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La dottrina degli σχέσεων ὀνόματα a) Esposizione della dottrina

Capitolo III. L'antropologia di Epitteto

3) La dottrina degli σχέσεων ὀνόματα a) Esposizione della dottrina

I καθήκοντα umani trovano il proprio fondamento nella natura essenzialmente relazionale dell’uomo. Un articolo del Manuale si apre proprio con queste parole: «Τὰ καθήκοντα ὡς ἐπίπαν ταῖς σχέσεσι παραμετρεῖται», cioè: «Le azioni convenienti, nel loro complesso, si misurano sulle condizioni» (§ 30). Nella diatriba ΙΙΙ.2, di cui abbiamo appena commentato i primi paragrafi, Epitteto asserisce che i καθήκοντα consistono in azioni che permettono la «custodia delle proprie condizioni naturali e sopraggiunte» (τὰς σχέσεις τηροῦντα τὰς φυσικὰς καὶ ἐπιθέτους, III 2.498), delle quali egli fornisce di seguito alcuni esempi: l'uomo ha dei καθήκοντα «in quanto

pio, figlio, fratello, padre, cittadino». Durante il suo dialogo con Nasone, Epitteto proferisce la medesima asserzione, fornendo ulteriori esempi di σχέσεις φυσικαὶ καὶ ἐπίθετοι: ciascuno ha καθήκοντα in quanto è «maschio, femmina, vicino, compagno di viaggio, governante, governato» (II 14.8)99. In questi contesti il sostantivo σχέσις viene solitamente tradotto con

‘relazione’100, ma in quanto astratto dal verbo ἔχω nel suo significato intransitivo, esso denota

piuttosto una condizione101, ed è questa la traduzione che ho deciso di adottare, pur non

disconoscendo che gli esempi menzionati da Epitteto indichino stati in cui ci si trova rispetto a qualcuno o qualcosa, per lo più di altro rispetto a sé: si è pii nei confronti degli dei, figli nei confronti dei genitori, cittadini nei confronti delle leggi della propria città e dei propri concittadini, governanti nei confronti di coloro sui quali si governa, maschi o femmine in relazione agli attributi sessuali del proprio corpo. Ma per questo motivo etimologico e per un altro di natura teorica che esporrò in seguito, discostandomi, oltre che dalla maggior parte delle traduzioni, anche dalla letteratura critica sul tema102, preferisco rendere σχέσις con ‘condizione’

98 Cfr. il medesimo sintagma in IV 8.20. Sulla custodia delle σχέσεις cfr. anche III 3.8 e III 24.79.

99 Cfr. anche II 17.31, in cui agli esempi già elencati si aggiunge la categoria degli stranieri ossia degli ospiti, nei

confronti dei quali si hanno altri καθήκοντα.

100 Sto facendo riferimento alle traduzioni delle Diatribe di Elisabeth Carter ((ed.), op. cit.), Johann G.

Schweighäuser ((ed.), op. cit.) William A. Oldfather ((ed.), op. cit.), Joseph Souilhé ((ed.), op. cit.), Renato Laurenti ((ed.), op. cit.), Robert Dobbin (Penguin, London 2008), Cesare Cassanmagnago ((ed.), op. cit.), Robin Hard ((ed.), op. cit.) e Robert Muller ((ed.), op. cit.), nonché alle traduzioni del Manuale di Hard, Oldfather, Cassanmagnago e Laurenti e a quella di Martino Menghi in EPITTETO, Manuale, a cura di M. MENGHI, Bur, Milano

1996. Anche nella volgarizzazione storica di Giacomo Leopardi, riportata nelle edizioni curate da Cassanmagnago e Menghi, figura σχέσις tradotto con ‘relazione’. Curiosa invece la scelta di Victor Cordaveaux ((ed.), op. cit.), che talora traduce σχέσις con ‘rapport’ (II 14.26, III 11.6, III 13.8), ‘lien’ (III 3.8) o ‘relation’ (IV 6.26, IV 10.13), ma altrove lo rende assai più liberamente con ‘obligation’ (III 2.4, III 22.69), ‘rôle’ (IV 4.16) o, la sua resa preferita, ‘devoir’ (II 14.8, II 22.20, IV 8.20, IV 10.15).

101 Σχέσις assume invece indiscutibilmente il significato di ‘rapporto’ in ambito matematico. Cfr. ad esempio

EUCL., Elem. V, def. 3.

102 Cfr. ad esempio BRAICOVICH, op. cit.; DE LACY, The four Stoic personae, cit., DYCK, op. cit., p. 245, C. GILL,

Stoic writers of the Imperial era, in The Cambridge history of Greek and Roman political thought, edited by C.

o ‘condizione relativa’, mostrando così di non disconoscere appunto il fatto che le σχέσεις che il filosofo ha in mente implicano relazioni (per lo più estrinseche), vale a dire che la sua concezione dell'uomo è essenzialmente quella di essere sociale nel senso ampio del termine.

Dagli esempi forniti da Epitteto risulta plausibile l’ipotesi formulata da Phillip H. de Lacy103,

secondo il quale la dottrina delle σχέσεις sarebbe l’applicazione in ambito etico e socio-politico della dottrina stoica dei generi; il filosofo sostiene in effetti di derivare la propria peculiare dottrina delle σχέσεις dalla letteratura, evidentemente stoica, dedicata al tema dei καθήκοντα (IV 4.16), sebbene non ci sia nota alcuna testimonianza su elaborazioni della dottrina delle σχέσεις precedenti a quella di Epitteto. In particolare la nozione di σχέσις, utilizzata dal filosofo tanto per denotare una condizione intrinseca di un individuo, quale il suo sesso o, come vedremo, la sua età, quanto in riferimento a una condizione o piuttosto disposizione di un individuo definita dal suo rapporto con qualcun altro, quale il suo ruolo familiare o la sua posizione sociale, è riconoscibile come un’espressione del terzo e del quarto genere, rispettivamente relativi agli enti che si trovano in una certa condizione (πῶς ἔχοντα) e a quelli che si trovano in una certa disposizione relativamente a qualche altro ente (πρὸς τί πως ἔχοντα)104. Tuttavia, date sia l’incertezza sulla funzione della dottrina dei generi, determinata

dalla cripticità delle testimonianze su di essa, sia l’assenza di riferimenti espliciti a essa da parte di Epitteto, l’ipotesi di de Lacy, per quanto suggestiva e verosimile, non può trovare a mio avviso il saldo fondamento di una verifica testuale.

Le σχέσεις sono classificate da Epitteto in due categorie: alcune sono naturali (φυσικαί), altre sopraggiunte (ἐπίθετοι). Appartengono verosimilmente alla prima le condizioni congenite, come quella definita dalla relazione con la divinità, quella definita dalla relazione con il proprio corpo e l'insieme delle condizioni definite ciascuna dalla relazione con un essere umano stabilita fin dalla nascita, come ad esempio quella del figlio rispetto ai genitori o ai fratelli maggiori; mi

ethics of Epictetus. Stoicism in ordinary life, Lexington, Plymouth 2014, pp. 30 ss., LONG, Epictetus, cit., pp. 115

et al., BONHÖFFER, Epiktet, cit., p. 22.

103 Cfr. DE LACY, The Stoic categories, cit.

104 Il sostantivo σχέσις, prima delle sue occorrenze nel corpus epittetiano, è attestato nella tradizione stoica, oltre

che nell’accezione di ‘stato’ (SIMPL., In Arist. Categ., 212.12-213.1 = SVF II.390, LS 28N, e STOB., Ecl. II.7 5k.73 = SVF III.111), cioè di quiete o disposizione stabile (cfr. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 312 ss.), anche in quella di ‘relazione’ o disposizione relativa (SIMPL., In Arist Categ., 166.15-29 = SVF II.403, LS 29C, e GAL., De H. et

Plat. decr. VII = SVF III.259, LS 29E); tuttavia in questa seconda accezione, introdotta forse da Crisippo nella sua

polemica con Aristone sull’unità delle virtù (ma attestata con certezza solo a partire dal I secolo a. C., in commentari stoici alle Categorie di Aristotele di cui sono testimoni Porfirio e Simplicio), il termine è usato all’interno di una classificazione assimilabile forse alla dottrina dei generi (sulla questione cfr. GRAESER, op. cit.)

e non ha affatto le implicazioni etiche e socio-politiche che assume invece nella dogmatica epittetiana, collocandosi piuttosto in un contesto squisitamente logico-ontologico. Sul tema cfr. MIGNUCCI, op. cit. e J.-B. GOURINAT,

sembra plausibile l’ipotesi di Brian E. Johnson105, che propone di riconoscere come σχέσεις

φυσικαί anche le condizioni non congenite ma definite da una relazione di consanguineità o di parentela acquisita. Specularmente le σχέσεις sopraggiunte (ἐπίθετοι) sono tutte le condizioni definite dalle relazioni che l'uomo instaura durante il corso della propria vita al di fuori della propria famiglia. Sebbene Andrew R. Dyck, paragonando la teoria epittetiana delle σχέσεις a quella paneziana dei πρόσωπα (paragone su cui torneremo), limiti le condizioni di questo secondo genere alle sole σχέσεις definite da relazioni instaurate volontariamente dall'uomo106,

forse in ciò ispirato dall’interpretazione di Bonhöffer107, Epitteto non lo dice mai

esplicitamente, né i suoi esempi autorizzano ad asserirlo: un uomo può trovarsi suo malgrado a viaggiare e a condividere il viaggio con qualcuno, come forse un ex-schiavo quale Epitteto ben sapeva. Si potrebbe d'altronde considerare, sebbene non menzionata da Epitteto, proprio la condizione acquisita di schiavitù come caso di σχέσις ἐπίθετος non determinata dalla volontà dell'interessato.

Ogni σχέσις comporta un insieme di καθήκοντα. Dagli esempi menzionati da Epitteto che abbiamo sopra riportato, le σχέσεις che egli ha in mente sono riconducibili a tre classi, a seconda di ciò nei confronti di cui l’uomo, identificato con la propria facoltà di scelta, si trova in una certa condizione: il dio, il proprio corpo, uno o più esseri umani108.

L'accettazione degli eventi, i. e. il desiderare che essi accadano come accadono, è il καθῆκον essenziale per l'uomo, comportato dal suo vincolo con il dio109. Ovviamente l’atto di

accettazione dal punto di vista psichico è un κατόρθωμα, in quanto definisce la disposizione alla sequela della natura; ma sotto il profilo materiale, in quanto espresso da un insieme di azioni concrete, esso può ben essere riconosciuto come un καθῆκον. La relazione soggiacente alla σχέσις dell’uomo rispetto al dio è descritta da Epitteto prendendo come modello analogico diverse relazioni: il legame di parentela tra un figlio e il padre (I.3)110, il rapporto tra un

105 JOHNSON, op. cit., p. 30. 106 Cfr. DYCK, op. cit., p. 271.

107 Cfr. BONHÖFFER, Die Ethik, cit., p. 82.

108 Questa classificazione non è espressa in termini espliciti da Epitteto, ma è presente in Marco Aurelio: «Tre

condizioni (τρεῖς σχέσεις): una nei confronti dell’involucro che [mi?] avvolge, un’altra nei confronti della causa divina in ragione esclusiva della quale accade ogni cosa, e un’altra ancora (cfr. XI 18.1) nei confronti di coloro che vivono con [me?]» (Med. VIII.27). Ἀγγεῖον è la lectio di Haines (cfr. MARCUS AURELIUS, edited by C. R. HAINES, Harvard University Press, Cambridge 1916), mentre i due manoscritti principali su cui è basato il testo

dell’opera di Marco Aurelio, il Codex Palatinus e il Codex Vaticanus, leggono αἴτιον.

109 Cfr. ad esempio II 14.11-12,27, II 17.31, IV 7.19-20. Sul tema della ‘parentela’ con il dio cfr. LONG, Epictetus

cit., pp. 156 ss.

110 La tematizzazione di un legame di parentela tra l’uomo e il dio, come sappiamo, è presumibilmente già propria

della tradizione stoica (EUS., Prep. evang. XV.15). Quanto all’attribuzione al dio dell’appellativo di padre, cfr. D.

L., Vit. VII.147, in cui il dio è metaforicamente chiamato «padre di tutte le cose» (ὥσπερ πατέρα πάντων). Sul tema cfr. K. ALGRA, Epictetus and Stoic theology, in The philosophy of Epictetus, cit., pp. 32-55.

testimone e il beneficiario della sua testimonianza (I 29.46 ss.), la relazione tra il tutto e una sua parte; egli insiste in particolare su quest’ultima relazione, pervenendo a definire l’uomo un «frammento del dio» (ἀπόσπασμα τοῦ θεοῦ, II 8.11), in ciò del resto in sintonia con la concezione stoica del λόγος umano come l’elemento che rende l’uomo partecipe del principio cosmico della natura, identificata con il dio111. Comunque, quale che sia l'immagine cui Epitteto

ricorre per rappresentare il vincolo che lega l’uomo al dio, esso implica che all'uomo conviene rispettare la sua volontà (III 24.95), proprio come una parte esiste in virtù del tutto (IV 7.7), un testimone parla in favore di chi lo ha convocato, un figlio obbedisce al proprio padre (II 10.7). Abbiamo già visto come questa accettazione non implichi rassegnazione o passività di fronte agli eventi: come scrive Long, «arrendersi» alla divinità significa assumere «una mentalità che fa il miglior uso delle effettive eventualità – cioè un uso finalizzato al mantenimento del proprio egemonico κατὰ φύσιν – come distinta dal desiderare che le cose siano diverse da come sono»112.

Passando ai καθήκοντα comportati dalla corporeità113, abbiamo già parlato della

convenienza, per l'uomo vedente, di prendersi cura dei propri occhi, non perché in sé essi meritino di ricevere le sue attenzioni, ma perché l’uomo ha l’istinto naturale a curarsene, ed essi si dimostrano un efficace strumento di conoscenza; tutto ciò ‘indica’ che è volontà del dio che l’uomo li preservi e se ne serva a scopo conoscitivo. Questa teoria della significazione divina per mezzo degli eventi è espressa con chiarezza da Epitteto a proposito della σχέσις sessuale dell’essere umano: ogni essere umano nasce con certi attributi sessuali secondari che lo qualificano come maschio o femmina, quali ad esempio la capacità di sviluppare la barba e la peluria sul resto del corpo nei maschi o, viceversa, la glabrità facciale nelle femmine. Ciascuno, secondo Epitteto, è tenuto a conservare tali attributi in quanto «contrassegni» (σύμβολα, Ι 16.9 ss.) non solo della propria appartenenza a uno dei due sessi, e perciò utili a scopi sociali – è a partire dal riconoscimento del sesso altrui che uomini e donne si accoppiano, si sposano e procreano (II 23.38-39, III 7.26, III 21.6) –, ma anche della scelta divina di determinare sessualmente un individuo (III 1.27 ss., 39 ss.)114; il καθῆκον della conservazione dei propri

111 Tale caratterizzazione dell’uomo si ritrova già nella dossografia stoica laerziana (Vit., VII.143), in cui l’anima

individuale è definita un ἀποσπάσμα del cosmo (cfr. anche CIC., Tusc. disp. V 13.38), e in quella epifanea (Adv.

haer. I 1.5 1.3), in cui è definita «parte del dio» (μέρος θεοῦ).

112 Ivi, p. 249.

113 Sulla cura del corpo in Epitteto cfr. POHLENZ, La Stoa, cit., vol. II, p. 122.

114 Questa tesi potrebbe essere stata già musoniana. Cfr. Diss. XXI 114.15-16, in cui la barba è definita σύμβολον

τοῦ ἄρρενος, ‘simbolo del maschio’, e per questo motivo, tra altri, Musonio sostiene che essa non vada rasata, pena

il divenire simili alle donne (116.3-6). A partire dall’analisi di questo capitolo e di Diss. III-IV, XII-XIV Valéry Laurand, nel suo studio pionieristico su Musonio Rufo, individua la constatazione della «coupure sexuelle» come fondamento dell’antropologia musoniana, da cui sarebbe derivata la suddetta tesi epittetiana. Cfr. LAURAND,

attributi sessuali rimonta pertanto all’accettazione degli eventi, il καθῆκον fondamentale. Inoltre, per ogni essere umano, in quanto esemplare di una specie cui conviene aspirare alla perfezione rappresentata dal dio (II 14.11 ss.), i. e. vivere secondo natura, è καθῆκον «purificare» (καθαρὸν ποιεῖν) la propria anima (cfr. ad esempio II 18.19-20115), cioè correggere

i propri giudizi, ma anche il proprio corpo, e per due ragioni: perché la sporcizia è propria delle specie animali inferiori, da cui l'uomo tenta di distinguersi tramite la propria aspirazione, e perché un uomo sporco infastidisce gli uomini in cui si imbatte (IV 11). La cura del corpo comprende anche il nutrimento e l'abbigliamento (Ench. 33.7), finalizzati però a garantire la sopravvivenza piuttosto che la conduzione di una vita nel lusso (Ench. 41), intendendo con la prima la posizione di una condizione materiale in cui si è facilitati nella pratica della virtù perché fisicamente sani, con la seconda la dedizione alla ricchezza come al vero bene.

Abbiamo accennato a καθήκοντα derivati dalla condizione filiale, dalla condizione di essere umano che frequenta esseri umani dell'altro sesso, dalla condizione di uomo che incontra casualmente (ἐντυγχάνω) altri uomini. Quelli menzionati sono solo alcuni dei molti doveri che l'uomo ha nei confronti dei propri simili116. Non credo che la σχέσις di «essere socievole»

(κοινωνικός, III 13.5), vale a dire dell’uomo in quanto «parte di una città composta di dei e uomini» (μέρος πόλεως [...] τῆς ἐκ θεῶν καὶ ἀνθρώπων, II 5.26) venga ammessa da Epitteto per riconoscimento di una situazione di fatto, la tendenziale associazione degli uomini in comunità: l'affermazione della naturale socievolezza umana non origina da una constatazione, bensì a mio avviso, sebbene ciò non venga esplicitato dal filosofo, rimonta alla descrizione del rapporto tra uomo e divinità come tra una parte e il tutto: se ogni uomo è un «frammento» del dio, la sua condizione rispetto a quest'ultimo implica essenzialmente una qualche interazione ‘a incastro’ con gli altri uomini, i quali sono altrettanti frammenti del dio. La dedizione (εἴκειν, IV 7.7) di una parte all'intero richiede infatti che la parte comprenda di essere una porzione di un qualcosa di più grande, che riconosca quindi le altre porzioni e che collabori con esse. Fuor di metafora, un uomo può attuare il proprio καθῆκον nei confronti del dio solo una volta compresa la propria posizione rispetto a esso; ma la scoperta di questa, vale a dire di sé stesso in quanto uomo come componente del dio, necessariamente comporta la scoperta degli altri uomini come co- componenti del dio e, dunque, la comprensione che il proprio καθῆκον nei confronti del dio implica una qualche collaborazione con essi. Perciò, a mio avviso, Epitteto afferma (I 19.13- 14) la naturale socievolezza umana e l'impossibilità, per il singolo uomo, di conseguire i propri

115 Sulla purezza degli σπουδαῖοι cfr. D. L., Vit. VII.119.

116 Sui καθήκοντα sociali cfr. LONG, Epictetus cit., pp. 201-202. Sulla socialità dello σπουδαῖος cfr. D. L., Vit.

beni (ἴδια ἀγαθά) qualora non contribuisca al vantaggio comune (τὸ κοινὸν ὠφέλιμον). È però opportuno precisare che ciò non significa né che un uomo può pervenire alla condizione di σπουδαῖος solo se anche tutti gli altri uomini vi pervengono, né tanto meno che un uomo ha il dovere di preoccuparsi del progresso dei propri simili: sappiamo che Socrate, pur vivendo in una città di uomini che egli non riuscì a rendere migliori sotto il profilo etico, come Epitteto rammenta più volte117, rappresenta per lui il modello etico per eccellenza; d'altronde, l'uomo

che si preoccupa del comportamento degli altri uomini non è di per sé migliore di colui che teme la morte o desidera arricchirsi, perché gli altri uomini rientrano nell'insieme delle cose che non dipendono da lui, e gli devono essere pertanto indifferenti118. L’esigenza di contribuire al

‘vantaggio comune’ dev’essere senz’altro interpretata, in primo luogo, in senso teologico, come la necessità della dedizione di una parte al tutto, dell’accordo della προαίρεσις del singolo con quella del dio, i. e. con la logica della natura. Ma io penso che possa essere interpretata anche in senso politico, come la necessità di tentare di guidare i propri simili alla condizione di εὐδαιμονία, vale a dire di assumere la missione socratica di rendere edotti gli uomini della verità; in una parola, di filosofare. Epitteto infatti caratterizza spesso i filosofi nella loro veste di insegnanti e identifica nella trasmissione di conoscenze il loro contributo all’umanità, in virtù del quale acquisiscono il proprio merito119.

È qui che si comprende l'opportunità di interpretare le σχέσεις epittetiane come condizioni relative piuttosto che come relazioni120: ognuna di esse è uno stato in cui l'uomo si trova nei

confronti di piuttosto che in relazione con qualcuno o qualcosa, poiché ciò che per ciascun membro di tale rapporto deve contare è il proprio atteggiamento nei confronti degli altri membri, non le azioni altrui nei suoi confronti stimolate dal suo atteggiamento. Questa affermazione consegue alla diairesi ontologica radicale: un uomo, quali che siano le proprie σχέσεις, non ha il potere di determinare la reazione di chi interagisce con lui in un particolare frangente, poiché essa non pertiene alla sua facoltà di scelta, al contrario del suo comportamento. Epitteto pertanto asserisce a più riprese che i καθήκοντα di un uomo nei confronti, ad esempio, dei genitori (I 12.28), dei fratelli (Ench. 30, 43) e dei vicini (Diss. III 20.11) derivano dalla sua posizione rispetto a loro e non variano in base al trattamento che egli

117 Cfr. ad esempio III 1.19 a proposito degli Ateniesi in generale, IV 1.123 a proposito dei suoi giudici e accusatori,

IV 5.33 a proposito di sua moglie e di suo figlio.

118 Cfr. ad esempio IV 1.100, in cui la moglie e i figli di un uomo sono assimilati ai suoi averi, le sue suppellettili

e la sua casa. Questa tesi è sottolineata con forza in BRAICOVICH, op. cit. Anche Ario Didimo (presso STOB., Ecl.

II.7 7b.81) include genitori e figli nella classe degli ἀδιάφορα.

119 Cfr. a titolo meramente esemplificativo I 4.28 ss., II 17.2-3, III 21.6, IV 1.83. 120 Cfr. BRAICOVICH, op. cit. e LONG, Epictetus, cit., pp. 237-238.

riceve da parte loro. Le σχέσεις, insomma, denotano una relazione non nella sua reciprocità121,

bensì dal punto di vista di uno degli interagenti, e pertanto implicano le sole azioni convenienti al mantenimento di tale relazione che dipendono da costui, a prescindere dalle azioni e reazioni degli altri membri della relazione.

In concreto, i καθήκοντα attribuiti da Epitteto ai cittadini (I 12.7, II.4, Ench. 24.4, 32.3), ai figli, ai fratelli (Diss. II 10.7 ss.), ai coniugi (III 7.26), ai genitori (III 22.74), agli amici (Ench. 32.3), ai partecipanti a un banchetto (§ 36) sono tutti convenzionali: ai cittadini conviene sottomettersi alle leggi vigenti nella propria città, sacrificarsi per la sua salvaguardia ed essere leali nei confronti dei propri concittadini, ad esempio evitando di praticare l’adulterio; ai figli conviene onorare il proprio padre e considerarlo proprietario dei propri averi; a ogni uomo conviene rispettare i propri fratelli; ai coniugi conviene procreare122; ai genitori conviene

prendersi cura della loro prole; a un uomo conviene venire in aiuto ai propri amici anche se ciò comporta la propria esposizione a dei pericoli; a chi partecipa a un banchetto conviene servirsi una porzione adeguata alla quantità di vivande disponibili e al numero di commensali. La convenzionalità di questi καθήκοντα non stupisce: il rispetto delle convenzioni è funzionale al mantenimento dei vincoli sociali, che come abbiamo visto nel loro complesso convengono all'uomo in quanto frammento del dio. Per questo motivo, sulla scia di Bonhöffer123, possiamo

definire la dottrina sociale di Epitteto come un’etica al contempo conservatrice e radicale, giacché in essa trovano posto ‘doveri’ convenzionali ma rifondati su presupposti filosofici.

Presumibilmente però tale rispetto non dev'essere incondizionato, in quanto i καθήκοντα, come sappiamo, sono essenzialmente circostanziali; è pertanto pensabile una situazione in cui il compimento di un ‘dovere convenzionale’ non venga interpretato come un’azione conveniente. Per un figlio, ad esempio, è καθῆκον obbedire al proprio padre, ma solo finché ciò non implica l'attuazione di comportamenti contrari alla retta προαίρεσις, vale a dire il compimento di azioni che non è possibile compiere se non impostando la propria προαίρεσις παρὰ φύσιν. Un paradigma concreto di questa situazione, in cui un’attività che ordinariamente è un καθῆκον perde la propria convenienza, è offerto da un capitolo delle Diatribe di Musonio Rufo, Se si debba obbedire in tutto ai genitori (Diss. XVI), il cui tema è appunto l’obbedienza