3. Pluralismo giuridico e realtà coloniale
3.3. Approccio giurisdizionale e contesto giuridico di common law
Nel tracciare l’evoluzione del modello giuridico di common law intendiamo soffermarci sul paradigma interpretativo anti-formalistico che a esso sottende sia a livello teorico che a livello pratico e che rappresenterà una chiave di lettura fondamentale nell’analisi del caso di studio proposto nell’ultimo capitolo della presente ricerca. La ricostruzione più precisa del percorso storico e teorico che conduce alla definizione dei caratteri giurisdizionali e anti-formalistici del peculiare modello giuridico di common law viene condotta, a tal proposito, da Emilio Santoro96.
La formulazione dei connotati di tale paradigma giuridico può essere sviluppata a partire dalla particolare configurazione del rapporto tra i poteri a seguito della conquista normanna avvenuta nel 1066 d.C. Il dibattito sulla connessione tra le modalità in cui tale conquista è avvenuta e la limitazione al potere regio che da esse deriva prende vigore nel XVII secolo, in un periodo cruciale per le sorti della configurazione costituzionale della società inglese97.
In tale contesto si verifica, infatti, lo scontro tra il potere parlamentare e giurisdizionale - quest’ultimo sostenuto dalla dottrina classica di common law, elaborata e difesa da giuristi quali Coke, Hale e Blackstone98 - e le rivendicazioni delle prerogative regie, difese dalla teoria giuridica
96 E. Santoro, op. cit.
97 La ricostruzione del dibattito sul valore politico e giuridico da attribuire alla Conquista Normanna viene
offerta da E. Santoro, op. cit., pp. 121-130.
88
giuspositivistica di stampo continentale, di cui Hobbes appare il preminente teorico. Lo scontro, centrato figurativamente sul dibattito tra i sostenitori della rottura costituzionale avvenuta nel 1066 a opera di Guglielmo il Conquistatore e i difensori della continuità con il periodo sassone del regno instaurato da quest’ultimo, ha come oggetto un tema assai più rilevante della semplice ricostruzione storiografica: i limiti imponibili al potere regio e il conseguente controllo esercitabile su quest’ultimo dai concorrenti poteri del Parlamento e degli organi giurisdizionali. L’elaborazione del mito della “Costituzione antica”99 da parte dei giuristi di common law, accanto
all’enfasi sulla continuità tra le due fasi della storia inglese, ha la funzione di collocare il diritto in un contesto esterno e preesistente al sovrano, il quale dunque non detiene la potestà assoluta di decidere il diritto. Il fenomeno giuridico diviene così un elemento consuetudinario stratificato nel corso dei secoli, che le Corti hanno il compito di scoprire e di attualizzare al fine della risoluzione delle controversie che si presentano al loro giudizio.
Da quest’ultima considerazione nasce un approccio assolutamente peculiare alla tematica giuridica, il quale si manifesta in tutta la sua evidenza nel contrasto tra le tesi dei common
lawyers e di uno dei più eminenti teorici del giusnaturalismo, Thomas Hobbes, il quale enuclea
le proprie critiche al modello giurisdizionale in A Dialogue between a Philosopher and a Student
of the Common Law of England100. Il centro del dibattito tra le due posizioni è rappresentato dal
mezzo che ognuna di esse ritiene necessario al fine di determinare il contenuto del diritto: se i giusnaturalisti ritengono che esso sia identificabile con la “ragione naturale”, fornita da Dio al monarca, il quale diviene in conseguenza di ciò il vertice della piramide della produzione giuridica, i common lawyers ritengono che il diritto, non assimilabile a una costruzione meramente logica e razionale, risulti conoscibile solo attraverso la “ragione artificiale”, “prodotto della prudenza e dell’esperienza di un ceto di specialisti, giuristi e giudici, che
‘costituiscono’ la legge nel momento in cui la dichiarano”101.
Le due posizioni risultano antitetiche: esse muovono da due opposte concezioni del fenomeno giuridico e configurano due paradigmi diversi di produzione giuridica. Alla sfera di produzione individuale del sovrano enfatizzata da Hobbes, i giuristi inglesi di common law oppongono un modello fondato sulla pratica quotidiana, di cui le Corti sono avvertite come le principali protagoniste. È Sir Matthew Hale a sintetizzare il paradigma fondato sulla ragione artificiale:
99 Ivi, p. 164.
100 Thomas Hobbes, A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Law of England,
1839.
89
l’esperienza è lo strumento capace di interagire con la categoria della “morale applicata”102, di
cui il diritto fa parte103.
Appare naturale, quindi, che i protagonisti di questo approccio risultino essere in primo luogo i giudici, ai quali è demandato il compito di decidere sui casi particolari facendo ricorso all’esperienza professionale derivata essenzialmente dalla loro formazione. Il diritto, in quest’ottica, viene a essere percepito come un fenomeno estremamente concreto e casuista, lontano dalle costruzioni astratte del giusnaturalismo trionfante nel continente europeo. Nasce, sulla scia della riflessione dei common lawyers, il paradigma dichiarativo del diritto: il diritto, che non viene ritenuto il prodotto di una fonte autoritativa, diviene l’oggetto dell’azione di scoperta e dichiarazione dei giudici, i quali hanno il compito di trovare i giusti strumenti per la regolazione delle controversie all’interno della realtà sociale sviluppatasi e stratificatasi nel corso dei secoli. Non viene percepito, ancora, un ruolo attivo dei giudici nella creazione del diritto: costoro si limitano a utilizzare la propria esperienza per trovare il materiale utile alla risoluzione del caso concreto. In ogni caso, è evidente che, secondo questo paradigma, le Corti assumano un ruolo preminente nella caratterizzazione del fenomeno giuridico: benché esse non vengano percepite come organi creatori di diritto, infatti, la loro attività fornisce una base di legittimità al diritto che storicamente esse, di volta in volta, dichiarano.
Il successo di questo paradigma, insieme al riconoscimento del ruolo centrale nella vita politica inglese del Parlamento ottenuto con la Glorious Revolution a discapito delle aspirazioni assolutistiche della Monarchia, determina l’adozione definitiva di un modello giuridico peculiare rispetto a quello continentale proprio per la posizione di primo piano che esso garantisce agli organi giurisdizionali.
Questa configurazione del modello di common law inglese resiste fino ai giorni nostri e definisce inoltre i caratteri fondamentali del paradigma giuridico coloniale britannico. Col tempo, essa vede mutare nella sostanza la percezione della posizione ricoperta in tale modello dai giudici: da un ruolo meramente dichiarativo proprio della mentalità classica di common law, con la modernità si giunge a riconoscere a costoro un ruolo centrale nell’attività di creazione del diritto. I diversi passaggi di questo mutamento percettivo sono ben ripercorsi da Santoro e sono individuabili, da un lato, nella resistenza del modello di common law alle istanze
102 Ivi, p. 151.
103 Ivi, p. 152: “La complessità e l’instabilità delle situazioni concrete rendono impossibile considerare
l’applicazione del diritto come la ricorrenza di un fenomeno regolare. Soltanto chi ha una lunga “esperienza delle vicende e dei discorsi umani e li ha a lungo osservati”, mettendo con prudenza e giudizio in correlazione la sua esperienza con il caso in questione, può sperare di risolvere il problema in modo soddisfacente”.
90
giuspositivistiche benthamiane e, dall’altro, alla definitiva affermazione del ruolo attivo dei giudici operata da Albert Venn Dicey.
Nella ricostruzione operata da Santoro, il merito di essere riuscito a trovare il connubio ideale tra le esigenze di razionalizzazione e sistematizzazione del modello casuistico classico e il mantenimento dei caratteri giurisdizionali propri di quest’ultimo viene attribuito alla riflessione di John Austin. Costui, allievo di Bentham, iscrive la propria teoria nell’alveo della produzione giuspositivistica dominante nel XVIII secolo. Il fulcro della sua concezione del diritto, infatti, emerge dalla considerazione secondo cui “ogni legge o regola è un comando”104, cioè “una
manifestazione di desiderio sanzionata da una punizione che l’emittente infligge al destinatario in caso di inottemperanza”105. Tale ricostruzione ha l’obiettivo principale di depurare la
riflessione giuridica dalla tradizionale commistione con le dimensioni religiose e morali, la qual cosa costituisce il primo passo necessario alla definizione in senso analitico della teoria austiniana. Il giurista inglese, infatti, costruisce la propria riflessione attorno ai cardini della distinzione tra i tre elementi del diritto positivo, del diritto divino e della moralità positiva. In base alla lettura di esso effettuata alla luce del concetto di comando, il diritto positivo viene collegato a una nozione di sovranità delineata empiricamente in base al potere di emanare sanzioni dirette a determinare l’obbedienza degli individui alle sue direttive106.
Da questa definizione il diritto divino si distingue in quanto, seppur composto da un insieme di leggi, non è un prodotto umano, imposto cioè da un’autorità ai membri della comunità sociale a essa sottoposta. La moralità positiva, a sua volta, rappresenta una categoria diversa dal diritto positivo in quanto composta da elementi giuridici non strettamente riconducibili alla nozione di comando: con essa, infatti, “Austin designa tanto dei comandi veri e propri, non emessi però dal
sovrano e non provvisti di sanzioni, quanto delle semplici consuetudini, prodotte dai consociati e sanzionate dalla mera disapprovazione sociale”107.
In base a tale ricostruzione, quindi, Austin sembra abbracciare una prospettiva essenzialmente giuspositivistica, mutuata dalla teoria del maestro Bentham, che poco spazio lascerebbe alla tradizione di common law e al ruolo attivo delle Corti nella vita giuridica. Tuttavia, la prospettiva analitica, che distingue i propri obiettivi di studio del diritto rispetto alla prospettiva censoria benthamiana obbliga l’autore di “The Province of Jurisprudence determined”108 a tenere in
104 Ivi, p. 192. 105 Ivi, pp. 192-193.
106 Ivi, p. 194: “Il diritto positivo […] viene dunque definito come il complesso dei comandi rivolti da un
sovrano ai membri di una società politica indipendente che obbligano una o più persone a tenere un determinato comportamento e che le espongono, in caso di inosservanza, al rischio di ricevere una sanzione”
107 Ivi, p. 195.
91
considerazione la realtà giuridica inglese, che, come abbiamo visto, risulta storicamente fondata sul ruolo del diritto consuetudinario. Se la riflessione di Austin, come quella di Bentham, si pone l’obiettivo di confutare la teoria dichiarativa classica di common law, in base alla quale i giudici ricoprono il ruolo di meri dichiaratori di consuetudini preesistenti, la peculiarità dell’approccio austiniano traspare dalla volontà dell’autore di mantenere per il common law una posizione di primo piano all’interno delle dinamiche giuridiche. Il passo necessario in questa direzione è rappresentato dal recupero della consuetudine alla dimensione della positività giuridica, affinché essa possa giungere a essere annoverata legittimamente tra le fonti di produzione del diritto. La sfida di Austin è, dunque, quella di recuperare la consuetudine, rientrante nella categoria della moralità positiva, alla dimensione del diritto positivo: essa, a tal fine, deve essere ricondotta nell’alveo del comando dell’autorità politica. La strategia argomentativa utilizzata da Austin per giungere a tale conclusione passa attraverso due snodi fondamentali: da un lato, il diritto consuetudinario viene da Austin ritenuto imperativo, benché esso non venga prodotto direttamente dall’autorità del sovrano; in secondo luogo, il mezzo che permette a tale tipologia di fonte giuridica di essere annoverata all’interno della categoria del diritto positivo è rappresentato proprio dall’attività delle Corti. Grazie alla proclamazione da parte di quest’ultime della validità di una norma proveniente dalla fonte consuetudinaria, infatti, tale norma viene ricondotta al diritto di produzione statale, per definizione positivo. La consuetudine, che risulta originariamente riconducibile alla categoria della moralità positiva, diviene diritto positivo grazie alla proclamazione delle Corti109.
Grazie alla riflessione di Austin, dunque, la tradizione giuridica di common law resiste agli attacchi formalistici e legicentrici del giuspositivismo, non mancando tuttavia di innovarsi nelle proprie linee ideologiche distintive. Sotto quest’ultimo punto di vista, particolarmente rilevante ai fini della nostra ricerca risulta essere il contributo che la teoria austiniana apporta alla concezione del ruolo attivo del giudice nella determinazione del contenuto del diritto. Se, infatti, la tradizione classica di common law aveva visto affermarsi una teoria dichiarativa, secondo la quale le Corti operano semplicemente scoprendo il diritto nel fenomeno della consuetudine e dichiarandolo durante la risoluzione delle controversie, il merito di Austin risiede nell’aver affermato in modo definitivo che i giudici svolgono un ruolo attivo che consiste nella positivizzazione della consuetudine: il diritto derivante da quest’ultima raggiunge, così, lo stesso
109 E. Santoro, op. cit., p. 210: “La consuetudine si trasforma in diritto positivo quando è adottata come
tale dalle Corti, e quando le decisioni giudiziali formate su di essa sono sanzionate dal potere dello Stato. Ma, prima di essere adottata dalle Corti e munita di sanzioni giuridiche, essa è esclusivamente una regola di moralità positiva: una regola generalmente osservata dai cittadini o sudditi, ma derivante la sola forza che le si può attribuire dalla generale disapprovazione che cade su quanti la trasgrediscono”.
92
rango della fonte legislativa e viene a distinguersi da quest’ultima solo per il metodo di produzione.
Grazie al recupero del ruolo del giudice operato da Austin, questo elemento si mantiene ben saldo in tutta la teoria moderna di common law fino ad arrivare alla sua sublimazione nella riflessione di Albert Venn Dicey, che costituisce il nodo focale della ricostruzione di Santoro. La necessità di mantenersi nell’alveo del concetto di sovranità elaborato da Austin conduce Dicey, in “The Law of the Constitution”110, a individuare i due cardini della Costituzione inglese
nella sovranità assoluta del Parlamento e nel rule of law. La preoccupazione dell’autore per la salvaguardia delle libertà degli individui inglesi ricade, quindi, sull’attenzione al potere governativo, di cui i due princìpi suddetti devono garantire la limitazione.
Il Parlamento per Dicey è l'organo sovrano à la Austin, cioè sovrano in quanto assoluto, non limitato da alcuna norma. Da questa connotazione dei suoi poteri derivano la possibilità per l'organo di modificare qualsiasi norma e l'inesistenza, all'interno del sistema giuridico inglese, della distinzione tra leggi costituzionali e leggi ordinarie. Non esistono, in particolare, diritti intangibili a priori, come quelli sanciti dalle moderne costituzioni scritte. Tutte le leggi sono modificabili e, con esse, lo sono anche tutte le previsioni di diritti: in sostanza non esiste alcun limite, di alcun ordine, ai poteri del Parlamento. La mancanza di garanzie per il cittadino che potrebbe nascere da un sistema improntato sulla sovranità assoluta, incontrollata ed illimitata di tale organo trova però argine nel secondo elemento caratterizzante la Costituzione inglese: il
rule of law. Esso, oltre a costituire il punto di partenza per la costituzionalizzazione di princìpi
fondamentali del liberalismo quali la stretta legalità e l'unicità del soggetto di diritto111, consente
di riflettere sulla caratteristica centrale della Costituzione inglese, e cioè su come quest'ultima non sia stata una creazione momentanea, ma al contrario progressiva, dei giudici:
“Le libertà degli inglesi” «lungi dall'essere il risultato della legislazione, nel senso ordinario del termine, sono il frutto delle controversie portate dinanzi alle Corti in nome dei diritti individuali»112.
La costituzionalizzazione dei diritti inglesi è dunque dovuta essenzialmente all'opera delle Corti; il Parlamento ha ricoperto in questo frangente un ruolo secondario:
110 Albert Venn Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, MacMillan, London, 1915,
tr. it. a cura di Alessandro Torre in A. V. Dicey, Introduzione allo studio del diritto costituzionale. Le basi
del costituzionalismo inglese, Il Mulino, Bologna, 2003.
111La particolarità diceyana e, si può dire, inglese del principio di unicità del soggetto di diritto è che essa
riguarda non solo l'unicità della legge, ma anche l'unicità della giurisdizione. Da ciò deriva l'illegittimità, secondo Dicey, del diritto amministrativo. Si veda E. Santoro, op. cit., pp. 255 ss.
93
Il Parlamento, in quanto organo legislativo, si è infatti limitato a recepire e sistematizzare l'elaborazione giurisprudenziale delle Corti e quando ha partecipato in modo creativo al processo di costituzionalizzazione dei diritti, lo ha fatto in quanto High Court del paese e non in quanto organo legislativo, quindi rielaborando il
common law e non “creando” nuovo diritto113.
Emerge dal quadro appena prospettato che anche secondo Dicey, come per i common lawyers classici, esiste una Costituzione inglese, un contenitore dei diritti fondamentali degli Inglesi, nato non spontaneamente dal corpo sociale né creato d'un tratto da un organo sovrano, ma che ha preso vita e ha sviluppato i propri contenuti grazie al lavoro creativo delle Corti. Non solo si sviluppa dal pensiero di Dicey questa connotazione storica sulla nascita del diritto inglese, ma a questa caratteristica egli attribuisce anche un forte peso in termini di significato: la creazione giurisprudenziale dei diritti viene assunta da Dicey come garanzia della possibilità del loro godimento effettivo. L'effettività rappresenta il discrimine tra sistema giuridico inglese e sistemi continentali, e parallelamente tra Costituzione non scritta e scritta: nel continente, infatti,
Il diritto individuale alla libertà personale deriva o è garantito dalla costituzione. In Inghilterra il diritto alla libertà individuale fa parte della costituzione, perché è garantito dalle decisioni delle Corti, poi ampliate o confermate dagli Habeas Corpus Acts114.
Il ruolo dei giudici inglesi è quindi quello di costituzionalizzare i diritti di libertà, di inserirli cioè, tramite la tutela effettiva e non meramente formale a loro attribuita, nello spazio giuridico che integra la “Costituzione inglese”. Questo termine, che ai giuristi continentali evoca l'esistenza di un documento scritto contenente un elenco di diritti identificati da parole specifiche, per gli Inglesi non indica altro che una cornice al cui interno i diritti si inseriscono non certo perché sanciti graficamente in uno o più documenti, ma perché iscritti nella mentalità dei giudici e perciò continuamente affermati nel loro lavoro:
La produzione giudiziale delle disposizioni concernenti i diritti individuali ha un indubbio vantaggio su quella legislativa e sulle dichiarazioni dei diritti: essa, per il suo stesso modo di venire alla luce, connette in maniera inseparabile gli strumenti di tutela di un diritto e il diritto da tutelare115.
113 Ivi, p. 252. 114Ivi, p. 253. 115Ivi, p. 254.
94
Il rule of law acquisisce così un ruolo di primo piano nella concezione diceyana del diritto: il fatto che la tutela delle libertà degli Inglesi sia riposta nelle mani dei giudici implica anche che costoro risultino essere “gli arbitri della validità del diritto parlamentare”116.
In realtà il collegamento tra tutela dei diritti e ruolo dei giudici inglesi non è per Dicey così immediato: il rule of law non sancisce direttamente che questi siano i soggetti a cui spetta la difesa delle libertà inglesi. Esso garantisce anzitutto il rispetto del principio di legalità, che in quanto tale protegge gli individui dall'arbitrarietà del potere esecutivo. La tutela dei diritti non passa dunque attraverso un'immediata garanzia da parte dei giudici. Il meccanismo è più complesso e passa dal potere/dovere di quest'ultimi di applicare la legge emanata dal Parlamento e di giudicare sulla sua applicazione da parte dell'autorità amministrativa. In questo compito, sostiene Dicey, i giudici devono attenersi esclusivamente al tenore letterale delle disposizioni legislative e, punto centrale per il riconoscimento della loro funzione creativa, “non
devono tener conto assolutamente dell'intenzione del legislatore”117. I giudici, escludendo
l'interpretazione teleologica dal raggio del loro operare, lavorano sulle leggi con le sole lenti del diritto, del common law, amalgamando la volontà legislativa con la tradizione costituzionale. Il common law rimane dunque anche per Dicey il piano ben saldo con cui si confrontano continuamente le fonti formali del diritto. I giuristi hanno il compito di cercare le connessioni tra queste e il primo e, nel momento in cui le trovano, di sancire la loro validità: gli atti del Parlamento, in altre parole, non diventano diritto immediatamente in quanto emanati dall'organo sovrano, ma solo dopo essere stati iscritti nel nucleo di common law da parte delle Corti. I giudici, nello svolgere questo compito, godono di una sfera di libertà inconcepibile per i giuristi continentali: a essi è da sempre attribuito il dovere di adeguare, estendendone o restringendone i confini tramite l'interpretazione, le fonti formali del diritto alla base di common
law.