προσωμοιώθης) e Zenone come uditore (ἀκήκοεν), i. e. discepolo di quest’ultimo (l’opera è citata nell’edizione curata da Hermann Diels in DOXOGRAPHI GRAECI, De Gruyter, Berlin-Leipzig 1929; trad. it. I

dossografi greci, a cura di L. TORRACA, Cedam, Padova 1961).

14 Francesca Alesse (La Stoa, cit., pp. 28 ss.) in particolare fa notare come l’episodio del naufragio sia un τόπος

letterario nella biografia filosofica dal valore simbolico: tramite la perdita dei propri beni materiali il futuro filosofo è stimolato all’ascesi spirituale. L’aneddoto laerziano del naufragio di Zenone è comunque attestato anche in PLUT., Cap. ex inim. util. II.87a, De tranq. an. VI.467d, De exil. XI.603d, SEN., De tranq. an. XIV.2.

15 Cfr. A. A. LONG, The Socratic legacy, in The Cambridge history of Hellenistic philosophy, edited by K. ALGRA,

Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 615-641 (p. 621).

16 Per una sommaria rassegna di questi riferimenti cfr. LONG, Socrates in Hellenistic philosophy, cit., 160-161. 17 Apparentemente è stupefacente la perdita di tutte le opere del Vetero- e Mediostoicismo, che dovevano essere

numerose, stando alle liste di titoli che Diogene Laerzio attribuisce a Zenone (Vit. VII.4), Aristone (§ 163), Erillo (§ 166), Dionisio (§ 167), Cleante (§§ 174-175), Sfero (§ 178) e soprattutto Crisippo (§§ 190-202) – quest’ultima lista è incompleta a causa della perdita dei paragrafi successivi al § 202 del settimo libro delle Vite –. Jean-Joël Duhot, risponde alla questione ipotizzando che, trattandosi per lo più di opere esoteriche, utilizzate cioè solo in ambito scolastico, fin dalla loro redazione furono realizzate in pochi esemplari che, a causa del loro contenuto tecnico, circolarono poco al di fuori della scuola e non ricevettero molte copie, il che facilitò la loro scomparsa nel corso di pochi secoli. Cfr. J.-J. DUHOT, Épictète et la sagesse stoïcienne, Albin Michel, Paris 2003, p. 25.

(10)

di Tarso. Data la nostra ignoranza del contesto in cui egli narrava questo episodio, ci è impossibile comprendere a che proposito e per esemplificare che cosa esso venisse narrato. Non meno enigmatico è quanto sappiamo da Diogene Laerzio a proposito di Sfero di Boristene: egli avrebbe composto un'opera intitolata Licurgo e Socrate (VII.178 = SVF I.629), nella quale forse rifletteva sulle idee politiche di quest'ultimo, confrontandole con l'attività del celebre legislatore spartano. Non sappiamo però né quali fossero le tesi socratiche menzionate, né quale fosse la posizione dell'autore nei loro confronti18. Lo stesso vale a proposito della menzione, sempre

laerziana (ivi § 166), di uno scritto di Erillo intitolato Μαιευτικός. Più filosoficamente rilevanti, ma comunque decontestualizzate e pertanto enigmatiche, sono la testimonianza di Clemente Alessandrino (Strom. II 21.185 = SVF I 558.1), secondo la quale Cleante, nel secondo libro del suo Sul piacere avrebbe fatto riferimento alla nota tesi socratica, espressa ad esempio nel Gorgia platonico (470e), della coincidenza dell’uomo giusto e di quello felice, e quella di Cicerone (De div. I.123 = SVF III.AT38), secondo la quale il Sulla mantica di Antipatro avrebbe raccolto le predizioni affermate dal filosofo ateniese19. Infine, Plutarco (Aristid. XXVII 3-4.335c-d = fr.

132 VS20) e Ateneo (Deipn. XIII 2.55d-56b = fr. 133 VS) menzionano un Περὶ Σωκράτου redatto

da Panezio, in cui il Rodiense avrebbe tentato di demolire la diceria su una presunta bigamia del filosofo Ateniese; forse nella medesima opera era sviluppata una critica sulla fedeltà storica dei λόγοι Σωκρατικοί e delle commedie aristofanee in cui Socrate veniva menzionato o figurava come personaggio21.

Nonostante la scarsezza di riferimenti espliciti a Socrate da parte dei Vetero- e Mediostoici che ci sono noti, l'influsso socratico è chiaramente riconoscibile nel loro sistema concettuale e nelle loro dottrine etiche22. Le problematiche etiche affrontate nello Stoicismo, come

18 Gli unici due elementi che potrebbero guidare a una ricostruzione del tema dell’opera sono la testimonianza

laerziana (Vit., VII.178) della composizione da parte di Sfero di un’opera Sulla costituzione spartana e l’elogio socratico di Licurgo riferito in XEN., Mem. IV 4.14 (sul tema cfr. ALESSE, La Stoa, cit., p. 156 ss.). Si consideri però che le opinioni degli Stoici sul legislatore spartano sembrano essere state discordi: Plutarco (De Stoic. rep. III.1038f) riferisce che gli Stoici lo avrebbero definito uno stolto (φαῦλος) e avrebbero disprezzato la sua attività politica; viceversa proprio per questa Licurgo è lodato da Epitteto (Diss. II 20.26; cfr. anche fr. 5 Sch, in cui è presentato come modello di comportamento) e definito da Posidonio (SEN., Ep. XC.6) come meritevole di far parte dei sette sapienti.

19 Altra testimonianza dell’influsso del Socratismo sugli Stoici potrebbe essere la redazione in ambito stoico di

Ἀπομνημονεύματα o Ὑπομνήματα, verosimilmente sul modello senofonteo: Diogene Laerzio menziona dei Ricordi conviviali scritti da Perseo, aventi per tema la vita di Zenone (Vit., VII.1; l’opera è menzionata anche in FILOD.,

Hist. phil. Stoic. III.13-14), e dei Memorabili dello stesso autore (ivi § 36) dei Memorabili di Cratete scritti da

Zenone (ivi § 4), dei Memorabili sulla vanagloria, dei Ricordi e dei Memorabili di Aristone (ivi § 163).

20 Le testimonianze su Panezio sono citate nell’edizione curata da Modestus Van Straaten (PANAETIUS RHODIUS,

Fragmenta, Brill, Leiden 1962), integrata da quelle curate da Francesca Alesse (Testimonianze, Bibliopolis, Napoli

1997) ed Emmanuele Vimercati (Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2002). Le tre edizioni sono di seguito abbreviate rispettivamente in VS, Al e Vim.

21 Cfr. D. L., Vit. II.64 (= fr. 126 VS) e Schol. In Aristoph. Ran. 1491.313 (= fr. 134 VS).

22 A queste Francesca Alesse (La Stoa, cit., pp. 226 ss.) aggiunge anche la tesi stoica del monismo psicologico (in

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l'acquisizione della virtù, il conseguimento del bene psichico e della felicità, il perfezionamento della ragione, la distinzione dell'anima dal corpo etc. sono tutte associabili alle discussioni contenute nei dialoghi platonici23. Sono socratiche anche le tesi stoiche canoniche a proposito

di queste nozioni, come quelle secondo cui il solo bene è la virtù della ragione, la quale è una condizione dell'anima necessaria e sufficiente alla felicità (Apol. 29d-30b)24; sono pertanto

indifferenti tutti i beni corporei come quelli, più generalmente, estranei rispetto all’anima (Euthyd. 281d-282a)25. Sotto questo aspetto, la «scelta stoica», come si esprimeva Pierre Hadot

ricordando l’antica accezione di αἱρεσις come ‘scuola filosofica’, è senza dubbio in linea di continuità con quella socratica26, come d’altronde nessuno studio sullo Stoicismo può mancare

di riconoscere.

Epitteto non costituisce un'eccezione al riguardo, dal momento che le tesi appena enunciate pervadono il Manuale e le Diatribe. Consideriamo, a titolo meramente esemplificativo, Diss. I 4, dedicata alla nozione di progresso. Epitteto inizia spiegando (§ 1) che il progresso è il percorso volto alla conquista della felicità, e afferma quindi (§ 3) che esso si identifica con l'acquisizione di una virtù consistente (§ 11) nella capacità di soddisfare i propri desideri, agire correttamente e assentire solo a ciò che è vero. In una parola (§§ 18-20), nel perfezionamento della propria facoltà razionale e (§ 27) nella comprensione che tutto il resto, beni corporei ed

Oxford 2006), implicata dall’intellettualismo etico socratico secondo la sua interpretazione aristotelica (cfr. Eth.

Eud. VIII.1 1246b.12-36). Tale tesi è il principale obiettivo polemico di PLUT., De virt. mor., in cui si sostiene una

concezione bipartita dell’anima sul modello di Aristotele, l’unica che l’autore ritiene in grado di spiegare l’origine dei πάθη e che sorregge la sua dottrina della virtù morale; essa inoltre, com’è noto, fu per motivi analoghi al centro delle importanti critiche psicologiche mosse da Posidonio a Crisippo nel suo Περὶ παθῶν, secondo la testimonianza galeniana del De Hip. et Plat. plac. IV-V (cfr. frr. 30-34, 142-146, 163-168 EK; le testimonianze su Posidonio sono citate nell’edizione dei frammenti curata da Edelstein & Kidd, POSIDONIUS, voll. 3, Cambridge University Press,

Cambridge 1972-1999, di seguito abbreviata in EK). Sul tema cfr. GILL, Structured self, cit., pp. 266 ss. Francesca Alesse (Panezio di Rodi e la tradizione stoica, Bibliopolis, Napoli 1994, pp. 255 ss.) ritiene assai probabile che la divergenza di Posidonio fu ispirata da quella del suo maestro Panezio, il quale (cfr. ivi, pp. 194 ss.) pure secondo più testimonianze (frr. 86-89 VS) avrebbe elaborato una teoria psicologica non monistica.

23 Nello specifico, per fare solo qualche esempio, tra i dialoghi platonici il Menone è dedicato all'insegnabilità

delle virtù; in Apol. 29d-30b Socrate sostiene l'esigenza, al fine di vivere bene, di curarsi della propria anima e di rendersi virtuosi; in Euthyd. 281d-282a Socrate conclude con Clinia che la felicità è determinata dall’uso secondo ragione dei beni esterni, di per sé indifferenti rispetto alla felicità; la discussione sulla morte e sul successivo destino dell'anima narrata nel Fedone è basata sulla tesi della sua separabilità dal corpo. Cfr. LONG, The Socratic

Legacy, cit., p. 618.

24 Sul tema cfr. ALESSE, La Stoa, cit., pp. 312 ss. Le testimonianze stoiche più rilevanti a questo proposito sono D.

L., Vit. VII.127, STOB., Ecl. II.7 11h.100-101 (l’opera di Stobeo è citata nell’ultima edizione critica del testo:

Ioannis Stobaei Antologium, Bde 5, bearbeitet von C. WACHSMUTH & O. HENSE, Widmann, Berlin 1884-1912). Secondo la testimonianza di Clemente Alessandrino (Strom. V 14.254 = SVF III.AT56) la «consonanza» (συμφωνία) tra Platone e gli Stoici su questo punto era notata da Antipatro in una sua opera intitolata Ὅτι κατὰ

Πλάτωνα μόνον τὸ καλὸν ἀγαθόν, ‘Sul fatto che secondo Platone solo il bello è buono’.

25 I passaggi platonici più significativi a questo proposito sono Gorg. 467e-468b, Lach. 198c-199e, Euthyd.

278e-282e, Alc. I 115a-116a, Men. 87e-88a; cfr. anche XEN., Mem. IV 2.34. Le testimonianze stoiche relative a questa tesi sono raccolte in SVF I.179-204 per Zenone, II.552-569 per Cleante e III.49-79 per Crisippo. Cfr. ALESSE, La

Stoa, cit., pp. 320 ss., LONG, Socrates in Hellenistic philosopy, cit., pp. 150 ss., Socrates in later Greek philosophy,

cit., p. 363, come pure GILL, The structured self, cit., pp. 81 ss.

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esterni, non è niente per noi. Peraltro l'etica di Epitteto, come abbiamo constatato all'inizio del presente paragrafo, trova dichiaratamente in Socrate il proprio paradigma. La stessa definizione epittetiana – già veterostoica – della filosofia come περὶ τὸν βίον τέχνη (II 15.2) o ἐπιστήμη (IV 1.118), che prenderemo in esame in seguito, com’è stato sottilineato da John Sellars trae origine dalla concezione socratica della filosofia come ἐπιμέλεια τῆς ψυχῆς (cfr. Apol. 29d-30a, Alc. I 128a-129a), fondata sul riconoscimento della sua finalità essenzialmente etica27, e parimenti

socratica è l’identificazione dell’uomo con la propria anima (cfr. Alc. I 130c-e e Diss. I 1.10-12, II 22.19-20, III 7.2-5) 28.

Ma la questione che intendo esaminare in questo saggio è se Socrate costituisca per Epitteto, nei suoi dialoghi, anche un paradigma dialettico e, più precisamente, un paradigma per un particolare approccio al proprio interlocutore. Soffermiamoci quindi sulle modalità comunicative del filosofo ateniese.

2) Le tattiche persuasive della dialettica socratica

Una peculiarità fondamentale della dialettica socratica, intesa come il modo in cui Socrate comunica il proprio pensiero, è il suo costante riferimento al contesto in cui il proferimento ha luogo. Nella seconda metà del Fedro di Platone Socrate muove numerose critiche alla retorica, rappresentata29 dal logografo Lisia in questo dialogo, cercando di emendarla da alcuni dei suoi

difetti e trasformarla in un’arte della parola efficace, cioè persuasiva: la retorica si presenta infatti come arte della persuasione per mezzo del linguaggio verbale (259e-260a)30, ma, a parere

di Socrate, essa non riesce nel proprio scopo per come viene insegnata.

Concentriamo la nostra attenzione su una critica in particolare, quella riguardante la capacità discrezionale del momento opportuno (καιρός): è necessario, spiega il filosofo, che chi parla sappia «in quali occasioni parlare e in quali trattenersi» (272a4) e, più genericamente, quale sia il discorso adatto a ogni circostanza. I maestri di retorica non possono ritenere esaurito il proprio compito una volta che abbiano fornito ai propri discepoli, ad esempio, una conoscenza teorica dei diversi stili oratori: essi devono insegnare loro anche a riconoscere l'occasione in cui è

27 Cfr. J. SELLARS, The art of living. The Stoics on the nature and function of philosophy, Ashgate,

Hants-Burlington 2003.

28 Armand Jagu, in appendice al suo Épictète et Platon, (Vrin, Paris 1946, pp. 163-165) ha proposto un’utile

compendio comparativo dei principali temi comuni – prevalentemete etici – a Platone e a Epitteto con riferimenti testuali. Sulla condivisione veterostoica di tale tesi cfr. EPIPH., Adv. haer. II 1.496, in cui si attesta che Cleante avrebbe definito l’uomo facendo riferimento solo alla sua anima.

29 Indirettamente, per il tramite del personaggio di Fedro da cui il dialogo prende il titolo, ammiratore del logografo,

il quale non figura come interlocutore nel dialogo.

30 Cfr. anche Gorg. 452d-e. La concezione della retorica presente in Platone pare genuina: la si ritrova infatti

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opportuno ricorrere a un certo stile e non ad altri, perché è dall'applicazione in una contingenza concreta che le nozioni teoriche della retorica dimostrano la propria utilità, ed è dalla capacità di applicare queste a quella che si misura l'abilità del retore.

La comprensione dell'occasione retorica, cioè del contesto di proferimento, implica una competenza psicologica. Dato che la persuasione, scopo della retorica, consiste in un effetto che la parola pretende di avere sull'anima del proprio ascoltatore, come Socrate conclude tanto nel Fedro (261a7-8) quanto nel Gorgia (453a2-5) dietro approvazione del suo interlocutore, chi aspira a diventare un retore deve imparare quale tipo di discorso risulti persuasivo per ciascuna specie (εἶδος) di anima ed essere in grado di riconoscere a quale specie appartenga quella dell'uomo che gli si trova di fronte (Phaedr. 271c10 ss.). Non è chiaro a che tipo di classificazione corrispondano questi εἴδη. Nel suo commentario al Fedro Harvey Yunis, memore del mito narrato da Socrate durante la sua palinodia (247e ss.), pensa che essi possano corrispondere alle dodici schiere in cui sono organizzate tutte le anime31, ciascuna capeggiata

da una diversa divinità. Fuor di metafora (252e ss.), tale ripartizione rispecchia le differenze di natura (φύσις) tra le anime, considerando le quali queste ultime possono essere raggruppate in una decina di classi o poco più, se vogliamo interpretare il numero dodici contenuto nel mito come un’indicazione approssimativa. Socrate propone un paio esempi di questa suddivisione: alcune anime onorano la sapienza, simboleggiata da Zeus, altre la regalità, di cui Era è l'immagine. Tuttavia, in relazione alle specie di anima, egli afferma che esse sono τόσα καὶ τόσα, καὶ τοῖα καὶ τοῖα; la ripetizione di entrambi gli aggettivi può essere resa in italiano con il ricorso al grado superlativo: le specie di anima sono «tantissime e diversissime», a detta di Socrate, il quale suggerisce così che esse sono in numero di gran lunga superiore alle dodici classi di cui ha parlato in precedenza. È ancora meno plausibile l'identificazione degli εἶδη con il riferimento reale dell’immagine degli otto ordini gerarchici descritta sempre nella palinodia (248c-e), azzardata anch'essa da Yunis: dopo la morte, narra Socrate, le anime sono giudicate in base alla loro comprensione della verità in vita e distinte in otto ordini in vista della loro reincarnazione. Pertanto, sebbene non si possano interpretare le specie di anima come insiemi comprendenti ciascuno un solo elemento, il loro numero potrebbe essere così elevato da non discostarsi troppo da quello dei singoli esemplari di anima, cioè dei singoli uomini32. L'oscurità

del vocabolo εἴδη, in merito al quale Socrate non fornisce delucidazioni, non permette di capire però cosa egli intenda dire con esso.

31 Cfr. PLATO, Phaedrus, edited by H. YUNIS, Cambridge University Press, Cambridge 2011, p. 215.

32 Questa è l'interpretazione esposta in F. TRABATTONI, Scrivere nell'anima. Verità, dialettica e persuasione in

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Ricapitolando le riflessioni appena svolte, propongo di interpretare così il senso della critica di Socrate alla retorica su cui ci siamo concentrati: per massimizzare l'efficacia della propria arte, è necessario che il retore proferisca in ogni contesto il discorso che può risultare più persuasivo, e quest'ultimo è tale in quanto calibrato sull'anima dell'ascoltatore. A questa critica di Socrate se ne affianca così un’altra, rivolta dal filosofo al retore Gorgia nell’omonimo dialogo platonico (454e ss.), secondo la quale egli e chi svolge la sua professione sono accomunati da un disinteresse per la verità: i retori confidano nell’efficacia della propria parola non perché essa offra una descrizione oggettiva della realtà denotata, i. e. perché procedente da una conoscenza dialettica, cioè da una teoria delle forme (Phaedr. 265c-266d, 269b4 ss.), bensì perché si ritengono detentori di «un qualche congegno della persuasione» (μηχανὴν […] τινα πειθοῦς, 459b-c) che consente loro di convincere della verità di qualunque enunciato asseriscano a prescindere dalla sua effettiva verità. Questo ‘meccanismo’ – che supplisce all’ignoranza dei retori e pertanto, secondo Socrate, li rende persuasivi solo nei confronti di altri ignoranti – ha la pretesa di funzionare come un metodo generico per la dotazione di potere persuasivo alla parola piuttosto che definirsi, oltre che in riferimento alla dialettica, in relazione alle concrete contingenze di ogni proferimento; esso è concepito come una strategia comunicativa, cioè come un corso d’azione verbale programmato prima dell’incontro con i propri ascoltatori o interlocutori, ed è anche per questo, oltre che per la suddetta ignoranza dialettica del retore, che tale meccanismo per Socrate è destinato a un inevitabile ‘malfunzionamento’: le modalità comunicative efficaci, a suo avviso, sono essenzialmente delle tattiche, vale a dire dei corsi d’azione adattati alle concrete contingenze della loro applicazione. L’idea di Socrate, insomma, è che il parlante è persuasivo se proferisce il discorso più atto a persuadere il proprio ascoltatore nel contesto di proferimento.

È evidente che, secondo Socrate, questa necessità non riguarda solo i discorsi prettamente retorici, cioè volti a persuadere in ambito politico, giudiziario o epidittico, ma ogni genere di discorso. Il sintagma ῥητορικὴ τέχνη è di solito reso in italiano come ‘arte retorica’, ma letteralmente l'aggettivo in questione rimanda ai sostantivi ῥῆμα e ῥῆσις, che condividono la radice con alcune forme suppletive del verbo λέγω: l'arte retorica o, più semplicemente, la retorica è la generica competenza nella produzione di discorsi che permettono, a chi li pronunci, di ottenere il risultato che si prefigge nel pronunciarli. Le critiche elaborate nel Fedro33 non

sono dunque finalizzate tanto a migliorare i prodotti di una specifica arte (la retorica stricto sensu), quanto a rendere efficace, cioè persuasiva, ogni forma di comunicazione verbale, in

33 Per le quali cfr. G. R. F. FERRARI, Listening to the cicadas. A study of Plato's Phaedrus, Cambridge University

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primis, vista la ‘professione’ socratica, quella filosofica34.

La dipendenza della capacità persuasiva di un discorso dal suo accordo con un singolo uomo deriva dalla convinzione, sottesa ai dialoghi platonici, che i discorsi vengano recepiti dal loro ascoltatore solo qualora siano atti a persuaderlo della propria verità, come ha sostenuto, a mio avviso correttamente, Franco Trabattoni nel suo libro Scrivere nell'anima. Quanto detto non è un truismo: non si sta affermando che, secondo Socrate e Platone, un discorso è accettato come vero solo da chi si convinca della sua verità – il che è ovvio –, bensì che nessun discorso, di per sé, può offrire la garanzia di riuscire convincente per chiunque lo ascolti. Per comprendere questo punto, è utile ricordare brevemente un confronto che lo studioso italiano istituisce tra Platone e Aristotele, in conclusione del proprio saggio: la sillogistica, presentata dallo Stagirita negli Analitici Primi (I 25b.26 ss.), è un complesso di regole formali seguendo le quali si può derivare necessariamente la verità di un'asserzione a partire dalla posizione di alcune altre asserzioni. La celebre definizione di sillogismo, in 24b.19-21, recita: «Il sillogismo è un discorso in cui, ammesse alcune cose, qualcosa, che sia diverso dalle cose poste, di necessità (ἐξ ἀνάγκης) avviene per la sussistenza di tali cose». La formalità della definizione e l’affermazione della necessità della sua verità denunciano la sua pretesa di universalità. Aristotele, elaborando questo sistema di regole logiche, è alla ricerca di un metodo che consenta di produrre asserzioni per le quali non sia possibile formulare alcuna confutazione rigorosa; asserzioni la cui verità ogni uomo sia costretto a riconoscere, quali che siano il particolare uomo in questione e il contesto in cui tali affermazioni sono proferite.

La tesi di Trabattoni è che dai dialoghi platonici emerge la consapevolezza che enunciati del genere non esistono: per nessun enunciato si può escludere la possibilità che un certo uomo, in una certa situazione, non si senta persuaso della sua verità. Ciò è dovuto al fatto che la struttura

34 Come notato da Livio Rossetti in alcuni suoi fondamentali contributi sul tema (L. ROSSETTI, Rhétorique des

sophistes – Rhétorique de Socrate, in The Sophistic movement, edited by E. KARDAMITSA, Greek Philosophical

Society, Athens 1984, pp. 137-145; The rhetoric of Socrates, in «Philosophy & Rhetoric», 22 (1989), pp. 225-238;

Sulla dimensione retorica del dialogare socratico, in «Méthexis», 3 (1990), pp. 15-32; Sulla struttura macro-retorica del Filebo, in Il Filebo di Platone e la sua fortuna, a cura di P. COSENZA, D’Auria, Napoli 1993, pp. 321-352; La rhétorique de Socrate, in Socrate et les Socratiques, édite par G. ROMEYER DHERBEY & J.-B. GOURINAT,

Vrin, Paris 2001, pp. 161-185), la storia degli studi socratici, vittima di una concezione nettamente oppositiva tra Socrate e i Sofisti, è stata a lungo restia a riconoscere che il complesso delle tattiche comunicative adottate da Socrate nel corso delle conversazioni a cui prendere parte pertengono all’ambito della retorica, sebbene non siamo assimilabili alle tecniche di persuasione verbale proprie di logografi e sofisti. Mi pare tuttavia che gli studi di Rossetti, esaminando la dialettica socratica secondo la categoria della «strategia macro-retorica» (tematizzata in L. ROSSETTI, Strategie macro-retoriche: la ‘formattazione’ dell’evento comunicazionale, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 1994; per macro-retorica lo studioso intende l’abilità di progettare in astratto diverse modalità di proferimento di un concetto, in opposizione alla micro-retorica, definita come l’insieme delle «forme di messa a punto del dichiarato in ogni dettaglio», come il ricorso a certi topoi o a virtuosismi stilistici), a mio avviso non rende sufficientemente conto che i piani socratici d’azione verbale, pur essendo premeditati, si determinano sempre contestualmente e sono perciò tattici più che strategici.

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logica di un enunciato non ne garantisce la persuasività, ma quest'ultima è determinata dal particolare rapporto che s'instaura tra chi proferisce e chi ascolta l'enunciato: per rendere persuasivo un enunciato è necessario costruirlo ‘su misura’ del proprio singolo ascoltatore. Questa è la ragione del ricorso, da parte di Socrate, alla forma comunicativa del dialogo singolare: l'esigenza di modulare le proprie parole rispetto a chi le ascolta richiede la presenza di un singolo ascoltatore e una conoscenza approfondita dell'uomo che si ha di fronte, della sua situazione, dei suoi bisogni e dei suoi dubbi attuali. Ciò a sua volta implica la necessità che l'ascoltatore si faccia interlocutore, esternando continuamente i propri pensieri, così da permettere al filosofo di accordare costantemente con essi i propri discorsi, di elaborare sempre nuove tattiche della persuasione. Esemplificativa di quanto appena detto è una confessione che Socrate rivolge al retore Polo nel Gorgia – ricordata in un’occasione da Epitteto (Diss. II 12.5) –: «Io so produrre un solo testimone di ciò che dico, la persona stessa a cui è rivolto il mio discorso, mentre lascio perdere i più: so chiamare al voto una sola persona e non dialogo con i più» (474a5-b1).

Il fondamento di questa tesi è la particolare natura degli enunciati che Socrate ha in mente. Per quanto siano indubbiamente stereotipiche e approssimative le immagini di Socrate come ‘fondatore dell’etica’ e ‘disprezzatore della fisica’ plasmate da Aristotele in contrapposizione all’interesse fisico-cosmologico dei così detti Presocratici (Met. I 987b), ma già emergenti in Platone (Phaedr. 230d)35, è altrettanto evidente che la pedagogia socratica è finalizzata non

tanto a un apprendimento teorico da parte del suo interlocutore, quanto alla conversione da parte di quest’ultimo del proprio stile di vita presente. Questa finalità è stata racchiusa efficacemente da Michel Foucault nell’aggettivo ‘etopoietico’36, che egli definisce come ‘relativo a qualcosa

o qualcuno che ha la qualità di trasformare il modo d’essere di un individuo’: la missione socratica, identificata nell’Apologia con lo stimolo degli altri uomini alla cura della propria anima (ἐπιμέλεια τῆς ψυχῆς), vale a dire di sé (Alc. I 130c-e) come ricordato sopra, consiste appunto nel tentativo di trasformare eticamente i propri interlocutori, cioè di modificarne il comportamento. Ciò motiva, innanzi tutto, la scelta del dialogo come metodo comunicativo: «Il dialogo, – ha scritto Laura Candiotto in un bell’articolo sul tema – essendo una forma linguistica viva che mette in movimento la ricerca nel dialogante, fa sì che la verità colta non si fermi sul piano della parola ma che si incarni in una prassi, in una forma di vita»37. Il dialogo infatti,

35 Cfr. M. M. SASSI, Indagine su Socrate. Persona filosofo cittadino, Einaudi, Torino 2015, pp. 169 ss.

36 L’aggettivo è stato tematizzato in M. FOUCAULT, L’herméneutique du sujet, Gallimard, Paris 2001, pp. 227-228,

che lo trae dal verbo ἠθοποιεῖν e dalla sua famiglia semantica, attestata in autori tardi come Plutarco (cfr. ad esempio Per. 2) e Diogini di Alicarnasso (cfr. ad esempio De Lys. 8 ss.).

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richiedendo da parte del discente l’assunzione di un ruolo attivo nel processo di apprendimento, traduce di conseguenza quest’ultimo in un’attività ed è dunque connotabile come comunicazione etopoietica.

L’inscindibile legame tra interesse etico, sviluppo della dialettica e aspirazione alla persuasione nel filosofare socratico si trova espresso con limpida linearità già nell’incipit del Περὶ φιλοσόφου ἱστορίας, ‘Sulla storia della filosofia’, una dossografia pseudo-epigrafica attribuita a Galeno ma composta probabilmente attorno all’inizio del VI secolo38:

Socrate, […] constatando che chi si propone di dirigere costoro [scil. coloro che saranno persuasi di voler vivere nel miglior modo possibile] abbisogna di partecipare della persuasività (εὐπειθείας), e che questa venga a esistere qualora costui, a chi lo avvicina, paia saper ben usare i discorsi dialettici, e a questo fine escogitando la facoltà dialettica (τὴν διαλεκτικὴν δύναμιν), per mezzo della quale [gli uomini], venendo persuasi, saranno liberati dalle cose nocive e perverranno alle cose che per natura sono giovevoli sotto ogni aspetto, concepì questa (§ 1).

La riflessione che l’autore dell’opera attribuisce a Socrate ricalca il ragionamento che abbiamo svolto finora rendendo esplicita l’imprescindibilità della capacità persuasiva per chi, come il filosofo, parli con intenzioni etopoietiche: egli, scrive lo Pseudo-Galeno, avrebbe aggiunto (προσεπάγεται) l’etica alla filosofia, fino ad allora essenzialmente fisiologica, e si sarebbe reso conto che, per indurre il destinatario del proprio discorso ad assumere un certo stile di vita, è necessario possedere la capacità di persuaderlo, e che questa rilevi dalla capacità di saper condurre una conversazione, un dialogo con lui. Ciò, conclude il dossografo, avrebbe portato Socrate a concepire (ἐπινενοηκώς, συνέστησεν) una terza branca della filosofia, relativa alla διαλεκτικὴ δύναμις, ponendo così le basi per la canonica partizione della filosofia nell’antichità. Ma la portata etica della filosofia richiede inoltre, secondo Socrate, la costruzione di discorsi ad personam, vale a dire di discorsi che, prendendo spunto dalla condizione biografica dell’interlocutore, dal suo sfondo culturale e dai suoi interessi e dubbi attuali, lo coinvolgano in prima persona, così da conferire al suo dialogo con Socrate un significato profondamente esistenziale per lui e da aumentarne le qualità ‘psicacogiche’, per utilizzare un aggettivo, già socratico (cfr. Phaedr. 271a7-8), indicante la capacità di suscitare un movimento, un’attività nell’anima altrui.

per la vita di tutti i giorni, a cura di L. CANDIOTTO & L.V. TARCA, Mimesis, Milano 2013, pp. 61-74 (p. 65).

38 Informazioni su questa opera si leggeranno nei prolegomeni di DIELS (ed.), cit.. Lo Pseudo-Galeno dal § 25 fino

alla sua conclusione (§ 133), ma già ai §§ 20-21, sembra avere per fonte pressoché unica il Περὶ τῶν ἀρεσκόντων

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In conclusione, è il carattere etopoietico della filosofia socratica a implicare la singolarizzazione del discorso rispetto all'interlocutore attuale del filosofo. Possiamo riepilogare quanto detto in questo paragrafo con una frase di Trabattoni che riassume incisivamente la tesi socratica esposta nel Fedro della quale abbiamo discusso:

Esiste solo un discorso provvisto di ragionevoli possibilità persuasive: il discorso di un sapiente che in modo singolo e individuale si rivolge ad un'anima singola e individuale che egli conosce, e per la quale è in grado di confezionare i discorsi adatti39.

3) La possibilità di un parallelo tra la dialettica socratica e quella epittetiana

La natura dell'opera maggiore grazie alla quale ci è noto il pensiero di Epitteto, le Diatribe, permette di comparare le tattiche comunicative di Socrate con quelle del filosofo di Ierapoli. La forma comunicativa in cui vediamo qui coinvolto Epitteto implica infatti la discussione delle opinioni altrui e il loro confronto con le proprie, e perciò assume quasi sempre una veste dialogica.

Ma cos’è una diatriba? La storia del concetto è complessa40. Come riportato nel

Greek-English Lexicon41, il vocabolo διατριβή in senso proprio denota uno sfregamento (rubbing) o,

più in generale, una qualunque forma di consunzione (wearing away); in senso figurato quindi indica ordinariamente un consumo di tempo (way of spending o wasting time), cioè un modo di sfruttare il tempo (pastime). L'uso che del sostantivo fa Socrate, ad esempio, nell'Apologia platonica (33c-d, 37d) testimonia che il suo significato accolse in età classica un altro riferimento metaforico: oltre al consumo di tempo, il confronto verbale. Socrate parla infatti di διατριβή in relazione al proprio passatempo: le conversazioni filosofiche con i suoi concittadini. Per il tramite dell’esperienza cinica, nel III secolo la diatriba, secondo le parole di Joseph Souilhé contenute nell'introduzione alla sua traduzione francese delle Diatribe di Epitteto, sarebbe così giunta a significare uno scambio di punti di vista diversi e una condivisione critica di idee. Ma, come ha limpidamente spiegato Pedro P. Fuentes Gonzáles in un suo contributo fondamentale sul tema42, la diatriba non si affermò mai come stile argomentativo definito o

39 TRABATTONI, op. cit., p. 121.

40 In merito a ciò cfr. la prefazione di Giovanni Reale a EPITTETO, Tutte le opere, a cura di G. REALE e C.

CASSANMAGNAGO, Bompiani, Milano 2009, pp. 65 ss. e quella di Joseph Souilhé a ÉPICTÈTE, Entretiens, voll. 4,

édité par J. SOUILHE, Les Belles lettres, Paris 1975, pp. xxii ss.

41 Cfr. Greek-English lexicon, edited by H. LIDDLE & R. SCOTT & H. S. JONES, Oxford University Press, Oxford

1943, di seguito abbreviato in LSJ.

42 Cfr. P.P.FUENTES GONZÁLES, La «diatribe» est-elle une notion utile pour l’histoire de la philosophie et de la

littérature antiques?, in La rhétorique au miroir de la philosophie, édité par B. CASSIN, Vrin, Paris 2015, pp. 127-173. Cfr. l’analogo studio condotto da Fuentes Gonzáles nella sua introduzione a Les diatribes de Télès, Vrin, Paris

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‘genere letterario’, secondo un filone interpretativo assai popolare nella storia della letteratura e nella filologia greche del secolo scorso43, i cui aderenti – probabilmente sulla falsa riga di una

definizione di diatriba quale quella fornita dal retore Ermogene (De meth., 418.3-5): «βράχεος διανοήματος ἠθικοῦ ἔκτασις», ‘svolgimento di un breve pensiero etico’ – concordano nel definire la diatriba come la dialettica conversazionale di ascendenza cinica, caratterizzata essenzialmente da uno lessico popolare, da un tono polemico fino all’insulto e da una finalità etica, e riconoscono il suo iniziatore in Bione di Boristene, le cui Diatribe, giunteci in stato frammentario, rispondono in effetti a questa descrizione44. L’erroneità di questa interpretazione

è resa evidente dalla semplice constatazione della eterogeneità degli scritti antichi tramandatici sotto il titolo di Diatriba, che non si lasciano sussumere tutti sotto un tale concetto, come pure delle diverse occorrenze del termine nella letteratura greca antica. Tale sostantivo, conclude dunque Fuentes Gonzáles dopo aver demolito questa concezione radicata della nozione di diatriba, nell’antichità denotava semplicemente l’interazione pedagogica tra un maestro e un discepolo, che in effetti nel suo saggio egli individua tanto come caratteristica comune di diverse opere antiche così intitolate – come quelle di Telete, di Musonio Rufo e di Epitteto –, quanto come denominatore comune delle diverse occorrenze in cui il sostantivo figura in opere antiche (cfr. ad esempio il summenzionato PLAT., Apol. 33c-d, ISOCR., Antid. 197, D. L., Vit. VI.24). Dunque il vocabolo διατριβή al tempo di Epitteto, come spiegato dallo stesso Souilhé, denotava la discussione tra un insegnante e un suo studente, la parte della lezione in cui egli si «intratteneva» con i propri discepoli45. I colloqui riprodotti da Arriano nelle Diatribe avevano

luogo, presumibilmente, all’interno della scuola di Epitteto a Nicopoli46 e si svolgevano tra il

filosofo e uno o più dei suoi discepoli, oppure tra Epitteto e un esterno alla sua scuola che si

1998 (pp. 44 ss.). Sul tema cfr. anche I. HADOT &P.HADOT, Apprendre à philosopher dans l’Antiquité, Le livre

de poche, Paris 2004, pp. 20-21.

43 Di cui è parzialmente testimone lo stesso LSJ, che tra le accezioni di διατριβή riporta «short ethical treatise or

lecture». La diatriba è definita un «genre littéraire» anche da Festugière nella sua introduzione a TÉLÈS & MUSONIUS, Prédications, édité par A. J. FESTUGIÈRE, Vrin, Paris 1978.

44 Ma è improbabile che rappresentino la prima opera in assoluto di questo tipo, come vuole la tradizione. Sulla

critica al riconoscimento di Bione come ‘fondatore’ della diatriba cfr. l’introduzione a BION OF BORYSTHENES, A

collection of the fragments, edited by J. F. KINDSTRAND, Acta Universitatis Upsaliensis, Uppsala 1976, in particolare pp. 97-98.

45 Cfr. J.-B. GOURINAT, Premières leçons sur le Manuel d’Épictète, Puf, Paris 1988, p. 34.

46 Colonia augustea (nei pressi dell’odierno comune greco di Preveza) fondata all’indomani della vittoria di Azio

del 31 a. C., che concluse la guerra della Repubblica di Roma contro il Regno d’Egitto e da cui la città prese il nome (cfr. SVET., Aug. 18). A Nicopoli il filosofo era stato esiliato nell’89 in seguito a un editto con cui Domiziano

bandì tutti i filosofi dall’ager Romanus. In merito a tale editto cfr. AUL.GEL., Noct. Att. XV.11, DION.CASS., Hist.

Rom. LXVII.13, SVET., Dom. 10, PLIN., Ep. III.11. Per un tentativo di ricostruzione della biografia di Epitteto, la cui fonte principale per noi è Suda E24.24, cfr. DUHOT, op. cit., pp. 31 ss. La Suda potrebbe basarsi sulla Vita di

Epitteto scritta da Arriano (SIMPL., In Epict. Ench., praef. 1-2), che costituiva forse una sezione introduttiva delle

Diatribe, oggi perduta, sul modello dei Memorabili di Senofonte, che si aprono con una serie di informazioni

biografiche su Socrate (I.1-2). Sul tema cfr. cfr. SIMPLICIUS, Commentaire sur le Manuel d’Épictète, édité par I. HADOT, Brill, Leiden-New York-Köln 1996, pp. 152 ss.

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recava in visita al filosofo per chiedere il suo parere su qualche faccenda privata47.

Quest'accezione, come si vede, è ancora socratica48: la diatriba resta infatti un dialogo con

funzione didattica.

Molti scritti stoici, la maggior parte dei quali non ci è pervenuta, ci sono stati tramandati con un titolo che chiama in causa la nozione di diatriba. Diogene Laerzio ad esempio menziona le Diatribe di Zenone (VII.34)49, di Perseo di Cizio (VII.36 = SVF I.435) e di Sfero (VII.178 =

SVF I.620); Aristone di Chio avrebbe composto delle Diatribe erotiche e delle Diatribe sulla sapienza, queste ultime in sette libri (VII.163 = SVF I 333.1), e Cleante di Asso avrebbe scritto delle Diatribe in due libri (VII.175 = SVF I.481). Purtroppo di tutte queste opere sappiamo pochissimo: a proposito delle Diatribe di Zenone Diogene ci informa che in esse si trattava di argomenti affini a quelli contenuti nella sua Arte amatoria, opera dalla quale Sesto Empirico cita un passaggio concernente l'educazione dei bambini. Quanto alle Diatribe di Perseo, Sfero, Aristone e Cleante, sappiamo solo che costoro scrissero opere così intitolate e ignoriamo se e in che misura queste riproducessero dialoghi paragonabili con quelli socratici50. Non sappiamo

neppure se le Diatribe attribuite da Diogene Laerzio ai filosofi suddetti fossero una raccolta di loro discorsi collazionata dai filosofi stessi o da un loro ascoltatore, com’è il caso della sola opera stoica pervenutaci con il titolo di Diatribe: quella di Epitteto, redatta dal suo discepolo Flavio Arriano51.

In verità, sia detto per inciso, se da un lato le Diatribe epittetiane corrispondono nella forma

47 Alla caratterizzazione degli interlocutori di Epitteto sarà dedicato il primo capitolo della seconda parte del

presente lavoro.

48 Come giustamente sottolineato da Jean-Joël Duhot nella sua monografia su Epitteto. Cfr. DUHOT, op. cit., pp.

39-40.

49 Cfr. anche SEXT.EMP., Pyrrh. hypotyp. III.245, XI.190, corrispondenti a SVF I 250.1-2. 50 Diogene Laerzio (Vit., VII.163) attribuisce ad Aristone un’opera intitolata Διάλογοι.

51 La collezione dei frammenti di Musonio Rufo, maestro di Epitteto (la cui redazione è per lo più attribuita al suo

discepolo Lucio, un non meglio identificato ‘compagno di scuola’ di Epitteto menzionato nel titolo della Diss. V = STOB., Ecl. II.15 46.193-194 come autore del passo riportato; sulla questione e più in generale su Musonio Rufo

cfr. C. E. LUTZ, Musonius Rufus "The Roman Socrates", in «Yale Classical Studies», 10 (1947), pp. 3-147), in

italiano oggi è per lo più nota con il titolo di Diatribe (cfr. ad esempio l’edizione a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2001), per influenza dell’edizione standard stabilita da Hense (Teubner, Leipzig 1905; di seguito pertanto i frammenti meno estesi di Musonio saranno indicati con la sigla H) che reca il titolo C. Musonii Rufi

dissertationum a Lucio digestarum reliquiae, ove dissertatio è esplicitamente usato come latinizzazione di διατριβή

(cfr. ivi, praef. p. v ss.); tuttavia nessuno dei frammenti porta il titolo di Διατριβή (che figura nel corpus musoniano in una sola occorrenza, a Diss. XI 60.11, non in esplicito riferimento agli stessi discorsi del filosofo), e in nessuna fonte antica è riportato alcun titolo di un’opera scritta da o su Musonio. Prescindendo dal titolo, la lettura delle così dette Diatribe di Musonio ne rivela comunque la modesta pertinenza rispetto al proposito di verificare l’eventuale ripresa della tattica socratica della singolarizzazione dialettica: solo quattro delle ventuno ‘diatribe’ musoniane sono sviluppate sotto forma di dialogo tra il filosofo e un interlocutore caratterizzato (VIII, IX, XVI-XVII). La maggior parte di esse contengono invece monologhi del filosofo rivolti a uno o più uditori anonimi. Il vocabolo migliore per definire questi discorsi non è dunque dialogo, ma quello che Cynthia King ha scelto come titolo della propria traduzione di Rufo: lecture, equivalente in italiano a ‘lezione’ o ‘conferenza’, vale a dire una forma comunicativa essenzialmente non dialogica.

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