Capitolo V. La dottrina epittetiana della comunicazione
2) La valutazione della ricettività dell’interlocutore
Le tattiche comunicative di Epitteto, sia quelle legate all’esposizione dottrinale sia quelle relative alle scelte terminologiche e più genericamente linguistiche, conoscono un ‘limite di adattabilità’ al destinatario dei suoi discorsi, oltre il quale il filosofo preferisce tacere piuttosto che dire alcunché: in un’occasione egli afferma infatti di non essere disposto a parlare con chiunque, ma di pretendere che un individuo soddisfi alcune condizioni minime per poter diventare suo ascoltatore o interlocutore39.
La diatriba alla quale alludo è la II.24, intitolata Πρός τινα τῶν οὐκ ἠξιωμένων ὑπὲρ αὐτοῦ, ‘A uno di coloro da lui [considerati] indegni’; indegni delle sue parole, come si evincerà dall’analisi di questo capitolo. Esso si apre con le lamentele che un personaggio, non presentato da Arriano, rivolge al filosofo: «Spesso, desiderando ascoltarti, sono venuto presso di te, e tu non mi hai mai risposto; ma ora, se possibile, ti prego di dirmi qualcosa» (§§ 1-2). Queste parole, come rilevato da Long40, rivelano che egli è verosimilmente un visitatore saltuario della scuola di Epitteto, forse attirato dalla fama di sapiente di quest’ultimo o, come il retore di III.9, dalla curiosità di chiedere l’opinione del filosofo su una sua faccenda personale. Epitteto, finalmente, concede un colloquio all’«indegno», se non altro per spiegargli il motivo dell’atteggiamento da lui tenuto finora nei suoi confronti.
38 Questa, sebbene non detto esplicitamente da Epitteto, è un’evenienza abbastanza frequente nella letteratura
socratica. Cfr. ad esempio PLAT., Gorg. 482c-e, Symp. 216a-c, XEN., Mem. IV 2.39-40. Sul tema cfr. SASSI, op.
cit., pp. 67 ss. e L. CANDIOTTO, Aporetic state and extended emotions: the shameful recognition of contradictions
in the Socratic elenchus, in «Etica & Politica», 17 (2015), pp. 233-248.
39 Sul tema cfr. LONG, Epictetus, cit., p. 52 e COLARDEAU, op. cit., pp. 72 ss. 40 Cfr. LONG, Epictetus, cit., p. 43.
197
Egli (§ 2) conviene con il proprio interlocutore nell’ammissione dell’esistenza di un’arte del parlare (τέχνη […] τοῦ λέγειν), vale a dire del fatto che come ogni attività per essere svolta bene richiede una specifica competenza, acquisita attraverso la pratica empirica (ἐμπειρία), così chi intenda parlare a beneficio proprio e del proprio uditorio deve possedere una qualche τέχνη41. Si tratta della ῥητορικὴ τέχνη, letteralmente ‘abilità relativa ai discorsi’ (ῥήσεις), cioè capacità di produrre e proferire enunciati persuasivi del proprio contenuto; il riferimento, da parte di Epitteto, all’utilità (ὠφέλεια) dei discorsi per gli ascoltatori e il contesto filosofico in cui si svolge la conversazione inducono a pensare che la retorica cui egli si riferisce non sia soltanto l’arte della persuasione, ma più in particolare l’arte della persuasione nella verità che richiede, oltre alle specifiche competenze retoriche, anche le conoscenze del filosofo. Ma non è questo il tema di cui Epitteto vuole discutere:
“E gli ascoltatori traggono tutti profitto da ciò che ascoltano, oppure anche tra costoro ne troverai alcuni che traggono profitto, altri danno?”. “[Lo stesso discorso vale] anche per loro”, rispose [scil. il suo interlocutore]. “Pertanto anche in questo caso, quanti ascoltano con esperienza traggono un profitto, quanti senza esperienza un danno?”. Egli ne convenne. “Dunque, come esiste una pratica empirica del parlare, così ne esiste una dell’ascoltare”. “Mi pare [scil. di sì]” (§§ 4-5).
Epitteto, sebbene il suo ragionamento sia chiaro, evidentemente non confida troppo nelle capacità cognitive del proprio interlocutore (che comunque ha assentito ai vari passaggi del ragionamento e alla sua conclusione), perché sente il bisogno di illustrare il proprio pensiero ricorrendo a un esempio (§§ 6-7). Realizzare una scultura «come si deve» (ὡς δεῖ) è un’attività propria di uno scultore, cioè di un uomo che possiede la specifica competenza scultoria; ma anche per poter apprezzare una scultura è necessaria una certa competenza: a tale fine lo spettatore deve saper riconoscere il soggetto ritratto, saper individuare il metodo di fattura dell’opera, saper analizzarne i dettagli etc. Allo stesso modo, uno specifico percorso formativo dev’essere imprescindibilmente affrontato tanto da chi aspira a proferire discorsi persuasivi e veritieri quanto da chi desidera comprendere i discorsi altrui.
41 La valorizzazione dell’ἐμπειρία, intesa come facoltà sintetica di una pluralità di ricordi di oggetti simili, quale
mezzo per l’acquisizione di una τέχνη è già tesi aristotelica. Cfr. Met. I 981a.1 ss., in cui Aristotele sottolinea anche l’inferiorità gnoseologica dell’uomo empirico rispetto a quello tecnico, constatando che invece, nella pratica, il rapporto tra i due sembra invertito, a differenza di quanto sostenuto dal Socrate di Platone proprio in relazione alla
198
Epitteto spiega quindi quali competenze sono necessarie nello specifico per poter comprendere i discorsi di un filosofo. «Chi desideri ascoltare i filosofi abbisogna di un po’ di pratica nell’ascoltare» (§ 10), in modo da familiarizzarsi con i concetti che essi insegnano, perché altrimenti non è capace di comprendere le loro parole e di trarne giovamento. Epitteto dimostra quindi all’indegno che questa descritta è precisamente la sua condizione. Il messaggio fondamentale del suo discorso filosofico è etico: in estrema sintesi egli parla περὶ ἀγαθῶν καὶ κακῶν τοῦ ἀνθρώπου, ‘di ciò che è bene e male per l’essere umano’ (§ 11-12). Per poterlo comprendere è dunque imprescindibile sapere già che cosa sia un essere umano, cioè quale sia la natura degli esemplari della nostra specie; queste nozioni, a loro volta, richiedono conoscenze fisiche più generali, quali ad esempio la capacità di definire il concetto di natura o anche – possiamo chiosare – quello di specie e di animale o essere vivente (ζῷον). In altri termini, l’apprendimento del discorso stoico sulla fisica è propedeutico a quello della relativa dogmatica etica. Ma nemmeno il discorso sulla fisica può costituire il punto di partenza per l’educazione filosofica (§§ 13-15): un qualunque discorso sulla natura, come su qualsiasi altro soggetto, risulterebbe infatti incomprensibile a chi non sapesse cos’è e come si conduce una dimostrazione (ἀπόδειξις), vale a dire42 un procedimento (quale ad esempio quello definitorio)
tramite il quale, poste certe premesse sotto forma di enunciati, si perviene a una conclusione, anch’essa sotto forma di enunciato, implicita in esse; ma è impossibile afferrare tale concetto se non si sa cosa sia un enunciato (λόγος), né quindi come determinare se due enunciati siano consequenziali od opposti l’uno all’altro, oppure quando la loro coordinazione sia incoerente o contraddittoria. A sua volta, essendo un enunciato ciò di cui sono predicati i valori del vero e del falso (cfr. SVF II.166 = SEXT.EMP., Adv. math. VIII.11), l’insegnamento di questi deve precedere tutto il resto. Insomma, Epitteto ritiene che il contenuto centrale del suo insegnamento teorico, vale a dire il discorso sull’etica, possa essere correttamente recepito solo da chi abbia già acquisito buone conoscenze teoriche in ambito innanzi tutto logico, quindi fisico.
Epitteto può finalmente spiegare al proprio interlocutore il motivo del suo precedente silenzio alle sue domande. Se l’identificazione di costui con un profano che fa visita al filosofo per sottoporgli un «caso di coscienza» è corretta, potremmo ipotizzare che le conversazioni che egli ha ogni volta tentato di instaurare con Epitteto vertano su questioni etiche. E però egli, in
42 Cfr. SVF II. 266 = SEXT.EMP., Adv. math. VIII.310, in cui Sesto riferisce, secondo l’opinione di von Arnim, la
definizione crisippea di dimostrazione, parafrasata nel testo. Date l’enorme fama di Crisippo come dialettico (cfr. D. L., Vit. VII.180) e la corposa mole di centinaia di opere da lui dedicate alla logica e i cui titoli ci sono riferiti da Diogene Laerzio (§§ 189-198), l’ipotesi di von Arnim in questo caso non è implausibile.
199
quanto profano, non è pronto per affrontare una discussione di tema etico, essendo digiuno di teorie fisiche e logiche. Tuttavia non è questa la ragione fornita da Epitteto per giustificare il proprio comportamento: se il visitatore fosse solo ignorante, anzi, sarebbe suo compito, in quanto filosofo, educarlo. Il problema consiste piuttosto (§§ 15-18) nel fatto che costui non suscita nel filosofo il desiderio (προθυμία) di dialogare con lui, dacché non tanto ignora, a suo avviso, le più basilari nozioni richieste da una discussione filosofica, quanto piuttosto non si mostra ricettivo alle sue parole. La sua domanda successiva conferma l’opinione di Epitteto: «Perché dunque non mi dici nulla?» (§ 19), il visitatore gli chiede, dimostrando così che effettivamente egli non ha ascoltato ciò che Epitteto gli ha appena detto. Allora il filosofo, pur contro voglia (οὐδὲ […] προθύμως, § 27), espone una seconda volta la ragione del suo silenzio, cercando di essere più chiaro (§§ 19-27): egli, sottoponendogli – presumibilmente – un problema di ordine etico senza avere le dovute nozioni propedeutiche e senza chiedere al filosofo di insegnargli queste innanzi tutto, si rileva ignorante della propria ignoranza, cioè presuntuoso43, e perciò non disposto ad avviare il proprio percorso di formazione filosofica e a dedicare a essa tutto il tempo che richiede. Al termine della sua seconda spiegazione, l’interlocutore del filosofo non si smentisce e domanda ancora: «Διὰ τί;» (§ 27), ‘Perché?’, perché Epitteto non vuole parlare con lui? Scoraggiato, il filosofo glielo spiega una terza volta in maniera più sintetica: «Ogni qual volta desideri ascoltare un filosofo, non chiedergli: “Non mi dici nulla?”, ma cerca solo di mostrarti [in grado di] ascoltare e vedrai come lo stimolerai a parlare» (§ 29).
La lettura di questa diatriba rivela che Epitteto non ritiene proficuo intrattenersi con chi, pur non essendo pronto ad affrontare una discussione dal suo principio, come il retore di III.9, lo interroghi su una questione concreta pretendendo di ricevere subito da lui un consiglio pratico. Ogni tematica di insegnamento, specialmente se afferente all’etica, ambito che verosimilmente esaurisce la ‘curiosità’ dei profani che fanno visita al filosofo per sottoporgli una loro questione privata, richiede di essere analizzata in modo approfondito: occorre esaminare i concetti implicati in essa, quindi definirla e definire i concetti impiegati per definirla. Il processo è lungo, poiché di fatto coincide con il percorso educativo offerto nella scuola del filosofo. E perciò, chi non intende percorrerlo tutto ma vuole avere subito una risposta semplice e concreta ai propri quesiti, cioè non è disposto a concedere alla filosofia il proprio tempo, non merita quello di Epitteto. Nessuno, del resto, trarrebbe vantaggio dall’intrattenersi con l’altro44.
43 Sul tema cfr. II 17.1 ss., III 14.8-9.
44 Questo dialogo ricorda un episodio raccontato da Diogene Laerzio nella Vita di Zenone (Vit., VII.23), in cui il