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Le voci della perfetta e dell’imperfetta ragione 58 : gli interlocutori fittiz

Capitolo IV. Il carattere e il talento degli interlocutori di Epitteto

3) Le voci della perfetta e dell’imperfetta ragione 58 : gli interlocutori fittiz

I personaggi che Epitteto evoca e con i quali instaura conversazioni immaginarie alla presenza del proprio uditorio possono essere suddivisi, in primo luogo, in due gruppi: quelli

57 La φιλοδοξία è sussunta sotto la passione dell’ἐπιθυμία in STOB., Ecl. II.7 10c.91.

58 L’espressione è tratta da A. A. LONG, From Epicurus to Epictetus. Studies in Hellenistic and Roman philosophy,

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che il filosofo propone al proprio pubblico come modelli positivi e quelli che invece rappresentano modi di pensare e di agire scorretti59. I primi danno voce a quello che Long ha definito «il sé normativo» cui aspirano Epitteto e chi è persuaso dalle sue lezioni, vale a dire il φιλόσοφος, colui che preserva il proprio egemonico κατὰ φύσιν in ogni circostanza; i secondi esprimono invece, ciascuno a modo proprio, i difetti conoscitivi ed etici diffusi tra gli ἰδιῶται60. Che questa sia la funzione delle messe in scena allestite verbalmente da Epitteto risulta chiaramente dal contesto didattico in cui si svolgono le Diatribe61.

I personaggi positivi evocati da Epitteto, molto meno numerosi rispetto a quelli negativi, si riducono a due: il dio e il buon discepolo. Di entrambi abbiamo discusso nella parte precedente di questo lavoro. Nella filosofia stoica la divinità è identificata con la natura e con la ragione, che del resto sono sinonimi del destino e della provvidenza e denotano perciò il principio secondo il quale ogni ente acquisisce la propria struttura (κατασκευή), e il mondo diventa così un cosmo, organizzandosi in un certo modo secondo un determinato legame di causazione vincolante per tutti gli eventi. L’uomo che, avendo la capacità di sviluppare conoscenze corrette, conosce correttamente la natura e vive in accordo con essa, cioè l’uomo epistemicamente ed eticamente perfetto (τέλειος), è il sapiente (σοφός, σπουδαῖος, φρόνιμος, καλὸς καὶ ἀγαθός, φιλόσοφος etc.); rispetto a costui, il buon discepolo o studente rappresenta il προκόπτων, l’uomo che, pur trovandosi nella condizione assiologica dell’ignorante e del vizioso (φαῦλος, ἰδιώτης), in quanto imperfetto sotto il profilo epistemico ed etico, ‘studia’, cioè dedica i propri sforzi al raggiungimento della perfezione propria del sapiente.

Rispetto alla maggior parte Stoici precedenti, eccettuato il solo Cleante per quanto ne sappiamo62, Epitteto ha la peculiarità di esprimere in modo personalistico la propria concezione

59 Sull’importanza di dotarsi di un modello di comportamento cfr. Ench. 33.1. 60 Cfr. LONG, Epictetus, cit., p. 107.

61 Il ricorso da parte di Epitteto alla strategia retorica del dialogo immaginario – che egli ascrive a Socrate (II 1.32),

sebbene non vi sia alcuna testimonianza di ciò nel corpus platonico né in quello senofonteo (cfr. BRENNAN, op.

cit., pp. 291 ss.) – risponde a un τόπος della diatriba bionea (cfr. KINSTRAND (ed.), op. cit., pp. 21 ss.) che unisce

alla comunicazione di messaggi filosofici l’assunzione di uno stile improntato all’oratoria forense, verosimilmente a scopo auto-propagandistico. E tipica strategia dell’oratoria forense era proprio la drammatizzazione delle arringhe, consistente ad esempio in una vivace esposizione alla giuria degli eventi che avevano condotto al processo, nella parte del discorso detta διήγησις (narratio in latino), dedicata alla presentazione dei fatti. Sul tema cfr. FUENTES GONZÁLEZ, op. cit., COLARDEAU, op. cit., pp. 302-303 e SOUILHÉ (ed.), op. cit., pp. xxiv ss.

62 Filosofo il cui nome Epitteto menziona in più occasioni affiancandolo a quello di Socrate, Diogene, Zenone e

Crisippo (cfr. I 17.11, III 23.32, III 26.23), ma del quale soprattutto cita a più riprese alcuni versi tratti dal suo Inno

a Zeus (II 23.42, III 22.95, IV 1.131, IV 4.34, Ench. 53.1): «Conducimi, o Zeus, e anche tu, sorte destinatami

(πεπρωμένη), / dovunque io sia stato da voi assegnato, / ché io vi seguirò inesitante o, qualora non lo desideri, / poiché incattivito, vi seguirò non di meno». Suzanne Bobzien (op. cit., pp. 345 ss.) a ragione ritiene che, se indubbiamente Epitteto intende questa coppia di esametri come un’espressione della sua concezione della libertà dall’insoddisfazione come sequela dell’immodificabile corso della natura, è probabile che Cleante volesse piuttosto tematizzare il problema della compatibilità della posizione del destino con quella di cause dipendenti dagli uomini.

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del dio63. Egli parla del dio, molto spesso riferendosi a lui con il nome di Zeus64, «in termini

che trattano il principio divino del mondo come una persona, alla quale l’uomo è effettivamente presente e che è parimenti presente all’uomo», secondo le parole di Long65. Il filosofo di

Nicopoli, pur considerando anch’egli il dio come la razionalità insita nel mondo cosmico, come risulta con chiarezza da diversi passaggi delle Diatribe66, in molte occasioni lo menziona piuttosto come se il dio si relazionasse agli uomini alla pari di un essere umano; si rammenti, ad esempio, la descrizione di tale relazione come quella tra un padre e un figlio (I.3), o tra il beneficiario di una testimonianza e il relativo testimone (I 29.46 ss.). Qui, a mio avviso, opera palesemente una strategia retorica: Epitteto non asserisce mai né lascia intendere che il dio ha realmente un aspetto umano67 o che i dialoghi immaginari con il dio sono improvvisazioni di un’interazione realmente possibile tra un uomo e il dio; è piuttosto evidente che la sua rappresentazione del dio come un essere umano, per similitudine o metafora, è finalizzata a rafforzare in sé e nei propri ascoltatori il senso dell’ordine del mondo e quindi dell’esigenza di agire in conformità con esso. È anche su questo terreno, sia qui detto per inciso, che si manifesta l’incolmabile differenza tra la teologia epittetiana e quella cristiana, in particolare quella di San Paolo, come magistralmente mostrato da Adolf F. Bonhöffer in Epiktet und das Neue Testament, opera che conclude la trilogia dedicata dallo studioso tedesco a Epitteto68.

Ritengo che si debba interpretare in modo analogo il riferimento, da parte di Epitteto, a un δαίμων o δαιμόνιον – di indubbia ispirazione socratica, ma per il tramite di una tesi già vetero- e mediostoica69 – che Zeus o il dio avrebbe assegnato a ciascun uomo come suo guardiano

63 Cf. SOUILHÉ (ed.), op. cit., pp. lviii ss.

64 Cfr. a titolo meramente esemplificativo Diss. I 1.10, II 17.22, III 24.16, IV 8.30. 65 LONG, Epictetus, cit., p. 143. In merito alla stessa questione cfr. anche ivi, pp. 163 ss. 66 Cfr. Diss. I.6, II 10.3-4, III 24.63.

67 Secondo la testimonianza di D. L., Vit. VII.147 gli Stoici professavano una concezione non antropomorfica della

divinità.

68 Cfr. A. BONHÖFFER, Epiktet und das Neue Testament, Töpelmann, Berlin 1911. Il tema dell’opera è la

confutazione dei tentativi di individuare nelle dottrine epittetiane influssi cristiani e/o, al contrario, nelle dottrine cristiane influssi stoici e nello specifico epittetiani, al punto da poter affermare una dipendenza lessicale e concettuale di Epitteto dal Cristianesimo e/o degli autori neotestamentari dagli Stoici. La tesi centrale dell’autore è che le somiglianze lessicali tra il corpus epittetiano e il Nuovo Testamento rilevano non da una lettura di questo da parte di Epitteto, o viceversa, bensì più plausibilmente dal fatto che entrambi i corpora sono stati redatti nell’ambito di diffusione della κοινή διάλεκτος e di uno stile retorico standard (pp. 47-48, 144 ss.); dal punto di vista concettuale, invece, Bonhöffer non ha difficoltà a mostrare che il ricorso agli stessi termini – da καθῆκον a

λόγος, da πνεῦμα a ἐλευθερία – non implica affatto che Epitteto e gli autori neotestamentari li utilizzo nella stessa

accezione, anzi: per la maggior parte di tali vocaboli non è così (pp. 148 ss., 180 ss.). Sul rapporto tra Stoicismo e Cristianesimo cfr. anche DUHOT, op. cit., pp. 191 ss., in cui sono riconosciute se mai influenze lessicali e

concettuali degli Stoici su autori cristiani posteriori quali Tertulliano e Gerolamo (cfr. in particolare pp. 231 ss.).

69 Cfr. Apol. 27c-28a, parafrasato in Diss. II 5.18 e in III 1.19. Diogene Laerzio (Vit. VII.88), forse parafrasando

una tesi crisippea, scrive: «[Affermano che] la virtù e la prosperità nella vita (εὔροιαν βίου) dell’uomo felice si hanno qualora ogni azione sia compiuta nella consonanza tra il demone presente in ciascuno e la volontà dell’amministratore di tutte le cose (κατὰ τὴν συμφωνίαν τοῦ παρ' ἑκάστῳ δαίμονος πρὸς τὴν τοῦ τῶν ὅλων

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(φύλαξ), cioè come rappresentante di sé presso di lui (I 14.12-14); in un’occorrenza (III 22.53) il filosofo descrive l’interazione tra un uomo e il dio, mediata dal suo δαιμόνιον, proprio in termini dialogici, come un porre domande e offrire consigli. L’evocazione di questo ‘spirito tutelare’, come ben mostrato da Αdolf F. Bonhöffer e più recentemente da Henry Dyson70,

risponde all’esigenza di spiegare in termini intuitivi la partecipazione dell’uomo, in quanto animale razionale, alla logica divina, di rendere comprensibile in modo semplice che l’appello a λογικῶς o κατὰ φύσιν ζῆν risulta da un’istanza deontologica interiore all’uomo e non gli è imposto dall’esterno, da un dio che lo sovrasta. Il dio interagisce con l’uomo come un suo pari o per il tramite di un suo rappresentante, ma in ogni caso attraverso il canale privilegiato della comunicazione interumana, quella verbale.

Non stupisce pertanto che Epitteto parli del dio come di una persona, che prova desideri e impulsi (cfr. II 17.23, IV 7.20), vale a dire è dotata di una propria προαίρεσις: questa non è altro che l’ordine della natura (cfr. Ι 16.6, III 24.96). È evidentemente in riferimento a questa descrizione della logica naturale come scelta del dio che Epitteto accosta questi all’Imperatore (cfr. I 14.14 ss., III 13.9 ss.) e lo contrappone alla figura del tiranno (II.6, IV 7.12 ss.): come la volontà dell’Imperatore o del tiranno si traduce nella costituzione legale vigente nel territorio soggetto al suo governo, così la volontà del dio è rispecchiata dall’insieme delle leggi fisiche che regolano il verificarsi degli eventi e la loro successione. In questo senso, inoltre, Epitteto può formulare il sommo καθῆκον umano indifferentemente come vivere secondo natura, cioè adeguarsi all’ordine del mondo, o come assecondare la volontà divina (cfr. II 23.42, IV 1.99)71,

ed il filosofo diventa concepibile al contempo come colui che vive secondo natura e come l’obbediente suddito del dio (cfr. ad esempio II 16.4-43)72. La presentazione personalistica del

sua facoltà di assumere un certo βίος, piuttosto che con la sua partecipazione del λόγος divino, come nell’accezione epittetiana del vocabolo. Nella dossografia laerziana si fa anche una fugace e perciò criptica allusione (§ 151) a dei δαίμωνες che «hanno una simpatia per gli uomini e [sono] guardiani delle cose umane» (ἀνθρώπων συμπάθειαν

ἔχοντας, ἐπόπτας τῶν ἀνθρωπείων πραγμάτων), espressione di una dottrina forse più prossima a quella socratica e

quindi a quella epittetiana. Da ricordare anche l’accezione posidoniana di δαίμων (fr. 187a ΕK = GAL., De Hip. et

Plat. plac. V. 6.3-5) come ente presente nell’uomo «congenere e avente natura simile a colui che governa l’intero

cosmo» che, se l’uomo è in disaccordo (ἀνομολογία) con esso, lo rende infelice (κακοδαίμων) e vittima delle passioni; anche questa accezione, che doveva essere espressa nel suo Sugli eroi e i demoni (cfr. MACR., Sat. I 23.7

= fr. 24 EK), pare prossima a quella epittetiana (cfr. KIDD, (ed.), op. cit., vol. II.2, pp. 674 ss.). Dato che il titolo di tale opera figura anche come intestazione di un capitolo della dossografia pseudo-plutarchea (Plac. phil. I 8; analogo PS.-GAL., Hist. phil. 36) in cui non si fa menzione di Posidonio, è possibile che esso fosse il titolo anche

di opere di altri autori, forse Stoici.

70 Cfr. BONHÖFFER, Epiktet, cit., pp. 81 ss., Die Ethik, cit., pp. 14 ss.; H. DYSON, The God within: the normative

self in Epictetus, in «History of Philosophy Quarterly», 26.3 (2009), pp. 235-253; cfr. anche LONG, Epictetus, cit., pp. 163-168.

71 Sulle varie formulazioni epittetiane del τέλος cfr. BONHÖFFER,Die Ethik, op. cit., pp. 28-29.

72 Ma già Ario Didimo (presso STOB., Ecl. II.7 11k.105-106) descrive il φαῦλος come ἀσεβής e θεοῖς ἐχθρός,

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dio implica che quest’ultimo ha anche il λόγος, nel senso di facoltà verbale. Ecco la maniera in cui Epitteto può introdurre il dio come interlocutore fittizio.

Il personaggio del dio è evocato da Epitteto per esprimere le norme di comportamento a cui l’uomo deve adeguarsi per vivere bene. Ciò è detto esplicitamente nel capitolo III.13, intitolato Cosa sia la solitudine e chi l’uomo isolato. Epitteto inizia spiegando che la condizione di ἐρημία consiste non nell’essere soli, bensì nell’essere vulnerabili da parte degli altri, conseguenza della mancata tematizzazione della diairesi ontologica radicale (§§ 1-3); prosegue quindi esortando il destinatario del proprio discorso a prepararsi all’eventualità di trovarsi da solo, senza la compagnia di altri uomini, senza perciò sentirsi ἔρημος, i. e. restando consapevole da un lato della propria essenziale relazionalità con ogni ente mondano e della costante e ineliminabile presenza a sé di qualcosa, e dall’altro dell’esigenza di eseguire la diairesi ontologica radicale in ogni interazione con ciascun oggetto (§§ 4-8). Epitteto afferma che l’Imperatore non può garantire questa preparazione (§§ 9-10); solo il discorso dei filosofi (ὁ δὲ λόγος ὁ τῶν φιλοσόφων) può garantirla: esso, «per conto del dio, attraverso la ragione» (ὑπὸ τοῦ θεοῦ […] διὰ τοῦ λόγου), proclama (λέγει, κεκηρυγμένην) per chi le dedichi le proprie energie la possibilità di vivere in ogni situazione privi di dolore e di rabbia, di costrizioni e di impedimenti, di passioni e di tutti gli altri mali (§ 11). Il passaggio, come si vede, gioca sull’ambiguità di λόγος: seguendo la maggior parte delle traduzioni delle Diatribe73, mi sembra plausibile interpretare

la prima occorrenza del sostantivo, riferita ai filosofi, come denotante l’insegnamento di questi, che al contempo avviene verbalmente e tematizza la nozione di ragione; quanto alla seconda occorrenza, con cui Epitteto indica il mezzo tramite il quale la divinità ‘bandisce’ l’annuncio della filosofia, in questo caso in effetti il λόγος potrebbe tanto essere un banale rimando alla modalità verbale con cui tale annuncio è trasmesso, i. e. l’educazione filosofica, quanto significare il δαίμων inteso come rappresentante del dio presso l’uomo e con ciò indicatore del τέλος insito in lui. Ad ogni modo, dal passaggio citato emerge con chiarezza la rappresentazione personificata del dio, che si serve dell’insegnamento dei filosofi e della ‘voce della ragione’ come di mediatori della propria volontà presso l’uomo. Del resto, come riconosciuto da Keimpe Algra e come constato nella prima parte di questo lavoro, un altro canale tramite il quale il dio comunica con un uomo significandogli la propria volontà è l’accadimento di eventi che lo coinvolgano: «Quando Epitteto parla di dio che dà ordini specifici, ciò che in realtà si suppone che il dio ‘dica’ spesso si rivela essere semplicemente ciò che ci accade»74.

73 Cfr. CARTER (ed.), op. cit., SCHWEIGHÄUSER (ed.), op. cit., COURDAVEAUX (ed.), op. cit., OLDFATHER (ed.), op.

cit., LAURENTI (ed.), op. cit.,CASSANMAGNAGO (ed.), op. cit.,HARD (ed.), op. cit., MULLER (ed.), op. cit.

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Questo proclama del dio è ripetuto, in modo analogo, in altre occasioni in cui Epitteto ‘cede la parola’ al dio il quale ad esempio, come un governante, promette una vita felice per i governati che si attengano alla sua opera legislativa. La diatriba I.29, Sulla fermezza, durante la quale Epitteto spiega la necessità di mettere in pratica la diairesi ontologica radicale, si apre proprio con la figura del dio che espone la propria legge: «Se desideri un qualche bene, trailo da te stesso» (§ 4)75. Nella diatriba III.10, Come bisogna sopportare le malattie, il dio compare invece dinnanzi all’uomo in veste di giudice preposto a valutare se la sua condotta sia conforme alle leggi divine (§ 8). Viceversa, altre volte è Epitteto a rivolgersi al dio come un suddito al re, per testimoniare la propria obbedienza ai suoi ordini e la propria disposizione a rimettersi alle decisioni che il dio vorrà prendere sul suo conto, volesse egli anche la sua fine. Il miglior esempio di ciò è senza dubbio IV 10.14-17, in cui il filosofo si dice pronto, in punto di morte, a levare le mani al cielo e invocare il dio perché faccia di lui ciò che vuole: Epitteto accetterà il suo volere quale che sia76.

L’altro interlocutore fittizio positivo creato da Epitteto è il buon discepolo, che come detto rappresenta il προκόπτων ed è pertanto lodato, costituendo un modello positivo per i frequentatori della scuola del filosofo, non per la sua condizione attuale, che lo vede ancora ἀτελής – è malato e schiavo, secondo rispettivamente la similitudine di Ench. 48.2 e la metafora di Diss. IV 1.113 –, i. e. ancora un inesperto nell’arte della vita, bensì per il fine che si propone, il raggiungimento e il consolidamento della condizione di filosofo tramite l’educazione, condizione che realizza l’essere umano. Il buon discepolo, insomma, è un modello positivo non in sé, ma in quanto aspira a divenire un tale modello. Mentre, come abbiamo visto, il dio figura in diversi capitoli come interlocutore, il buon discepolo appare come tale solo nella diatriba II.17, che porta il titolo Come si debbano adattare le prenozioni ai casi particolari. In essa Epitteto dialoga con un suo studente, come dimostrerebbe il fatto che egli, a detta del filosofo, è stato istruito nella logica (§ 27); nonostante la sua educazione filosofica, egli non è però capace di applicare alle diverse situazioni di vita le προλήψεις. Avendo evitato di introdurre e tematizzare questo termine in precedenza, commentando il capitolo II.11, sarà bene farlo brevemente ora.

Le testimonianze più rilevanti sulla concezione stoica delle prolessi o prenozioni (lett. ‘pre- coglimenti’) sono un passaggio ciceroniano (De nat. deo. I.43-45), in cui l’Arpinate attesta il conio epicureo del concetto, e dunque è implicata l’introduzione di esso nella scuola stoica come una reazione polemica all’epistemologia epicurea, e un brano dello Pseudo-Plutarco

75 Per un esempio analogo cfr. I 1.10-13.

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(Plac. phil. IV 11.900b-d = SVF II.83, LS 39E)77. Quest’ultimo, senza specificare se sta

riferendo la dottrina di un filosofo specifico oppure proponendo una dottrina condivisa o la sintesi del pensiero di più filosofi78, descrive le προλήψεις come una specie di intellezioni o

nozioni (ἔννοιαι). Queste, nello stesso passaggio, sono definite come la traduzione psichico- razionale cognitiva delle rappresentazioni, vale a dire come la reazione alle rappresentazioni dell’anima umana, specificamente razionale, reazione che consiste nella produzione di un concetto (ἐννόημα)79. Le prolessi sono intellezioni la cui specificità consiste nell’avere

un’origine naturale (αἱ μὲν φυσικῶς γίνονται)80, per contrapposizione a «quelle [formatesi] per

mezzo del nostro impegno nell’educazione (αἱ δὲ ἤδη δι’ἡμετέρας διδασκαλίας καὶ ἐπιμελείας) e chiamate ἔννοιαι stricto sensu81; si tratta cioè delle nozioni risultanti automaticamente da ogni

percezione, ricordo di una percezione o collazione di un insieme di ricordi, i. e. esperienza82. In

altri termini, le προλήψεις sono il corrispettivo psichico attivo delle rappresentazioni, e in questo senso, secondo l’interpretazione galeniana della dottrina di Crisippo esposta nel suo Sulla ragione (GAL., De Hip. et Plat. plac. V 3.4 = SVF II.841, LS 53V), esse sono ἐνέργειαι τῆς

77 Sul tema cfr. DYSON, op. cit., pp. 2 ss., in cui lo studioso ipotizza che il fulcro della polemica epistemica tra

Epicurei e Stoici in questo contesto sia la concezione epicurea dei πάθη come criteri di verità (cfr. Her. 38).

78 Perciò, come sua abitudine, von Arnim ritiene che ‘Aezio’ (sic) riferisca una dottrina crisippea, in ciò supportato

dal solo fatto che, in tutte le testimonianze da lui raccolte – come del resto anche in quelle raccolte da Long e Sedley – il filosofo stoico più antico a cui è associato il concetto di πρόληψις è Crisippo (cfr. SVF II.841 = LS 53V e SVF III.69 = LS 60B).

79 Per tale motivo l’ἐννόημα (νόημα nel capitolo analogo di PS.-GAL., Hist. phil. 92) è definito dallo Pseudo-

Plutarco anche tramite il sintagma φάντασμα διανοίας λογικοῦ ζῴου, ‘fantasticheria dell’intelletto dell’animale razionale’, i. e. (cfr. anche D. L., Vit. VII.61 e AR.DYD. presso STOB, Ecl. I.12 3.136-137, in cui la definizione

delle ἐννοήματα come φαντάσματα ψυχῆς è attribuita a Zenone) cosa presentificata nell’anima in assenza del corrispondente oggetto percettivo (τὸ πεποιηκός); questo è assente non solo perché il relativo concetto è presentificabile tramite il ricordo di una percezione, ma anche perché il concetto può essere prodotto dalla sintesi di un insieme di percezioni, alcune delle quali attuali, altre ricordate, e dunque consistere non nell’immagine di un individuo, ma nello schema di una classe, che in quanto tale è avulsa dall’ontologia stoica a differenza di quanto accade in quella platonica (cfr. LS 30 e il relativo commentario; cfr. anche STOB., Ecl. I.12 3.137, PS.-PLUT., Plac.

phil. I 10.882e, PS.-GAL., Hist. phil. 25). Sul tema cfr. DYSON, op. cit., pp. 84 ss.

80 Appare pertanto ridondante il sintagma ἔμφυτοι προλήψεις, ‘prolessi naturali’ presente in una citazione

plutarchea dal terzo libro del Protrettico di Crisippo (PLUT., De Stoic. rep. XVII.1041e = SVF III.69, LS 60B); se

si assume, come von Arnim, che la dottrina testimoniata nei Placita sia crisippea, l’aggettivo ἔμφυτος non può significare ‘innato’. Concordo pertanto con Cherniss, editore del trattato plutarcheo per Harvard University Press, Cambridge-London 1976, che traduce l’aggettivo con ‘inbred’ (‘naturale’ o ‘nativo’) e rifiuta esplicitamente la traduzione ‘innate’. Analogo il commento di Lachenaud, editore dei Placita philosophorum per Les Belles Lettres, Paris 1993 (cfr. p. 289 n. 3).

81 Long e Sedley interpretano la contrapposizione, palesemente tra nozioni formatesi in una qualunque interazione

mondana e quelle apprese con la precisa volontà di apprendimento, anche come tra un apprendimento supposto naturale e uno culturalmente determinato («the Stoics called naturally acquired generic impressions “preconceptions”, using this term to distinguish them from conceptions that are culturally determined or deliberately acquired»), ma la distinzione presuppone una coscienza di relativismo epistemologico che, oltre a sembrare anacronistica per la società mediterranea ellenistica, è in palese contraddizione con la pretesa di validità universale delle affermazioni sull’uomo attribuite agli Stoici dallo Pseudo-Plutarco nello stesso passaggio.

82 Concezione già aristotelica. Cfr. ad esempio Met. I 981a 1 ss., Anal. post. II 99b 35 ss. Sul tema cfr. F. H.

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ψυχῆς, ‘attività dell’anima’.Pertanto, come fa osservare Christopher Gill83, il fatto che in alcune

fonti sia attribuito alle prenozioni l’aggettivo ἔμφυτος o il suo corrispettivo latino innatus84 non