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Capitolo IV. Il carattere e il talento degli interlocutori di Epitteto

1) Sulla nozione di caratterizzazione

Théodore Colardeauintitola una parte del suo Étude sur Épictète «Le caractère et le talent d’Épictète»1; in questa sezione del suo saggio, lo studioso francese si propone di ricostruire la

«fisionomia» di Epitteto a partire dalle sue parole registrate da Arriano nelle Diatribe, cioè di verificare se è possibile intravedere, attraverso le sue esposizioni dottrinali, la personalità dell’uomo che le fornisce. Il primo capitolo di questa seconda parte del mio lavoro contiene un’applicazione del medesimo metodo, finalizzata alla realizzazione di un risultato complementare rispetto a quello perseguito da Colardeau: la ricostruzione della ‘fisionomia’ degli interlocutori del filosofo e l’analisi del tipo di caratterizzazione che ricevono. È infatti evidente che ciò è imprescindibilmente propedeutico alla verifica della tesi della condivisione teorica e dell’applicazione, da parte di Epitteto, della tattica socratica della singolarizzazione del discorso rispetto all’interlocutore.

Gli interlocutori di Epitteto sono immediatamente classificabili in due gruppi: quelli reali e quelli fittizi. Come abbiamo accennato nel primo capitolo, la maggior parte delle sezioni in cui sono suddivise le Diatribe contiene la riproduzione di un dialogo. Il dialogo spesso è reale e consiste in una conversazione tra Epitteto e un uomo – nessuno dei quattro libri tramandatici contiene una conversazione tra Epitteto e una donna – trascritta da Arriano; secondo quanto affermato nell’epistola a Lucio Gellio, è presumibile che egli abbia assistito direttamente a tutte le conversazioni riportate nell’opera. Per il nostro interesse, possiamo assimilare a questi dialoghi quelli a cui Epitteto ha partecipato in passato e che riferisce al proprio interlocutore reale, sempre alla presenza di Arriano, dacché si tratta di dialoghi parimenti reali. D’altra parte è tutt’altro che infrequente l’evocazione, da parte di Epitteto, di un personaggio fittizio, con cui egli instaura un dialogo immaginario di fronte al proprio interlocutore. Data l’importanza

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evidentemente riconosciuta da Epitteto alla tecnica del dialogo immaginario come strumento didattico, in questa sede prenderemo in esame entrambi i gruppi di interlocutori.

In questo capitolo impiegheremo pertanto il sostantivo ‘caratterizzazione’ in due accezioni; sebbene in seguito non torneremo su questa polisemia e la daremo per presupposta, in questa sede non è forse inopportuno esplicitarla. Essa è infatti resa necessaria dalla distinzione che abbiamo appena tracciato, tra interlocutori reali e fittizi.

La prima accezione di ‘caratterizzazione’ corrisponde al vocabolo greco ἠθοποιία: italianizzata in ‘etopea’, essa denota un esercizio retorico consistente nella «imitazione ed espressione dei costumi di una persona» per mezzo dell’attribuzione a essa di un discorso fittizio, come spiegato ad esempio nei Προγυμνάσματα del retore Aftonio (XI.44); l’etopea è la composizione (ποίησις) di un discorso adatto al carattere (ἦθος) non del suo autore, bensì di chi, nell’intenzione di quest’ultimo, dovrebbe proferirlo. La tecnica può dunque essere applicata tanto nell’ambito logografico quanto in quello letterario. Dionigi di Alicarnasso, com’è ben noto, ricorre al vocabolo ἠθοποιία (De Lys. 8 ss.) per descrivere l’abilità di Lisia nello scrivere orazioni giudiziarie confacenti al modo di esprimersi del suo cliente, oltre che atte a persuadere la giuria a votare in suo favore. D’altronde gli esempi offerti da Aftonio alludono alla pratica didattica dei maestri di retorica di far esercitare i propri studenti in un’etopea fittizia, vale a dire nell’immaginare che cosa un certo personaggio, mitologico o storico, direbbe in un certo contesto. Il sostantivo ‘caratterizzazione’ assumerà l’accezione di etopea in relazione agli interlocutori fittizi di Epitteto, in quanto personaggi immaginati dal filosofo e per i quali egli elabora discorsi confacenti al loro carattere, da lui stesso determinato. Quanto alla seconda accezione di caratterizzazione, essa non è riassumibile in un sostantivo, ma è possibile coglierla, ad esempio, attraverso l’analisi delle parole di Tucidide contenute in un celebre paragrafo del primo libro della Guerra del Peloponneso, nel quale lo storico ateniese formula una premessa metodologica alla propria opera:

E, per quanto riguarda i discorsi che ciascuno pronunciò nell’imminenza della guerra o già nel corso di essa, sarebbe stato arduo ricordare esattamente il loro contenuto per me, quanto ai discorsi che avevo udito personalmente, e per coloro che mi riferiscono discorsi da loro uditi altrove; ma, come credevo che ciascuno avrebbe detto le cose più opportune in ogni circostanza, tenendomi il più vicino possibile al senso complessivo di ciò che era stato veramente detto, così sono state da me riportate le sue parole (ὡς δ’ ἂν ἐδόκουν ἐμοὶ ἕκαστοι περὶ τῶν αἰεὶ παρόντων τὰ δέοντα μάλιστ’

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In questo paragrafo Tucidide anticipa al lettore che, nel corso delle sue Storie, riprodurrà alcuni discorsi al cui proferimento è stato presente, come la nota arringa di Pericle alla cittadinanza ateniese (II.34-46), o che gli sono stati testimoniati da qualcuno e che egli ricostruisce sulla base di tale testimonianza, quale l’altrettanto noto dialogo tra gli ambasciatori di Atene e gli abitanti dell’isola di Melo (V.88-105). Tuttavia, spiega l’autore, la riproduzione dei discorsi non sarà letterale, perché egli, non avendone evidentemente fatto una registrazione contemporanea al loro proferimento, non è in grado di ricordare parola per parola ciò che è stato detto. Egli assicura però che manterrà la ξύμπασα γνώμη, il ‘senso complessivo’ di ogni discorso; possiamo presumere che con questo sintagma Tucidide alluda tanto allo scopo con cui il discorso è stato pronunciato, quanto al lessico e al tono scelti da colui che lo ha pronunciato. Attenendosi a questo proposito metodologico, lo storico riuscirà a rappresentare non soltanto il significato che chi ha pronunciato tale discorso intendeva comunicare, ma anche il carattere di costui. Arriano, a mio avviso, riproducendo – verbatim o per parafrasi, in questo contesto è irrilevante – i dialoghi tra Epitteto e i suoi interlocutori reali, si trova nella stessa condizione di Tucidide: cercando di riferire la ξύμπασα γνώμη delle loro asserzioni, dei loro dubbi e delle loro domande rivolte a Epitteto, ne rappresenta il carattere, proprio come riportando le parole del filosofo rappresenta il suo carattere. In questo caso, il sostantivo ‘caratterizzazione’ assume un’accezione diversa dalla precedente: mentre infatti Epitteto costruisce i discorsi che attribuisce ai propri interlocutori fittizi, Arriano si limita a trascrivere, in modo più o meno attinente alla loro lettera, conversazioni realmente accadute e dunque non le adatta al carattere di chi ha partecipato a esse. La caratterizzazione degli interlocutori reali di Epitteto semplicemente emerge dalla registrazione arrianea delle Diatribe.

Prima di passare all’analisi della caratterizzazione degli interlocutori di Epitteto, non possiamo prescindere dal definire il significato che diamo, in questo contesto, al termine ‘carattere’, assunto come traduzione del greco ‘ἦθος’.

Per ἦθος o carattere, nella loro accezione generale, intendo il modo d’essere e di agire di un individuo. Si ricorderà che, nel precedente capitolo, ci siamo serviti del sostantivo ‘carattere’, sia in relazione alla dottrina paneziana dei πρόσωπα che a quella epittetiana delle σχέσεις, nella comune accezione di ‘indole’, vale a dire il complesso di fattori emotivi e intellettuali che rende inclini a comportarsi in un certo modo in una determinata circostanza. Questo, da vocabolario, sarebbe il significato di ἦθος, il quale rimanderebbe appunto a un’inclinazione interna ad agire in un certo modo, determinata dalla combinazione della natura dell’agente con un suo stato

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d’animo2. Tuttavia, nel passaggio dal greco all’italiano, il concetto si arricchisce e diventa

indebitamente più specifico3: il primo significato di ἦθος è ‘luogo familiare’, quindi ‘abitazione’, il che conferma la sua derivazione dal verbo ἔθω, ‘essere solito’, sostenuta sia da Platone (Leg. VII.792e) che da Aristotele (Eth. Nic. II.1 1103a.14 ss.) e più tardi da Plutarco (De virt. mor. IV.443c-d)4; da questa prima accezione, esso assunse il senso di ‘stile di vita’ come prodotto di una consuetudine (ἔθος). L’ἦθος è dunque un modo d’essere, o condizione esistenziale, acquisito tramite la ripetizione di una serie di attività; tale condizione, a sua volta, influenza il comportamento successivo alla sua acquisizione, e in questo senso è anche un modo di agire. Il significato di ἦθος come si vede non implica, a differenza dell’italiano ‘carattere’, la considerazione del solo stato psichico del soggetto: l’ἦθος non è, come prima abbiamo scritto a proposito del carattere nella sua accezione comune, soltanto il complesso dei fattori emotivi e intellettuali che rende inclini a comportarsi in un certo modo in una determinata circostanza, bensì la totalità dei fattori, psichici ma anche sessuali, familiari, professionali, sociali, politici etc. Ruby Blondell, autrice di uno studio sulla caratterizzazione dei personaggi dei dialoghi di Platone – che è ovviamente un punto di riferimento importante per la presente ricerca –, ha chiarito molto bene il significato di questa nozione in un passaggio della sua opera5:

Considero [scil. l’ēthos] nel suo senso più generico e meno tecnico come comprendente le qualità morali e intellettuali, insieme alle caratteristiche sociali e personali (quali l’età, lo status, le relazioni sociali, il genere, lo stile di vita, la condotta, la fisionomia, il modo di parlare) che aiutano a costruire, incorporare e trasmettere queste qualità.

L’ἦθος, possiamo dire parafrasando la studiosa, è l’insieme delle proprietà temperamentali e biografiche di un uomo: la sua tendenza ad agire in un certo modo in una circostanza, la sua credenza nella verità di certe asserzioni ovvero la sua ‘visione del mondo’, i suoi desideri, ma anche la sua età, il suo aspetto fisico, la sua appartenenza a un genere sessuale e il suo rapporto con essa, e ancora la sua storia familiare e professionale, il suo milieu culturale, il suo ruolo nella società cui appartiene e le decisioni che egli ha preso in merito alla propria vita. L’ἦθος

2 Cfr. ad esempio la voce ‘ἦθος’ in LSJ e la voce ‘carattere’ nel Dizionario Treccani della lingua italiana a cura M.

BRAY, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2017.

3 Sul tema cfr. M. SPINELLI, Sobre as diferenças entre éthos com épsilon e êthos com eta, in «Trans/Form/Ação»,

32 (2009), pp. 9-44.

4 Pierre Chantraine, al contrario, pur constatando che originariamente ἦθος aveva il significato di ‘costume’,

dunque era semanticamente affine a ἔθος, non formula ipotesi sulla relazione etimologica tra le radici dei due sostantivi e anzi si raccomanda di «non confondere» ἦθος con ἔθος. Cfr. le voci εἴωθα e ἦθος nel Dictionnaire

étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, édité par P. CHANTRAINE, Klincksieck, Paris 1968-1980.

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comprende pertanto sia ciò che normalmente vogliamo significare con le parole ‘carattere’ o ‘indole’, vale a dire quanto costituisce il principio motivazionale interno all’azione, sia tutti gli elementi circostanziali che definiscono il profilo biografico di un uomo e che, influenzandolo non meno nel suo comportamento, rappresentano il suo principio motivazionale esterno. L’ἦθος è, in altre parole, l’insieme delle «qualità» di un uomo che ne compongono l’identità, vale a dire, come abbiamo concluso nella prima parte di questo lavoro, il risultato del complesso delle sue condizioni (σχέσεις).

La mia proposta è di utilizzare nella stessa accezione il sostantivo ‘carattere’. Di conseguenza, la ricerca di una caratterizzazione degli interlocutori di Epitteto che condurremo nelle prossime pagine consisterà in una lettura delle Diatribe volta a trovare indizi sulla loro identità: quale sia il loro atteggiamento nei confronti del filosofo, quali le loro opinioni, quale la loro estrazione sociale, quale il loro rapporto con parenti e amici, quale la loro professione etc. Per riassumere la nostra indagine in una domanda, ci chiederemo: “Con chi sta dialogando Epitteto?”, esaminando prima i suoi interlocutori reali, quindi quelli immaginari.

La nostra indagine inizia con una constatazione negativa: non è possibile realizzare un lavoro prosopografico avente per oggetto gli individui reali con cui Epitteto dialoga. Come abbiamo brevemente anticipato nel primo capitolo descrivendo il ruolo della diatriba nella pedagogia epittetiana, il solo interlocutore di cui Arriano espliciti il nome – per altro solo nel titolo della diatriba e mai nel corso di essa – è un certo Nasone (Νάσων), che parla con il filosofo in Diss. II.14; di costui, a partire dalle scarne informazioni sulla sua vita ricavabili dal suo dialogo con Epitteto e dal confronto con personaggi aventi lo stesso cognomen menzionati in opere antiche che fanno riferimento al medesimo periodo storico, può essere parzialmente ricostruito il profilo biografico, soprattutto in relazione alla sua carriera politica6. Si tratta tuttavia di un caso pressoché unico: esclusi il procuratore dell’Epiro e il correttore epicureo, che dialogano con Epitteto rispettivamente in III.4 e III.7, per i quali è forse possibile, consultando opere di interesse storiografico che abbiano per tema il periodo in cui insegnò Epitteto, proporre una rosa di nomi7, di tutti gli altri interlocutori Arriano non fornisce abbastanza informazioni perché si possano fare ipotesi plausibili sulla loro identità. Si intrattengono con Epitteto funzionari imperiali (cfr. IV.1) e magistrati (cfr. I.10), amici (cfr. II.15) e notabili (cfr. I.10), retori (cfr.

6 Vedi infra pp. 249-250.

7 Vedi infra pp. 230-231 a proposito del correttore epicureo con cui Epitteto dialoga in III.7. Quanto al procuratore

dell’Epiro, sarebbe senz’altro possibile individuare un insieme di candidati identificabili con costui a partire da una raccolta di epigrafi relative all’Epiro e al periodo in questione (106-114 d. C.); non mi risulta tuttavia che a oggi sia stata condotto un tale studio epigrafico, come fatto invece per altre province romane, quali ad esempio quelle germaniche in W. ECK, Die Statthalter der germanischen Provinzen vom 1. - 3. Jahrhundert, Rheinland, Köln 1985.

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III.1) e filosofi (cfr. II.6), discepoli (cfr. IV.11) e profani di filosofia (cfr. IV.8), ma queste qualifiche sono la sola informazione rilevante dal punto di vista prosopografico su tali personaggi. È pertanto impensabile, in questa come in altre sedi, redigere per Epitteto un’enciclopedia equivalente, ad esempio, a quella realizzata da Debra Nails in merito alle persone che figurano nei dialoghi di Platone come interlocutori o che sono in essi menzionate8. Tale impossibilità consegue alla palese concentrazione di Arriano su Epitteto piuttosto che sui suoi interlocutori, nella trascrizione delle Diatribe. Questo, come notato da Joseph Souilhé, è uno dei punti in cui il confronto tra Arriano e Platone è più interessante9. Nella composizione dei suoi dialoghi, il filosofo ateniese nomina la maggior parte dei personaggi che prendono parte alle conversazioni, rendendoli molto spesso identificabili con individui storici. Egli inoltre, come dimostra l’ampio dibattito critico a questo proposito10, non conferisce a nessun

interlocutore una tesi e delle argomentazioni affermandole (esplicitamente o meno) come proprie: in assenza di una conferma da parte di Platone in questo senso, non è pertanto legittimo attribuirgli quanto sostenuto da nessuno dei suoi personaggi. Sebbene in ogni dialogo sia riconoscibile un «personaggio dominante», come lo definisce Blondell, cioè un interlocutore che ha battute più lunghe e articolate degli altri, che riesce a confutare le opinioni altrui e a guidare la conversazione nelle sue tappe successive11, la sua preminenza sugli altri interlocutori non giustifica la posizione di chi ritiene che questi esprima il pensiero di Platone alla maniera di un portavoce. Questa tesi è ancora meno giustificabile se si considera che il personaggio dominante non è mai il solo a esporre e argomentare una propria tesi: si pensi, ad esempio, al Trasimaco del primo libro della Repubblica, al Critone del dialogo che porta il suo nome o al Callicle del Gorgia, per citare solo i personaggi più noti; pur essendo impensabile che le affermazioni di costoro rispecchino il pensiero di Platone, non si può escludere che la complessità dei loro ragionamenti possa contenere se non tesi almeno dubbi percepiti dallo stesso Platone, e che, viceversa, non tutte le affermazioni del personaggio dominante sarebbero effettivamente sottoscritte da Platone. Insomma, il filosofo ateniese nei suoi dialoghi non affida a un personaggio le proprie dottrine, contrapponendogli interlocutori impersonali che si limitano a esporre gli apparenti punti deboli di esse o a fare le veci di sostenitori di un pensiero

8 Cfr. D. NAILS, The people of Plato. A prosopography of Platon and other Socratics, Hackett, Indianapolis-

Cambridge 2002.

9 SOUILHÉ (ed.), op. cit., pp. xxiv ss. Le seguenti considerazioni sono debitrici anche di BLONDELL, op. cit., pp. 14

ss. e di TRABATTONI, op. cit., pp. 100 ss.

10 Cfr. le informazioni bibliografiche, relative sia ai commentatori antichi che agli studiosi moderni, riportate in

BLONDELL, op. cit., pp. 19-20 nn. 52, 54-55.

11 Nella maggior parte dei casi si tratta di Socrate, ma mi riferisco anche, ad esempio, a Parmenide nel dialogo che

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alternativo a quello platonico, ma mette in scena conversazioni realistiche tra individui realistici, curando la caratterizzazione di ognuno di essi.

Arriano, al contrario, è focalizzato su Epitteto, come si evince chiaramente dalla sua epistola a Lucio Gellio, con cui si aprono le Diatribe e che dunque sarà bene esaminare brevemente in questa sede. Essa si apre con l’affermazione, da parte di Arriano, di non aver «composto per iscritto (οὔτε συνέγραψα) i discorsi di Epitteto (τοὺς Ἐπικτήτου λόγους) così come si potrebbero mettere per iscritto opere del genere – possibile riferimento alla tradizione letteraria, di matrice socratica, dei dialoghi fittizi –, né di averli pubblicati (οὔτε ἐξήνεγκα)», cioè di non essere né propriamente l’autore né l’editore delle Diatribe (§ 1). In effetti, come spiega subito dopo, egli si è sforzato di trascrivere i discorsi del maestro cercando di attenersi alla loro lettera:

Quanto gli sentivo dire, ho cercato di metterlo per iscritto con le sue stesse parole, per quanto mi era possibile, al fine di conservare per l’avvenire a mio beneficio (ἐμαυτῷ) annotazioni (ὑπομνήματα12) del suo pensiero (διανοίας) e della sua libertà di espressione (παρρησίας) (§ 2).

Dato il proprio ruolo di amanuense13, Arriano ritiene che nella consultazione dell’opera il lettore possa percepire la spontaneità dialogica di Epitteto piuttosto che il proprio stile letterario (§ 3)14, e che dunque qualunque merito delle Diatribe sia da attribuire al filosofo. Ma Arriano confessa di non essere nemmeno l’editore dell’opera, pubblicata infatti contro la sua volontà e addirittura a sua insaputa (§ 4). Constatata l’avvenuta divulgazione della sua registrazione dei λόγοι epittetiani15, Arriano, incurante se i lettori disprezzeranno il suo stile o, riconosciutolo

come proprio di Epitteto, disprezzeranno l’eloquenza di quest’ultimo, memore del disinteresse del filosofo per i formalismi (§ 5) non può che augurarsi che la loro lettura susciti lo stesso effetto che tali discorsi suscitavano in chi li ascoltava pronunciati per bocca di Epitteto stesso, vale a dire una spinta psicagogica πρὸς τὰ βέλτιστα, ‘verso le cose migliori’, in senso etico ovviamente (§§ 6-7). Qualora la sua trascrizione dei discorsi di Epitteto non consegua questo obiettivo, conclude Arriano, la colpa sarà forse sua, cattivo interprete del pensiero del maestro,

12 Abbiamo già notato nel primo capitolo della prima parte l’implicito rimando di Arriano, con il ricorso a questo

termine, ai Memorabili di Senofonte.

13 Ilsetraut Hadot non esclude la possibilità di interpretare γραψάμενος in senso causativo, cioè non come

‘scrivendo’ ma come ‘facendo scrivere’: Arriano potrebbe aver assunto uno stenografo professionista per la redazione delle Diatribe. Cfr. I. HADOT (ed.), op. cit., pp. 153 ss. n. 8.

14 Abbiamo già riportato l’osservazione di Christopher Gill circa l’evidente differenza stilistica e lessicale tra le

altre opere arrianee e quelle dedicate a Epitteto.

15 Arriano potrebbe aver pubblicato un’edizione curata da lui stesso proprio al fine di contrastare la diffusione di

edizioni ‘pirata’ delle Diatribe, nelle quali magari aveva rilevato o temeva fossero presenti errori di copiatura tali da inficiare la comprensione corretta del pensiero del maestro.

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oppure «può darsi che sia necessario che ciò avvenga»; con questo commento egli potrebbe voler sottintendere che la versione scritta di un discorso è a suo avviso essenzialmente incapace di trasmettere ciò che trasmette il discorso stesso nel contesto del suo proferimento16 (§ 8).

L’interesse di Arriano nella registrazione delle conversazioni tra Epitteto e i suoi discepoli o i visitatori occasionali della sua scuola è la riproduzione di ciò che il suo maestro diceva («il suo pensiero») e di come lo diceva («la sua libertà di espressione»). Non rientra nel suo obiettivo trascrivere i dialoghi cui ha assistito informando del contesto in cui si sono svolti, del nome e della storia degli interlocutori del filosofo – per quanto è improbabile che Arriano ignorasse l’identità di tutti coloro che assistevano alle sue lezioni –, nonché del motivo per cui costoro si rivolgevano a Epitteto e, infine, della loro reazione ai suoi discorsi. Souilhé17 ha infatti rilevato che la maggior parte degli interlocutori di Epitteto, oltre a non essere nominati, è identificata soltanto con il pronome τίς, ‘qualcuno’, talvolta perfino sottinteso come soggetto di un φησί, ‘dice’18. Corollario del proposito espresso da Arriano nell’epistola a Gellio, annotare ciò che