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La ricezione epittetiana della dottrina dei καθήκοντα

Capitolo III. L'antropologia di Epitteto

2) La ricezione epittetiana della dottrina dei καθήκοντα

Abbiamo visto che Epitteto concepisce come determinante della condizione di φιλόσοφος il

58 Cfr. Diss. I 17.21-28, III 21.23 e Ench. 6, in cui l’insieme di τὰ ἐφ’ἡμῖν è ricondotto alla χρῆσις φαντασιῶν; ciò

significa che ogni atto psichico non è che un’articolazione dell’uso delle rappresentazioni, un momento e una modalità in cui avviene la reazione alla presenza oggettuale. La facoltà rappresentativa (φαντασία) non pertiene invece a tale insieme, giacché, definendosi come suscettibilità a ricevere impressioni da parte degli oggetti percepiti, cioè come capacità ricettiva, non dipende dal soggetto determinare le operazioni di tale facoltà, i. e. la natura catalettica o acatalettica delle proprie rappresentazioni (cfr. PS.-PLUT., Plac. phil. IV 12.900d-901a, in cui

la φαντασία è definita un πάθος ἐν τῇ ψυχῇ γιγνόμενον, e fr. 9 Sch). Perciò nella dossografia didimiana (presso STOB., Ecl. II.7 7a.80) la capacità ricettiva (δεκτική) delle rappresentazioni è portata a esempio di indifferente. Sul tema cfr. GOURINAT, Premières leçons, cit., pp. 26-27.

59 Gli Stoici attribuivano la facoltà rappresentativa anche agli animali (D. L., Vit. VII.51 = SVF II.61); la loro

capacità di ‘usare le rappresentazioni’ è ovviamente implicata nel loro essere impulsivi, cioè nella loro suscettibilità a essere stimolati a una reazione dalla presenza percettiva di qualcosa.

60 Cfr. ad esempio II 10.1. 61 Cfr. CIC., De fin. III 6.21.

62 Sull’autoriflessività del λόγος cfr. Diss. I 1.4, sull’amoralità degli animali privi di παρακολούθησις cfr. I 28.21,

mantenimento del proprio egemonico ‘secondo natura’ (τηρεῖν τὸ ἡγεμονικὸν κατὰ φύσιν ἔχον). A seguito della nostra analisi sulle nozioni di προαίρεσις e di χρῆσις τῶν φαντασιῶν, non stupisce che il medesimo ἔργον sia definito da Epitteto come accordo con la natura della nostra scelta o del nostro uso delle nostre rappresentazioni63. A differenza dell’accordo con la natura

dell’egemonico, cioè dell’anima, queste ultime due espressioni denotano la condizione dell’uomo virtuoso non direttamente, cioè in riferimento alla correttezza della sua disposizione, bensì per il tramite dell’intenzionalità oggettuale, della maniera in cui un uomo con una disposizione virtuosa si relaziona con le cose esterne, cioè con gli ἀδιάφορα. Ma qual è il significato concreto di queste espressioni formali, ‘scegliere preferenzialmente secondo natura’ e ‘usare le proprie rappresentazioni secondo natura’?

La risposta di Epitteto a questa domanda è apparentemente sbrigativa. Si consideri, ad esempio, la definizione di progresso fornita nel corso del capitolo I.4:

In cosa consiste il progresso? Se uno di voi, allontanatosi dalle cose esterne, si è voltato (ἐπέστραπται) verso la propria facoltà di scelta, la coltiva e la esercita, al fine di renderla perfettamente accordata con la natura (σύμφωνον ἀποτελέσαι τῇ φύσει), elevata, libera, priva d’impedimenti e d’intralci, leale e rispettosa […] costui è in verità il progrediente (§§ 18, 21).

A questo passaggio fa eco, in relazione all’uso delle rappresentazioni, una serie di domande che altrove il filosofo, in qualità di maestro, invita i propri allievi a rivolgere ciascuno a se stesso in ogni circostanza di vita, come segno della loro «conversione verso sé» (ἐπιστροφὴ ἐφ' αὑτὸν), cioè verso la propria facoltà di scelta, che in quanto sintesi degli atti dell’egemonico umano è a più riprese identificata da Epitteto con l’essenza stessa dell’uomo64:

Come uso le rappresentazioni che mi capitano? Secondo o contro natura? Come reagisco a esse? Come bisognerebbe o no? Alle cose che non pertengono alla [mia] facoltà di scelta (ἀπροαιρέτοις) dichiaro che esse non sono niente per me? (III 16.15).

Una lettura superficiale e decontestualizzata dei due brani indurrebbe a interpretare le parole di Epitteto in senso anacoretico65: il mantenimento della scelta o dell’uso delle rappresentazioni

63 Cfr. Diss. I 4.18, II 2.2, III 1.25, III 3.1, III 4.9, IV 4.14, Ench. 4, 9, 30. 64 Cfr. ad esempio Diss. I 1.23, II 22.19-20, III 1.40, IV 5.11-12, IV 7.32.

65 Questa è l’interpretazione che Constant Martha dà della filosofia di Epitteto, che definisce un «anachorète païen»

e il cui pensiero ritiene riassumibile nell’imperativo: «Supporte et abstiens-toi». Cfr. C. MARTHA, Les moralistes

in conformità con la natura significherebbe un’assoluta distrazione dall’esterno in vista di una totale concentrazione interiore66; fuor di metafora, la dedizione della propria attenzione e dei

propri sforzi all’accordo della propria attività psichica con il λόγος cosmico, cui corrisponde sul versante intenzionale la noncuranza per τὰ ἐκτός. L’indifferenza delle cose esterne per la condizione etica dell’uomo implicherebbe che quest’ultima richiede un trattamento non differenziato delle cose esterne e parimenti negligente nei loro confronti. La materialità delle azioni derivate dalla disposizione κατὰ φύσιν sarebbe insomma l’incuria per tutto ciò che esula dalla disposizione stessa, la negazione di ogni interazione con gli eventi mondani e degli eventi mondani stessi, che «non sono niente per me» (οὐδὲν πρὸς ἐμέ).

Se questa fosse la sua posizione, Epitteto darebbe voce a un estremismo superiore perfino a quello aristoneo ed erilliano in relazione alla dottrina stoica degli ἀδιάφορα e quindi a quella dei καθήκοντα67. Se, come abbiamo visto, da un lato le testimonianze concordano nell’attribuire

alla maggior parte degli Stoici, se non altri a Zenone, Cleante e Crisippo, il riconoscimento a una certa interazione con certi indifferenti della capacità di contribuire, per quanto in modo indiretto e inessenziale, al conseguimento del τέλος umano, dall’altro è attestato che il filosofo di Chio rimarcava la necessità di contestualizzare ogni interazione per poter valutare se preferire o respingere, selezionare o rifiutare il suo oggetto; a Erillo, d’altronde, Cicerone pare attribuire la negazione di un qualsiasi criterio discriminatorio in seno agli indifferenti. Epitteto analogamente parrebbe negare la possibilità di qualsiasi distinzione tra le cose esterne e dunque ridurre il concetto di καθῆκον al significato di astensione (ἐποχή) dalla selezione o dal rifiuto di τὰ ἐκτός68.

Che questa interpretazione non rispecchi il pensiero di Epitteto69 risulta con evidenza già da

due brevi passaggi che abbiamo sopra riportato per presentare la nozione di προαίρεσις. Ad esempio, l’asserzione che «libero è colui per il quale ogni cosa accade secondo la sua scelta» (I 12.9) non può presupporre che la buona scelta consista, dal punto di vista materiale, in un trattamento indifferente e incurante degli eventi: una tale asserzione può essere vera solo se

66 Cfr. COLARDEAU,op. cit., p. 203, in cui la diairesi epittetiana è declinata nei termini di una dicotomia tra «mondo

della coscienza» e «mondo esteriore».

67 Questa è in effetti l’interpretazione che Roskam (op. cit., pp. 103 ss.) dà della dottrina epittetiana dei καθήκοντα. 68 Questa è la conseguenza paradossale che secondo il Catone del De finibus ciceroniano (III 15.50) deriva da una

posizione teorica sugli indifferenti quale quella aristonea, in quanto verrebbe a mancare il criterio dell’inventio

officii.

69 E che dunque l’austerità dei due passaggi (Diss. I 4.18-21, III 16.15) debba essere interpretata come espressione

di una precisa finalità pedagogica, al pari ad esempio di Ench. 19, in cui il filosofo asserisce che il percorso che conduce alla libertà è uno solo e consiste nel disprezzo per ciò che non è in nostro potere (καταφρόνησις τῶν οὐκ

ἐφ' ἡμῖν), ed Ench. 15, in cui Epitteto afferma che il disdegno (ὑπεροράω, lett. ‘guardare dall’alto in basso’) per le

vivande servite durante un simposio rende collega (σύναρχων) degli dei nel governo del mondo. Vedi infra pp. 224 ss.

poggia sul pensiero che la buona scelta consista nell’assunzione di un preciso atteggiamento positivo nei confronti degli eventi, in un certo rapporto istituito dall’uomo con questi70. Una

considerazione analoga merita l’asserzione che le cose esterne sono «i materiali della scelta, occupandosi dei quali essa otterrà il proprio bene o il proprio male» (I 29.2): per Epitteto è palesemente imprescindibile, per il conseguimento della virtù, che la προαίρεσις non si astenga dall’instaurare una qualche interazione con le cose esterne. Del resto, il ricorso stesso da parte sua ai termini di προαίρεσις (il primo significato di αἵρεσις è ‘afferramento’) e di χρῆσις τῶν πραγμάτων sembra riferirsi a una forma di attività piuttosto che di ritenzione.

Epitteto non ritiene infatti che la correttezza della προαίρεσις consista in un atteggiamento indifferente nei confronti degli ἀδιάφορα, né tanto meno nella loro trascuratezza. Sarà utile, per dimostrare questo punto, citare per esteso i primi paragrafi del capitolo I.29:

L’essenza del bene è una scelta di un certo tipo (προαίρεσις ποιά), del male una scelta di un certo [altro] tipo. E cosa sono dunque le cose esterne? I materiali della scelta, occupandosi dei quali essa otterrà il proprio bene o il proprio male. Come otterrà il bene? Non ammirando (ἂν […]

μὴ θαυμάσῃ) i materiali, poiché i giudizi su di essi, se corretti, rendono la scelta buona, se curvi e

distorti, la rendono cattiva (§§ 1-3)71.

Il mantenimento della προαίρεσις κατὰ φύσιν è prodotto dal compimento di determinati atti psichici nei confronti delle cose. Nel passaggio appena citato Epitteto menziona ad esempio lo schema del giudizio (δόγμα) che rende corretta la facoltà di scelta: esso consiste nel riconoscimento di valore etico alla sola sfera della προαίρεσις e, parallelamente, nella descrizione di tutte le cose esterne come eticamente indifferenti, cioè nell’affermazione che il loro possesso e la loro mancanza sono inessenziali alla realizzazione del τέλος umano; da questo punto di vista si può dire che la προαίρεσις κατὰ φύσιν è propria di chi formula un tale giudizio a proposito di τὰ ἐκτός, e che viceversa laπροαίρεσις παρὰ φύσιν spetta a chi li valorizza72. Ma

un discorso analogo riguarda il desiderio (ὄρεξις) e l’avversione (ἔκκλισις), atti consistenti rispettivamente nell’aspirazione a qualcosa che si reputa bene e nel rifuggimento da qualcosa che si reputa male73: da quest’altro punto di vista Epitteto identifica la buona condizione della

70 Cfr. VOELKE, L’idée de volonté, cit., p. 157: «C’est dans ses rapports avec le donné extérieur que la prohairésis

se manifeste comme agent de la réalisation du bien».

71 Cfr. anche IV 4.23: «Se onorerai (τιμήσεις) qualsiasi cosa che esula dalla tua facoltà di scelta (ὃ ἔξω τῆς

προαιρέσεως τῆς σαυτοῦ), avrai distrutto la tua facoltà di scelta» e I 25.4: «Qualora tu ti impegni (σπουδάσῃς) in

relazione a ciò che non è tuo (τὰ μὴ σαυτοῦ), distruggi ciò che è tuo (τὰ σαυτοῦ)».

72 Assumendo questo punto di vista Epitteto sostiene che conosce un individuo, i. e. la condizione della sua

προαίρεσις, chi ne conosce i giudizi (cfr. Diss. III 9.12-13, IV 8.1-3, Ench. 45).

προαίρεσις con l’assenza di desiderio e di avversione per le cose esterne, giacché è erronea la loro dotazione di valore etico74, e viceversa attribuisce una cattiva condizione della προαίρεσις

a chi desidera o avversa il verificarsi di certi eventi, i. e. di qualcosa che non è in suo potere75.

Questo secondo esempio di schema di atto psichico compiuto con una προαίρεσις κατὰ φύσιν rende tra l’altro comprensibile l’asserzione di Epitteto sopra riportata, secondo la quale «libero è colui per il quale ogni cosa accade secondo la sua scelta» (I 12.9): condizione di libertà dalla mancanza di soddisfazione (εὐαρέστησις) – la cui controparte positiva è lo sviluppo di una passione (πάθος), i. e. di un’attività irrazionale e contro natura76 – è la limitazione del desiderio

e dell’avversione a ciò che è in proprio potere, dal momento che solo di ciò l’agente è causa esclusiva; a tale atteggiamento corrisponde, nei confronti di τὰ ἐκτός, cioè τὰ οὐκ ἐφ’ἡμῖν, l’assenza di qualsiasi desiderio e avversione su un modo particolare del loro accadere, vale a dire il desiderio che essi accadano come accadano, ossia l’accettazione dell’ordine logico del mondo (cfr. ad esempio Ench. 8) o, secondo la concezione personalistica del dio propria di Epitteto, il «desiderare insieme al dio» (συνορέγεσθαι θεῷ, Diss. II 17.23, IV 7.20). In una parola, condizione della libertà dall’insoddisfazione è la sequela della φύσις intesa come concatenazione degli eventi.

L’esigenza, superficialmente problematica, di non assumere un atteggiamento indifferente nei confronti degli indifferenti è affermata da Epitteto a più riprese e con grande abilità retorica, in particolare in alcuni capitoli del secondo libro delle Diatribe, a partire dal primo, Ὅτι οὐ μάχεται τὸ θαρρεῖν τῷ εὐλαβεῖσθαι, ‘Che l’essere confidenti non confligge con l’essere cauti’. Il θάρσος e l’εὐλάβεια77 di cui è questione nel titolo di II.1 significano rispettivamente, come

spiegato in modo diffuso nel corso del capitolo, l’assenza di preoccupazioni riguardo a qualcosa e la ponderazione di qualcosa. La tesi di Epitteto – che egli deriva in questi termini da non

Stoici avrebbero sussunto il desiderio sotto l’impulso, concependolo come una «specie dell’impulso razionale» (λογικῆς ὁρμῆς εἶδος), i. e. qualcosa che induce la ragione all’azione (φορὰν διανοίας ἐπί τι τῶν ἐν τῷ πράττειν); è ipotizzabile che, in parallelo, l’avversione venisse da loro definita come una specie della ripulsa razionale. Alla differenziazione epittetiana di tre atti psichici sarebbe dunque corrisposta (cfr. PS.-PLUT., Plac. phil. IV 21.903a e PS.-GAL., Hist. phil. 102, cui si afferma che l’egemonico è «ciò che compie» (τὸ ποιοῦν) rappresentazioni, assensi, percezioni e impulsi, ma evidentemente solo assensi e impulsi sono propriamente atti, dato che per gli Stoici rappresentazioni e percezioni sono modalità ricettive), nella tradizione stoica precedente, una bipartizione tra impulsi – e ripulse – e assensi (συγκαταθέσεις), cioè tra propensioni a – e trattenimenti dal – compiere una certa azione e decisioni effettive di compiere un’azione. Sulla distinzione tra i due atti cfr. STOB., Ecl. II.7 9b.88 = SVF III.171.

74 Cfr. ad esempio Diss. II 2.10, II 5.4-5, III 20.17, III.24, IV 4.6,

75 Questa tesi è esemplificata dal dialogo immaginario tra il filosofo e Agamennone in III 22.31 ss.

76 Per questo il fine ultimo dell’insegnamento di Epitteto è esprimibile tanto come il conseguimento

dell’εὐδαιμονία quanto come il raggiungimento dell’ἀπάθεια (cfr. in particolare II.2, II.18). La concezione stoica delle passioni emerge in SVF III.377 ss. Sul tema cfr. BÉNATOUÏL, op. cit., p. 1018 ss. e LONG, Epictetus, cit., pp.

244 ss.

meglio precisati «φιλόσοφοι» – è che non solo un atteggiamento confidente possa essere mantenuto in contemporanea con uno cauto, ma che tale abbinamento debba essere mantenuto in ogni circostanza (§ 1); la spensieratezza deve essere coniugata alla riflessione, la rilassatezza all’attenzione, a patto che (§§ 2-3) i loro oggetti differiscano, ovviamente, e che i due atteggiamenti siano indirizzati in modo corretto:

Se è corretto ciò che è stato spesso detto e dimostrato, cioè che l’essenza del bene risiede nell’uso delle rappresentazioni e parimenti quella del male, e che invece ciò che esula dalla facoltà di scelta (τὰ ἀπροαίρετα) non accoglie né la natura del male né quella del bene, quale paradosso sostengono i filosofi, se affermano: “Riguardo a ciò che esula dalla facoltà di scelta ci sia confidenza, riguardo a ciò che pertiene a essa (τὰ προαιρετικά) cautela”? Se infatti il male risiede in una cattiva scelta, solo in relazione a questi [scil. τὰ προαιρετικά] merita comportarsi con cautela, e se invece ciò che esula dalla facoltà di scelta e non è in nostro potere non è niente per noi, ci si deve comportare con confidenza nei suoi confronti (§§ 4-6).

Per poter considerare gli oggetti esterni in modo adeguato, come indipendenti dalla propria responsabilità e dunque irrilevanti nella propria definizione etica, in una parola indifferenti, è indispensabile assumere nei loro confronti un determinato atteggiamento, compiere su di essi determinati atti psichici che li connotino appunto come indifferenti per l’agente. Ragionamenti analoghi sono ripetuti in termini simili da Epitteto nelle successive diatribe 5 e 6 del secondo libro, intitolate rispettivamente Come possano coesistere grandezza d’animo e sollecitudine e Sull’indifferenza. La prima fin dal titolo echeggia la II.1: la μεγαλοφροσύνη e l’ἐπιμέλεια formano un binomio che descrive altrimenti la situazione denotata da θάρσος ed εὐλάβεια. L’esigenza di prestare attenzione a ciò che è in proprio potere ma a rilassarsi per quanto riguarda ciò che non lo è può infatti essere descritta anche come un prendersi cura e un non darsi pensiero, rispettivamente delle proprie azioni e della condizione degli oggetti esteriori su cui esse portano. Il primo enunciato del capitolo II.5, il cui contenuto è largamente esemplificato nel successivo capitolo II.6, riassume la tesi epittetiana come meglio non si potrebbe: «Αἱ ὗλαι ἀδιάφοροι, ἡ δὲ χρῆσις αὐτῶν οὐκ ἀδιάφορος», ‘I materiali sono indifferenti, invece il loro uso non è indifferente’ (§ 1), dacché nella pratica essenzialmente si determina come καλός o κακός (cfr. ad esempio Ench. 32.2).

Nell’antico Stoicismo, ricordiamo, è definita καθῆκον ogni azione che un essere vivente animale è indotto a compiere per un impulso naturale specifico, e il cui compimento è pertanto funzionale alla realizzazione di tale essere in quanto esemplare di una specie. La definizione di

un’azione come καθῆκον non la connota sotto il profilo etico, dato che, in primo luogo, questa nozione si applica anche all’attività degli animali non umani, cioè irrazionali, i. e. istintivi, e dunque amorali, e, in secondo luogo, il parametro della connotazione etica di un uomo è un suo stato psichico, il suo possesso o la sua mancanza di una disposizione alla sequela della natura, e non la materialità delle sue azioni; tuttavia, nella misura in cui deriva da un impulso naturale, ogni καθῆκον umano ha l’aspetto di un’azione eticamente corretta: questa non è altro che un’azione compiuta in accordo con un impulso naturale e con una disposizione virtuosa. Per questa ragione, come abbiamo visto, Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 11a.93 = SVF III.500) parla del κατόρθωμα come del τέλειον καθῆκον, l’azione che realizza l’uomo in quanto esemplare della specie animale razionale.

Ricordiamo inoltre che la dottrina zenoniana dei καθήκοντα si fonda sull’ammissione di una polisemia dei sintagmi κατὰ e παρὰ φύσιν in relazione alla specie umana: la disposizione virtuosa e quella viziosa, o più brevemente la virtù e il vizio, sono rispettivamente ‘secondo natura’ e ‘contro natura’ poiché alla prima è congenere il conseguimento del τέλος umano, la condizione di εὐδαιμονία, alla seconda il fallimento della tensione a tale condizione. D’altronde anche le cose materiali, nel ruolo di oggetto intenzionale dell’azione, possono essere distinte in ‘secondo natura’ e ‘contro natura’ in base all’effetto psichico della loro rappresentazione: quelle che stimolano un impulso ad agire positivamente nei loro confronti, a ‘selezionarle’, sono in quanto tali secondo natura o preferite (προηγμένα), mentre quelle che stimolano una ripulsa, cioè un impulso ad astenersi dall’agire nei loro confronti o a ‘rifiutarle’, sono in quanto tali contro natura o respinte (ἀποπροηγμένα). La condiscendenza a un impulso o a una ripulsa porta al compimento di un καθῆκον ed è ‘secondo natura’ se può costituire il risvolto materiale di un’azione dettata da una disposizione virtuosa e quindi, per così dire, nel processo di sviluppo dell’οἰκείωσις rappresenta una condizione dalla quale idealmente l’uomo progredisce verso l’acquisizione di una disposizione corretta, i. e. la sequela della natura o il possesso della virtù. Questa polisemia in apparenza è esplicitamente rifiutata da Epitteto nella già citata diatriba II.5, in cui è questione del diverso atteggiamento che è bene tenere nei confronti delle cose esterne e delle proprie interazioni con esse: solo queste ultime, in quanto προαιρετικά, cioè appartenenti alla sfera della προαίρεσις, meritano di essere oggetto della propria sollecitudine, mentre non si devono avere preoccupazioni a soggetto degli ἀπροαίρετα, i. e. di τὰ ἐκτός. È in questo frangente che si colloca la domanda retorica: “Come si può dire che alcune tra le cose esterne sono conformi alla natura e altre no?” (§ 24). Apparentemente Epitteto sta così affermando l’assoluta indifferenza delle cose esterne, ma solo decontestualizzando questo brano lo si può interpretare come espressione del rinnegamento, da parte sua, della distinzione tra

preferiti e respinti78, rinnegamento che finirebbe per svuotare di significato la nozione di

καθῆκον; pur non essendo mai tematizzata tale distinzione nel corpus epittetiano, come si evince dal titolo della diatriba nonché dall’esempio del piede proposto subito dopo tale enunciato, asserendo quest’ultimo Epitteto non intende disconoscere l’esigenza di diversificare i propri atti in relazione a oggetti materialmente diversi, bensì vuol dire che, a proposito di ciò che non è in proprio potere, non ha senso parlare di conformità con o difformità dalla natura stricto sensu, cioè nell’accezione etica dei sintagmi79. L’esempio che segue, in particolare,

rende evidente che questa è l’interpretazione corretta di un’affermazione altrimenti eversiva (§ 24): la conformità alla natura di un’attività, nell’esempio la pulitura dei piedi, non è intrinsecamente propria di tale attività, ma è determinabile solo mettendola in relazione con la natura del tutto, cioè solo nel caso in cui la si compia con una disposizione alla sequela della natura. Nel corso dello stesso capitolo Epitteto inoltre non manca di esplicitare che l’implicazione dell’esigenza di trattare gli ἀπροαίρετα con μεγαλοφροσύνη, lungi dall’essere la necessità di trattarli in modo assolutamente indistinto, è la necessità di «lavorarli (φιλοτεχνεῖν) ad arte» o «esibire perizia (φιλοτεχνία) nei loro confronti», cioè di trattarli come un τεχνίτης fa con i materiali sui quali esercita la propria professione (§§ 20-22). L’uomo, sebbene non possa farsi carico della condizione effettiva di ciò che non è in suo potere, quando si trovi a interagire con un oggetto esterno lo ‘userà’ in un certo modo qualora la sua disposizione sia κατὰ φύσιν. E questo uso si può ben dire esso stesso κατὰ φύσιν anche nel suo aspetto materiale, come altrove Epitteto non esita a riconoscere: si pensi, ad esempio, alla conversazione tra il filosofo e il pubblico funzionario registrata da Arriano nel capitolo I.11, in cui Epitteto critica il proprio interlocutore per aver abbandonato la propria figlioletta malata e insieme a lui dimostra la correttezza, vale a dire la conformità a natura, della φιλοστοργία, l’amore per i membri della propria famiglia, e delle sue manifestazioni pratiche.

Un discorso analogo riguarda l’impiego del vocabolo ἀξία da parte di Epitteto. Ricordiamo che nel lessico veterostoico il sostantivo era polisemico al pari dei sintagmi κατὰ e παρὰ φύσιν: i προηγμένα hanno un certo (πολλή, ἱκανή) valore nella misura in cui la loro ‘selezione’ (ἐκλογή) pone l’agente in una condizione materiale in cui egli è facilitato nell’acquisizione e nella pratica della virtù, mentre quest’ultima ha un valore incomparabilmente superiore (μεγίστη) in quanto