Capitolo V. La dottrina epittetiana della comunicazione
1) L’adattamento al progresso dell’interlocutore a) L’adattamento nel contenuto
Nel precedente capitolo sono stati anticipati alcuni punti di questa ricostruzione. In particolare, è emerso che Epitteto afferma la necessità di differenziare la propria oratoria, nei contenuti e nella forma, in base al grado di educazione filosofica della persona con cui o a cui si parla2.
Abbiamo visto che Epitteto assume e invita i propri discepoli ad assumere un atteggiamento particolare nel loro approccio con i profani, la ‘gente comune’. Finché non si abbia una solida convinzione nei principi appresi a scuola e non si sia dimostrato di saperli applicare con costanza nella propria vita, è inopportuno intrattenere rapporti con uomini e donne ἀπαίδευτοι: costoro, essendo portatori delle opinioni scorrette in cui tutti sono stati educati fin da bambini, non si lascerebbero facilmente persuadere della loro falsità. Pertanto, per un discepolo che non abbia ancora concluso il proprio percorso didattico sarebbe assai difficile riuscire in tale opera di persuasione, e anzi: dal momento che è stato allevato anch’egli nella convinzione che tali opinioni siano corrette e ha solo recentemente iniziato a dissuadersene, rischierebbe al contrario di essere sconfitto in una discussione con i profani e di essere ricondotto, dalle loro
1 BONHÖFFER,Die Ethik, cit., pp. 189-190.
2 Già Musonio Rufo avvertiva la necessità di «abbassarsi all’intelligenza dell’ascoltatore» (καθικνεῖσθαι τῆς
διανοίας τοῦ ἀκούοντος, Diss. I 5.6-7), cioè, come spiegato nel corso della prima diatriba della silloge luciana,
l’opportunità di proporre dimostrazioni diverse delle stesse tesi a seconda della perspicacia naturale e del livello di educazione del destinatario del proprio discorso (1.5-2.4,20-3.11). Per spiegare questa esigenza il filosofo nel corso della diatriba (3.11-4.5) evoca due personaggi fittizi, un ragazzo naturalmente ottuso e corrotto da cattive abitudini e uno educato λακωνικῶς e ben disposto all’apprendimento della filosofia.
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argomentazioni, a sostenere quelle opinioni. Tanto più che le critiche che sovente il filosofo muove nei loro confronti, vuoi per il loro interesse per la retorica, vuoi per il loro attaccamento a pregiudizi volgari3, dimostrano, come scrive Colardeau4, che molti discepoli di Epitteto sono ancora rivolti completamente verso l’esterno, i. e. hanno preoccupazioni materiali retaggio delle opinioni che l’educazione filosofica tenta di estirpare da loro. Perciò nella diatriba III.16 Epitteto conclude il proprio monito a essere molto prudenti durante i propri abboccamenti con la gente comune vietando tout court ai propri discepoli di frequentarla5; si confronti questa diatriba con l’articolo 33 del Manuale, in cui parimenti Epitteto sconsiglia di partecipare a simposi insieme a ἰδιῶται (§ 6). Da espressioni di questo tipo Foucault inferisce, probabilmente a ragione, che i discepoli del filosofo trascorrevano tutta la giornata presso la sua scuola, così da isolarsi il più possibile da tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare la loro formazione6.
Tuttavia, questo divieto non è universale: Epitteto non ritiene che il dialogo con chi non è filosofo sia inappropriato e nocivo per tutti. Anzi: ricordiamo che la missione del filosofo secondo Epitteto consiste proprio, more socratico, nel tentativo di indurre la gente comune, che si cura di beni materiali e posizioni sociali, a occuparsi di sé e a tenere per indifferente tutto il resto. D’altronde, il fatto stesso che Epitteto ammetta profani nella propria scuola implica che, lungi dall’essere vietato, è ammissibile per il filosofo confrontarsi con i profani. Tali sono del resto i suoi stessi discepoli, al loro primo ingresso nella scuola.
Un ragionamento analogo merita il diversificato approccio riservato da Epitteto alla presentazione del primo τόπος, relativo all’esercizio del desiderio (ὄρεξις) e dell’avversione (ἔκκλισις)7.
Ricordiamo che, secondo l’esposizione sistematica della dottrina nel capitolo III.2, questo ambito di studio, destinato a «chi intende diventare un uomo virtuoso» (τὸν ἐσόμενον καλὸν καὶ ἀγαθόν), è volto «a non fallire nei propri desideri e a non incappare nelle proprie avversioni» (§ 1), poiché altrimenti si cade preda delle passioni (πάθη) e si perde la capacità di «ascoltare
3 Cfr. ad esempio I 4.6-17, II.13, II 17.34-37, III.5. 4 Cfr. COLARDEAU, op. cit., pp. 99-101.
5 Ciò vale ovviamente, come nota BONHÖFFER (Die Ethik, cit., pp 158 ss.) anche nel caso in cui il proprio
interlocutore sia un aderente a una scuola filosofica alternativa allo Stoicismo, in primis Epicurei e Accademici; d’altronde anche costoro, disconoscendo la verità espressa dall’insegnamento stoico, sono tecnicamente degli
ἰδιῶται.
6 Cfr. FOUCAULT, op. cit., pp. 87-88. COLARDEAU (op. cit., pp. 90-91) vede in questo consiglio di Epitteto
l’influenza di Musonio Rufo, che in Diss. IX, consolando un esule che si lamenta del proprio stato, non solo dimostra, secondo il titolo attribuito da Hense al capitolo, che «l’esilio non è un male», ma ne svolge addirittura un elogio: l’esilio non solo non impedisce di vivere secondo virtù (50.4 ss.) – cfr. anche EPICT., Diss. I 30.2, II 19.24, III 2.17, IV 7.18 –, ma può addirittura offrire un supporto materiale nell’esercizio di quest’ultima, ad esempio costringendo a rinunciare al lusso e a limitare i propri desideri, riconoscendo di avere meno bisogni materiali di quanti si crede di avere (43.15 ss.).
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la ragione» (§ 3)8. In altri termini, la finalità di questo esercizio – che come quella degli altri
due, l’esercizio dell’impulso e della ripulsa e l’esercizio dell’assenso, è sintetizzabile nell’impostazione e nella conservazione della propria προαίρεσις κατὰ φύσιν – è la garanzia di un permanente stato di soddisfazione (εὐαρέστησις), o l’assicurazione che accadano tutti e soli gli eventi di cui si desidera l’avvenimento (I 12.11 ss.). Dato che l’oggetto di un desiderio e quello di un’avversione sono tali, secondo Epitteto, in quanto ritenuti rispettivamente un bene e un male, qualora accada un evento indesiderato o, viceversa, non ne accada uno desiderato, il soggetto reputa di aver acquisito un male (la mancata acquisizione di un bene equivale all’acquisizione di un male, giacché il mancato accadimento di un evento desiderato è di fatto l’accadimento di un evento indesiderato, i. e. del mancato accadimento dell’evento desiderato) e pertanto entra in una condizione di tristezza e turbamento, che gli impedisce di agire in modo razionale9, cioè κατὰ φύσιν. Altra inferenza che si può trarre sia dalla definizione del desiderio e dell’avversione rispettivamente come l’aspirazione a un bene e il rifuggimento da un male, sia dalla loro sussunzione sotto il medesimo ambito, è che di norma sussiste un rapporto bicondizionale tra il desiderio che accada un certo evento e l’avversione per il suo mancato accadimento, e che è proprio la sussistenza di un tale rapporto a determinare che la conseguenza della frustrazione di un desiderio è l’incontro con l’oggetto di un’avversione e comporta perciò insoddisfazione e turbamento.
Quanto al suo contenuto, in più occasioni 10 Epitteto asserisce che l’esercizio afferente al
primo τόπος consiste nello sforzo di limitazione dei propri desideri e delle proprie avversioni a τὰ ἐφ’ἡμῖν, cioè alla classe delle cose che sono in proprio potere: la sfera della propria προαίρεσις. Ciò è possibile solo in seguito alla posizione della diairesi ontologica radicale, vale a dire al riconoscimento della propria capacità di essere causa esclusiva solo dei propri atti psichici e non degli eventi mondani: è ‘in nostro potere’ reagire mentalmente all’accadimento di un evento, desiderando o avversando che accada, tendendo a compiere un’azione in conseguenza di esso ed esprimendo giudizi su tale accadimento, non è invece solo ‘in nostro potere’, e quindi rigorosamente parlando non è in nostro potere, che un evento accada. Questa tesi rende evidente l’esigenza della suddetta limitazione: provando desideri e avversioni solo per ciò che è in proprio potere si ha in ogni caso la capacità di realizzare i primi e non incappare nell’oggetto delle seconde, mentre estendendoli a ciò che non è in proprio potere non si può mai avere questa certezza. La limitazione dei propri desideri e delle proprie avversioni ai
8 Cfr. analogamente I 4.11-12, II 8.29.
9 «Ἀκοῦσαι λόγου» è un probabile riferimento all’immagine del δαίμων come spirito che ‘dà voce della ragione’. 10 Cfr. I 25.4, II 17.16-22, III 12.4-5, IV 1.74-77, IV 4.6.
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προαιρετικά significa lo sforzo di identificazione dei valori etici con una certa condizione della propria facoltà di scelta, nello specifico del bene con il suo essere κατὰ φύσιν e del male con il suo essere παρὰ φύσιν, i. e. rispettivamente nella disposizione alla sequela della natura, cioè all’accettazione dell’accadimento di ogni evento, e nella disposizione contraria. Questa definizione del corretto desiderio e della corretta avversione supportano la nostra inferenza sulla normalità del rapporto bicondizionale sussistente tra il desiderio di qualcosa e l’avversione del suo contrario e confermano la legittimità della sua estensione al desiderio e all’avversione ὡς δεῖ: non è ammissibile che un individuo desideri κατὰ φύσιν ma avversi παρὰ φύσιν, cioè riconosca come bene la disposizione alla sequela della natura ma non come male la disposizione contraria.
Ricapitolando, l’esercizio relativo al primo τόπος consiste nello sforzarsi di desiderare soltanto che quanto è in proprio potere si accordi con l’ordine degli eventi, cioè che si desideri che accada ogni evento che accade e non si avversi l’accadimento di nessun evento. Chi si eserciti con successo in questo ambito non può essere frustrato nei propri desideri, poiché desidera che accadano gli eventi che accadono, né incappare nell’oggetto delle proprie avversioni, poiché non avversa l’accadimento di nessun evento che accade; egli è pertanto impermeabile all’insoddisfazione e al turbamento e gode così della lucidità necessaria per comprendere la logica naturale.
L’esposizione di questo esercizio da parte di Epitteto sottintende la sua credenza in un desiderio buono, proprio del filosofo, distinto e contrapposto rispetto a un desiderio cattivo, proprio del profano. Quest’ultimo, non presupponendo la posizione della diairesi ontologica radicale, ha per oggetto elementi dell’insieme degli ἀπροαίρετα, pertanto esprime una προαίρεσις παρὰ φύσιν e comporta l’inevitabile soggezione alle passioni del desiderante. Il fondamento del desiderio buono (cfr. ad esempio I 19.25, I 21.2) è invece proprio la diairesi ontologica con il suo corollario etico: il riconoscimento di valore etico solo alla disposizione della propria facoltà di scelta; dunque il suo oggetto coincide con un singolo elemento dell’insieme dei προαιρετικά, nello specifico l’impostazione della propria προαίρεσις κατὰ φύσιν, e tale desiderio è un aspetto di una προαίρεσις κατὰ φύσιν. La stessa distinzione, mutatis mutandis, vale al riguardo dell’avversione11. Adolf F. Bonhöffer ha appropriatamente notato12 che Epitteto non di rado, sebbene non in modo sistematico, esprime la contrapposizione tra i
11 Cfr. ad esempio Ench. 5, 12, 20, in cui Epitteto esorta a non provare avversione per gli eventi ma solo per le
proprie reazioni scorrette a essi, poiché il turbamento è prodotto dal proprio uso delle rappresentazioni e non dagli eventi rappresentati. Per un commento sul tema cfr. GOURINAT,Premières leçons, op. cit., pp. 65-66.
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due desideri ricorrendo al binomio costituito da ὄρεξις ed ἐπιθυμία, denotando con il primo il desiderio del filosofo e con il secondo quello del profano13; in italiano si potrebbe rendere questo binomio con i termini ‘desiderio’ e ‘cupidigia’ o ‘brama’. Lo studioso tedesco propone anche di leggere la distinzione tra le due forme di desiderio chiamando in causa i concetti di conservazione e conquista14: dato che l’insieme degli ἐφ’ἡμῖν, per definizione, contiene solo ciò che appartiene all’agente, provare desideri riguardo tale insieme rimonta al desiderio di mantenere ciò che già si ha; d’altra parte οὐκ ἐφ’ἡμῖν è una perifrasi riferita a quanto non ci appartiene, e perciò desiderare un elemento dell’insieme degli οὐκ ἐφ’ἡμῖν significa aspirare alla sua acquisizione. Ad ogni modo ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che il primo τόπος non implica un esercizio assolutamente anacoretico: dai passaggi analizzati risulta con evidenza che la condizione virtuosa della facoltà di scelta consiste in un controllo dei desideri e delle avversioni e non nella loro soppressione.
Tuttavia in molteplici occasioni Epitteto proferisce asserzioni che contraddicono questa formulazione dell’esercizio del desiderio e dell’avversione proponendo, da un lato, l’astensione da ogni desiderio e l’estensione indiscriminata dell’avversione per i προαιρετικά, dall’altro, il rivolgimento dei propri desideri verso alcuni ἀπροαίρετα. Si consideri, ad esempio, la diatriba I.4, Sul progresso, il cui incipit recita:
Il progrediente, avendo appreso dai filosofi che il desiderio ha per oggetto ciò che è bene, e l’avversione ciò che è male, e che la prosperità e l’assenza di turbamenti pervengono all’uomo che non fallisca nel proprio desiderio né incappi nella propria avversione, ha allontanato (ἦρκεν) totalmente da sé il desiderio e lo ha differito (ὑπερτέθειται), mentre prova avversione solo per ciò che pertiene alla sua facoltà di scelta (§ 1).
A questo passaggio fa eco un capitolo del Manuale (§ 2) in cui Epitteto, illustrata come sopra la natura del desiderio e dell’avversione, incita a esercitare quest’ultima nei confronti delle «cose contro natura che dipendono da noi» (τὰ παρὰ φύσιν τῶν ἐφ' ἡμῖν), cioè nei confronti della propria capacità di usare male le proprie rappresentazioni – il che non pone problemi –, e a rimuovere (ἀναιρέω) interamente il desiderio «per il momento presente» (ἐπὶ τοῦ παρόντος);
13 Cfr. Diss. I 19.29, II 1.10, II 16.45, II 18.8-9, III 9.6, III 11.2, III 15.7, III 19.5, III 24.112, IV 1.23, IV 4.1-2, IV
7.28, IV 9.3-5, IV 13.22, Ench. 21, 29.3, Gnom. 3. In IV 1.84 è esplicita l’opposizione tra ὄρεξις ed ἐπιθυμία. Tuttavia non sono infrequenti occorrenze di ἐπιθυμία in cui il sostantivo è utilizzato in un’accezione neutrale (cfr.
Diss. III 9.21-22, III 15.11, IV 1.170, IV 6.36), o addirittura positiva (cfr. Diss. II 18.19, II 19.27, Ench. 22).
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le medesime esortazioni all’estensione dell’avversione alla sfera dei προαιρετικά senza ulteriori specificazioni e all’astensione da ogni desiderio sono ripetute altrove nelle Diatribe15.
A mio avviso è opportuno accostare a questo tema quello affrontato da Epitteto in un momento del capitolo I.29, Sulla stabilità (Περὶ εὐσταθείας), condizione congenita alla libertà e alla felicità risultante dalla posizione della diairesi ontologica radicale e dalla sua applicazione in ogni circostanza di vita; dopo aver esposto questa tesi, Epitteto afferma:
Bisogna ricordarsi di codeste cose e, qualora si sia chiamati a una difficoltà siffatta [scil. essere arrestati, imprigionati e condannati alla pena capitale, cfr. §§ 22 ss.], sapere che è giunta l’opportunità (καιρός) di dimostrare se abbiamo tratto profitto dall’educazione [filosofica] (εἰ
πεπαιδεύμεθα). Infatti un giovane che lasci la scuola e si trovi ad affrontare una difficoltà è simile
a uno dedito a risolvere sillogismi e che, nel caso in cui gliene propongano uno di facile risoluzione, dica: “Proponetemene piuttosto uno ingegnosamente complicato, così che mi alleni”. E gli atleti sono scontenti di [avversari] giovani e di peso leggero: “Non riesce a sollevarmi”, dicono. Codesto è un giovane di buona natura (εὐφυὴς νέος). Invece tu, ogni qual volta il frangente propizio ti chiama, senti il bisogno di piangere e dire: “Vorrei ancora imparare”. Che cosa? Se non hai imparato codeste cose al fine di mostrarle nella pratica (ἔργῳ δεῖξαι), a che scopo le hai imparate? Quanto a me, io penso che qualcuno tra coloro che sono qui seduti soffra dentro di sé e dica: “Non potrebbe capitarmi ora una difficoltà simile a quella che è giunta a costui? Perché perdo tempo a stare seduto in un angolo quando potrei ricevere la corona della vittoria a Olimpia? Quando mi sarà annunciata una competizione del genere?”. Bisognerebbe che tutti voi foste così (οὕτως ἔχειν ἔδει πάντας ὑμᾶς) (§§ 33-37).
La caratterizzazione del buon discepolo che emerge da questo brano è peculiare: egli è qui descritto non soltanto come colui che si dedica alla filosofia al fine di apprendere un’arte utile per la vita anziché un discorso teorico praticamente sterile, quanto piuttosto come colui che
15 Cfr. ad esempio Diss. III 9.22 («ἄφες τὴν ὄρεξιν», ‘deponi il desiderio’), 12.8 («Τίς γάρ ἐστιν ἀσκητής; Ὁ
μελετῶν ὀρέξει μὲν μὴ χρῆσθαι, ἐκκλίσει δὲ πρὸς μόνα τὰ προαρετικὰ χρῆσθαι», ‘Chi è infatti colui che si esercita? Uno che si cura di non usare il desiderio e di usare l’avversione solo nei confronti di ciò che pertiene alla sua facoltà di scelta’), 13.21 («ἀπόσχου ποτὲ παντάπασιν ὀρέξεως», ‘una buona volta tieniti lontano completamente dal desiderio’), 22.13 («ὄρεξιν ἆραί σε δεῖ παντελῶς, ἔκκλισιν ἐπὶ μόνα μεταθεῖναι τὰ προαιρετικά», ‘bisogna che tu rimuova del tutto il desiderio e riponi l’avversione solo tra ciò che pertiene alla facoltà di scelta’), IV 4.18 («ὀρέξει οὐκ ἐχρησάμην, ἐκκλίσει πρὸς μόνα τὰ προαιρετικά», ‘non ho provato desiderio e ho avversato solo ciò che pertiene alla facoltà di scelta’). L’affermazione di Epitteto in IV 1.175-176 secondo la quale «la libertà non si consegue con il soddisfacimento dei desideri (ἐκπληρώσει τῶν ἐπιθυμουμένων), bensì con la soppressione del desiderio (ἀνασκευῇ τῆς ἐπιθυμίας)», dato sia il contesto, in cui si parla del desiderio per τὰ ἐκτός, sia l’occorrenza di ἐπιθυμία piuttosto che di ὄρεξις, deve essere interpretata come un’esortazione all’abbandono dei desideri per ciò che esula dalla propria προαίρεσις (cfr. anche III 15.11: «δεῖ [...] νικῆσαί τινας ἐπιθυμίας», ‘bisogna […] vincere
alcuni desideri’, cioè solo quelli diretti verso gli ἀπροαίρετα; ἐπιθυμία in quest’occorrenza figura in accezione
neutra). Sul tema della soppressione del desiderio cfr. BONHÖFFER,Die Ethik, cit., pp. 91 ss., COLARDEAU, op. cit., p. 126.
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smania e addirittura prega (§ 36) per avere l’opportunità di mettere in pratica ciò che ha appreso in un contesto nel quale l’assunzione dell’atteggiamento stoico non è facile e richiede perciò una grande preparazione; in altri termini, il buon discepolo è qui descritto come un individuo che vorrebbe l’accadimento di certi eventi, cioè che prova desideri per qualcosa che non rileva dalla propria scelta e che perciò, fin tanto che essi non accadono, è insoddisfatto e vittima delle passioni (ὠδίνειν αὐτὸν ἐφ' ἑαυτοῦ). Per non parlare del fatto che egli, desiderando l’accadimento di eventi che mettano alla prova la sua ricezione degli insegnamenti ricevuti dai maestri di filosofia, riconosce il criterio dell’attribuzione di ἀξία alle cose esterne, cioè il loro offrirsi a un uso che realizzi una condizione materiale in cui si è facilitati nell’acquisizione, nel mantenimento e nell’esercizio della virtù, ma sembra invertire la nomenclatura tradizionalmente assegnata alle cose esterne in base a questo criterio: egli preferisce avere a che fare con ciò che la maggior parte degli Stoici sarebbe concorde nel definire ἀποπροηγμένον piuttosto che con le cose riconosciute come προηγμένα16. La sua preghiera - «Non potrebbe capitarmi ora una difficoltà simile a quella che è giunta a costui? Perché perdo tempo a stare seduto in un angolo quando potrei ricevere la corona della vittoria a Olimpia?» – significa infatti il suo desiderio di trovarsi ad affrontare situazioni in cui rischia di soccombere alla forza delle abitudini scorrette sviluppate prima di intraprendere il proprio percorso di formazione filosofica piuttosto che situazioni ‘controllate’ o non ecologiche, in cui la verifica del proprio apprendimento degli insegnamenti di Epitteto è molto più facile17.
Il contrasto di queste parole con la formulazione del primo τόπος è palese: se l’esercizio afferente a questo ambito consiste nel limitare i propri desideri e le proprie avversioni solo a ciò che pertiene alla sfera della propria προαίρεσις, nei passaggi ora menzionati Epitteto propone una dottrina alternativa, o meglio un insieme incoerente di precetti, secondo il quale non si deve provare alcun desiderio, o è lodevole desiderare alcune cose che non pertengono alla propria προαίρεσις, nello specifico gli ἀποπροηγμένα, ed è bene provare un’avversione generalizzata per ciò che pertiene alla propria προαίρεσις. Dato il fondamento ontologico ed etico dell’esercizio del primo τόπος, il sovvertimento di questo in tale senso sembra implicare a prima vista una riforma radicale anche del suo fondamento: l’astinenza da ogni desiderio e l’avversione per i προαιρετικά tout court significano il riconoscimento dell’inesistenza di
16 Ricordiamo che i due vocaboli non hanno occorrenze nel corpus epittetiano.
17 A questo esercizio, relativo al τόπος del desiderio, corrisponde nel τόπος dell’impulso l’esercizio al rifiuto
(ἀπεκλογή) dei preferiti, esemplificato con una pratica di astinenza attribuita da Epitteto ad Apollonio, forse il filosofo pitagorico originario di Tiana, (pratica che in STOB., Flor. III.17 35.501-502 – unica fonte di ciò – è
attribuita a Platone): «Ogni qual volta tu desideri esercitarti per conto tuo, in un frangente in cui hai sete a causa della calura, prendi un sorso di [acqua] fresca e sputalo senza essere visto da nessuno» (Diss. III 12.17; cfr. un passaggio analogo in Ench. 47, in cui non si fa però menzione di Apollonio).
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qualsiasi bene e male, i. e. di un qualsiasi oggetto desiderabile o avversabile, e il rivolgimento del desiderio a qualcosa che non è in proprio potere significa il riconoscimento della classe degli οὐκ ἐφ’ἡμῖν come sede di qualche bene. Persa la propria testa teorica, cioè la diairesi ontologica radicale con il suo corollario etico, la filosofia di Epitteto si ridurrebbe a un’accumulazione di precetti sparsi e incompatibili, non sottodeterminati da un’unica tesi di fondo.
La reductio ad absurdum denuncia che la lettura superficiale dei passaggi riportati è erronea, proprio come nella parte precedente di questo lavoro si è constatata la scorrettezza dell’interpretazione rigorosamente anacoretica di certe affermazioni di Epitteto18, che
considerate in sé paiono esortare a comportarsi in modo indifferente nei confronti degli ἀδιάφορα. L’erroneità di questa lettura consiste proprio nella decontestualizzazione di passaggi in cui il filosofo sta effettivamente invitando il destinatario del proprio discorso o il proprio interlocutore ad astenersi da ogni desiderio, a desiderare l’accadimento di certi eventi e a orientare la propria avversione verso i propri προαιρετικά senza operare distinzioni tra di essi. Queste esortazioni risultano incompatibili tra loro e contraddittorie rispetto alla formulazione del primo τόπος solo per chi trascuri la circostanza in cui vengono proferite e la peculiarità