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Pluralismo giuridico e realta coloniale. Il ruolo del Judicial Committee of the Privy Council nel quadro dell'imperialismo britannico.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di dottorato in Giustizia Costituzionale e Diritti Fondamentali

PLURALISMO GIURIDICO E REALTÀ COLONIALE

Il ruolo del Judicial Committee of the Privy Council nel

quadro dell’imperialismo britannico.

Candidato: Dott. Leonardo Pierini

Tutor: Prof. Ilario Belloni

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Indice

INTRODUZIONE ... I

CAPITOLO 1

L’IMPERO BRITANNICO: UNA COSTRUZIONE UNICA NEL PANORAMA DEL COLONIALISMO EUROPEO

1. L’Impero protestante, marittimo e commerciale ... 2

2.1. L’Impero protestante ... 2

2.1.1. Ai primordi del Protestantesimo imperiale: Hakluyt e Purchas ... 3

2.1.2. John Locke: Protestantesimo e tolleranza ... 7

2.2. L’Impero marittimo ... 15

2.2.1. Le origini del rapporto tra Gran Bretagna e mare: la prospettia del mare clausum 16 2.2.2. Carl Schmitt e il valore della svolta oceanica ... 23

2.1. L’Impero commerciale ... 31

3. Religione, mare e commercio: i cardini della “Greater Britain” ... 39

3.1. L’abbandono del paradigma della conquista e la nascita della teoria confederativa ... 45

CAPITOLO 2 INDIRECT RULE E PLURALISMO GIURIDICO: TRA DECENTRAMENTO E APPROCCIO GIURISDIZIONALE 1. Mare, diritto e colonie: una questione di spazio ... 52

2. Indirect rule e decentramento giuridico: alle radici della peculiarità dell’imperialismo britannico ... 59

2.1. Teoria istituzionale dell’indirect rule ... 60

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3. Pluralismo giuridico e realtà coloniale ... 68

3.1. Difficoltà metodologiche nello studio del pluralismo giuridico e definizione dei cardini di un approccio anti-formalista. ... 72

3.2. Jurisdictional legal pluralism: i meriti di una metodologia innovativa. ... 79

3.2.1. Una lettura rossiana ... 84

3.3. Approccio giurisdizionale e contesto giuridico di common law ... 87

3.4. Il rule of law e la tutela giurisdizionale dei diritti ... 94

CAPITOLO 3 SVILUPPO STORICO E GIURIDICO DELLA GIURISDIZIONE CONSILIARE 1. Dalla conquista normanna alla fine dell’età feudale ... 100

1.1. I poteri del Privy Council alla luce della separazione delle giurisdizioni ... 104

1.2. Consiglio, Parlamento e Corona ... 109

1.3. I quattro settori in cui si esplica il ruolo amministrativo e giurisdizionale del Consiglio 113 1.4. Dal Medioevo alla modernità ... 116

2. Finisce il Medioevo: Consiglio e autorità in epoca Tudor ... 117

2.1. Il rapporto del Consiglio con le nuove forme del potere: la nascita della Star Chamber 119 2.2. La competenza del Consiglio in ambito privatistico ... 124

3. Il Privy Council nel XVII secolo: mutamenti e nuove competenze ... 127

3.1. Il ruolo del Consiglio agli albori della Glorious Revolution ... 129

3.2. La svolta parlamentare e gli effetti sul Privy Council ... 133

4. Il Privy Council nella costruzione dell’Impero Britannico ... 137

4.1. Giustificazione della competenza regia secondo i modelli feudali di distribuzione della proprietà terriera: analisi del fenomeno e sue conseguenze giuridiche... 137

4.1.1. Le categorie feudali di distribuzione della proprietà terriera come origine della competenza regia ... 137

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4.2. Lords of Trade e Board of Trade: commercio all’origine della competenza giurisdizionale

del Consiglio ... 146

4.2.1. I Lords of Trade and Plantations ... 148

4.2.2. Il Board of Trade ... 150

4.2.3. Il ruolo giurisdizionale dei due organismi nel contesto della politica coloniale britannica ... 153

5. Henry Brougham e la nascita del Judicial Committee of the Privy Council ... 156

5.1. Le difficoltà di un organo non ancora autenticamente giurisdizionale: l’Appeals Committee ... 156

5.2. L’istituzione del Judicial Committee of The Privy Council ... 160

6. Natura e modalità di esercizio del diritto di appello al Judicial Committee ... 165

CAPITOLO 4 JUDICIAL COMMITTEE E ABORIGINAL RIGHTS: L’APPROCCIO GIURISDIZIONALE AL PLURALISMO GIURIDICO ATTRAVERSO L’ANALISI DI UN CASO DI STUDIO 1. Costruzione dello strumento classificatorio e risultati ottenuti ... 174

1.1. Redazione dello strumento classificatorio e scelta dell’oggetto del case study ... 175

1.2. Prospettive e limiti dello strumento classificatorio nell’approccio al tema pluralistico in ambito coloniale ... 178

2. Una necessaria premessa: l’argomento della terra nullius come strategia di giustificazione coloniale. Sviluppo critico della teoria e impatto sulle popolazioni aborigene. ... 180

2.1. Terra nullius: approfondimento critico dello strumento argomentativo ... 180

2.2. La definitiva affermazione del paradigma della terra nullius. ... 189

2.3. John Locke e la “agriculturalist justification”. ... 192

2.4. L’affermazione del paradigma nel contesto australiano. ... 196

3. Nuova Zelanda e aboriginal rights ... 198

3.1. I due momenti del rapporto tra colonizzatori e Maori: dal riconoscimento alla cessione di sovranità. ... 198

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3.1.1. La ricerca dell’ordine nel modello coloniale di tipo indiretto: gli anni ’30 del XIX secolo.

... 199

3.1.2. Il Trattato di Waitangi ... 203

3.2. Il Judicial Committee of the Privy Council e il contesto neozelandese... 208

3.2.1. Il Judicial Committee e i conflitti sulla proprietà terriera: due casi di difesa dei diritti Maori…….. ... 208

3.2.2. La protezione dei diritti culturali dei Maori attraverso la definizione dei “taonga” all’interno del Trattato di Waitangi... 214

3.2.3. Il tema della rappresentatività della comunità Maori: il Judicial Committee e le decisioni sui “Fisheries cases” ... 220

4. Il Judicial Committee e l’applicazione del paradigma della terra nullius al contesto australiano. ... 229

4.1. L’affermazione del modello della terra nullius e la sua stabilizzazione nel caso Cooper v. Stuart. ... 230

4.2. The Corporation of the Director of Aboriginal and Islanders Advancement v. Donald Peinkinna and Others: ancora un pregiudizio per le istanze aborigene. ... 237

5. Il Judicial Committee e il contesto canadese ... 242

5.1. St. Catherine’s Milling and Lumber Company v. The Queen: l’aboriginal title come “personal and usufructuary right” ... 242

5.2. La stabilizzazione del St. Catherine’s Case nelle successive decisioni del Judicial Committee ... 248

6. Conclusioni ... 252

CONCLUSIONI ... 258

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I

INTRODUZIONE

Il nostro lavoro è stato diretto all’applicazione della lettura giurisdizionale del fenomeno del pluralismo giuridico, elaborata recentemente a livello teorico dalla riflessione di Lauren Benton, nel contesto dell’Impero Britannico attraverso l’analisi specifica del ruolo ricoperto in esso dalla Corte di ultimo grado del corrispondente sistema giuridico coloniale: il Judicial Committee of the Privy Council.

Tale istituzione, le cui origini risalgono al periodo medievale della storia inglese, assume col tempo la funzione di organo giurisdizionale di vertice dell’Impero Britannico. Così, essa diviene il punto di approdo finale di tutte le controversie provenienti da ogni angolo dell’Impero e, di conseguenza, rappresenta una delle sedi principali in cui vengono gestiti gli incontri, le tensioni e i conflitti tra i diversi ordinamenti normativi configuranti il panorama pluralistico coloniale. Il Judicial Committee, considerato il suo posizionamento e la sua funzione all’interno della costruzione giuridica dell’imperialismo britannico, merita un approfondimento ai fini del pieno apprezzamento della validità della lettura giurisdizionale della tematica del pluralismo giuridico. Tale lettura costituisce, sotto il profilo teorico, una metodologia anti-formalista di analisi del tema della gestione del fenomeno pluralistico: essa nasce, infatti, da una critica alle scorie normativiste insite nelle tradizionali proposte di riflessione su tale tematica e approda a una definizione delle linee teoriche basata, da un lato, sulla rivendicazione della dinamicità e della fluidità delle interazioni tra i diversi ordinamenti normativi esistenti all’interno di uno stesso contesto socio-politico e, dall’altro e conseguentemente, sull’attenzione posta alle strategie concretamente messe in campo dagli attori sociali al fine di giungere all’affermazione della propria identità. La correlazione tra il riconoscimento dell’esistenza giuridica e quello della identità culturale diviene una delle strutture portanti di questo approccio teorico al tema del pluralismo: il ricorso ai meccanismi tutelativi offerti dal sistema giuridico ufficiale rappresenta una delle strategie elaborate dai soggetti appartenenti alle diverse comunità locali al fine di affermare la propria identità. Per questo motivo, quindi, l’analisi giurisdizionale della tematica pluralistica all’interno del contesto coloniale britannico non può prescindere dall’approfondimento del ruolo del vertice del sistema giuridico ufficiale, che rappresenta il punto di definizione degli esiti di tali strategie e, in definitiva, dello stato dell’arte quotidiano dei rapporti tra i diversi ordinamenti normativi caratterizzanti il panorama pluralistico di ogni singola colonia.

Il metodo che abbiamo ritenuto di utilizzare ai fini della nostra ricerca si caratterizza per l’inserimento dell’analisi sul concreto ruolo ricoperto dal Judicial Committee anche all’interno di

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II

una ricostruzione degli elementi principali che caratterizzano la specificità del modello imperialistico britannico rispetto alle altre costruzioni coloniali europee contemporanee. L’obiettivo del nostro lavoro di ricerca, quindi, può essere identificato nell’applicazione concreta delle prospettive teorico-metodologiche giurisdizionali allo studio delle dinamiche attraverso cui si sviluppa, nei lavori concreti della Corte del Privy Council, la gestione del fenomeno pluralistico all’interno del contesto imperiale britannico.

Per rispondere a questo intento, il nostro lavoro è stato suddiviso in tre parti, alle quali corrispondono tre diverse sezioni della presente ricerca.

La prima parte corrisponde allo studio del contesto all’interno del quale si situa la Corte del Judicial Committee. Nel primo capitolo, infatti, abbiamo concentrato la nostra riflessione sull’individuazione degli elementi che caratterizzano la costruzione imperiale britannica e che la rendono peculiare rispetto alle altre principali esperienze coloniali europee. Nello specifico, abbiamo analizzato i tre fattori che, a nostro avviso, generano nel tempo la peculiarità del modello dell’imperialismo britannico, individuandoli nella considerazione che quest’ultimo rappresenti una costruzione protestante, marittima e commerciale.

Sotto il primo profilo, la dimensione religiosa rileva nella formazione dei caratteri costitutivi della struttura coloniale, innanzitutto, per la cesura che essa determina con l’individuazione della giustificazione dell’espansione esterna delle potenze europee nella volontà divina rappresentata dall’autorità papale. La rottura della monolitica caratterizzazione cattolica del contesto europeo provoca alcune conseguenze di primo piano nella strutturazione dei diversi contesti coloniali: se per le potenze cattoliche – Spagna e Portogallo prime tra tutte – il motore simbolico della proiezione esterna è rappresentato dalla necessità di espandere i confini di quelli che vengono ritenuti gli autentici imperi cristiani e di procedere alla conversione di tutte le popolazioni non cristiane sotto la supervisione dell’autorità papale, per la potenza protestante inglese la dimensione religiosa gioca un ruolo di secondo piano. Non potendo giustificare le proprie pretese di espansione attraverso il ricorso all’argomento delle concessioni papali, infatti, gli Inglesi si trovano a dover identificare a tal fine un diverso paradigma, non strettamente religioso. Esso verrà fornito principalmente dalla sistematizzazione del principio elaborato da Locke dell’occupabilità della terra nullius attraverso il lavoro. A Locke, inoltre, dobbiamo l’elaborazione della riflessione sulla tolleranza religiosa, destinata, come vedremo, ad avere un notevole impatto nella definizione del rapporto tra colonizzatori e colonizzati all’interno del contesto imperiale britannico.

Sotto il secondo profilo, prima la caratteristica insularità della potenza britannica e poi la “svolta

oceanica” nella storia di quest’ultima, evidenziata dalla riflessione di Carl Schmitt, conducono

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III

costruzioni continentali. Nel contesto britannico e grazie al rapporto di tipo filiale instaurato con l’elemento marino saltano i tradizionali schemi che concepivano l’espansione esterna come conseguenza di una conquista necessariamente territoriale e armata. La proiezione marittima cambia sia i connotati della guerra, eliminando l’inevitabilità dello scontro armato tra due eserciti in campo aperto, sia la concezione profonda del rapporto tra centro e periferia della struttura coloniale: i territori conquistati al dominio della potenza europea non vengono considerati come mere appendici territoriali della madrepatria, ma mantengono la propria autonomia sia geografica che, per certi versi, politica. L’attenzione sulla contiguità e continuità territoriale viene, in definitiva, sostituita dai collegamenti marittimi diretti con i singoli punti di interesse. L’Impero perde, così, il proprio carattere di strutturazione geografica strettamente gerarchica per approdare a una connessione interna più decentrata e autonomizzante.

Infine, la caratterizzazione commerciale dell’Impero Britannico, resa evidente innanzitutto dal ruolo ricoperto nello sviluppo della sua espansione dalle compagnie commerciali, contribuisce, da un lato, al definitivo superamento del paradigma della conquista militare territoriale come unico mezzo di affermazione dell’autorità esterna della potenza imperiale e, dall’altro, alla creazione di una serie di reti di rapporti all’interno della costruzione imperiale britannica destinata a divenirne una caratteristica fondamentale per tutta la storia dello sviluppo delle relazioni tra il centro e le periferie dell’Impero.

Questi tre elementi, considerati complessivamente, costituiscono i pilastri del concetto di “Greater Britain”, cioè di quella percezione della generale condivisione del senso di appartenenza attiva alla costruzione imperiale britannica che fornisce a quest’ultima un carattere di unitarietà. Sulle linee di connessione prodotte dalla particolare caratterizzazione religiosa, marittima e commerciale si costruiscono, infatti, le reti di rapporto che determinano col tempo la creazione dei legami di tipo ideologico e politico che appaiono tutt’oggi rappresentare la base della tenuta della comunità del Commonwealth of Nations.

La seconda parte del nostro lavoro si concentra sull’analisi delle concrete conseguenze che discendono dalla caratterizzazione religiosa, marittima e commerciale dell’identità dell’Impero Britannico. Sulle reti create dai tre fattori sopraindicati, infatti, si viene a determinare la creazione di un rapporto tra centro e periferie dell’Impero, che rende la costruzione britannica peculiare rispetto alle altre esperienze europee e manifesta i propri effetti sia in campo politico che in campo giuridico.

Possiamo affermare, infatti, che l’affermazione di tali fattori come pilastri della struttura coloniale britannica costituisca la base dello sviluppo politicamente e giuridicamente decentrato dei rapporti tra la madrepatria e le colonie progressivamente sottoposte al suo dominio. In particolare, come vedremo grazie a una riflessione sulle conseguenze in questo campo

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IV

dell’analisi schmittiana, la svolta oceanica produrrà nella storia imperiale britannica un nuovo e diverso rapporto con lo spazio e, di conseguenza, l’emersione di un approccio politico al governo delle colonie di tipo decentralizzato. Tale considerazione necessita di essere interpretata senza un’eccessiva tensione generalizzante, dal momento che non è estraneo all’esperienza imperiale britannica lo sviluppo di meccanismi di controllo diretto sui singoli contesti coloniali. Tuttavia, possiamo affermare che il sistema di “indirect rule”, ossia di governo indiretto, rappresenti la metodologia di amministrazione delle colonie prediletta dai colonizzatori britannici. La decentralizzazione politica, sui cui presupposti ideologico-politici e sulle cui concrete modalità di applicazione ci soffermeremo nel corso della ricerca, rappresenta un elemento caratterizzante l’intera esperienza imperiale britannica.

All’affermazione dell’approccio indiretto al governo delle colonie si accompagna, anche dal punto di vista giuridico, una politica decentralizzante. Come vedremo, gli Inglesi rifiutano generalmente di imporre un modello assimilazionistico, di stampo continentale, per la gestione giuridica delle proprie colonie. Questa tendenza si manifesta principalmente nell’approccio al governo delle cosiddette “colonies of exploitation”, cioè dei territori in cui gli Inglesi trovano, al momento della loro sottomissione, una struttura giuridica già consolidata e non eccessivamente contrastante con gli standard di civiltà europei la quale viene, quindi, mantenuta in vigore dai colonizzatori in quanto ritenuta utile ai fini del mantenimento dell’ordine interno a tali colonie. All’interno della cornice plasmata dalle considerazioni effettuate nelle prime due parti della ricerca, attinenti alla ricostruzione delle caratteristiche fondamentali del contesto imperiale britannico e alle linee guida del suo approccio politico e giuridico al governo delle colonie, si innesta la terza sezione del nostro lavoro, che contiene il nucleo teorico della nostra riflessione. Dall’analisi delle politiche giuridiche concretamente intraprese nel contesto coloniale dalle autorità imperiali britanniche, infatti, discende la necessità di entrare in rapporto con la tematica del pluralismo giuridico, cioè con la riflessione sulla natura delle dinamiche con cui i diversi ordinamenti normativi esistenti all’interno di un medesimo contesto socio-politico entrano in reciproca relazione. L’espansione coloniale, infatti, conduce all’esportazione del sistema giuridico ufficiale della potenza imperialistica, e della sua struttura giurisdizionale, all’interno di territori in cui tutte le popolazioni indigene ivi residenti regolavano la vita delle proprie comunità secondo schemi normativi consolidati e sviluppati già prima dell’arrivo degli Europei. Questi sistemi di regolazione, spesso di origine consuetudinaria o religiosa, entrano in relazione con l’ordinamento ufficiale provocando tensioni e scontri la cui gestione rappresenta una sfida per le potenze coloniali sia sotto il profilo politico che giuridico. L’analisi di queste dinamiche relazionali tra i diversi sistemi normativi diviene, quindi, un settore tematico assai interessante sotto diversi punti di vista all’interno della riflessione teorico-giuridica. Il merito principale di tale

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V

dibattito sul tema del pluralismo giuridico rimane, in ogni caso, il definitivo superamento del paradigma legicentrico e statualistico affermatosi nell’Europa continentale tra il XIX e il XX secolo: riconoscere l’esistenza e la validità di più ordinamenti normativi paralleli al sistema ufficiale porta alla necessaria revisione del paradigma giuridico illuministico e all’emersione della natura autenticamente sociale del diritto. Se tale linea di analisi emerge nella sua importanza in campo accademico soprattutto in relazione alla riflessione sulle caratteristiche della società contemporanea e, in particolare, sulle conseguenze manifestate al suo interno dalla globalizzazione, gli studi sul pluralismo giuridico nel quadro dell’esperienza coloniale europea appaiono di gran lunga quantitativamente più scarsi. Quest’ultima, tuttavia, rappresenta un momento assai rilevante sotto il profilo dell’incontro tra molteplici e diversi ordinamenti normativi e per lo sviluppo delle relazioni tra questi ultimi, tanto da poter essere considerato il contesto prodromico, non solo a livello temporale, rispetto all’emersione del fenomeno pluralistico in età contemporanea.

All’interno della nostra ricerca, ci occuperemo principalmente di fornire le coordinate teoriche di una nuova metodologia di approccio allo studio del pluralismo giuridico. Il nostro proposito, infatti, ripercorrendo le critiche ai paradigmi teorici tradizionali proposte da studiosi quali Tamanaha e, soprattutto, Benton e coniugando le loro proposte con i cardini della riflessione rossiana, si manifesta nella volontà di avvalorare la validità di una metodologia di studio autenticamente anti-formalista per l’analisi teorica del fenomeno pluralistico. Nel far questo, come anticipato, ci soffermeremo innanzitutto sull’esposizione delle critiche portate dai due autori sopra citati all’“essenzialismo” e al “normativismo” che caratterizzano le prospettive teoriche classiche e, successivamente, esporremo i cardini della riflessione bentoniana che conduce all’elaborazione del cosiddetto “jurisdictional legal pluralism”. Il merito di tale proposta teorica risiede, a nostro avviso, nell’aver individuato nella fluidità e nella dinamicità due caratteristiche centrali per la configurazione delle relazioni tra gli ordinamenti normativi insistenti all’interno di una medesima arena sociale. Grazie a tale nuovo approccio, i confini tra questi diversi sistemi di regolazione divengono aperti e, così, quotidianamente soggetti alla continua definizione delle proprie estensioni. Di più, in una visione post-strutturalista dei rapporti di potere all’interno del contesto coloniale, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati non vengono lette da Benton esclusivamente secondo il paradigma diadico del rapporto tra oppressione e opposizione, ma contengono al loro interno svariate possibilità di configurazione concreta, alle quali corrispondono diverse strategie messe in campo dagli attori sociali per ottenere la propria affermazione. Nella convinzione che, in un contesto pluralistico, alla ricerca dell’affermazione giuridica della validità dei sistemi di regolazione non ufficiali corrisponda il tentativo di ottenere un riconoscimento sul piano culturale e identitario da parte dei diversi

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VI

attori sociali a essi appartenenti, l’approccio giurisdizionale allo studio del pluralismo giuridico propone una nuova metodologia di ricerca sul tema focalizzata proprio sull’analisi concreta delle dinamiche attraverso cui prendono corpo tali strategie giuridico-culturali. Al fondo di questo approccio innovativo, oltre alla già considerata fluidità dei confini tra i diversi sistemi normativi, risiede la concezione del diritto come “pratica sociale”, la quale allontana definitivamente il fenomeno giuridico dalla dimensione normativista e lo colloca all’interno di una cornice eminentemente sociale. Il “jurisdictional legal pluralism”, quindi, configura una teoria metodologica di stampo anti-formalista, che, più che sulla necessità di ricostruzione dei caratteri ontologici del fenomeno pluralistico, si concentra sulle concrete modalità attraverso cui i diversi sistemi normativi entrano in reciproca relazione e sulle dinamiche che spingono i soggetti a muoversi tra essi al fine di ottenere il proprio riconoscimento sotto il profilo sia giuridico che identitario e culturale. Inoltre, vedremo al termine della seconda fase della nostra ricerca come l’approccio giurisdizionale all’analisi del pluralismo rappresenti la metodologia più utile alla comprensione del valore delle relazioni tra i diversi ordinamenti in particolare all’interno del contesto britannico, caratterizzato storicamente dall’affermazione di un sistema – ricostruito teoricamente dall’elaborazione di Dicey - prettamente giurisdizionale di tutela dei diritti e delle libertà individuali.

Questi canoni di lettura del pluralismo giuridico nel contesto coloniale dirigono la nostra attenzione principalmente sui rapporti tra la struttura normativa ufficiale, rappresentata dal sistema esportato dai colonizzatori britannici all’interno delle colonie, e le rivendicazioni giurisdizionali delle comunità locali a essa sottoposte.

Seguendo questo tracciato, la terza e ultima parte del nostro lavoro si sofferma sul punto di approdo naturale delle relazioni sopra delineate tra i diversi ordinamenti normativi all’interno dell’Impero Britannico: la Corte del Judicial Committee of the Privy Council. Presso tale organo, infatti, in quanto Corte di ultimo grado deputata a esercitare la funzione giurisdizionale per le controversie provenienti da tutte le colonie dell’Impero, le tensioni e gli scontri tra gli attori dell’arena sociale trovano le proprie definizioni all’interno dell’ordinamento giuridico ufficiale. Nell’alveo della prospettiva di analisi giurisdizionale del fenomeno pluralistico, quindi, le dinamiche con cui l’istituzione del Judicial Committee entra in rapporto concreto con tali relazioni divengono oggetto di un necessario approfondimento destinato, da un lato, a una più completa comprensione dello svolgimento dei processi di riconoscimento sia giuridico che identitario tra i diversi attori sociali e, dall’altro, alla ricostruzione del ruolo ricoperto dalla Corte all’interno di questi ultimi.

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VII

Nell’approccio allo studio della funzione del Judicial Committee of the Privy Council nel contesto pluralistico del colonialismo britannico, abbiamo diretto la nostra ricerca innanzitutto verso la ricostruzione di due elementi preliminari allo sviluppo della successiva riflessione.

Innanzitutto, abbiamo ritenuto necessario fornire una descrizione del cammino percorso dall’istituzione del Privy Council lungo tutta la storia interna ed esterna delle vicende britanniche, convinti del fatto che analizzare tali processi storici fornisca un fondamento necessario alla successiva ricostruzione teorica del ruolo effettivamente ricoperto dall’organo all’interno del contesto imperiale. A tal proposito, quindi, dopo aver esplorato le origini medievali dell’istituzione consiliare, abbiamo inteso tracciare un percorso complessivo della storia di quest’ultima fino alla definitiva stabilizzazione della sua funzione giurisdizionale a seguito della nascita dell’organo del Judicial Committee. Tale percorso conosce una scansione in tre fasi generali, individuabili nel primo periodo marcatamente monarchico e assolutistico, nell’evoluzione a seguito degli avvenimenti connessi alla lotta tra Corona e Parlamento del XVII secolo e nella definitiva transizione alla dimensione imperiale in conseguenza del ridimensionamento della sua competenza interna. All’interno di tale percorso individueremo i fattori che determinano l’originalità della Corte del Privy Council e, soprattutto, le linee guida dell’evoluzione del suo ruolo giurisdizionale di vertice sull’intera struttura dell’Impero Britannico.

Il secondo intervento preliminare necessario per la valutazione del ruolo efettivamente ricoperto dal Judicial Committee nella gestione del pluralismo all’interno dell’esperienza coloniale britannica concerne la redazione di una specifica classificazione digitale di ordine geografico e tematico delle sentenze emesse dal 1834, che vedremo essere l’anno in cui esso prende definitivamente le forme di organo giurisdizionale, a oggi. Le linee guida da noi seguite per tale lavoro di classificazione e le precise modalità con cui quest’ultimo è stato portato a conclusione verranno delineate all’inizio del quarto capitolo della nostra ricerca. Intendiamo, tuttavia, rimarcare in questa sede come questa attività rappresenti una fase imprescindibile per procedere a una valutazione autenticamente giurisdizionale del ruolo del Judicial Committee all’interno del contesto coloniale. Senza tale opera di classificazione, infatti, sarebbe risultato difficile individuare i settori specifici, sia a livello geografico che tematico, su cui concentrare l’analisi delle relazioni tra i diversi ordinamenti normativi esistenti all’interno di una medesima arena sociale. Tale operazione classificatoria, dunque, da un lato ci consentirà di concludere la nostra ricerca con la valutazione di un case study – individuato nel rapporto tra Judicial Committee e regolazione dei casi concernenti gli aboriginal rights nelle tre colonie della Nuova Zelanda, dell’Australia e del Canada – che costituisce la concreta applicazione del metodo giurisdizionale bentoniano al contesto da noi preso in esame e, dall’altro, rappresenterà il

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VIII

fondamento di ogni nostra futura attività di ricerca sulle dinamiche pluralistiche interne alle singole colonie appartenenti alla costruzione imperiale britannica.

Come abbiamo anticipato, il nostro lavoro si conclude con l’analisi di un caso di studio emblematico ai fini dell’applicazione dei canoni del “jurisdictional legal pluralism” all’esame del ruolo ricoperto dal Judicial Committee nella gestione del pluralismo giuridico caratterizzante il contesto imperiale britannico. Abbiamo ritenuto doveroso, infatti, rispondere alla sfida autenticamente anti-formalista che la metodologia giurisdizionale propone per lo studio del fenomeno pluralistico attraverso l’analisi delle interazioni tra il sistema giuridico ufficiale e le richieste giuridico-identitarie provenienti da comunità locali a esso sottoposte all’interno di un settore tematico e geografico ben preciso e delimitato. Attraverso il procedimento che tratteremo nel dettaglio nelle parti iniziali del quarto capitolo, abbiamo deciso, quindi, di dirigere la nostra analisi sulle strategie messe in campo dai diversi attori sociali nel contesto del rapporto tra le rivendicazioni giuridiche effettuate dalle popolazioni aborigene delle colonie della Nuova Zelanda, dell’Australia e del Canada e le risposte ottenute da esse all’interno dell’ordinamento normativo ufficiale e, in particolare, dalla sua Corte di vertice del Judicial Committee. Dalla ricostruzione di queste relazioni emergerà un panorama di rivendicazioni e risposte assai diversificato per le tre colonie prese in esame, in conseguenza delle differenze all’interno delle vicende storiche e sociali dei rispettivi contesti. Il caso di studio, tuttavia, ci permetterà, da un lato, di fornire una concretizzazione della metodologia giurisdizionale di studio del pluralismo giuridico e, dall’altro, di ricostruire la declinazione pratica del ruolo ricoperto dalla Corte del Privy Council all’interno del contesto imperiale britannico.

La lettura giurisdizionale che abbiamo proposto nel corso della ricerca costituisce, a nostro avviso e per le motivazioni che abbiamo tentato di delineare, la metodologia di studio più utile ai fini della ricostruzione delle linee concrete di sviluppo e di gestione del fenomeno pluralistico. A essa continueremo ad attenerci nel prosieguo delle nostre riflessioni sul tema, le quali potranno essere declinate sia in una prospettiva storica sia nel contesto dell’analisi del pluralismo caratterizzante la società contemporanea.

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CAPITOLO 1

L’IMPERO BRITANNICO: UNA COSTRUZIONE UNICA NEL PANORAMA DEL COLONIALISMO EUROPEO

Nel tracciare il nostro percorso sulla strada della ricostruzione del ruolo ricoperto dal Judicial Committee of the Privy Council (JCPC) all’interno del contesto dell’Impero Britannico riteniamo doveroso soffermarci preventivamente sull’approfondimento delle caratteristiche principali che delineano le peculiarità del modello britannico nell’ambito del più vasto panorama coloniale. L’Impero è, infatti, il terreno in cui prende corpo il lavoro del JCPC. Studiarne non solo il percorso storico, ma anche gli elementi ideologici, politici e sociali che lo caratterizzano risulta necessario al fine di proporre un’analisi quanto più completa della posizione ricoperta in questo contesto dall’organo giurisdizionale da noi esaminato.

In questo capitolo intendiamo quindi affrontare problematicamente lo studio dell’Impero sotto le prospettive più rilevanti per le finalità ultime della nostra ricerca, consapevoli dell’impossibilità di operare una sintesi riduzionistica di un fenomeno che ha caratterizzato la storia dell’umanità per non meno di quattro secoli e che continua tutt’oggi a manifestare i propri effetti. Nel far questo, proponiamo di trattare le tre caratteristiche principali che abbiamo individuato come cifra specifica della costruzione imperiale britannica. Possiamo individuare, infatti, come la religione, la dimensione marittima e la caratterizzazione in senso commerciale costituiscano i tre fattori principali che contribuiscono, da un lato, alla formazione dell’originalità del modello imperiale britannico e, dall’altro, alla costituzione al suo interno di una rete di rapporti fondati su linee di collegamento e su un comune nucleo valoriale e identitario identificato con il termine “Britishness”1.

La peculiarità del modello britannico, prodotta in relazione alle tre caratteristiche sopra citate, rappresenta la base per la ricostruzione delle dinamiche relazionali tra centro e periferia della costruzione imperiale e, conseguentemente, per l’analisi del rapporto tra la potenza coloniale e la gestione del fenomeno del pluralismo giuridico.

Il presente capitolo sarà così suddiviso: nella prima parte analizzeremo nel dettaglio le tre caratteristiche sopra individuate, cercando di evidenziarne la portata ai fini della formazione delle peculiarità del modello britannico e della creazione delle relative modalità di rapporti tra

1 Tale termine richiama la percezione negli appartenenti a tutti i territori dell’Impero di condividere

un’identità comune, composta da un insieme di valori, di comportamenti e di qualità che li rendono consapevoli di appartenere alla comunità britannica. A livello accademico, il percorso storico e le dinamiche attraverso cui tale consapevolezza ha progressivamente definito le proprie forme sono stati descritti da Linda Colley, nella sua opera Britons: Forging the Nation, 1701-1837, Yale University Press, Yale, 1992.

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2

centro e periferia; in secondo luogo, sotto questi ultimi profili analizzeremo le modalità e il linguaggio attraverso cui si è formata la comunità coloniale britannica, in cui le varie parti dell’Impero risultano collegate grazie a una consolidata rete di relazioni sviluppatasi sulle linee di comunicazione corrispondenti ai tre elementi della religione, del mare e del commercio.

1. L’Impero protestante, marittimo e commerciale

Mutuando la riflessione di David Armitage2, analizzeremo adesso le tre caratteristiche che

abbiamo sopra descritto come fondanti la peculiarità del modello imperiale britannico cercando di approfondire la loro ricostruzione con ulteriori sviluppi, al fine di delineare la loro rilevanza nel dibattito ideologico imperiale.

2.1. L’Impero protestante

Innanzitutto, l’Impero Britannico è un impero protestante. A tale confessione appartengono, d’altronde, già alla fine del XVI secolo i due regni di Scozia e Inghilterra. La cifra fondamentale del Protestantesimo imperiale britannico, tuttavia, non attiene tanto a una specifica componente ideologica positiva, quanto a un sentimento di opposizione alla nemica confessione cattolica e, in particolare, alla corrispondente istituzione ecclesiastica. Il Protestantesimo, quindi, pur non rappresentando un elemento costitutivo positivo dell’ideologia imperiale britannica, nondimeno occupa una posizione sicuramente rilevante nel dibattito sulla natura e sulle funzioni della costruzione coloniale. Armitage, per giungere a tale conclusione, concentra la sua analisi sulle riflessioni di due importanti studiosi della prima modernità britannica, Richard Hakluyt e Samuel Purchas, chiudendola con un interessante approfondimento sulle implicazioni della mentalità protestante sul lavoro di uno dei più rilevanti ideologi dell’Impero: John Locke. In base a tale analisi e ai nostri approfondimenti condotti sul tema, giungeremo a fornire un quadro dell’influenza del paradigma protestante nella costruzione della peculiare ideologia imperiale sviluppatasi nel contesto britannico. A tal proposito, possiamo anticipare che i cardini di questa peculiarità si fondano essenzialmente su due elementi: la marcata prospettiva anti-cattolica del Protestantesimo imperiale britannico e il perseguimento della missione

2 David Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, Cambridge University Press, Cambridge,

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3

evangelizzatrice e civilizzatrice, nel pensiero di Locke, lo strumento della tolleranza, nei confronti delle diverse confessioni professate nelle colonie.

2.1.1. Ai primordi del Protestantesimo imperiale: Hakluyt e Purchas

Il pensiero religioso e imperialistico di Richard Hakluyt - geografo, viaggiatore e religioso inglese - emerge principalmente da due opere: da un lato il Discourse of Western Planting3 del 1584;

dall’altro il The Principall Navigations, Voiages and Discoveries of the English Nation4 del 1588.

Il Discourse, scritto come opera di consulenza per la Regina Elisabetta I, necessita, secondo l’analisi di Armitage, di essere esaminato alla luce delle considerazioni contenute in un’altra opera, l’Analysis, seu resolutio perpetua in octo libros Politicorum Aristotelis5, scritta dall’autore

nello stesso periodo. Quest’ultima costituisce una rilettura e una traduzione in latino della

Politica di Aristotele e fornisce i cardini semantici per la riconduzione, operata compiutamente

nel Discourse, delle imprese coloniali inglesi al filone ideologico classico di stampo greco-romano6. A tal proposito, centrale nella riflessione hakluyitiana appare il concetto aristotelico di

communitas perfecta, interpretato tomisticamente: “Societas perfecta […] est civitas. Cuius finis est sufficientia omnium rerum necessarium & vita beata”7. Da questa definizione e dal suo

rapporto con le riflessioni riportate nel Discourse, emerge la considerazione che, secondo l’autore, il primo onere dell’Inghilterra, in vista del raggiungimento del livello di communitas

perfecta, è rappresentato dalla necessità di fornire ai suoi cittadini risorse e fortuna. Lo

strumento principale per ottenere questo risultato viene identificato da Hakluyt nella conquista e nella colonizzazione di terre straniere. Da queste attività, infatti, derivano vantaggi sia generali che particolari innanzitutto sul fronte economico: i primi risultano individuabili nella conquista di valvole di sfogo per l’eccesso di popolazione che si inizia a percepire internamente ai confini inglesi e per l’esportazione dei prodotti interni; i secondi vengono identificati da Hakluyt nella

3 Richard Hakluyt, A Discourse on Western Planting: Written in the Year 1584, London, 1584.

4 Richard Hakluyt, Voyages and Discoveries; The Principal Navigations, Voyages, Traffiques, and

Discoveries of the English Nation, London, 1588.

5 La Analysis è la meno conosciuta tra le opere di Hakluyt. Il suo contenuto rappresenta l’oggetto di un

corso tenuto dall’autore all’Università di Christ Church nel 1581 ed esso troverà la redazione autografa da parte di Hakluyt due anni dopo. Per la ricostruzione del suo contenuto e della rilevanza di quest’ultimo all’interno del pensiero hakluytiano abbiamo utilizzato la già citata opera di D. Armitage e lo studio di Lawrence V. Ryan, “Richard Hakluyt's Voyage Into Aristotle”, in The Sixteenth Century Journal, vol. 12, no. 3 (1981), pp. 73-84.

6 Sull’influenza del pensiero classico nel contesto coloniale moderno si veda Anthony Pagden, Lords of all

the World. Ideologies of Empire in Spain, Britain and France c. 1500- c. 1800, Yale University Press.

Copyright, New Haven-London, 1995, tr. it. a cura di Vincenzo Lavenia, Signori del Mondo. Ideologie

dell’Impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia 1500-1800, Ed. il Mulino, Bologna, 2005, pp. 37-64.

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4

possibilità di importare dall’esterno beni utili all’economia della madrepatria. Il fine ultimo della colonizzazione è rappresentato dal raggiungimento dell’autosufficienza economica8.

L’economia, tuttavia, non rappresenta l’unico orizzonte su cui si muove la riflessione di Hakluyt. Altrettanto rilevante risulta, infatti, la giustificazione religiosa dell’opera di espansione esterna dell’Inghilterra: egli collega le due dimensioni sostenendo che le fortune economiche spettano a chi dimostra impegno nella diffusione della parola di Dio presso le popolazioni barbare9.

Ritorna così, in un legame stretto con la prospettiva commerciale, l’idea classica della missione civilizzatrice, in assenza della quale risulta impossibile raggiungere la vita beata. È questa componente, quindi, a unire i due segmenti del pensiero di Hakluyt - il recupero della tradizione aristotelica e la spinta ideologica alla colonizzazione - in una linea di congiunzione tra le sue due principali opere. La civilizzazione, infatti, intesa come realizzazione piena della vita del cittadino10, risulta indispensabile per il raggiungimento della salvezza dell’anima ed è quindi

oggetto necessario dell’esportazione, a mezzo della conquista, presso popoli considerati non civili.

Questa spinta al compimento di una missione insieme civile e religiosa, unita alla forte opposizione al Cattolicesimo che emerge dalle tesi di Hakluyt, rende le opere di quest’ultimo il primo esempio di letteratura ideologica imperiale di stampo protestante. Tuttavia, possiamo sostenere che questo tipo di lettura non proceda molto oltre questa considerazione, dal momento che tale caratterizzazione del pensiero dell’autore appare fermarsi a un anti-papismo connotato solo negativamente e a una generica volontà di contrasto delle potenze coloniali cattoliche. La teorizzazione di Hakluyt, inoltre, non si inserisce ancora in un orizzonte britannico, ma rimane centrata su una prospettiva unicamente inglese.

Più marcatamente contraddistinte dal connubio tra imperialismo e Protestantesimo risultano invece le posizioni di Samuel Purchas, allievo di Hakluyt. Purchas, infatti, a differenza del maestro, seppur mosso dalla medesima volontà ideologica di legittimazione delle conquiste coloniali, caratterizza innanzitutto la sua riflessione secondo un preciso profilo religioso:

8 Ivi, pp. 74-75: “The ‘Discourse’ presented an argument both for the ‘necessitie’ of planting colonies

across the Atlantic and for the ‘manifolde commodyties’ that would arise from them. The necessity of colonisation arose from simultaneous overpopulation at home, and the contraction of English markets abroad. […] The overall aim of the new colonies would be to return the economy of England itself to self-sufficiency by balancing its production, consumption and population”.

9 Ivi, p. 75: “[…] He [Hakluyt] linked trade, religion and conquest as essential parts of the same enterprise,

and hence teloi towards which English action in the Americas should be directed. Just as the Politics, and hence Hakluyt’s synopsis of it, ended with the necessity of education for the pursuit of the good life, whether defined as eudaimonia or beatitudo, so the ‘Discourse’ began with the question of ‘the inlarginge the gospel of Christe, and reducing of infinite multitudes of these simple people that are in errour into the righte and perfecte waye of their salvacion’”.

10 Sulla rilevanza del concetto di civitas, mutuato dall’esperienza classica, all’interno delle diverse

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5

principalmente nella sua opera più importante – Purchas His Pilgrimage11 del 1613 – egli

inserisce la storia della formazione della monarchia composita di epoca Stuart nel solco di una progressione storica caratterizzata dallo scontro tra il Protestantesimo, considerato come l’unica vera religione, e il Cattolicesimo. Purchas identifica tre momenti salienti di questo scontro, decisivi per le buone sorti della monarchia inglese: la vittoria sulla Invincibile Armata spagnola del 1588, la sopravvivenza di Giacomo VI al tentativo di assassinio nel 1600 e alla “Congiura delle Polveri” del 1605. Dagli scritti di Purchas emerge quindi, ancora più marcatamente rispetto alle tesi di Hakluyt, la cifra caratteristica dell’ideologia protestante dell’Impero Britannico, rappresentata non tanto da precise connotazioni positive, quanto da un forte e rigido anti-cattolicesimo: Purchas giunge addirittura a prefigurare uno scontro tra l’autentica Chiesa protestante e il regno cattolico dell’Anticristo12. Tale riflessione si inserisce

senza dubbio nella concezione apocalittica della predestinazione di origine protestante, dalla quale consegue una visione religiosa della storia e lo specifico ruolo che in essa Purchas attribuisce all’Inghilterra e all’Impero Britannico. La nazione inglese viene ritenuta dallo studioso una delle nazioni elette da Dio per diffondere la sua parola nel mondo13. Essa, tuttavia, non

assolve tale compito autonomamente, in quanto viene percepita dall’autore come parte della più vasta comunità della Gran Bretagna: la riflessione di Purchas, in questi termini, risulta proiettata in una dimensione non strettamente anglo-centrica ma più marcatamente britannica. Da questo ampliamento dei confini deriva anche la tendenza di Purchas a una riflessione più profonda del rapporto tra la madrepatria e le colonie d’oltremare, tra le quali iniziano a emergere per importanza i territori americani. Egli, consapevole della impossibilità di raggiungere una compiuta unità tra le entità politico-territoriali di Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles – dimostrata in primo luogo dalla persistenza di politiche coloniali autonome - prefigura

11 Samuel Purchas, Purchas His Pilgrimage, or Relations of the World and the Religions Observed in All

Ages and Places Discovered, from the Creation unto This Present: Containing a Theologicall and Geographicall Historie of Asia, Africa, and America, with the Islands Adjacent, William Stansby, London,

1626.

12 D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, cit., p. 84: “Purchas’s sacred chronology placed

the apocalyptic battle between the True Church and the Antichrist firmly in the present rather than the future. He followed post-millennial theologians like John Jewel, James Usher and George Downame to locate the beginnings of the reign of Antichrist in the eleventh century CE, with the succession of Hildebrandine popes. At this point, Satan had been unbound from his thousand-year captivity, and the temporal pretensions of the Papacy had grown in Italy, in Christendom more generally […], and beyond Europe”.

13 Ivi, pp. 84-85: “Purchas’s conception of England’s place within sacred history rendered his works at once

more elect-nationalist and more cosmopolitan than Hakluyt’s. Unlike Hakluyt, who had no conception of the supposed place of England in the scheme of divine election, Purchas identified it as a chosen nation, though not a uniquely chosen one, for it was only one component of ‘this Israel of Great Britaine’, the Stuart multiple monarchy”.

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uno sviluppo in senso federale della costruzione imperiale britannica, la cui solida base comune è rappresentata dalla costituzione di un blocco protestante e anti-cattolico nel Nord Europa14.

La religione, e in particolare il Protestantesimo, declinato ancora negativamente, costituisce dunque per Purchas un elemento fondamentale nell’opera di consolidamento, prima di tutto ideologico, dell’Impero Britannico.

La dimensione religiosa protestante, seppur concepita in senso prevalentemente oppositivo, riveste, quindi, una posizione di rilievo nelle dinamiche di costruzione della realtà coloniale britannica. In particolare, essa giunge a manifestare la propria influenza fin da subito anche sotto il profilo politico-giuridico. Infatti, sia Hakluyt che Purchas rifiutano, in conseguenza del loro anti-papismo, la validità della donazione papale delle Americhe alla Spagna e, più in generale, qualsiasi potere della suprema autorità cattolica nel disporre dei territori di recente scoperta. Eliminato il richiamo alla necessità della concessione papale della proprietà sulle terre del Nuovo Mondo15, il punto dirimente su cui si focalizza il dibattito ideologico inglese nel XVII secolo è

rappresentato dalla discussione sulle modalità alternative di giustificazione sia del dominium, cioè dei diritti di proprietà, sia dell’imperium, cioè della piena sovranità, sui territori colonizzati. Se il richiamo alle fonti bibliche rimane un perno centrale su cui costruire la legittimità dell’emigrazione e della colonizzazione16, esso non risulta in grado di fornire un argomento di

natura spiccatamente protestante e, quindi, in grado di confutare le contemporanee aspirazioni imperiali delle potenze cattoliche europee. Il riferimento biblico, tuttavia, costituisce il punto di partenza per l’affermazione della argomentazione autenticamente protestante della “agriculturalist justification”17, la quale risulterà decisiva per l’affermazione della legittimità

dello spossessamento delle terre dei nativi18:

From the 1620s to the 1680s in Britain, and then in North America, Australia and Africa well into the nineteenth century, the argument from vacancy (vacuum domicilium) or absence of ownership (terra nullius) became a standard foundation for English and later, British dispossession of indigenous peoples. On these grounds, God’s commands to replenish the earth and assert dominion over it provided a superior right to

14 Ivi, pp. 85-86: “If the British Empire were to have any role in salvation history, it would achieve it through

the efforts of its individual members, united within international Calvinism as adversaries of the Roman Church and the great territorial monarchies of contemporary Europe, but not as an apocalyptic unit claiming a universal mission to be the last empire before the end of sacred time”.

15 Tale risultato viene acquisito anche grazie alla confutazione della teoria secondo cui le pretese inglesi

sull’Irlanda siano basate sulle relative bolle papali: v. ivi, p. 92.

16 Ivi, p. 94. 17 Ivi, p. 97.

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possession for those who cultivated the land more productively than others, and

hence who adopted a sedentary, agricultural existence on the land19.

2.1.2. John Locke: Protestantesimo e tolleranza

Il più rilevante teorico dell’“agriculturalist justification” è John Locke. La tesi centrale di tale strategia giustificativa dell’espansione coloniale britannica nel Nuovo Mondo è rappresentata dalla considerazione del lavoro, e in particolare del lavoro agricolo, come elemento necessario alle rivendicazioni proprietarie sulla terra nullius.

Belloni, in uno studio approfondito sulla dimensione coloniale della riflessione di Locke20,

provvede a sottolineare fin dalle prime battute la prospettiva autenticamente religiosa in cui si inserisce la teoria della “agriculturalist justification”. Quest’ultima, infatti, merita di essere letta alla luce della correlazione tra diritti e doveri che caratterizza l’intera opera lockiana: al generale dovere di coltivare la terra corrisponde il diritto per chiunque intenda far propria la terra attraverso il lavoro di appropriarsi di essa. Ma a quale fonte è riconducibile il dovere di coltivare la terra? Nelle tesi di Locke, appunto, esso viene riportato a una dimensione strettamente religiosa: chi non coltiva la terra non adempie al dovere di utilizzo dei doni offerti all’uomo da Dio, primo tra i quali emerge il dono della ragione. In base a tale paradigma Locke riconduce il dovere di lavorare la terra a una prospettiva naturale, identificabile nell’obbligo di conservazione di se stessi e del genere umano derivante dalla ragione, che trova il suo fondamento ultimo nella dimensione divina. La terra, anch’essa donata da Dio agli uomini, deve essere da costoro lavorata al fine di ottemperare al dovere razionale e divino della conservazione individuale e sociale21. In questo senso, come sottolinea Armitage22, la dimensione religiosa conduce

all’affermazione delle prerogative sul possesso della terra inoccupata in capo agli individui che concretamente dimostrino di impegnarsi nell’adempimento del dovere divino della sua lavorazione. La teoria lockiana, quindi, si inserisce a pieno titolo in una prospettiva religiosa della colonizzazione.

La particolarità della riflessione di Locke, sottolineata dallo stesso Armitage, è rappresentata dalla considerazione che il filosofo utilizzi il paradigma della “agriculturalist justification” al fine di negare la possibilità di fondare il dominium sulla terra sulla base della semplice necessità di

19 D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, cit., p. 97.

20 Ilario Belloni, Una dottrina «assai strana». Locke e la fondazione teologico-deontologica dei diritti, G.

Giappichelli Editore, Torino, 2011.

21 Si veda in proposito ivi, pp. 55-57.

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imposizione della superiore religione cristiana sui territori del Nuovo Mondo, la qual cosa costituisce una caratteristica specifica del pensiero coloniale protestante. Il potere coloniale, in questo senso, non deriva direttamente dalla Grazia divina, ma è sottoposto alla mediazione del necessario espletamento dell’attività lavorativa sulla terra.

Su questa base, infine, Locke poggia la riflessione elaborata nella Lettera sulla Tolleranza23.

La tolleranza, strumento che, come vedremo, Turner24 considera caratterizzare la natura

protestante della prospettiva coloniale britannica, appare essere la conseguenza naturale del rifiuto della teoria della fondazione del dominium sulla Grazia divina. Alla base di tale considerazione figura, in definitiva, la convinzione che Locke ripone nell’uguaglianza naturale tra tutti gli uomini, che rappresenta, come vedremo approfonditamente nel prosieguo della ricerca, un aspetto cruciale nella definizione della teoria della “agriculturalist justification” e nella sua applicazione ai fini dello spossessamento delle terre del Nuovo Mondo inflitto alle popolazioni native. Anche gli indigeni, quindi, in quanto esseri razionali e naturalmente uguali ai colonizzatori, mantengono il diritto a professare la propria religione e non possono essere privati della proprietà per un motivo strettamente religioso25.

Turner, in proposito, concentra la propria analisi sull’impegno di Locke nella promozione della religiosità protestante tra le popolazioni indigene e gli schiavi provenienti dall’Africa. Egli, quindi, evidenzia come l’esercizio della tolleranza, apertamente sostenuto da Locke, rappresenti uno strumento decisivo per il perseguimento di tale obiettivo. Attraverso l’affermazione di un concetto di tolleranza di derivazione eminentemente religiosa, quindi sfuggente alla convinzione dell’opportunità di una sua riconduzione al paradigma seicentesco di secolarizzazione, e attraverso lo studio della sua influenza sulle modalità del concreto governo di alcune colonie americane, Turner si pone il quadruplice obiettivo di dimostrare che:

(1) Locke believed that religious toleration and Christian evangelization were compatible; (2) Locke saw Protestant Christian mission in colonial New York as not

23 John Locke, Letter Concerning Toleration, London, 1689, tr. it. a cura di Diego Marconi, in John Locke,

Scritti sulla Tolleranza, Classici Utet, Torino, 1977.

24 Jack Turner, “John Locke, Christian Mission and Colonial America”, in Modern Intellectual History, vol.

8, no. 2 (2011), pp. 267-297.

25 Locke sancisce chiaramente questo principio. V. Scritti sulla Tolleranza, cit., pp. 160-161: “Nessuno degli

uomini deve essere strappato ai suoi beni terreni per motivi di religione, né i sudditi americani di un sovrano cristiano devono essere spogliati della vita o dei beni perché non abbracciano la religione cristiana. […] Se qualcuno pensa che in qualche luogo l’idolatria debba essere estirpata con le pene, col ferro e col fuoco, questa, cambiando i nomi, è la sua storia. Perché i pagani non perdono i loro beni in America a miglior diritto dei cristiani in qualche modo dissidenti, in un regno d’Europa, ad opera della chiesa regia; e i diritti civili non devono essere violati né mutati, qui più che là, per motivi di religione.”. In proposito, tuttavia, Belloni sottolinea come l’utilizzo dell’argomentazione della tolleranza conduca sul piano concreto a una sostanziale negazione dei diritti delle popolazioni indigene e degli schiavi. Si veda I. Belloni, Una dottrina «assai strana», cit., pp. 140-159.

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9

only a religious end, but also a geopolitical means of securing English advantage against the Catholic French; (3) Locke understood the semi-coercive Christianization of African slaves as a benign effort to improve their lot; and (4) Locke’s colonial vision was spiritually imperialistic, though imperialistic in a softer sense than we usually impute to that word26.

La dimensione protestante dell’imperialismo lockiano si manifesta, nell’opinione dell’autore, principalmente nell’utilizzo strumentale della tolleranza religiosa ai fini di un più agevole raggiungimento del risultato della conversione degli infedeli.

L’attenzione del filosofo inglese a quest’ultimo obiettivo emerge, secondo Turner, da un duplice ordine di elementi biografici: da un lato una dimostrazione viene fornita dai documenti coloniali che egli contribuisce a redigere in qualità di segretario dei Lords Proprietors of Carolina27 tra il

1669 e il 1675 e, successivamente, in qualità di membro attivo del Board of Trade tra il 1696 e il 170028; dall’altro una medesima evidenza si delinea dai lavori sulla tolleranza, in particolare dalla

Seconda e dalla Terza Lettera.

Sotto il primo profilo, dobbiamo innanzitutto precisare che Locke esercita un ruolo attivo di governo in tre colonie del Nuovo Mondo: Carolina, Virginia e New York. Dall’analisi dell’influenza concretamente esercitata da costui in questi tre contesti dobbiamo quindi muovere al fine di dimostrare l’influenza della dimensione religiosa protestante nelle dinamiche coloniali britanniche.

Tra il 1669 e il 1775 Locke collabora al governo della Carolina in qualità di segretario degli otto

Lords Proprietors. Il suo contributo più rilevante è sicuramente rappresentato dall’apporto

fornito alla scrittura delle Fundamental Constitutions of Carolina29 del 1669. Tra le previsioni del

documento, che rappresenta il fondamento della costruzione politico-istituzionale della colonia, particolarmente interessanti appaiono ai nostri occhi le disposizioni concernenti gli aspetti

26 J. Turner, op. cit., p. 270.

27 I Lords Proprietors of Carolina sono i discendenti diretti degli otto nobili proprietari terrieri inglesi

stabilitisi nella colonia grazie alla concessione di Re Carlo II. In base a quest’ultima, essi, oltre a divenire i soggetti proprietari dei diversi latifondi in cui viene suddivisa la colonia, vengono a ottenere anche il potere di governo della stessa. Si veda D. Armitage, “John Locke, Carolina, and the two treatises of government”, in Political Theory, vol. 32, no. 5 (2004), pp. 602-627; Louis Roper, Conceiving Carolina:

Proprietors, Planters and Plots, 1662-1729, Palgrave MacMillan, New York, 2004.

28 Analizzeremo nel dettaglio il ruolo ricoperto da Locke all’interno di tale organismo nel terzo capitolo

della presente ricerca. V. infra, pp. 149-151.

29 Le Fundamental Constitutions of Carolina costituiscono un documento in cui sono racchiusi i princìpi

generali di governo della colonia, dalle modalità di esercizio del potere politico ai rapporti tra i diversi gruppi sociali costituenti la società coloniale. Esse vengono adottate il 1 Marzo 1689 e sospese già l’anno successivo. Nella redazione di tale documento viene ritenuto rilevante il contributo di Locke, all’epoca inserito nella struttura di governo della colonia in qualità di Segretario dei Lords Proprietors. Si veda D. Armitage, “John Locke, Carolina, and the two treatises of government”, cit. Sul ruolo svolto da Locke nella redazione delle FCC e, più in generale, nella configurazione politico-giuridica della colonia della Carolina si veda, inoltre, la ricostruzione operata da I. Belloni, Una dottrina «assai strana», cit., pp. 125-140.

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religiosi. Dopo aver proibito agli atei di stabilirsi nel territorio della colonia e aver stabilito l’Anglicanesimo come sua religione ufficiale, nonostante l’opposizione di Locke a questi primi due punti30, le Constitutions garantiscono tolleranza per “heathens, Jews, and other dissenters

from the purity of Christian religion”31, allo scopo preciso di facilitare la loro conversione al

Cristianesimo. Questa disposizione assume particolare rilevanza nei confronti delle popolazioni indigene, come indicato dallo stesso testo della previsione32.

Questo aspetto rappresenta un portato della teoria lockiana che considera la tolleranza come strumento imprescindibile per il raggiungimento effettivo della conversione degli infedeli. Le Constitutions prevedono, inoltre, la tolleranza e la promozione del Cristianesimo tra gli schiavi africani, senza che ciò implichi la conseguenza dell’eliminazione dell’istituto della schiavitù33.

Locke si occupa della Virginia tra il 1696 e il 1700, anni in cui ricopre la carica di Consigliere del

Board of Trade. Le implicazioni teoriche del suo contributo indiretto al governo della colonia

appaiono individuabili nelle pagine dell’opera Some of the Cheif Grievances of the present

constitution of Virginia, with an Essay towards the Remedies thereof34, scritta nel 1697 insieme

a James Blair, vescovo missionario nel Nuovo Mondo35. Lo scritto, che contiene prevalentemente

riflessioni e consigli in merito al governo economico e politico della Virginia, rappresenta una fonte decisiva per la dimostrazione della rilevanza della dimensione religiosa protestante di Locke. In particolare, Turner ne evidenzia un passaggio a conferma di tale considerazione. In

30 J. Turner, op. cit., p. 276.

31 Fundamental Constitutions of Carolina, par. 178.

32 Ivi, par. 178 in J. Turner, op. cit., p. 277: “But since the natives of that place, who will be concerned in

our plantations, are utterly strangers to Christianity, whose idolatry, ignorance, or mistakes gives us no right to expel them or use them ill […] may not be scared and kept at distance from [the Christian religion], but, by having an opportunity of acquainting themselves with the truth and reasonableness of its doctrines, and the peaceableness and inoffensiveness of its professors, may, by good usage and persuasion, and all those convincing methods of gentleness and meekness suitable to the rules and design of the Gospel, be won over to embrace and unfeignedly receive the truth: therefore, any seven or more persons agreeing in any religion shall constitute a church or profession, to which they shall give some name to distinguish it from others”.

33 Ivi, par. 179-80 in J. Turner, op. cit., p. 278: “Since charity obliges us to wish well to the souls of all men,

and religion ought to alter nothing in any man’s civil estate or right, it shall be lawful for slaves, as all others, to enter themselves and be of what church any of them shall think best, and thereof be as fully members as any freeman. But yet, no slave shall hereby be exempted from that civil dominion his master has over him, but be in all other things in the same state and condition he was in before”. Questa disposizione riflette un’ambivalenza di fondo relativa alla valutazione della posizione sociale degli schiavi nelle colonie americane: da un lato, infatti, essa riconosce l’esistenza di una loro personalità agli occhi di Dio, che li rende altresì capaci di scegliere liberamente la confessione a cui aderire; dall’altro, essa stabilisce una distinzione netta tra la dimensione spirituale e quella sociale, confermando la validità del modello schiavistico in vigore nei territori del Nuovo Mondo. Sul portato delle teorie e delle politiche promosse da Locke sugli schiavi delle colonie americane si veda, tuttavia, I. Belloni, Una dottrina «assai

strana», cit., pp. 146-159.

34 John Locke, Some of the Chief Grievances of the present constitution of Virginia, with an Essay towards

the Remedies thereof, 1697.

35 Per il rapporto intercorrente tra Locke e Blair nella scrittura dell’opera si veda J. Turner, op. cit., pp. 281

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esso il filosofo e Blair riportano gli strumenti principali attraverso cui procedere alla conversione di schiavi e popolazioni indigene. Essi, a tal fine, consigliano:

That all Negroes be brought to Church on Sundays […] That a law be made, that all Negroes Children be baptized – catechized and bred Christians […]. That as many Indian children be educated at the Colledge as may be; and these well instructed in the Christian Faith (but with all keeping their own language) and made fit to evangelize others of their nation and language36.

Benché queste tipologie di raccomandazioni sembrino spingere verso un superamento del concetto di tolleranza religiosa e propendere verso un sistema forzato di conversione, Turner ritiene che, attraverso una lettura collegata a quanto scritto nelle opere sulla tolleranza, si possa invece ritenere quest’ultima ancora compatibile con la visione lockiana della missione cristiana di catechizzazione. In particolare, la Lettera sulla Tolleranza del 1689, dopo aver affermato la validità del contributo di una politica pubblica in tal senso, stabilisce chiaramente che “it is one

thing to perswade, another to command; one thing to press with Arguments, another with penalties”37. Da questa considerazione, quindi, sembra possibile dedurre l’approvazione di uno

sforzo attivo del potere pubblico in direzione della conversione degli infedeli, purché questo rimanga nell’ambito della persuasione e non della coercizione. Sotto questo profilo, qualsiasi intervento coercitivo, anche di natura pubblica, entrerebbe per Turner in contraddizione con il cuore del pensiero di Locke sulla tolleranza38. Addirittura, Turner adombra l’ipotesi che la

previsione dell’obbligatorietà della partecipazione degli schiavi alle funzioni sia indirizzata, nelle intenzioni di Locke e Blair, ai loro proprietari più che agli stessi schiavi. Dai primi, infatti, proviene la resistenza più forte all’esercizio attivo da parte dei secondi della loro religiosità, in quanto a esso corrisponde una perdita di ore lavorative.

Con riferimento alle popolazioni indigene della Virginia si rende ancora più chiara la possibilità di coniugare politiche evangelizzatrici e tolleranza religiosa: a tal proposito, infatti, Locke e Blair, nel già menzionato passaggio tratto dalle Greviances, prevedono l’educazione dei bambini presso il “College of William and Mary”39, il quale, presieduto dallo stesso Blair, opera sotto

l’autorizzazione del Re Guglielmo III. Nell’atto formale concesso da quest’ultimo quattro anni

36 Fundamental Constitutions of Carolina, par. 166 in J. Turner, op. cit., p. 282. 37 J. Locke, Letter Concerning Toleration, 27 in J. Turner, op. cit., p. 283.

38 J. Turner, op. cit., p. 284: “Such a measure contradicts the volitional essence of Locke’s vision of worship.

Locke believed that ‘all were in principle capable of guiding themselves in their choice of church; indeed, this responsibility they could not cede to another’”.

39 Il College, che esiste tutt’oggi sotto forma di Università pubblica, viene fondato l’8 febbraio 1693 per

opera di James Blair, che ne diviene il primo presidente. Tale istituzione risponde, nel contesto coloniale della Virginia, all’esigenza di creare un centro dedito alla formazione dei figli sia delle popolazioni native sia dei coloni britannici.

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