Capitolo II. L'antropologia dell'antica e media Stoa
3) La dottrina dei πρόσωπα di Panezio a) Contestualizzazione della dottrina
La determinazione della convenienza di un'azione con la natura umana, con l'oggetto rispetto al quale si intende compierla e con la circostanza in cui ci si trova richiede uno studio dell'uomo in quanto ente relazionantesi con altri enti, umani e non, in situazioni concrete. Dell'uomo non in quanto individuo, ma in quanto componente di una realtà ‘sociale’ in senso ampio, che non include la sola comunità umana: esso deve considerare l'uomo come agente sia nella sua natura che nella sua partecipazione a una rete di legami. La prima teoria stoica a noi nota che soddisfi questi requisiti è la così detta dottrina dei πρόσωπα di Panezio142, nota anche come dottrina
delle personae, poiché la sola fonte informativa su di essa è un'opera latina, il De officiis di Cicerone, che per altro costituisce la fonte in assoluto più importante per la nostra conoscenza dell’etica paneziana, dato che, come vedremo, è presentata dall’Arpinate come una divulgazione critica di un’omonima opera del Rodiense143.
Sebbene sia possibile che essa fosse una rielaborazione di precedenti teorie stoiche e non rappresentasse un'innovazione di Panezio, di eventuali antecedenti la tradizione tace. Dinnanzi a questo silenzio, la critica si divide tra chi prudentemente si limita a constatare che non
142 Informazioni cronologiche e biografiche su costui si troveranno in DORANDI, op. cit., pp. 41-42.
143 Cfr. anche la testimonianza di Aulo Gellio (Noct. Att. XIII 28.1 = fr. 116 VS), in cui si afferma che Cicerone,
abbiamo dati sufficienti per escludere che nei Περὶ καθήκοντος di Zenone, di Crisippo o di altri Stoici anteriori a Panezio fosse formulato un argomento analogo, e chi d'altronde sostiene l'originalità paneziana della teoria adducendo come motivazione della propria posizione le peculiarità degli interessi etici o della dogmatica fisica di Panezio. Si riconoscono nella prima posizione studiosi come Phillip H. de Lacy, autore di un articolo imprescindibile sul tema, come pure Anthony A. Long e David N. Sedley nel loro The Hellenistic philosophers144. Costoro, a
questo proposito, affermano semplicemente che la carenza di testimonianze esaustive sull'etica stoica precedente rende la questione indecidibile: Cicerone, nella sua esposizione della teoria, non menziona altri che Panezio come proprio rifermento.
Più elaborata è naturalmente la tesi opposta, secondo la quale il discorso paneziano è originale. I suoi due partigiani più convinti sono Max Pohlenz ed Emmanuele Vimercati145.
Pohlenz, con un’argomentazione alquanto debole146, contrappone all’etica tradizionale
stoica quella paneziana, caratterizzandola come individualistica anziché tipizzata (non nel senso di anti-sociale). Agli occhi di Panezio, che compì molti viaggi nel corso della propria vita, la bipartizione antropologica tra σπουδαῖοι e φαῦλοι sarebbe risultata inadatta a spiegare la molteplicità delle differenze culturali, sociali e caratteriali degli uomini, ed egli avrebbe pertanto deciso di percorrere «vie nuove», proponendo, tramite la dottrina dei πρόσωπα, un sistema che distingua gli uomini in quanto individui peculiarmente connotati piuttosto che forzarli in uno dei due generi zenoniani. Premesso che nel testo di Cicerone questa teoria non è pensata in alternativa a quella dei γένη, comunque la spiegazione di Pohlenz, poggiando come solo argomento sui viaggi di Panezio – nato a Rodi, si formò ad Atene e giunse poi a Roma, dalla quale ripartì al seguito di Scipione Emiliano per un viaggio in Oriente –, non è sufficiente a giustificare le presunte apertura multiculturale e virata individualistica della sua etica rispetto a quella di Zenone o di Crisippo. Il primo nacque a Cizio, città cipriota sulla costa frequentata da numerosi mercanti, e suo padre Mnasea, come già ricordato, essendo un mercante viaggiava molto e quando tornava in patria, secondo la tradizione attestata da Diogene Laerzio, recava al figlio libri e plausibilmente informazioni sui paesi che visitava. Zenone si trasferì poi ad Atene, dove fondò la propria scuola. Quanto a Crisippo, egli nacque a Soli, città portuale della Cilicia,
144 Cfr. rispettivamente P.H. DE LACY, The four Stoic personae, in «Illinois Classical Studies», 2 (1977), pp. 163-
172 e LS, vol. I, pp. 427-428.
145 Cfr. rispettivamente M. POHLENZ, Antikes Führertum. Cicero de officiis und das Lebensideal des Panaitios,
Teubner, Leipzig-Berlin 1934; trad. it. L'ideale di vita attiva secondo Panezio nel De officiis di Cicerone, traduzione di M. BELLINCIONI, Paideia, Brescia 1970, pp. 109 ss. e VIMERCATI, op. cit., pp. 130 ss. Sostengono questa posizione, sebbene senza argomentazione, anche Long e Sedley (cfr. LS, vol. I, pp. 427-428).
146 Per la quale cfr. anche POHLENZ, La Stoa, cit., vol. I, pp. 408 ss. e M. POHLENZ, Der hellenische Mensch,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1946; trad. it. L'uomo greco. Storia di un movimento spirituale, traduzione di B. PROTO, Bompiani, Milano 1974, pp. 300 ss.
anch'essa di certo scalo mercantile, e si trasferì poi ad Atene. Dunque le principali personalità del primo Stoicismo non ebbero meno esperienze ‘interculturali’ rispetto a Panezio, il che invalida l'argomentazione di Pohlenz.
Maggior considerazione merita quella di Vimercati, il quale fa notare147 che Panezio, stando
alla testimonianza, tra gli altri, di Cicerone (De nat. deo. II 46.118 = fr. 64 VS), Diogene Laerzio (Vit. VII.142 = fr. 66 VS) e Ario Didimo (presso STOB., Ecl. I.20 1e.171 = fr. 69 VS)148, negò la
tradizionale tesi stoica della ciclica conflagrazione cosmica (ἐκπύρωσις)149, in base alla quale il
cosmo sarebbe stato periodicamente consumato dal fuoco, alla sua distruzione sarebbe seguita ogni volta la rigenerazione del mondo tale e quale fu generato in origine e una successione di eventi identica a quella successiva alla prima generazione. Asserendo invece l'incorruttibilità del cosmo, Panezio avrebbe attribuito a ogni uomo coinvolto in ogni evento il carattere dell'irripetibilità, valorizzandone così l'esistenza in quanto ente singolo e distinto da tutti gli altri, passati, presenti e futuri150. Di qui la dottrina dei πρόσωπα la quale, come vedremo tra
poco, comprende difatti il riconoscimento dell’individualità di ogni uomo. L'argomento di Vimercati è convincente, tuttavia, restando ineludibile il problema della scarsità delle testimonianze sull'antico Stoicismo, la sua resta un'ipotesi.
La nostra fonte per la dottrina dei πρόσωπα è De officiis I 30.107-33.121, a cui si possono aggiungere, come introduzione, i paragrafi a partire da 28.97 e, come appendice, il prosieguo del libro fino a 34.125151.
Data la trasmissione indiretta del pensiero di Panezio, l'affidabilità dell'esposizione ciceroniana merita una riflessione. Vimercati, interrogatosi in merito a ciò152, ha concluso che i
capitoli in questione devono riprodurre abbastanza fedelmente il contenuto ma anche la forma del trattato di Panezio, date sia la loro analogia dottrinale con altre testimonianze sulla
147Cfr. VIMERCATI, op. cit., pp. 63 ss. Sul rifiuto paneziano della distruttibilità e della conflagrazione periodica del
cosmo cfr. anche ALESSE, Panezio, cit., pp. 219 ss.
148 Cfr. anche frr. 65 VS (= PHIL., De aetern. mund. 76) e 68 VS (= EPHIPH., De fid. 9.49).
149 A proposito della quale cfr. SVF I.107-109 per Zenone, I.510-512 per Cleante, II. 585-632 per Crisippo,
III.DB27-28 per Diogene. È pertanto palesemente inattendibile la testimonianza di Arnobio (Adv. mat. II 9.75 = fr. 67 VS), secondo la quale Panezio avrebbe condiviso la dottrina dell’ἐκπύρωσις.
150 In realtà già a partire per lo meno da Crisippo gli Stoici, sostenendo contro gli Accademici la discernibilità di
qualsiasi ente da tutti gli altri, i. e. la peculiarità individuale di ogni ente (sul tema cfr. SEDLEY, The Stoic criterion
of identity, cit.) avevano optato per varie soluzioni in grado di conciliare questa tesi con la dottrina della palingenesi
ciclica, che nella sua versione tradizionale dovrebbe prevedere la rigenerazione indifferenziata degli stessi individui (cfr. LS 52). Sul tema cfr. J. BARNES, La doctrine du retour éternel, in Les Stoïciens, cit., pp. 421-439, in
cui lo studioso riflette anche su una questione non affrontata dalle nostre fonti sulla dottrina: la tesi della rigenerazione indifferenziata degli stessi individui minerebbe il riconoscimento di una qualunque forma di responsabilità etica personale.
151 I capitoli citati corrispondono parzialmente ai frr. 81, 97 e 121 VS , ai frr. 61-65 Al e ai frr. B4, 14-15, 18-19,
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concezione paneziana del τέλος e sul ruolo che in essa gioca il riconoscimento dell’individualità – come la testimonianza di Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 5b5.63-64 = fr. 109 VS), in cui si fa esplicito riferimento al Rodiense, e quella di Plutarco (De tranq. an. XIII.472b, 473a = frr. 58-59 Al), collimante con quella didimiana –, sia l'abbondanza in Cicerone di esempi tratti dalla storia e dalla mitologia greca accanto a quelli propri della cultura romana153. Tuttavia, da ciò
non si deve concludere che Cicerone sia un divulgatore asettico del pensiero altrui: egli stesso scrive (I 2.6), dopo aver stabilito il tema dell'opera (2.4-5), che nella propria trattazione seguirà «soprattutto» (potissimum) gli Stoici, ma non sarà un semplice «illustratore» (interpretes154)
delle loro dottrine, «bensì, come mio solito, attingerò dalle loro fonti a mia discrezione e a mio piacimento, e solo nella misura in cui mi parrà opportuno». Applicando subito questo proposito (2.7), Cicerone entra nell'argomento stabilito criticando Panezio per aver trascurato di porre al principio della propria discussione la definizione della nozione che ne è al centro. Inoltre, nel secondo libro (5.16) Cicerone avvisa il lettore che non citerà tutti gli esempi forniti da Panezio a sostegno di una sua tesi, ritenendoli superflui. Pertanto, mi sembra opportuno convenire con Vimercati che la linea portante del De officiis è quella tracciata nell'incompiuto Περὶ καθήκοντος di Panezio155, come lo stesso Cicerone afferma in III 2.7 e in IV 2.7-8, ma che
questi talvolta si discosta dalla sua fonte principale per condensarne il contenuto o per avanzare considerazioni personali che integrano le tesi del filosofo rodiense156. Insomma, l'autenticità
paneziana della dottrina delle personae mi pare certa.
Veniamo dunque alla dottrina dei πρόσωπα, innanzi tutto contestualizzandola all'interno dell'opera in cui è esposta157.
Il De officiis è un trattato incentrato sul tema dell'azione conveniente, in cui Cicerone si propone di fornire al figlio Marco, destinatario dell'opera, prescrizioni (praecepta) che lo guidino nella scelta dell'azione a lui adeguata in ogni circostanza della sua vita, poiché «nulla enim vitae pars […] vacare officio potest» (2.4), letteralmente ‘nessuna parte della vita può mancare dell’azione conveniente’; in altri termini, ogni azione, in quanto atto materialmente portante su indifferenti, può realizzare un officium. Come sappiamo, la necessità di educare ai καθήκοντα, che in teoria, essendo azioni impulsive, dovrebbero essere naturali, è dovuta ai fenomeni della πιθανότης τῶν πραγμάτων e della inculturazione in ambienti popolati da φαῦλοι,
153 Cfr. ad esempio I 30.108-109, II 7.24-26, III 11.47-49.
154 Cicerone si riferisce a se stesso in pluralis modestiae. Analogo commento è ripetuto in II 17.60.
155 Cfr. A. R. DYCK, A commentary on Cicero, De officiis, University of Michigan Press, Ann Arbor 1996, pp. 23
ss.
156 Cfr. ad esempio I 43.152, II 25.88, III 7.33-34.
fenomeni che inducono gli uomini a compiere azioni che di fatto sono sconvenienti (παρὰ τὸ καθῆκον), cioè non consistenti nella selezione dei preferiti e nel rifiuto dei respinti, dunque ostacolanti il processo della conciliatio e non facilitanti l’acquisizione della virtù, culmine di tale processo. L'Arpinate procede quindi, innanzi tutto, a definire la nozione di officium, disapprovando la mancanza di tale definizione nello scritto di Panezio, ma lasciando intendere che quanto seguirà non implica una contraddizione con la dottrina di quest'ultimo158. Segue
quindi la definizione ciceroniana, che altro non è se non una ripetizione della tradizionale concezione stoica del καθῆκον, distinto dal κατόρθωμα, che nel lessico di Cicerone diventa officium perfectum, per contrapposizione all’officium medium (3.7-8).
Dopo questa introduzione generale, l'autore anticipa la ripartizione dell'opera in tre libri: materia del primo libro sarà l'honestum, aggettivo sostantivato che, insieme al sostantivo astratto honestas, sappiamo essere la versione latina di ἀρετή. Cicerone non ne formula una definizione, evidentemente perché ritiene che il significato di honestas/honestum emerga con chiarezza dalla trattazione successiva. Dopo aver caratterizzato, con riferimento alla dottrina dell'οἰκείωσις159, la natura specificamente umana come razionale rispetto a quella degli altri
animali, puramente istintivi (4.11-14), egli focalizza la propria indagine sull'uomo e afferma che per la nostra specie «tutto ciò che è honestum sorge da una di quattro parti» (5.15); queste corrispondono ciascuna alla scelta di vita in accordo con una virtù tra sapienza, giustizia, magnanimità e fortezza, temperanza160.
L'analisi delle cinque virtù elencate, sulla quale possiamo sorvolare in questo frangente, occupa gran parte del primo libro (6.18-27.96). Concentriamoci invece su una nozione che
158 Vimercati ipotizza che l’assenza di una definizione di καθῆκον nell’opera paneziana fosse dovuta all’essenza
stessa di tale nozione: dato l’essenziale riferimento del καθῆκον a un oggetto in un contesto particolare, una sua definizione universale sarebbe stata considerata impossibile per Panezio. È d’altronde ipotizzabile che l’omissione fosse dovuta al fatto che la nozione di καθῆκον era ormai tradizionale nella letteratura stoica, e che Panezio non intendesse definirla in modo diverso dai suoi predecessori.
159 Sulla quale cfr. GILL, The structured self, cit., pp. 36 ss., POHLENZ, La Stoa, cit., vol. I, pp. 104 ss., e soprattutto
RADICE, Oikeiosis, cit., pp.183 ss. Sull’interpretazione paneziana di tale dottrina cfr. ALESSE, Panezio, cit., pp.
129 ss.
160 Questo insieme non corrisponde esattamente a quello delle così dette ‘virtù cardinali’ stoiche (già platoniche,
cfr. Resp. IV.427e ss.), presentato da Diogene Laerzio (Vit. VII.92) e Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 5b1-
2.59 ss.) come comprendente φρόνησις, δικαιοσύνη, ἀνδρεῖα e σωφροσύνη, ‘saggezza’, ‘giustizia’, ‘coraggio’ e ‘temperanza’. La testimonianza laerziana, a mio avviso, lascia intendere che queste virtù rappresentano il livello specifico della virtù etica, che nella testimonianza sopra menzionata di Plac. phil. I.874e, è definita come un genere dell’unica virtù. Nella dossografia didimiana la magnanimità (μεγαλοψυχία) è sussunta sotto il coraggio. Quanto all’identificazione della ciceroniana virtus «qui in veri cognitione constitit» (De off. I 6.18) con la φρόνησις, essa mi sembra impedita dalla definizione della prima come virtù teorica da parte di Cicerone; parimenti, dalla sua definizione come «virtù che si batte per l’equità» (19.62), almeno in questo contesto è palese che fortitudo non traduce ἀνδρεῖα, unanimemente definita dalle fonti con riferimento a un certo atteggiamento nei confronti della paura. Sul tema cfr. ALESSE, Panezio, cit., pp. 34-35 e 116 n. 188, in cui la studiosa nota piuttosto l’affinità letterale
della descrizione ciceroniana delle quattro parti dell’honestum con quella del filosofo in PLAT., Resp. V.475b ss. (la definizione ciceroniana della fortitudo, secondo Alesse, potrebbe essere un’eco di Resp. VI.486b7).
emerge durante lo studio della temperanza: si tratta del decorum, versione latina del greco πρέπον, traducibile con ‘appropriatezza’, di cui Cicerone asserisce, ancor prima di formularne una definizione, lo stretto legame con l'honestas: «Qualunque cosa sia conforme al decoro (deceat), appare solo quando sia stata preceduta dall'honestas» (27.94). Esso è pertanto inscindibilmente congiunto (confusum) anche con la nozione di virtù (27.95). Il decorum è quindi definito come l'aspetto esterno (apparet) della coerenza morale, la manifestazione, per il tramite di un comportamento, di una disposizione virtuosa. L'Arpinate fornisce due definizioni di decorum, giacché riconosce due accezioni del vocabolo, una generale e una particolare (27.96): quest'ultima consiste nella manifestazione della virtù della temperanza; la prima riguarda invece la condotta specificamente umana nel suo complesso, cioè il comportamento di un uomo in quanto esemplare di una specie di esseri viventi distinta e superiore dalle altre. A questo proposito sono di nostro interesse entrambe le accezioni di decorum.
b) Esposizione della dottrina
Panezio trasse la nozione di πρέπον dal lessico della critica drammaturgica. Max Pohlenz, in un articolo intitolato appunto Τὸ πρέπον161, ha mostrato come tale aggettivo, sebbene nell'epica
omerica denotasse una caratteristica visibile distintiva di un uomo o di una cosa, almeno fin da Aristotele (cfr. Poet. 1454a) e poi con la critica estetica alessandrina iniziò a essere impiegato nell'analisi delle opere teatrali per esprimere l'appropriatezza del comportamento dei personaggi di un dramma con il loro carattere, mancando della quale essi non riescono credibili, e il dramma risulta pertanto malfatto. Si rammenti che i tragediografi, quelli greci come quelli latini, erano soliti porre come protagonisti delle proprie composizioni eroine ed eroi mitologici, personaggi di cui pertanto gli spettatori già conoscevano il temperamento, le caratteristiche fisiche e la biografia: violare il criterio del πρέπον significa attribuire, ad esempio, azioni e parole arroganti a un personaggio che, essendo tradizionalmente mansueto, il pubblico si aspetta che agisca e parli come tale, oppure far subire a un personaggio un inspiegato cambio di atteggiamento durante l’azione drammatica. Cicerone, per illustrare più approfonditamente la nozione in esame, istituisce una similitudine tra il decorum etico e il decorum poetico (27.98- 99) che Francesca Alesse ritiene autenticamente paneziana162, sebbene sia possibile che Panezio
161 Cfr. M. POHLENZ, Τὸ πρέπον. Ein Beitrag zur Geschichte des griechischen Geistes, in M. POHLENZ, Kleine
Schriften, voll. 2, Olms, Hildesheim 1965, vol. I, pp. 100-139. Cfr. anche POHLENZ, L'ideale di vita, cit., pp. 96 ss.
162 Cfr. ALESSE, Panezio, cit., pp. 62 ss. La studiosa appropriatamente accosta questa immagine, assieme a quella,
sempre paneziana, delle virtù come arcieri (cfr. STOB., Ecl. II 7 5b3.64-65), alla concezione della filosofia come arte. Tra l’altro lo stesso Cicerone in De fin. III 7.24 paragona la sapientia ad arti sceniche come la recitazione o
sia stato ispirato da analoghe metafore comuni nel primo Stoicismo e già ciniche163: come il
decorum poetico significa la corrispondenza, in un dramma, tra «ciò che è fatto e detto» e «ciò che è adeguato a ciascun personaggio», parimenti il decorum di cui Cicerone sta trattando in relazione all'honestas implica l'appropriatezza di un'azione con il ruolo (persona) che, per così dire, la natura ha assegnato all'uomo. L'autore giunge così all'esposizione della dottrina delle personae.
L'etimologia di questo sostantivo è oscura quanto è complicato il suo sviluppo semantico. In un affascinante studio sull'argomento, Maurice Nédoncelle ha tentato una ricostruzione di entrambi164. Il primo significato di persona è ‘maschera’. Almeno fin dal I secolo a. C. (la prima
testimonianza di ciò è in AUL.GELL., Noct. Att. V.7, che però cita come fonte il grammatico Gavio Bassio, contemporaneo di Cicerone), se ne propose la derivazione dal verbo persono, ‘risuonare’, composto da sono, ‘produrre un suono’, cui è prefisso il per con valore di diffusione spaziale: la maschera era infatti utilizzata durante gli spettacoli, oltre che per la rappresentazione dei personaggi, anche per amplificare la capacità vocale degli attori, così da consentire alle loro battute di raggiungere distintamente anche gli uditori occupanti i seggi più in alto. Tuttavia, data la tarda comparsa di questa proposta etimologica, la sua correttezza è dubbia. Nédoncelle riferisce altre ipotesi etimologiche decisamente fantasiose165, prima di
dichiarare quali ritiene le più degne di attenzione. Queste sono due: la prima, attestata fin dal I secolo a. C. da autori come Varrone166, riconduce persona al sostantivo greco πρόσωπον, la
seconda all'etrusco , traslitterato in caratteri romani come phersu, il quale a sua volta potrebbe essere un prestito dal nome della divinità greca Περσεφόνη, la cui versione locale era Phersipnai e che sarebbe diventata la romana Proserpina.
la danza, in quanto essa come queste non è etero-poietica, notando subito però che ogni κατόρθωμα esprime la virtuosità dell’agente, cioè il suo pieno possesso di ogni virtù, a differenza del singolo gesto dell’attore o del ballerino rispettivamente in qualità di attore o ballerino, che di per sé non richiede né rivela la bravura di chi lo esegue nel proprio mestiere.
163 Cfr. ad esempio D. L., Vit. VII.160, TEL., Diss. II.1, VI.1 (le diatribe di Telete sono citate nell’edizione edita da
Otto Hense, Teletis reliquiae, bearbeitet von O. HENSE, Mohrii, Tubingen 1909). Su questo punto cfr. C. GILL,
Personhood and personality: the four-personae theory in Cicero, De officiis I, in «Oxford Studies in Ancient
Philosophy», 6 (1988), pp. 169-199 (p. 192 n. 83) e ALESSE, Panezio, cit., pp. 274-275.
164 Cfr. M. NÉDONCELLE, Prosopon et persona dans l'antiquité classique. Essai de bilan linguistique, in «Revue
des Sciences Religiueuses», 22.3-4 (1948), pp. 277-299. Uno degli studi italiani più importanti al riguardo è M. BELLINCIONI, Il termine persona da Cicerone a Seneca, in Quattro studi latini, a cura di G. SCARPAT, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 39-115.
165 Il lessicografo medievale Papia, nel suo glossario, riconduce persona a ‘per se sonat’, cioè ‘emettere suoni per
una propria capacità’; nel glossario, sempre medievale, di Placido la persona è definita come ciò che ‘per se una
est’, ‘in sé è una cosa sola’, vicino all'uso italiano odierno di ‘persona’ in contesti volgari come sinonimo di
individuo. Infine, in pieno Rinascimento, Giulio Cesare Scaligero azzardò l’inverosimile provenienza di persona da sostantivi greci come περισῶμα o περιζώνη, rispettivamente significanti ‘veste’ e ‘cintura’ e pertanto semanticamente incompatibili con il riferimento del vocabolo latino.
Senza entrare nel merito dei processi linguistici, in parte solo congetturali, che avrebbero determinato la produzione di un vocabolo a partire da un altro, πρόσωπον, indubbiamente utilizzato da Panezio nell'esposizione della teoria, ha una storia etimologica e semantica più piana di persona: il suo primo significato è ciò che sta davanti (πρός) alla vista (ὅψ) di qualcuno,