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Capitolo III. L'antropologia di Epitteto

1) La ricezione epittetiana della dicotomia zenoniana

Qualunque dottrina si voglia attribuire a Epitteto, dati il carattere peculiare delle Diatribe, è implausibile attendersi che egli la esponga in modo sistematico in un unico capitolo dell’opera. Questa, come sappiamo, raccoglie colloqui tra Epitteto e uno o più dei suoi uditori o un visitatore della sua scuola; tali colloqui sono collaterali rispetto alle lezioni tenute dal filosofo1

e sono perciò verosimilmente volti a offrire delucidazioni in merito a una parte dell’esposizione offerta da Epitteto2 oppure, nel caso di visitatori che non hanno assistito a una lezione, a guidarli

nella risoluzione di una loro faccenda personale3. Il dialogo contenuto in ogni capitolo

presuppone pertanto quanto spiegato dal filosofo durante la lezione di cui esso costituisce un'appendice e, possibilmente, altre conversazioni tra Epitteto e i medesimi interlocutori su argomenti affini4: il carattere supplementare delle diatribe rispetto alle lezioni e la loro possibile

contestualizzazione in un insieme di colloqui tra Epitteto e uno stesso interlocutore implicano che in ciascuna di esse il filosofo abbia la facoltà di sottintendere concetti e argomentazioni tematizzati in precedenza altrove5. Al detrimento della sistematicità e dell'esaustività delle

spiegazioni di Epitteto contribuisce inoltre la loro oralità: non è necessario ricordare le riflessioni sull'insegnamento orale della filosofia antica di Pierre Hadot6 per comprendere come,

nel corso di un dialogo sorto a partire da una domanda rivoltagli o da una sua osservazione critica rivolta a qualcuno, Epitteto sia stimolato a dire solo quanto ritiene adatto alla contingenza presente, senza preoccuparsi di svolgere tutte le possibili implicazioni del proprio discorso.

Per questo motivo, la teoria antropologica che adesso tenteremo di rintracciare nel corpus epittetiano dovrà essere ricavata dal raffronto tra capitoli diversi delle Diatribe e del Manuale. Innanzi tutto, è facile constatare che Epitteto accetta la bipartizione antropologica tra γένη

1 Durante le quali, come si evince da affermazioni sparse di Epitteto, egli leggeva i testi classici dello Stoicismo,

in particolare di Crisippo (il filosofo più menzionato nelle Diatribe dopo Socrate e Diogene di Sinope) e della letteratura socratica, e ne chiedeva un’interpretazione ai propri discepoli, probabilmente basata su una sua spiegazione precedente (cfr. I 10.8-10, III 21.6-7 e III 23.20); Epitteto dava inoltre lezioni di logica (cfr. II 13.21, III 24.78-80 e IV 6.12) e assegnava ai propri discepoli la redazione di testi scritti (cfr. II 1.34, II 6.23 e III 16.9), che Long ipotizza fossero principalmente esercizi di logica, mentre Souilhé ritiene includessero anche composizioni di carattere più personale. Cfr. LONG, Epictetus, cit., p. 44 e SOUILHÉ (ed.), op. cit., pp. xxxiii ss.

Cfr. anche la vivace ricostruzione della lezione abituale di Epitteto in DUHOT, op. cit., pp. 36 ss.

2 Cfr. ad esempio I.13, I.14, III.6, III.22, che prendono avvio da una domanda rivolta a Epitteto. 3 Cfr. ad esempio I.10, I.11, II.2, III.4.

4 Questa affermazione è destinata a restare un'ipotesi, giacché l’opera di Arriano si componeva del doppio dei libri

pervenutici, ma soprattutto perché è assai infrequente la menzione del nome degli interlocutori: il solo che non resti esplicitamente anonimo è un tale Nasone (II.14), e possono forse essere identificati il governatore dell’Epiro con cui Epitteto dialoga in III.4 e il correttore epicureo interlocutore in III.7.

5 Cfr. LONG, Epictetus, cit., p. 49.

6 Cfr. P. HADOT, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 1993, pp. 274 ss. Cfr. anche P.

HADOT, La citadelle intérieure, cit., pp. 79-80, in cui l’autore constata nello specifico l’asistematicità dell’esposizione epittetiana nelle Diatribe.

proposta da Zenone e, cosa più importante, ne riconosce l’esaustività sia dal punto di vista etico che da quello conoscitivo. Sebbene, come ha constatato Long7, egli preferisca ricorrere,

piuttosto che ai sostantivi σπουδαῖος e σοφός, al sintagma καλὸς καὶ ἀγαθός8, tradizionalmente

utilizzato in riferimento a un uomo virtuoso, i contesti in cui compare questa espressione fanno chiaramente riferimento alla figura del τέλειος stoico, l'uomo eticamente ed epistemicamente perfetto. Rimandando a tra poco la peculiare caratterizzazione che il saggio riceve da parte di Epitteto, per il momento è sufficiente constatare che, secondo il ritratto dello σπουδαῖος zenoniano, Epitteto descrive il καλὸς καὶ ἀγαθός come l’uomo che si adegua al corso degli eventi naturali, cioè vive seguendo l’ordinamento della natura (τῆς τῶν ὅλων διατάξεως9, II

10.5); come un τέχνιτης è in grado di svolgere il proprio mestiere grazie all’apprendimento di una certa competenza, così questa sequela è resa possibile dalla conoscenza che il καλὸς καὶ ἀγαθός ha acquisito del mondo e del suo principio ordinatore, costantemente identificato da Epitteto con la figura del dio (II 14.10)10. La sua attività è inoltre descritta da Epitteto come un

«fare in vista dell’aver agito bene» (ποιεῖ […] ἕνεκα […] τοῦ πεπρᾶχθαι καλῶς, III 24.50), contrapposto al «fare in vista dell’apparire» (τοῦ δόξαι): mentre quest’ultima attività è propria di chi aspira al conseguimento di un risultato materiale nel proprio agire (ἀνύω), la prima consiste in un’attività compiuta secondo virtù al solo fine di agire virtuosamente (§§ 51 ss.) e risponde pertanto alla definizione di κατόρθωμα. Infine, una vita condotta secondo questo principio consente il raggiungimento della condizione di εὐδαιμονία (ibidem), che è dunque una prerogativa del καλὸς καὶ ἀγαθός. Epitteto, come vedremo meglio nell’ultimo capitolo della seconda parte, preferisce caratterizzare questa condizione al negativo, riferendosi più che alla perfezione di colui che si trova in essa alla sua libertà da turbamenti (cfr. ad esempio III 24.18, IV 8.25 ss.)11.

Un discorso lessicale analogo vale per la controparte dello σπουδαῖος: Epitteto ricorre

7 Cfr. LONG, Epictetus, cit., pp. 32 ss.

8 Σπουδαῖος ha solo tre occorrenze nel corpus epittetiano (Diss. I 7.3,28, III 6); σοφός ne ha poche di più (I 23.3,

II 12.22, II 15.14, II 21.11, III 13.22, III 21.18, III 22.67, IV 1.6, IV 11.24), ma la maggior parte di esse ricorre in contesti ironici, in cui Epitteto qualifica come sapiente il proprio interlocutore. Il dubbio sull’accezione epittetiana del sintagma καλὸς καὶ ἀγαθός è rimosso dall'uso sinonimico rispetto a σπουδαῖος che il filosofo ne fa in I 7.2-3. Tale sintagma è comunque già presente, come sinonimo di σπουδαῖος, nella dossografia didimiana (cfr. ad esempio STOB., Ecl. II.7 6e.78, 11g.98, 11s.115).

9 Il sintagma sembra affatto analogo al precedente φυσική κατασκευή (§ 4), ‘struttura della natura’. Entrambi

indicano la normatività logica della natura cosmica.

10 Il riferimento all’ambito delle τέχναι è senza dubbio un’allusione alla concezione stoica della filosofia come περὶ

τὸν βίον τέχνη, affermata dallo stesso Epitteto in un’occasione (II 15.2), vale a dire alla definizione di essa come

un’attività fondata su un sistema di conoscenze e finalizzata al raggiungimento di un obiettivo nella vita, i. e. la condizione di εὐδαιμονία.

11 Il modello di καλὸς καὶ ἀγαθός prediletto da Epitteto, ça va sans dire, altri non è che Socrate (IV 5.1-2, IV 8.24

raramente al termine φαῦλος12, preferendogli ἰδιώτης, sostantivo dal significato plurivoco,

come mostrato proprio dalle diverse accezioni in cui figura nel corpus epittetiano. Esso, contrapposto a vocaboli denotanti cariche pubbliche, indica la condizione del privato cittadino13; d’altronde ἰδιώτης è anche il ‘profano’ – il vulgaire nella traduzione di Colardeau14

–, colui che è privo di una certa competenza, vale a dire non ha esperienza in un certo settore professionale, e in questa accezione è il contrario di τεχνίτης15. È particolarizzando questa

seconda accezione in riferimento alla τέχνη περὶ τὸν βίον che Epitteto si serve regolarmente del sostantivo ἰδιώτης come denominazione dell’uomo ineducato alla filosofia16: mentre questa

promette, a chi voglia apprenderla, la capacità di non essere frustrati nei propri desideri, di non incappare nelle proprie avversioni e di non proferire giudizi assertori in modo sconsiderato17,

cioè, in una parola, promette la libertà18, ἰδιώτης o φαῦλος è ogni uomo che non ha intrapreso

questo percorso di apprendimento e pertanto è frustrato nei propri desideri, incorre nelle proprie avversioni e non è libero né dalla sofferenza né dalla paura (IV 1.3-5); secondo quanto concluso da Epitteto in un breve capitolo intitolato Τίς στάσις ἰδιώτου καὶ φιλοσόφου (III.19), ‘Quale sia la posizione del profano e quale quella del filosofo’19, l’ἰδιώτης è ἐν βίῳ ὁ ἀπαίδευτος (§ 6),

cioè manca di una conoscenza nella vita, appunto quella fornita da un insegnamento filosofico, oltre a essere digiuno, ovviamente, del lessico tecnico del discorso filosofico (II 12.10-12)20.

Epitteto rilegge dunque la bipartizione antropologica zenoniana tra σπουδαῖος e φαῦλος come una contrapposizione tra il φιλόσοφος e l’ἰδιώτης. Data l’equivalenza degli aggettivi σπουδαῖος e σοφός, la sostituzione di σπουδαῖος operata da Epitteto con φιλόσοφος parrebbe

12 Riferito a un individuo, l’aggettivo ricorre solo tre volte, per la precisione in Diss. IV 1.3,5 e IV 5.8. In

quest’ultimo caso il φαῦλος è descritto in opposizione al καλὸς καὶ ἀγαθός.

13 Cfr. Ench. 16, Diss. II 16.42, III 22.69,64, III 24.99. A partire da questa accezione, che ἰδιώτης deriva

verosimilmente dall’aggettivo ἴδιος, ‘proprio’, l’aggettivo ἰδιωτικός può riferirsi, come in IV 13.5, a un abbigliamento ‘borghese’, in contrapposizione a una divisa ufficiale, quale quella dei soldati dell’esercito romano.

14 Cfr. COLARDEAU, op. cit., pp. 72 ss. 15 Cfr. ad esempio II 13.3, 14.2 ss.

16 Questa interpretazione è debitrice del commento di Bonhöffer (cfr. Die Ethik, cit., p. 173). L’analogia tra la

filosofia e le τέχναι è originariamente socratica (cfr. PLAT., Alc. I 128a-129a e Gorg. 463a-466a), e deriva, come ben spiegato da John Sellars (cfr. J. SELLARS, The art of living, cit., pp. 36 ss.), dalla triplice constatazione che il filosofo, al pari di un τέχνιτης, si definisce tale perché possiede una certa competenza, che ha appreso tramite un’esercitazione ripetuta alla stessa attività e che è in grado di insegnare; sotto questa analogia generale è sussunta quindi quella specifica tra filosofia e medicina, che si ritrova tanto nel Gorgia platonico quanto nelle Diatribe epittetiane (cfr. ad esempio II 12.19, II 14.21-22, III 16.10-12, III 21.18-23), come abbiamo già constatato, e che consente a Socrate di formulare la sua celebre definizione di filosofia come cura dell’anima (ἐπιμέλεια τῆς ψυχῆς, per cui cfr. ad esempio, oltre al già citato passaggio da Alc. I, Αpol. 29d-30a), ripresa da Epitteto (cfr. ad esempio I 1.12, II 12.17, III 9.6, IV 10.25), e a quest’ultimo di definire la filosofia come «arte relativa alla vita».

17 Cfr. II 8.29, II 14.7, III 14.10. 18 Cfr. III 13.11, III 15.12.

19 Cfr. la contrapposizione analoga in Ench. 48.1.

20 L’opposizione tra φιλόσοφος e ἰδιώτης è espressa nei termini di quella tra πεπαιδεύμενος e ἀπαίδευτος in Diss.

scorretta: da un punto di vista etimologico, la condizione di filosofo implica una tensione alla saggezza che colloca il filosofo in una posizione inferiore rispetto al saggio. È questa, ad esempio, l’interpretazione che Bonhöffer fornisce del rapporto istituito dagli Stoici tra φιλοσοφία e σοφία21 e che egli riferisce allo stesso Epitteto. Tuttavia lo studioso tedesco, nella

formulazione di questa interpretazione, sembra ispirato più dalla suggestione del celebre passaggio platonico di Symp. 203e-204a che da una lettura attenta delle testimonianze sul Veterostoicismo e del corpus epittetiano22. Agli Stoici è sì attribuita una distinzione tra

φιλοσοφία e σοφία, ma per nulla analoga a quella tematizzata da Socrate nel Simposio: lo Pseudo-Plutarco, subito prima del passaggio da cui siamo partiti, nel capitolo precedente, per definire la nozione di ἀρετή (Plac. phil. I.874e), scrive che gli Stoici definiscono la sapienza come «θείων τε καὶ ἀνθρωπίνων ἐπιστήμη», ‘scienza delle cose divine e umane’; in seguito, come abbiamo visto, egli riporta la definzione stoica della filosofia come «esercizio di un’arte dell’utile», senza stabilire esplicitamente una relazione tra sapienza e filosofia. Recuperando la medesima definizione di σοφία23 e relazionandola invece con la nozione di φιλοσοφία, Sesto

Empirico (Adv. math. IX.13 = SVF II.36) riferisce che gli Stoici definivano quest’ultima come ἐπιτήδευσις σοφίας, ‘utilizzo della sapienza’, inducendo a interpretare la filosofia non come una forma di attività conoscitivamente ed eticamente inferiore alla sapienza, bensì come la messa in pratica di quest’ultima24, che rappresenta perciò il patrimonio conoscitivo del filosofo

piuttosto che un livello di perfezione che egli non ha ancora raggiunto e verso il quale tende. La distinzione, come si vede, è teorica: lo stesso individuo, potremmo dire, riceve l’apposizione di σοφός in quanto possessore di una certa conoscenza e di φιλοσοφός nella misura in cui agisce secondo tale conoscenza; si rammenterà, inoltre, che nel summenzionato passaggio pseudo- plutarcheo è attestata l’identificazione stoica della filosofia con l’esercizio di una τέχνη, cioè con una disposizione eticamente corretta alla quale corrisponde una forma di conoscenza. L’interpretazione della concezione stoica della filosofia proposta da Bonhöffer non trova

21 Cfr. BONHÖFFER, Die Ethik, cit., pp. 275-276; cfr. anche SELLARS, The art of living, cit., p. 64. La scorrettezza

di questa interpretazione risulta già evidente dalla proporzione che lo studioso stabilisce tra φιλοσοφία e σοφία da un lato e καθήκοντα e κατορθώματα dall’altro: come spiegato nel precedente capitolo, la nozione di καθῆκον, non facendo riferimento alla disposizione dell’agente, non è commensurabile con quella di κατόρθωμα.

22 Cfr. invece SEN., Ep. LXXXIX.4, in cui la filosofia è definita proprio nei termini del Simposio platonico come

amore e aspirazione per la sapienza (philosophia sapientiae amor est et adfectatio).

23 La sola differenza è l’aggiunta di πραγμάτων come sostantivo di cui sono predicati i due aggettivi; ma più che

di aggiunta si può evidentemente parlare di esplicitazione di un generico ‘cose’ sottinteso nel testo dei Placita. Cfr. inoltre il passaggio analogo in PS.-GAL., Hist. phil. 5, in cui non si fa però menzione esplicita degli Stoici come sostenitori di tale concezione della filosofia e della sapienza.

24 Parimenti Galeno (De Hip. et Plat. decr. VII 2.595 = SVF III.256) attribuisce una definizione esclusivamente

teorica della sapienza ad Aristone e Crisippo: «Quando l’anima conosca i beni e mali indipendentemente dall’agire si hanno saggezza e scienza».

dunque appiglio nelle testimonianze sul Veterostoicismo.

Ciò constatato, non è necessario supporre nemmeno che Epitteto rifiuti nella sostanza i termini della bipartizione zenoniana né che disconosca la sua esaustività, introducendo alla maniera del Socrate del Simposio platonico il γένος dei filosofi tra gli ignoranti e i sapienti, i viziosi e i virtuosi, i καλοὶ καὶ ἀγαθοί e gli ἰδιῶται. La caratterizzazione epittetiana del filosofo risponde infatti al ritratto canonico del saggio stoico, salvo per delle peculiarità che esamineremo tra poco, le quali comunque non contraddicono la concezione veterostoica dello σπουδαῖος: scopo dell’educazione filosofica è secondo Epitteto la sequela della natura, che consegue alla conoscenza approfondita di questa (καταμαθεῖν τὴν φύσιν καὶ ταύτῃ ἕπεσθαι, Ench. 49). Epitteto è solito esprimere l’ἔργον del filosofo ricorrendo piuttosto all’espressione τηρεῖν τὸ ἡγεμονικὸν κατὰ φύσιν ἔχον25, facendo riferimento alla nozione di egemonico,

introdotta da Zenone per definire il ‘principio direttivo’ di un essere vivente, che nell’uomo consiste nella sua anima specificamente razionale26: con tale espressione Epitteto vuole dunque

significare che l’attività del filosofo è il mantenimento della propria anima in accordo con la natura, i. e. con il λόγος universale. Egli inoltre, come nel capitolo II.14 paragona il καλὸς καὶ ἀγαθός a un τεχνίτης per il fondamento conoscitivo della sua disposizione virtuosa, così impernia la prima parte del discorso IV.8, Contro coloro che si gettano affrettatamente sull’aspetto esteriore dei filosofi (§§ 1-14) sul paragone tra il filosofo e i τεχνῖται; in questo contesto egli denuncia il fatto che i più, pur mostrandosi capaci di distinguere un esperto da un incompetente in molti settori professionali, non possiedono i criteri corretti per riconoscere un filosofo. Epitteto caratterizza quindi la professione filosofica secondo i parametri con cui è definibile una qualsiasi altra τέχνη:

Qual è il materiale (ὕλη) del filosofo? Forse un mantello logoro? No, ma la ragione. Quale il suo fine (τέλος)? Forse indossare un mantello logoro? No, ma avere la ragione corretta (τὸ ὀρθὸν

ἔχειν τὸν λόγον). Quali i suoi principi (θεωρήματα)? Forse hanno qualcosa a che fare con il modo

per farsi crescere lunga la barba o folta la chioma27? No, ma piuttosto sono quelli di cui parla

25 Cfr. I 15.4, ΙΙΙ 6.3, ΙV 5.6. Possibili variazioni sono κατὰ φύσιν ἔχειν τὸ ἡγεμονικόν (III 5.3, III 10.11) e τὸ

ἡγεμονικὸν κατὰ φύσιν ἔχειν καὶ διεξάγειν (III 9.11).

26 Cfr. SVF I.143, II.836-837. Cfr. anche CIC., De nat. deor. II.29 (= LS 47C). Come a mio avviso ben illustrato da

Bonhöffer (Epiktet, cit., pp. 94 ss.), ἡγεμονικόν è un termine formale, in quanto fa riferimento alla facoltà psichica che presiede all’attività di un essere vivente ed è dunque variabile in funzione della distinzione tra piante e animali, quindi tra animali razionali e irrazionali: l’egemonico dell’uomo, in quanto animale razionale, consiste nella sua anima, che è razionale, negli altri animali consiste invece in un’anima istintiva, e nelle piante nella semplice natura (cfr. SVF II.715).

27 Théodore Colardeau (op. cit., pp. 173 ss.), Jean-Joël Duhot (op. cit., p. 43) e Jason Xenakis (Epictetus.

Philosopher-therapist, Nijhoff, La Hague 1969, pp. 109 ss.) vedono in passaggi come questo (cfr. anche III

Zenone, conoscere gli elementi della ragione, le qualità di ciascuno di essi, il modo in cui si accordano reciprocamente e la quantità di cose conseguenti a ciò28 (§ 12).

Il filosofo, al pari di un τεχνίτης, ha un ambito di competenza, vale a dire un oggetto su cui pratica la propria attività, un obiettivo che si prefigge praticandola e un insieme di conoscenze di cui abbisogna per poterla praticare. Il suo ‘materiale’ è il λόγος, o, come Epitteto afferma altrove, egli ‘coltiva’ o ‘esercita’ (ἐξεργάσηται, III 9.20) la propria ragione, e lo scopo per il quale egli si dedica a esso è averlo ὀρθός; il successivo riferimento agli στοιχεῖα della ragione, comunque venga inteso nella sua cripticità, chiaramente denota il contesto come epistemologico. Dunque la ‘drittezza’ della ragione consiste, secondo Epitteto, nella sua correttezza epistemica, nella sua capacità di conoscere adeguatamente, capacità consequenziale al suo possesso del fondamento di una conoscenza adeguata, che è appunto la nozione dei componenti della ragione e del loro funzionamento.

La medesima caratterizzazione epistemica del filosofo emerge, ad esempio, dalla diatriba II.11, in cui il discorso di Epitteto verte sul principio (ἀρχή) della filosofia. Egli, con la palese influenza di Socrate, inizia individuando il punto di partenza dell’educazione filosofica nella «presa di consapevolezza delle proprie debolezza e incapacità a riguardo delle cose necessarie»29, espressione che echeggia la professione d’ignoranza a cui il filosofo ateniese

cerca di stimolare i propri interlocutori tramite la tecnica dell’ἔλεγχος: questo, consistente nello svelamento della contraddittorietà e quindi della falsità delle presunte conoscenze dell’interlocutore, è per così dire la componente ‘distruttiva’ del metodo pedagogico socratico ed è perciò propedeutico alla ‘positiva’ ricerca della verità30. Epitteto ha una teoria complessa

che imitano il βίος diogeniano nell’abbigliamento e nella presentazione del proprio corpo piuttosto che nelle tesi filosofiche e nell’atteggiamento derivato dalla loro messa in pratica. Bonhöffer ritiene che sia diretta sempre a costoro anche la critica verso chi trascura la logica contenuta in I.17 (cfr. BONHÖFFER, Die Ethik, cit., p. 159).

28 L’ambiguità di λόγος ha indotto von Arnim a classificare questo passaggio tra le testimonianze sulla logica

zenoniana (SVF I.51); tuttavia il riferimento all’ὀρθός λόγος lascia pochi dubbi che in questa occorrenza il vocabolo significhi ‘ragione’ e non ‘discorso’. Del resto, la prima traduzione è quella scelta in molte edizioni moderne di Epitteto, quali quella di Carter (Dent & sons, London 1758), Schweighäuser (Weidmann, Lepzig 1799- 1800), Courdaveaux (Perrin, Paris 1908), Oldfather (Harvard University Press, London 1926), Souilhé (Les Belles Lettres, Paris 1975), Laurenti, (Laterza, Bari 1989), Cassanmagnago (Bompiani, Milano 2009), Hard (Oxford University Press, Oxford 2014), Muller (Vrin, Paris 2015). Long sembra essere in dubbio sulla traduzione: il passaggio figura come LS 31J, in cui λόγος è tradotto con ‘reason’, ma è anche citato in LONG, Epictetus, cit., p. 120, in cui lo stesso termine è tradotto con ‘discourse’; la differenza di traduzione implica anche una diversa interpretazione del sintagma τὰ τοῦ λόγου στοιχεῖα, in un caso intesi come le forme della conoscenza razionale – tra cui figurano ad esempio le ἔννοιαι di cui parla Catone in De fin. III 6.21 –, nell’altro come le parti del discorso.

29 Cfr. anche II 17.1, III 14.8-9 e fr. 10 Sch, Gnom. 11. Altrove (Diss. I 26.15) Epitteto descrive l’ἀρχὴ τοῦ

φιλοσοφεῖν come la «percezione della condizione del proprio egemonico» (αἴσθησις τοῦ ἰδίου ἡγεμονικοῦ πῶς ἔχει), ma palesemente le due formulazioni non sono né contradditorie né alternative: è tramite la considerazione

della propria anima che si acquisisce la consapevolezza dei propri difetti etici ed epistemici.

30 Emblematici di questo metodo pedagogico sono il dialogo tra Socrate ed Eutidemo raccontato da Senofonte in

sulla genesi dell’ignoranza (§§ 3 ss.), che discuteremo in seguito31; per il momento presente

sarà sufficiente riassumerla così: a suo avviso gli uomini si trovano a condividere nominalmente certe nozioni, come dimostrato dal fatto che tutti si servano di aggettivi quali ad esempio buono o cattivo, bello o turpe, appropriato o inappropriato per descrivere la realtà. Il problema, che si può senz’altro ricondurre al fenomeno della πιθανότης τῶν πραγμάτων32, è che gli uomini non

sono in grado di ‘adattare’ (ἐφαρμόζω) agli oggetti le nozioni corrette. «Ed è qui che sopraggiunge l’opinione» (καὶ οἴησις ἐνταῦθα προσγίνεται, § 8), conclude Epitteto, alludendo indubbiamente alla forma conoscitiva scorretta associata dagli Stoici al φαῦλος, come si evince con chiarezza dalla successiva caratterizzazione del filosofo: il punto di partenza della filosofia è infatti subito dopo definito (§ 13) come la percezione della conflittualità fra gli uomini, da cui deve scaturire l’esigenza di ricercarne la causa, che condurrà lo studente a riconoscere quest’ultima nella natura stessa della conoscenza opinativa, essenzialmente fallace, e quindi a tentare di stabilire una regola (κάνων) della conoscenza corretta, cioè un fondamento epistemico33. L’attività del filosofare si identifica dunque con l’indagare e lo stabilire questo

fondamento della conoscenza corretta (§ 24). Nonché, ovviamente, con il metterlo in funzione nel corso delle concrete esperienze conoscitive, vagliando tutte le proprie rappresentazioni e distinguendo quelle veraci da quelle corrotte dalla persuasività delle cose (I 20.7).

Alla luce di ciò non stupisce che Epitteto riconosca l’essenza del filosofo nell’essere ἀναμάρτητος, ‘privo di errori’ (IV 8.6), aggettivo che non può essere letto che come un riferimento alla condizione del φαῦλος il quale, ricordiamo le parole di Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 11g.99), «agisce sempre erroneamente» (ἀεὶ [...] ἁμαρτάνειν) secondo la dottrina antropologica zenoniana. Il filosofo epittetiano è dunque la controparte del φαῦλος o