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L’abbandono del paradigma della conquista e la nascita della teoria confederativa

3. Religione, mare e commercio: i cardini della “Greater Britain”

3.1. L’abbandono del paradigma della conquista e la nascita della teoria confederativa

Il contributo offerto dallo sviluppo in senso commerciale dell’Impero alla formazione della rete di rapporti transnazionale risulta apprezzabile, oltre che sotto il profilo pratico che abbiamo analizzato, anche da un punto di vista ideologico e politico. Possiamo, infatti, ricondurre alla dimensione commerciale dell’Impero Britannico, da un lato, le ragioni della marcata differenza con il modello coloniale spagnolo e, dall’altro, la formazione di una particolare forma ideologica e politica del rapporto tra madrepatria e colonie.

Questo versante delle considerazioni relative alla natura mercantile dell’Impero Britannico appare ben esplorato e definito nelle opere di Anthony Pagden137. Il contributo più rilevante che

la dimensione commerciale fornisce alla costruzione della peculiarità del modello imperiale britannico si muove in due direzioni, distinte sebbene interrelate: da un lato, essa determina il definitivo allontanamento di quest’ultimo dalla mentalità di conquista che, invece, contraddistingue la costruzione spagnola; dall’altro, essa costituisce lo sfondo su cui viene plasmato un rapporto tra il centro e le periferie dell’Impero caratterizzato da una generale decentralizzazione politica rappresentata, a livello ideologico, dalla costruzione di un’idea di federazione sul modello della Lega Achea più che su quello dell’Impero Romano.

Sotto il primo profilo, se, come sostiene Pagden, tutte le imprese coloniali appaiono contraddistinte in origine da una spinta ideologica alla conquista militare e territoriale, ben presto due modelli – quello franco-britannico, da un lato, e quello ispanico-portoghese, dall’altro – prendono due strade diverse soprattutto a causa della differenza geografica, economica e sociale dei territori sottoposti al loro controllo. Lo spirito di conquista, infatti,

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“legato a un codice di valori aristocratici che avevano avuto una parte fondamentale nella

nascita dei primi imperi d’oltremare”138, si affievolisce sia per i Francesi che per i Britannici nel

momento in cui appare chiaro che costoro non “avrebbero mai avuto l’opportunità o le risorse

per una conquista su larga scala di terre d’oltremare”139. La differenza di risorse economiche tra

il Sud America spagnolo e il Nord America francese o inglese – incentrato sulla presenza nel primo di ingenti risorse minerarie, assenti invece nel secondo – e la diversità del numero e dell’organizzazione delle popolazioni indigene ivi residenti determina l’adattabilità del paradigma della conquista al modello di sfruttamento spagnolo e, invece, il suo abbandono nelle costruzioni francesi e inglesi140.

Nell’analisi di Pagden l’economia basata sullo sfruttamento di oro e di argento e l’adesione allo spirito di conquista risultano interdipendenti. La casualità storica che determina l’arrivo degli Inglesi in territori sostanzialmente privi di tali risorse rappresenta per l’autore l’elemento decisivo per l’abbandono di tale ideologia e per l’approdo a una struttura coloniale di tipo agricolo e commerciale.

Lo stesso Pagden, tuttavia, collega la lunga permanenza della mentalità di conquista nel contesto coloniale spagnolo a un altro fattore, decisamente più connotato sotto il profilo storico- ideologico: l’occupazione delle terre del Nuovo Mondo, la cui legittimità poggia sulle concessioni papali, viene a essere percepita dalla società spagnola come una continuazione della storia della

reconquista interna a danno dei Mori. Questo elemento, oltre a fornire un’aura di vera e propria

eroicità alle missioni dei colonizzatori, riesce anche a caratterizzare la spinta conquistatrice sotto il profilo autenticamente religioso:

[…] Uomini come Cortés e Pizarro erano eredi nello stesso tempo di Cesare e del Cid, il grande eroe della reconquista dell’XI secolo, per la cui anima era abituale dedicare una messa al primo attracco sulle coste d’America. La contiguità con la reconquista implicava, se non una sanzione di Dio, almeno il suo favore. Pochi conquistadores pretendevano di eseguire la volontà di Dio, ma molti erano convinti che Dio desse un

138 Ivi, p. 116. 139 Ivi, p. 118

140 Ibidem: “Solo i coloni spagnoli si applicarono la denominazione di «conquistatori» (conquistadores), e

solo gli spagnoli nati nelle colonie, i creoli (criollos), avrebbero alla fine basato le proprie rivendicazioni di indipendenza innanzi tutto sui legami con l’aristocrazia artefice della conquista. Un impero come questo doveva fondarsi su un popolo composto da sudditi sconfitti che potevano essere trasformati in docile forza lavoro. In America solo gli spagnoli, e in misura un poco minore i portoghesi, trovarono delle popolazioni abbastanza numerose da poter essere sfruttate in questo modo. Sia gli inglesi sia i francesi tendevano, per una serie di motivi collegati, a escludere gli indigeni americani dalle proprie colonie, oppure ad avvicinarli come partner commerciali”.

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aperto sostegno alla loro causa: come spiegare altrimenti le conquiste prima de Messico e poi del Perù?141

Gli Inglesi, al contrario degli Spagnoli, in quanto esponenti di una potenza protestante, non possono contare sul sostegno dell’autorità papale per il consolidamento della legittimità delle proprie aspirazioni sul Nuovo Mondo. È in parte a causa di questa lacuna, così, che costoro si trovano costretti a fondare le pretese di occupazione non sul modello della conquista, ma su un aggiornamento del paradigma classico della res nullius142. In più, come sottolinea Pagden

riportando un argomento essenziale per la teoria politica e giuridica inglese, il paradigma della conquista militare non può servire a giustificare la legittimità dell’instaurazione di una nuova autorità su un territorio e su popolazioni libere per una comunità – quella inglese, appunto – che prima dell’esperienza coloniale si era impegnata nell’elaborazione della cosiddetta “teoria della continuità” per negare la cesura nelle istituzioni legali e politiche a seguito di una conquista come quella normanna del 1066143.

Considerato il fondamento ideologico della legittimità dell’espansione britannica nel collegamento con il paradigma della terra nullius144, non stupisce che la conquista venga ritenuta

in tale contesto sia fattualmente insostenibile sia moralmente riprovevole. Lo stesso Locke, in un passo riportato da Pagden, ben delinea la propria critica al paradigma della conquista, sostenendo che quest’ultima

È tanto lungi dall’istituire un governo quanto il demolire una casa lo è dal costruirne una nuova al suo posto. Certo, spesso la conquista prepara la strada per una nuova forma di Stato col distruggere la precedente; ma senza il consenso del popolo non può

mai erigerne una nuova145.

141 Ivi, p. 131.

142 Esploreremo approfonditamente tale tematica nel prosieguo della nostra ricerca. Si veda infra, pp. 179-

187.

143 La “teoria della continuità” rappresenta un espediente retorico utilizzato nel XVII secolo da giuristi –

quali Sir John Coke – e rappresentanti parlamentari al fine di combattere sotto un profilo ideologico e retorico il tentativo operato dai sovrani dell’epoca di trasformare il sistema di governo britannico in una monarchia di stampo assolutistico sul modello continentale. Tale teoria trova il proprio pilastro nella negazione della soluzione di continuità tra monarchia sassone e monarchia normanna a seguito della Battaglia di Hastings del 1066. Dimostrare la continuità tra le due dominazioni è un passo necessario ai fini della confutazione delle pretese assolutistiche della monarchia dal momento che, a causa dell’inesistenza di un momento storico in cui quest’ultima si appropria di un potere assoluto sui propri sudditi, essa vede la propria sfera autoritativa limitata dal controllo del Parlamento e dei giudici del regno. Sul punto si veda la ricostruzione operata da Emilio Santoro, Diritto e diritti: lo stato di diritto nell’era della

globalizzazione, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 121-175.

144 Vedremo, però, come a tal proposito risulti necessario evitare una lettura troppo generalizzante e

semplicistica dell’adozione di tale argomentazione in vista della giustificazione dell’espansione britannica. Si veda infra, pp. 179-187.

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Su questa linea argomentativa e sui suoi successivi sviluppi si delinea la netta separazione ideologica tra il modello coloniale britannico – e in qualche misura francese – e quello spagnolo. Nasce, così, una narrativa che si pone l’obiettivo di distinguere nettamente la disumanità della conquista spagnola dal pacifico insediamento britannico nelle colonie, condotto con il consenso delle popolazioni native e, di più, in vista di un indiscutibile vantaggio per quest’ultime146. La

colonizzazione britannica viene, secondo questa linea, a essere percepita come una costruzione

sui generis, portata avanti per il mutuo beneficio di colonizzati e colonizzatori e diretta a un fine

ancora più elevato, cioè alla realizzazione di un modello di società più virtuoso rispetto ai modelli tradizionali.

Inoltre, dall’aderenza o meno allo spirito di conquista, con la stretta dipendenza che lo sfruttamento delle risorse minerarie determina tra madrepatria e colonie, deriva la sostanziale diversità nel rapporto politico tra queste entità nei due modelli. In particolare, Pagden sottolinea come la natura di esperienza coloniale nata per iniziativa privata e, in seguito, il suo sviluppo in senso commerciale a causa dell’impossibilità di sfruttamento delle risorse minerarie nelle colonie a essa soggette, determinino nel contesto britannico la nascita di una costruzione coloniale fondata su forme di autonomia politica e ideologica delle colonie dalla madrepatria. Il modello lockiano di trasformazione della terra nullius, sul quale si fonda la legittimità della sua occupazione, determina la nascita di un paradigma agricolo che trova pieno sviluppo nella rete di rapporti commerciali che abbiamo visto caratterizzare l’Impero Britannico fin dalle sue origini. Non assistiamo in questo contesto, contrariamente a quanto avviene nell’esperienza spagnola e anche in quella francese, a una centralizzazione dei rapporti tra madrepatria e colonie, sia perché questo approccio risulterebbe, sotto un profilo strettamente pratico e utilitaristico, non rispondente a pieno alle esigenze dello sviluppo dei rapporti commerciali sia perché la circolazione dei coloni nelle varie parti del mondo porta con sé, come rileva Armitage147, la

diffusione di modelli ideologici di stampo liberale e repubblicano.

Se l’applicazione delle tesi lockiane al modello coloniale britannico si fonda sulla concezione dei territori colonizzati come terrae nullius destinate a essere legittimamente occupate tramite il lavoro, secondo quanto avvenuto nel contesto dello stato di natura, allora appare come una conseguenza inevitabile la considerazione dell’inesistenza di alcuna autorità ontologicamente superiore agli abitanti delle colonie. Seguendo questa linea, le colonies of settlement rivendicano

146 Ivi, pp. 150-151: “Dal punto di vista delle rispettive storie nazionali, gli inglesi e i francesi si erano limitati

a insediarsi in terre non occupate, con il consentimento e la cooperazione entusiastica delle popolazioni native; gli spagnoli, invece, avevano invaso territori retti da legittimi, seppure un poco primitivi, governanti”.

147 D. Armitage, “The Cromwellian Protectorate and the languages of empire”, in The Historical Journal,

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con convinzione la propria autonomia dalle istituzioni politiche e legislative della madrepatria. L’unica autorità riconosciuta nel suo potere – e vedremo nel prossimo capitolo che ciò avrà una funzione determinante nell’estensione dell’autorità giuridica del Privy Council ai territori d’oltremare – appare essere la persona del Sovrano, cioè il soggetto che, attraverso il meccanismo delle letters patent148, concede ai coloni la libertà di uscire dalla madrepatria e di

stabilirsi in un nuovo paese. È l’autorità del Sovrano, dunque, e non quella del Parlamento di Westminster, a mantenere ideologicamente unito l’Impero Britannico. Come vedremo, infatti, da queste considerazioni sull’autonomia politica delle colonie derivano importanti conseguenze in campo giuridico: nasce nella comunità imperiale britannica la convinzione che ogni colonia, in quanto formata da una popolazione autonoma e diversa dalle altre, possa e debba dotarsi di proprie leggi in grado di rispondere alle sue esigenze specifiche. In questo frangente, quindi, si forma il cuore della convinzione che l’Impero Britannico, lungi dal dover costituire un’entità monolitica e centralizzante, fondata su un unico corpo di leggi, debba invece aprirsi a un modello confederativo, di unione di “stati distinti e indipendenti l’uno dall’altro, pur se tenuti insieme

dallo stesso sovrano”149. La figura del Re viene così a rappresentare un ulteriore fattore rilevante

nella definizione del nucleo di valori della “Britishness” e nel mantenimento dei legami tra le diverse entità politiche e amministrative parti dell’Impero150.

Attraverso l’abbandono del principio della conquista, dunque, e la sua unione, da un lato, alla peculiare costruzione ideologica lockiana del modello coloniale e, dall’altro, alle esigenze pratiche del commercio, l’Impero Britannico giunge a essere percepito come un modello di struttura di tipo confederativo: la Lega Achea, non più l’Impero Romano, diviene così il modello d’ispirazione delle politiche coloniali britanniche.

Nel nuovo paradigma, quindi, la conquista territoriale, lo sfruttamento delle risorse minerarie e la centralizzazione politica lasciano il posto alla creazione di una rete di collegamenti in prevalenza marittimi, allo sviluppo su di essi di un’economia prevalentemente commerciale e alla formazione di una comunità di stati che, seppur fortemente collegati, anche sotto il profilo

148 Le letters patent costituiscono una particolare tipologia di strumento legale che prende la forma di un

documento scritto rilasciato dal sovrano e finalizzato alla concessione di un titolo, di un diritto, di una garanzia di monopolio a una specifica persona o a una corporazione. Tale strumento, in particolare, viene utilizzato nel contesto coloniale per la nomina dei rappresentanti della Corona a cui viene affidato il ruolo di autorità politica nelle colonie: per questo motivo, è evidente il legame diretto sussistente tra i colonizzatori e la persona del sovrano. Per una ricostruzione del ruolo di tale strumento all’interno dell’esperienza imperialistica britannica si veda Patricia Seed, “Taking possession and reading texts: establishing the authority of overseas empires”, in The William and Mary Quarterly, vol. 49, no. 2 (1992), pp. 183-209.

149 A. Pagden, Signori del Mondo, p. 218.

150 Si veda, a tal proposito, la ricostruzione del rapporto tra Corona e società coloniali proposta da John H.

Elliott, Empires of the Atlantic World. Britain and Spain in America 1492-1830, Yale University Press, Yale, 2006, tr. It. Marina Magnani, Imperi dell’Atlantico. America Britannica e America spagnola, 1492-1830, Einaudi, Torino, 2010, pp. 175-225.

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ideologico, alla madrepatria e da quest’ultima indirettamente controllati, mantengono in genere la forma di entità indipendenti inserite in una rete confederale.

Il commercio, quindi, viene sempre più percepito come l’elemento fondamentale per il raggiungimento di una libera cooperazione sia interna al contesto imperiale britannico che a livello internazionale tra le diverse potenze coloniali. Tale cooperazione risulta imprescindibile per la creazione di una comunità mondiale finalmente ispirata a legami di fraternità e pace151.

Sebbene questo tipo di riflessione si dimostri col tempo eccessivamente ottimistico e venga smentito, in definitiva, dai fatti storici, appare senza dubbio interessante sottolineare come la costruzione imperiale britannica, grazie alla sua peculiarità dovuta alla rete di relazioni costruita sui tre elementi che abbiamo sopra citato, rappresenti per buona parte dei pensatori e dei politici dei secoli XVIII e XIX il modello in grado di garantire lo sviluppo positivo dei rapporti internazionali.

In un modello autenticamente confederativo, tuttavia, non meno importante dell’autonomia politica e dello sviluppo delle relazioni commerciali risulta la condivisione di un preciso background culturale all’interno della comunità. Sebbene un modello di confederazione paritaria tra stati indipendenti non venga mai effettivamente instaurato nel contesto britannico – e ancor meno negli altri contesti imperiali europei –, infatti, possiamo considerare la formazione dei caratteri della “Britishness” come uno dei più rilevanti fattori che evidenziano la peculiarità del modello coloniale britannico. Grazie a quest’ultima, nei limiti che ogni tipo di relazione porta con sé e quindi rifuggendo da qualsiasi velleità di idealizzazione, l’Impero Britannico vede svilupparsi al suo interno una rete di rapporti che legano culturalmente, prima che politicamente, il centro alla periferia.

Decentramento, autonomia politica, rete di relazioni commerciali e marittime e formazione della “Britishness” rappresentano le linee sulle quali si muove, quindi, il rapporto tra centro e periferia dell’Impero. Su di esso e sulle sue peculiarità, approfondendone i profili politici, amministrativi e giuridici, intendiamo soffermarci nel prosieguo della nostra trattazione.

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