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Capitolo II. L'antropologia dell'antica e media Stoa

2) Lo statuto dei προκόπτοντες

La paradossalità della suddetta tesi antropologica, che pare implicare l’impossibilità di una differenziazione tra gli uomini per caratteristiche psichiche, è accresciuta dalla sua intuitiva contraddittorietà con una tesi originariamente socratica condivisa dagli stessi Stoici67:

l’insegnabilità della virtù, tema centrale nel Menone platonico. Soprassedendo alla polemica, testimoniata da Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 11m.107-108 = SVF III.366), sull’innatezza delle predisposizioni alla virtù, è sufficiente ricordare68 che gli Stoici non

attribuiscono una ragione completamente sviluppata (τέλειος λόγος) ai bambini per poter affermare che questa è un’acquisizione che avviene nel corso della vita, e che pertanto gli σπουδαῖοι non nascono ma diventano tali. Questo divenire, consistente nella formazione di una disposizione virtuosa, richiede un percorso educativo. Infatti, nonostante secondo la dottrina dell’appropriazione (οἰκείωσις, conciliatio in latino69) ogni essere vivente tenda naturalmente

alla preservazione di sé, cioè alla conduzione di una vita secondo la propria natura specifica, e dunque per l’uomo, in quanto specificamente razionale, dal momento in cui sviluppa la ragione dovrebbe divenire naturale vivere «κατὰ λόγον» (D. L., Vit. VII.85 = SVF III.178), vale a dire

67 Per il tramite del Cinismo (cfr. D. L., Vit. VI.10). 68 Cfr. SVF I.149.

69 Tale dottrina, secondo la testimonianza di CIC., Acad. pr. II.131 (= SVF I.181) risalirebbe a Zenone. Fonte

essenziale per essa è la porzione superstite degli Elementi di etica di Ierocle Stoico (HIEROCLES THE STOIC,

Elements of ethics, fragments and excerpts, edited by I. RAMELLI, trad. ingl. D. KONSTAN, Brill, Leiden-Boston

2009). Sul tema cfr. GILL, Structured self, cit., pp. 127 ss. e R. RADICE, Oikeiosis. Ricerche sul fondamento del

pensiero stoico e sulla sua genesi, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 248 ss.; cfr. anche ivi, pp. 183 ss., in cui lo

raggiungere la condizione di σπουδαῖος, di fatto alla realizzazione naturale di questa condizione si oppone la ‘persuasività delle cose’ (πιθανότης τῶν πραγμάτων, ivi VII.89 = SVF III.22870).

L’uomo si forma opinioni scorrette di alcune cose, e quindi agisce in modo scorretto nei loro confronti, perché, come illustra fugacemente Musonio Rufo (Diss. I 2.4 ss.), uno dei pochi testimoni di questa dottrina, esse offrono alle sue percezioni un’apparenza che non le rappresenta autenticamente71; queste opinioni e i comportamenti conseguenti sono poi rafforzati

in ciascuno dalla loro propagazione all’interno del suo contesto sociale e dalla sua inculturazione in esso. Per questo motivo alla deviazione dal processo dell’οἰκείωσις deve rimediare l’educazione72, consistente nella rettificazione di tali opinioni e quindi

nell’insegnamento della virtù, generalmente ammesso come possibile dagli Stoici73.

La condivisione da parte degli Stoici di questa tesi socratica implica il loro riconoscimento, esplicitato da Diogene Laerzio (Vit. VII.92), della possibilità per i φαῦλοι di diventare ἀγαθοί, cioè di passare dalla condizione di viziosità a quella di virtuosità. È ammessa così la possibilità di un passaggio dall’uno all’altro dei due generi antropologici74. Questo passaggio, avvenendo

70 Cfr. GAL., De Hip. et Plat. plac. V 5.14-21, CHALC., Ad Tim. 165-168, CIC., De leg. I 11.31-32, 17.47, che

traduce πιθανότης con similitudinis. A mia conoscenza la testimonianza calcidiana è la più esplicativa sul tema, sebbene neanch’essa sia soddisfacente in quanto non esaustiva sotto il profilo eziologico. A ragione Bonhöffer (Die Ethik, cit., pp. 176 ss.) indica la πιθανότης τῶν πραγμάτων come origine dell’altra causa della ‘perversione’ dell’uomo, cioè la cattiva influenza del suo ambiente sociale tramite la trasmissione, da parte di altri uomini, di opinioni fallaci (cfr. D. L., Vit. VII.89, MUS.RUF., Diss. VI 24.4-8, CIC., Tusc. disp. III.64), giacché, se la natura

dà «risorse non curve» (ἀφορμὰς [...] ἀδιαστρόφους) all’uomo e dunque la perversione gli viene dall’esterno (διὰ

τὰς τῶν πραγμάτων πιθανότητας), come scrive Diogene Laerzio, è evidente che l’origine prima dell’opinione

fallace di un uomo non può essere un altro uomo, ma qualcosa di esterno, appunto la πιθανότης τῶν πραγμάτων. Tuttavia anche l’individuazione nella persuasività delle cose del fondamento della viziosità è problematica, visto il riconoscimento degli Stoici dell’universalità e della naturalità della tendenza umana alla virtù (cfr. ad esempio STOB., Ecl. II.7 5b8.65); ciò, secondo Galeno (De Hip. et Plat. plac. V 5.21 = LS 65M, fr. 169 EK; cfr. anche GAL.,

De seq. 819-820 = fr. 35 EK) avrebbe condotto Posidonio a reintrodurre in seno alla psicologia stoica una parte, o

meglio facoltà (δύναμις) – ma forse Galeno, nell’intento di marcare la contrapposizione teorica tra Crisippo e Posidonio, platonizza volutamente le sue parafrasi delle argomentazioni di quest’ultimo, salvo svelare la trascuratezza del proprio lessico con le citazioni letterali di Posidonio, in cui appunto si parla di una facoltà (cfr. fr. 142-146 EK) – peculiarmente epitumetica dell’anima umana. Come già ricordato, analoga è la critica di PLUT.,

De virt. mor. al monismo psicologico stoico, la cui conclusione è però esplicitamente platonica.

71 Le rappresenta come beni o mali anziché come indifferenti. Per questo motivo Bonhöffer (Epiktet und die Stoa.

Untersuchungen zur stoichen Philosophie, Enke, Stuttgart 1890, pp. 141 ss.) interpreta il termine stoico φαντασία

tanto in senso estetico, come impressione delle cose sull’anima per il tramite degli organi sensoriali, quanto in senso etico, come stimolo degli oggetti percepiti a reagire in un certo modo alla loro percezione.

72 Questa tesi è affermata da Epitteto in Diss. III 7.22.

73 Cfr. D. L., Vit. VII.91 (= SVF I.567, III.223), in cui questa tesi è attribuita a Crisippo, a Cleante, a Posidonio (fr.

2 EK) e a Ecatone. Analoga affermazione in SEN., Ep. IL.11 (= SVF III.219).

74 La possibilità del passaggio inverso, dal γένος τῶν σπουδαῖων al γένος τῶν φαῦλων, cioè della perdita della virtù,

fu argomento di dibattito tra Cleante e Crisippo, il primo dei quali negava tale possibilità a differenza del secondo. Cfr. D. L., Vit. VII.127-128 (= SVF I.568-569, III.237). La possibilità della perdita della virtù è tesi socratica (cfr.

Prot. 345a-b); sul tema cfr. ALESSE, La Stoa, cit., pp. 339 ss. Sull’universalità della capacità di acquisire la virtù, corollario della tesi stoica dell’uguaglianza naturale degli uomini, cfr. J. CHRISTENSEN, Equality of man and Stoic

social thought, in Equality and inequality of man in ancient thought, edited by I. KAJANTO, Societas Scientiarum

Fennica, Helsinki 1984, pp. 45-54; ora in J. CHRISTENSEN, An essay on the unity of Stoic philosophy, Museum Tusculanuum Press, Copehnhagen 2012, pp. 99-115.

per il tramite dell’educazione, è evidentemente progressivo, come secondo la testimonianza di Simplicio (In Arist. categ. fr. 62Bas = SVF III.217) gli Stoici non avrebbero esitato a riconoscere: egli parla infatti di una πρὸς τὰς ἀρετάς ἀξιολόγον προκοπήν, un ‘progresso assiologico verso le virtù’. Questa testimonianza non può però essere letta in isolamento rispetto alle altre, pena la possibilità di cadere in un’interpretazione della concezione stoica del progresso filosofico in aperto contrasto con la tesi antropologica discussa nel paragrafo precedente: il carattere ‘assiologico’ che Simplicio attribuisce al progresso non riferisce alcun valore (ἀξία), né conoscitivo né etico, alle fasi intermedie del progresso, ma solo al culmine di quest’ultimo, come confermato da molte testimonianze75 e come d’altronde conseguente alla

suddetta tesi antropologica. In altri termini, sebbene gli Stoici ammettano una transizione dalla condizione di malvagità e stoltezza a quella di virtù e sapienza e la descrivano come progressiva, quello che sembrano non ammettere è un qualsiasi riconoscimento di tale transizione progressiva, in qualunque sua fase, come distinta dalla condizione di partenza: i προκόπτοντες76, vale a dire gli studenti, non costituiscono un terzo γένος intermedio tra quello

dei φαῦλοι e quello degli σπουδαῖοι, ma appartengono al primo tra questi due, sia sotto il profilo conoscitivo che sotto quello etico. La vita dei progredienti è assimilabile a quella degli improbissimi (CIC., De fin. IV.21 = SVF III.532); essi sono inoltre ignoranti, e perciò infelici (PLUT., Quom. quis in virt. sent. prof. II.75f ss.). Crisippo, del quale sappiamo che nel suo scritto

Sull'esortare dichiarò la propria adesione a questa tesi (cfr. SVF III.761 = PLUT., De Stoic.

repugn. XIV.1039d), la illustrò sviluppando due metafore, riportate testualmente da Plutarco (De comm. not. X.1063a = SVF III 539.1) ed evidentemente celebri, tanto da essere riprese con qualche variazione, inessenziale in questo contesto, da Cicerone nel De finibus (III 14.48): chi è sotto la superficie dell'acqua non può respirare – Crisippo pensa a un organismo non dotato di branchie –, si trovi egli a poca o a grande distanza dalla superficie; parimenti, chi sta per acquistare o riacquistare la vista ancora non vede77. Insomma, il progrediente non gode di uno

75 Cfr. SVF 530-539.

76 Bonhöffer ritiene che il vocabolo προκόπτων, sebbene concettualmente già proprio di Zenone, sia stato definito

come termine tecnico solo da Crisippo (cfr. BONHÖFFER, Die Ethik, cit., p. 193).

77 Nella prima metafora, Crisippo parla di una distanza dalla superficie di un cubito (circa 45 cm) e di cinquecento

braccia (circa 900 m), mentre Cicerone, più generico, parla di una piccola distanza dalla superficie e del fondale del bacino idrico. Protagonista della seconda metafora di Crisippo è un cieco in procinto di riacquistare la vista, in quella di Cicerone un cucciolo di animale prossimo ad acquistare la facoltà visiva. Cfr. la metafora analoga riportata in D. L., Vit. VII.120: «Non è a Canopo né chi ne dista 100 stadi (circa 18,5 km) né chi un solo (circa 18 m)». Geert Roskam (On the path to virtue. The Stoic doctrine of moral progress and its reception in

(Middle-)Platonism, Leuven University Press, Leuven 2005, pp. 25 ss.) ritiene genuinamente stoica anche la

similitudine riportata nel papiro PMilVogl. 1241, sebbene non si faccia menzione degli Stoici: nella misura in cui il progrediente non è ancora virtuoso, è irrilevante il suo grado di prossimità al raggiungimento della perfetta virtù, come, dal punto di vista della loro meta, non c’è differenza tra due uomini che viaggiano verso una città e non si trovano a eguale distanza da essa. L’ipotesi di Roskam è supportata, oltre che dall’evidente corrispondenza

statuto autonomo rispetto all’uomo vizioso, e quindi la transizione tra il possesso di una disposizione παρὰ φύσιν e il possesso di una disposizione κατὰ φύσιν, sebbene avvenga gradualmente, si compie in un unico momento di trasformazione (μεταβολή) collocato all’apice del progresso78. In conseguenza di ciò, alla condizione di προκόπτων non corrispondono né una

peculiare forma di conoscenza né una peculiare forma di azione eticamente connotata.

a) La κατάληψις non è la forma di conoscenza peculiare dei προκόπτοντες

Il contrario potrebbe risultare operando un’associazione tra le tre figure dello stolto, del progrediente e del saggio e una gerarchia conoscitiva descritta da Cicerone (Acad. pr. 42 = SVF I 69.1) e da Sesto Empirico (Adv. math. VII.151 = SVF I 69.2, II.90): «tra la scienza (scientiam) e l’ignoranza (inscientiam) collocava [scil. Zenone] la comprensione (comprehensio)», cui corrispondono rispettivamente in greco ἐπιστήμη, ἄγνοια e κατάληψις; Sesto – che attribuisce la tesi a Zenone e a Cleante –, anziché di ἄγνοια, parla in verità di δόξα, ma il carattere di insicurezza e fallacia conoscitive proprio dell’opinione conduceva gli Stoici a considerarla come equivalente all’ignoranza, tanto che Sesto e Ario Didimo forniscono due definizioni simili dei due termini79. Sembrerebbe a prima vista possibile associare questa gerarchia conoscitiva

alla ‘tripartizione’ antropologica sopra descritta: al φαῦλος corrisponderebbe allora l’ignoranza o l’opinione, ad ogni modo una conoscenza assolutamente imperfetta, propria dello σπουδαῖος sarebbe la scienza80, e l’elemento mediano (inter, μεταξύ), la comprensione, potrebbe essere la

forma conoscitiva specifica del προκόπτων, colui che procede dalla condizione di φαῦλος a quella di σπουδαῖος81.

Questa associazione sembra essere in effetti resa plausibile dalle definizioni stoiche di

dell’immagine con la concezione stoica della προκοπή, dalla presenza, poco sopra nel medesimo luogo, della similitudine del cieco che sta recuperando la vista.

78 Cfr. PLUT., Comp. Stoic. abs. II.1057e-f e 1058a-c, in cui il filosofo descrive tale trasformazione con gli avverbi

ἄφνω ed ἐξαίφνης, entrambi traducibili con ‘improvvisamente’. Cfr. anche Quom. quis in virt. sent. prof. 75a ss.

(questo trattato ha certamente per obiettivo polemico la concezione stoica del progresso, sebbene Plutarco non nomini esplicitamente i propri avversari, e anzi le sole due menzioni di uno Stoico, Zenone (VI.78e, XII.82f), siano paradossalmente elogiative). Per un commento cfr. ROSKAM, op. cit., pp. 27 ss.

79 Cfr. SEXT.EMP., Adv. math. VII.151 (= SVF I.67) e AR.DID., Epit. Stoic., presso STOB., Ecl. II.7 5l.73-74 e

11m.111 (= SVF I 68.1). Sesto definisce l’opinione come «assenso debole e fallace» (ἀσθενῆ καὶ ψευδῆ

συγκατάθεσιν) e Ario l’ignoranza come «assenso volubile e debole» (μεταπτωτικήν [...] συγκατάθεσιν καὶ ἀσθενῆ).

La differenza sembra essere più nella prospettiva in cui sono definite le nozioni – Sesto si concentra sul valore di verità, Ario sulla consistenza logica – che nella loro differenza effettiva. Le due nozioni sono esplicitamente legate secondo un vincolo essenziale in CIC., Acad. pr. 41-42 (= SVF I.60, LS 41B), in cui l’opinio è definita come il

prodotto (ex qua existeret) dell’inscientia.

80 Il σοφός non possiede opinioni (δοξάζειν, ἀδόξαστον εἶναι). Cfr. STOB., Ecl. II.7 11m.111-112, D. L., Vit. VII.162. 81 Questa associazione sembra ammissibile anche dal confronto dei titoli di quattro opere di Crisippo (cfr. D. L.,

Vit. VII.199, 201), tre delle quali, ciascuna dedicata a Metrodoro e strutturata in due libri, intitolate Ὅρων τῶν τοῦ ἀστείου, Ὅρων τῶν τοῦ φαύλου e Ὅρων τῶν ἀναμέσων, ‘Delle definizioni del virtuoso’, ‘Delle definizioni del

vizioso’ e ‘Delle definizioni degli intermedi (?)’, e una in quattro libri intitolata Περὶ καταλήψεως καὶ ἐπιστήμης

comprensione e di scienza. La κατάληψις, nel summenzionato passaggio di Sesto Empirico, è definita come l’assenso, i. e. il giudizio assertorio82, a una ‘rappresentazione catalettica’

(καταληπτικῆς φαντασίας συγκατάθεσις), cioè, come spiegato subito dopo, a un’impressione percettiva verace; più precisamente, la rappresentazione catalettica83 è il risultato psichico di un

atto percettivo che ha la duplice caratteristica di essere svolto dall’anima84 su un ente reale

(ὑπάρχον) e di dare luogo a una rappresentazione conforme a tale ente (κατὰ τὸ ὑπάρχον). L’ἐπιστήμη, d’altronde, riceve in numerose testimonianze la seguente definizione85: essa è una

comprensione salda (βέβαιος), che non può essere falsificata (ἀσφαλής86) né alterata

(ἀμετάπτωτος, ἀμετάθετος) per mezzo di un ragionamento (ὑπὸ λόγου, ut convelli ratione non possit); in altri termini, la scienza è un giudizio assertorio inconfutabile su un ente reale. La differenza tra i due concetti è apparentemente oscura: cosa si ‘aggiunge’ alla κατάληψις per trasformarla da giudizio vero a giudizio inconfutabile? È possibile cogliere questa differenza facendo riferimento a due definizioni stoiche di ἐπιστήμη che Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 5l.73-74) propone come alternative a quella di κατάληψις ἀσφαλής καὶ ἀμετάπτωτος ὑπὸ λόγου, ma che in realtà ne costituiscono una spiegazione: σύστημα ἐξ ἐπιστημῶν e σύστημα ἐξ ἐπιστημῶν τεχνικῶν ἐξ ἀυτοῦ ἔχον τὸ βέβαιον, rispettivamente ‘composizione di scienze’ e ‘composizione di scienze tecniche avente di per sé stabilità’. Correttamente Isnardi Parente e Gourinat87 hanno colto la relazione tra queste definizioni e quella di τέχνη che abbiamo sopra

ricordato, ‘composizione (σύστημα) di un insieme di dati percettivi finalizzata a uno scopo utile nella vita’, pur notandone la differenza: la scienza, sebbene manifestabile tramite una singola

82 Per metonimia, come illustrato in BONHÖFFER, Epiktet, cit., pp. 168 ss.

83 In merito alla quale cfr. SVF II.53, 65, 97. Φαντασία (Cfr. PS.-PLUT., Plac. phil. IV 12.900d = SVF II.54, LS

39B; analogo PS.-GAL., Hist. phil. 93) lett. sarebbe traducibile con ‘apparenza’, data la sua derivazione da φαίνομαι

(ma secondo la testimonianza pseudo-plutarchea Crisippo, come già Aristotele in De an. III.429a3, avrebbe individuato in φώς, ‘luce’, l’etimo di φαντασία); tale traduzione potrebbe essere tuttavia fuorviante, data l’accezione negativa del termine italiano. La traduzione ‘rappresentazione’, preferita dalla maggior parte degli editori e degli studiosi, al contrario significa bene il processo di manifestazione nell’anima di un ‘vicario’ dell’oggetto percettivo. Sul tema cfr. A. A. LONG, Representation and the self in Stoicism, in Companions to

ancient thought 2: Psychology, edited by S. EVERSON, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 101- 120; ora in LONG, Stoic studies, cit., pp. 264-285. Cfr. anche H. DYSON, Prolepsis and Ennoia in the Early Stoa, De Gruyter, Berlin 2009, pp. 84 ss., in cui si ipotizza che la dottrina stoica delle rappresentazioni come impressioni o impronte (τύποι) sia stata sviluppata da Zenone in polemica con la dottrina epicurea della percezione (cfr. Her. 46-53, D. L., Vit. X.33).

84 La percezione secondo gli Stoici è una funzione dell’anima (cfr. SVF I.143, II.827-828, 830, 879).

85 Cfr. SVF I.68, II.93, II.95, II.117, II.294. Cfr. anche D. L., Vit. VII.165, in cui è riportata la definizione erilliana

di scienza come «disposizione alla ricezione di rappresentazioni non suscettibile di alterazione per mezzo di ragionamenti» (ἕξιν ἐν φαντασιῶν προσδέξει ἀνυπόπτωτον ὑπὸ λόγων), i. e. come capacità di sviluppare conoscenze corrette.

86 Lett. ‘che non può essere fatta cadere’.

87 Cfr. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 295 ss. e J.-B. GOURINAT, Les définitions de l’epistêmê et de la technê dans

l’ancien Stoïcisme, in L’homme et la science, édité par J. JOUANNA & M. FARTZOFF & B. BAKHOUCHE, Les Belles Lettres, Paris 2011, pp. 243-256.

comprensione, presuppone essenzialmente un’organizzazione di comprensioni che, grazie alla propria struttura, in cui ogni comprensione riceve dalle altre supporto logico, costituisce un complesso conoscitivo inconfutabile88. È sulla base di questa illustrazione della definizione di

ἐπιστήμη che Cicerone la contrappone esplicitamente alla κατάληψις (Acad. pr. II.23 = SVF II.117), in quanto quest’ultima, nonostante sia un giudizio vero dacché relativo a una rappresentazione corretta, manca del supporto logico necessario per essere inconfutabile.

Le definizioni dei concetti di scienza e comprensione apparentemente confermano l’ipotesi della loro associazione rispettivamente al saggio e al progrediente: come la condizione conoscitiva dello stolto sarebbe l’ignoranza o l’opinione, vale a dire una conoscenza confutabile e falsa, così appannaggio del saggio sarebbe la scienza, cioè un sistema di conoscenze vere e inconfutabili; al progrediente intuitivamente si potrebbe ‘concedere’ la forma conoscitiva della comprensione, che al contempo lo porrebbe in una condizione conoscitiva alternativa, non solo a quella del saggio, ma anche a quella dello stolto. La stessa conclusione si potrebbe trarre dalla celebre traduzione zenoniana nel linguaggio del corpo dei concetti di κατάληψις ed ἐπιστήμη testimoniata da Cicerone (Acad. pr. II.144-145):

Zenone, […] chiudendo completamente [scil. la mano destra] a pugno, diceva che quella era la comprensione; […] avvicinando poi la mano sinistra e stringendo con essa il pugno [scil. della destra] per bene e con forza, diceva che tale era la scienza89.

Se questa associazione fosse affermata dagli Stoici, la tesi antropologica dei due γένη perderebbe la propria esaustività, e i προκόπτοντες si costituirebbero in un terzo γένος, all’interno del quale potrebbero addirittura essere ammesse ulteriori suddivisioni a seconda della differenza di progresso conoscitivo verso la saggezza.

Tuttavia questa associazione è apertamente negata dagli Stoici. Il passaggio di Sesto Empirico (Adv. math. VII.151) a cui abbiamo alluso per proporre una tale associazione, dopo aver distinto le tre forme conoscitive dell’ἐπιστήμη, della δόξα e della κατάληψις, prosegue così: «Affermano che la scienza spetti ai soli saggi, l’opinione ai soli stolti, e che la comprensione sia comune a entrambi». Dunque non soltanto, nel momento di proporre tale distinzione tra le forme di conoscenza, presumibilmente gli Stoici non evocavano la figura del progrediente, ma

88 Concordo pertanto con la spiegazione che Christopher Gill ha fornito della condizione conoscitiva dello

σπουδαῖος: egli deriva la propria perfezione non tanto dalla conoscenza di tutto lo scibile, bensì dal possesso di un

insieme strutturato di conoscenze, consequenziali l'una all'altra in modo da costituire un complesso epistemico inconfutabile. Cfr. GILL, The structured self, cit., pp. 145 ss.

comunque disconoscevano la capacità di produrre καταλήψεις come criterio di assegnazione a uno dei due γένη degli σπουδαῖοι o dei φαῦλοι90. La κατάληψις, in quanto assenso a una

rappresentazione percettiva corretta, non è infatti un atto denotante la condizione conoscitiva di chi lo compie: la capacità di percepire correttamente la realtà è normale per gli uomini (PS.- PLUT., Plac. IV 9.899f = SVF I.7891) e dipende evidentemente dalla non difettosità degli organi

sensoriali; la capacità di rappresentarsi correttamente un oggetto percepito non dipende neanch’essa dall’abilità cognitiva del percipiente, bensì dall’oggetto che produce nella sua anima la propria rappresentazione (SEXT.EMP., Adv. math. VII.396-397 = SVF II.9192); infine,

la capacità di produrre giudizi è propria di tutti gli uomini in quanto facoltà psichica fondamentale93. Perciò la κατάληψις non può essere definita come una forma di conoscenza

peculiare a chi abbia compiuto dei progressi rispetto alla condizione di φαῦλος.94

b) Il καθῆκον non è la forma di azione peculiare dei προκόπτοντες

Alla condizione di προκόπτων non corrisponde neanche una forma peculiare di azione eticamente connotata. Pure questa tesi sembra controintuiva, perché alle tre figure dello stolto, del progrediente e del saggio sembrano associabili tre termini di cui gli Stoici si servono in relazione alla vita pratica degli uomini. Nel passaggio dell’Epitome di etica stoica di Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 11g.99-100) con cui abbiamo aperto il paragrafo precedente è scritto che Zenone e i suoi discepoli avrebbero affermato dello σπουδαῖος che egli κατορθοῖ, e del φαῦλος che egli ἁμαρτάνει. I due verbi derivano rispettivamente dai sostantivi κατόρθωμα e ἁμάρτημα, latinizzati in recte factum o recta actio e peccatum, che in modo esaustivo designano la connotazione etica di un’azione, come illustrato in un altro passaggio dell’Epitome

90 Secondo le parole di Zenone riportate e tradotte da Cicerone (Acad. pr. 42 = SVF I 69.1), la comprehensio non

è collocabile «neque in rectis neque in pravis».

91 Analogamente STOB., Ecl. I.50 20.475, PS.-GAL., Hist. phil. 91. Per questo motivo Ario Didimo (presso STOB.,

Ecl. II.7 7b.80-81) porta la εὐασθησία, i. e. una facoltà percettiva perfettamente funzionante, come esempio di

indifferente; cfr. anche ivi 7d.82, in cui tra gli esempi di indifferenti figurano le «percezioni non storpiate» (αἰσθήσεις μὴ πεπηρωμέναι).

92 Sesto non spiega come possa una cosa imprimersi nell’anima in modo da produrre una rappresentazione

acatalettica, ma è possibile che ciò fosse spiegato dagli stoici con la dottrina della πιθανότης τῶν πραγμάτων.

93 Cfr. ad esempio GAL., De H. et Plat. decr. VII (= SVF III.259), in cui è riferito che Crisippo, in un’opera intitolata

Sulla differenza tra le virtù, parlava indifferentemente di una δύναμις λογική e κριτική dell’anima. Perciò in STOB.,

Ecl. II.7 7b.81 gli assensi sono portati a esempio di indifferenti: l’assenso a una rappresentazione catalettica non è

indice di una disposizione corretta.

94 La distinzione tra ἐπιστήμη e κατάληψις richiama quella tra ἀλήθεια e ἀληθές tematizzata da Sesto Empirico in

relazione agli Stoici (Adv. math. VII.38-45, Pyrr. Hypotyp. II.81-83; cfr. anche PS.-GAL., Hist. phil. 13) e corrispondente alla differenza tra la disposizione epistemica dello σπουδαῖος, che gli consente di dare il proprio