1. L’Impero protestante, marittimo e commerciale
2.1. L’Impero commerciale
Alla dimensione marittima dell’Impero Britannico risulta legata la sua caratterizzazione commerciale. Una delle più evidenti peculiarità che distinguono la struttura imperiale britannica rispetto agli altri modelli coloniali europei è, infatti, rappresentata dal particolare valore attribuito alle finalità commerciali in vista della sua configurazione e del suo sviluppo.
La dimensione mercantile caratterizzerà in misura decisiva soprattutto la seconda fase dell’Impero, nella quale, dopo la perdita delle colonie americane, le attenzioni della madrepatria si sposteranno in maniera preponderante verso il continente asiatico e, in particolare, verso l’India. In questa fase, alla nuova focalizzazione degli interessi geopolitici britannici corrisponderà un aggiornamento del modello politico e amministrativo dell’Impero, che prenderà forma in una sempre maggiore attenzione al controllo indiretto di strategici punti di interesse commerciali e su una relativa autonomia interna delle singole colonie più che su uno stretto controllo territoriale e politico, il cui tentativo di instaurazione aveva condotto alla fine
32
della prima fase imperiale104. La definitiva adesione ai princìpi del libero mercato nel secondo
Impero Britannico, inoltre, conferma il raggiungimento di una piena dimensione commerciale. Come ci accingiamo a evidenziare, tuttavia, la prospettiva commerciale risulta apprezzabile anche nel contesto storico che vede l’oceano Atlantico diventare una via percorsa da mercanti britannici impegnati nelle operazioni di commercio con le colonie nord-americane e caraibiche. Tra i tanti studi aventi a oggetto la descrizione dell’impatto delle dinamiche commerciali nelle relazioni atlantiche, riportiamo qui la ricostruzione effettuata da Douglas Farnie in “The
Commercial Empire of the Atlantic, 1607 – 1783”105. Farnie introduce la sua analisi con un esame
del profilo storico che ci consente di prestare attenzione a una considerazione che risulterà decisiva per la differenziazione del modello imperiale britannico da quello spagnolo e, in particolare, per la sua piena caratterizzazione in senso commerciale. Dopo aver definito l’espansione britannica nel Nuovo Mondo come una naturale conseguenza di una serie di avvenimenti europei occorsi nei secoli XIV, XV e XVI – tra i quali spiccano la perdita di influenza in Francia e, al contrario, il raggiungimento di un potere sempre più rilevante nei territori del Galles e dell’Irlanda – l’autore si sofferma brevemente sull’importanza storica della differenza geopolitica ed economica esistente tra le colonie spagnole del Sud America e quelle inglesi del Nord:
The English were inspired by a desire to gain access to the wealth of the Indies. But they did not discover any gold or silver mines; they did not capture the spice trade; they did not discover the North-West Passage to the South Sea; they did not breach the trade monopoly of Spain, the China of the West, before the 1800’s. Nevertheless they accomplished a vast lateral extension of the sphere of English power and enterprise into the undeveloped coastlands of the Americas. In that New World they found no silver but the soil itself106.
La circostanza fortuita dell’approdo degli Inglesi su un territorio che non possiede, a differenza delle zone meridionali del continente americano controllate dagli Spagnoli, risorse minerarie che possano arricchire immediatamente la madrepatria, risulta essere un fattore fondamentale nella creazione di un modello imperiale di stampo commerciale. Anche Anthony Pagden, studioso degli imperi e, in particolare, delle loro caratterizzazioni ideologiche, sottolinea l’importanza di tale circostanza fino al punto di arrivare a considerarla come la precondizione necessaria allo sviluppo della differenziazione tra le due costruzioni – britannica e spagnola – e
104 Approfondiremo in seguito la natura del modello di governo indiretto instaurato dalla potenza
britannica sulle colonie da essa controllate. Si veda infra, pp. 59-67.
105 D. A. Farnie, “The Commercial Empire of the Atlantic, 1607 – 1783”, in The Economic History Review,
Vol. 15, no. 2 (1962), pp. 205-218.
33
all’emergere della peculiarità del primo modello. Egli si impegna innanzitutto a dimostrare che la predilezione britannica per il commercio, più che frutto di un’indole innata del popolo nord- europeo o di una sua caratteristica culturale, deriva da avvenimenti del tutto casuali107. Le prime
missioni esplorative inglesi del XVI secolo, infatti, non risultano mosse da spirito mercantile, quanto, piuttosto, da una volontà di scoperta di risorse minerarie complessivamente simile a quella dimostrata nelle omologhe spedizioni spagnole. Le spedizioni di Martin Frobisher nel Newfoundland, di Robert Johnson in Virginia e del più esimio tra i primi esploratori inglesi – Walter Raleigh – appaiono votate esclusivamente alla ricerca di metalli preziosi. Che tale sia la volontà degli stessi governanti inglesi risulta inoltre dimostrato dall’esecuzione, su ordine della Corona, dello stesso Raleigh a seguito dell’ormai conclamata inesistenza di risorse minerarie nelle colonie del Nord America. Anche Adam Smith, come riporta Pagden, parla della scoperta di oro e argento nei territori meridionali nei termini di un vero e proprio dono ricevuto dagli Spagnoli per opera della Fortuna108.
Solo una volta acclarata la deficienza di metalli preziosi, gli Inglesi – come, del resto, i Francesi – iniziano a considerare le proprie colonie come fonti di ricchezza agricola e commerciale e, per di più, a reputare l’oro e l’argento dei territori spagnoli come una maledizione i cui effetti sono stati fortunatamente scongiurati.
Il binomio tra agricoltura e commercio fornisce la chiave di lettura più precisa per l’interpretazione della struttura economica del Primo Impero Britannico. Che il modello coloniale atlantico non risulti configurato in versione puramente commerciale, ma rimanga fortemente legato anche alla dimensione agricola appare ben evidenziato, infatti, dagli studi di P. J. Cain e A. G. Hopkins109. I due studiosi, impegnati nell’approfondimento dell’influenza dei
fattori economici nella costruzione del modello coloniale britannico, si pongono l’obiettivo di confutare la tesi ricorrente della supposta inscindibilità tra questo e la struttura economica capitalistica di stampo industriale. Cain e Hopkins dimostrano come le categorie non-industriali dell’agricoltura e, successivamente, della fornitura di servizi, sulle quali trova fondamento l’economia britannica dalla fine del XVII secolo fino alla metà del XIX secolo, costituiscano la base della costruzione dei rapporti della madrepatria con le sue colonie e, quindi, della costruzione dei connotati elementari del relativo modello imperialistico. Tali forme di capitalismo non- industriale, insomma, non appaiono come meri predecessori della rivoluzione industriale, ma contribuiscono in misura determinante a delineare la configurazione dell’Impero Britannico. In particolare, esse generano il modello economico del cosiddetto “gentlemanly capitalism”, il
107 Si veda A. Pagden, Signori del Mondo, cit., p. 123. 108 Ivi, p. 124.
109 Si veda P. J. Cain e A. G. Hopkins, “Gentlemanly Capitalism and British Expansion Overseas – I. The Old
34
quale caratterizzerà non solo la vita economico-culturale e i rapporti di potere interni alla madrepatria, ma configurerà un rapporto del tutto peculiare nel panorama del colonialismo europeo tra quest’ultima e i suoi possedimenti d’oltremare.
La forma più rilevante di capitalismo nella Gran Bretagna del XVII secolo è legata alla rendita derivante dal possesso di grandi appezzamenti terrieri in capo a una élite di origine aristocratica. Già in questo periodo, tuttavia, come sottolineano gli autori, questo gruppo di proprietari abbandona l’originaria mentalità feudale per abbracciare un’autentica filosofia di mercato. Il retaggio culturale dell’antico feudalesimo continua, però, a manifestare i propri effetti nella formazione del paradigma del “gentlemanly capitalism”, il quale risulta caratterizzato, in primo luogo, dall’adesione alle vecchie e pre-capitalistiche nozioni di ordine, autorità e status e, in secondo luogo, da una generale predilezione per la rendita fondiaria traducibile in un sostanziale disprezzo per la produzione industriale e il lavoro necessario al trarre profitto da essa. Il rango di “gentleman”, in questa fase storica, può essere raggiunto solo dalla rendita proprietaria o da altre tipologie di investimento; il lavoro finalizzato alla produzione industriale viene percepito come un fattore di diminuzione del livello di prestigio personale110. Gli appartenenti a tali classi
sociali, inoltre, sono in questo periodo i naturali detentori delle più alte cariche pubbliche: il legame tra sfera politica ed economica si dimostra solido, in quanto poggiato stabilmente sul modello culturale del capitalismo non-industriale.
Oltre alla dimensione agraria, inizia già dal XVII secolo ad acquisire importanza, come evidenzia lo studio di Cain e Hopkins, un'altra forma di attività economica che caratterizzerà lo scenario britannico fino al presente: le attività bancarie, finanziarie e commerciali aventi sede principale nella città di Londra. Esse risultano, infatti, legate sia alla branca della rendita agraria sia, di conseguenza, al modello del “gentlemanly capitalism”:
High status could also be achieved by those who were “something in the City” or who, as large merchants, managed to distance themselves from the “shopocracy” of the nation. […] Although the City was a centre of “entrepreneurial” activity in Weber’s sense, it rapidly became, in its higher reaches, a branch of gentlemanly capitalism and, as such, exercised a disproportionate influence on British economic life and economic policy – making. Bankers and financiers often rose to prominence in societies
110 Ivi, p. 506: “Capitalists could remain (or become) gentlemen if they derived incomes from agricultural
or urban property or if they were rentiers drawing on other types of investment, whether public or private. Some non-industrial occupations, because of their remoteness from the world of everyday work and their ability to generate high incomes, also came nearer to the gentlemanly ideal than did the “vile and mechanical” world of manufacturing”.
35
dominated by aristocrats because the aristocracy’s propensity for “generosity”
promoted indebtedness111.
Londra, in fin dei conti, grazie soprattutto alla naturale tendenza all’indebitamento dell’aristocrazia, diviene il centro delle attività bancarie del regno, le quali portano con sé ulteriori forme di investimento di tipo finanziario e commerciale. La nascita e lo sviluppo di un siffatto ambiente economico, tuttavia, non conduce, almeno in questa prima fase della storia moderna britannica, a un abbandono del modello del “gentlemanly capitalism”. In presenza di una struttura economica e culturale così consolidata, l’opinione prevalente secondo la quale la rapida crescita del capitalismo industriale caratterizzi lo sviluppo britannico interno e, di conseguenza, esterno risulta, agli occhi di Cain e Hopkins, in qualche modo semplificatoria. Il modello capitalistico non industriale - agrario, commerciale e finanziario – influisce anche sul rapporto tra la madrepatria e le sue colonie. Fino alla metà del XIX secolo, infatti, la priorità della politica coloniale britannica è rappresentata dalla ricerca di territori particolarmente adatti alle coltivazioni di larga scala, dal consolidamento in esse di una struttura politico-amministrativa capace di garantire la tranquillità politica necessaria al buon andamento degli investimenti economici e dalla contemporanea ricerca del controllo su aree particolarmente importanti, soprattutto per la posizione geografica, sotto il profilo commerciale. Nelle cosiddette Indie Occidentali e nelle colonie del Nord America, quindi, viene consolidato un sistema fondato principalmente sulle grandi piantagioni di zucchero, tabacco e cotone, e viene sviluppata la conseguente attività commerciale. Anche nelle colonie sostanzialmente prive di veri e propri insediamenti britannici, quali l’India, la priorità della madrepatria appare ben rappresentata dall’affermazione di politiche volte all’estensione delle proprietà terriere in capo ai coloni e alla difesa di quest’ultime attraverso l’instaurazione di un sistema di governo indiretto, sul quale ci soffermeremo nel prosieguo della nostra ricerca.
Il commercio svolge in questo contesto una funzione decisiva per gli stessi interessi dei grandi proprietari terrieri dell’aristocrazia britannica. Costoro, infatti, emergono a tal proposito sia per il coinvolgimento attivo nelle dinamiche commerciali, cioè nella produzione di beni a esse destinati, sia sotto il profilo passivo, cioè per il fatto di costituire, in quanto rappresentanti delle classi più ricche dell’Impero, i soggetti più inclini all’acquisto di beni provenienti dalle colonie. Nell’analisi di Cain e Hopkins, d’altro canto, il commercio svolge un’ulteriore funzione, diversa da quella puramente economica e sicuramente di maggior rilevanza nella fase della prima modernità: esso costituisce, infatti, uno strumento di garanzia della difesa nazionale e della stabilità domestica britannica. In particolare, le attività commerciali assicurano le entrate
36
economiche richieste dal bilancio della madrepatria, scongiurando così la necessità di un innalzamento dell’imposta agraria naturalmente malvista dai grandi proprietari terrieri. Nasce così, in questa fase storica, il sistema di politiche protezionistiche, basato sostanzialmente sull’imposizione di tasse doganali e di accise, che prende il nome di “mercantilismo” e che caratterizza la politica estera non solo britannica, ma di quasi tutte le potenze europee112.
L’esistenza di questo insieme di entrate provenienti dal commercio internazionale viene a rappresentare, inoltre, una garanzia per gli investimenti dei banchieri londinesi, di cui i governi britannici si servono costantemente per finanziare le politiche militari e di espansione.
Il quadro dell’intreccio tra agricoltura, commercio e attività bancarie e finanziarie che caratterizza il rapporto tra madrepatria e colonie tra il XVII e il XIX secolo risulta, quindi, ben delineato da Cain e Hopkins. Non stupisce, quindi, che le politiche pubbliche britanniche siano dirette integralmente al rafforzamento della presenza coloniale e al consolidamento del sistema protezionistico: gli investimenti nelle piantagioni caraibiche e nella colonizzazione nordamericana, la creazione e lo sviluppo delle cosiddette “chartered companies”113 e
l’emanazione di disposizioni legislative ad hoc, tra le quali emergono i Navigation Acts114,
dimostrano la traduzione della mentalità protezionistiche in politiche effettive.
Merita soffermarsi sull’analisi del contesto protezionistico per sottolineare che ciò che anche Cain e Hopkins, come quasi tutti gli studiosi delle vicende imperiali dell’epoca, considerano
112 Con il termine “mercantilismo” si viene a definire un insieme di politiche caratterizzate da un deciso
intervento pubblico nell’economia e dall’adozione di strategie protezionistiche per il controllo delle frontiere commerciali nazionali. La tendenza alla sottomissione dell’economia alle esigenze della politica pubblica, che possiamo definire il motivo generale di fondo dell’approccio mercantilistico, è ben esemplificata dal principio sancito da Colbert, padre della teoria protezionistica: “Il commercio è la
sorgente delle finanze e le finanze sono il nerbo vitale della guerra”. Per una ricostruzione dell’influenza
mercantilistica all’interno del panorama britannico si veda, tra le tante opere reperibili sul tema, David Ormrod, The Rise of Commercial Empires England and the Netherlands in the Age of Mercantilism, 1650-
1770, Cambridge University Press, Cambridge, 2003.
113 Le chartered companies sono tipologie di corporazioni sviluppatesi agli inizi dell’età moderna in tutte
le potenze impegnate in operazioni di espansione commerciale esterna. Esse, sulla base dei documenti provenienti dall’autorità sovrana che ne sanciscono l’esistenza, godono di specifici diritti e privilegi ai quali corrispondono dei precisi doveri nei confronti della suddetta autorità. Quasi sempre, tali previsioni riguardanti diritti e doveri compagnia godono di validità solo per una specifica area geografica, sulla quale la compagnia viene a ottenere il monopolio della gestione dei traffici commerciali e, spesso, della gestione politico-amministrativa. Un’esauriente ricostruzione del ruolo svolto dalle chartered companies nel contesto coloniale britannico – in particolare in India - appare riscontrabile in Philip J. Stern, The Company
State. Corporate Sovereignty and the Early Modern Foundations of the British Empire in India, Oxford
University Press, Oxford, 2011.
114 I Navigation Acts, emanati dal Parlamento inglese, sono un complesso di regole teso a limitare le
possibilità di approdo delle imbarcazioni straniere presso tutti i porti britannici, compresi quelle delle colonie. Tali limitazioni sono coerenti con la politica di tipo mercantilistico che abbiamo sopra descritto, in quanto sono dirette ad alimentare il traffico commerciale nazionale a discapito degli scambi e della concorrenza a livello internazionale. Si veda Roger L. Ransom, “British Policy and Colonial Growth: Some Implications of the Burden from the Navigation Acts”, in The Journal of Economic History, vol. 28, no. 3 (1968), pp. 427-435.
37
scontato – ovvero, il sostanziale accordo di tutta la comunità politica britannica sull’opportunità dell’adozione di politiche improntate a tale modello – venga in parte smentito dall’analisi di Steve Pincus condotta in “Rethinking Mercantilism: Political Economy, the British Empire and the
Atlantic World in the Seventeenth and Eighteenth Centuries”115. Tale ricostruzione ci consentirà,
infatti, di avere un quadro più completo sul dibattito politico e ideologico intervenuto nella prima fase del colonialismo britannico sul tema del valore del commercio nella costruzione coloniale e sui suoi modelli di governo e sul rapporto tra madrepatria e colonie più opportuni per la massimizzazione degli interessi britannici.
Il mercantilismo poggia, come sottolinea Pincus, su una specifica base ideologica e su una precisa concezione statica del mondo e, in particolare, delle sue risorse naturali. Il pilastro delle teorie mercantilistiche è, infatti, rappresentato dalla teoria della scarsità delle risorse, da cui deriva la concezione della naturale limitazione delle possibilità di crescita economica. La ricchezza, legata al paradigma della proprietà terriera, risulta naturalmente finita, come finita appare la risorsa da cui dipende. La realtà economica, lungi dal poter prevedere forme di collaborazione tra i diversi soggetti protagonisti – tra i quali spiccano le nazioni -, è caratterizzata da una continua competizione diretta alla conquista dell’unico bene in grado di generare ricchezza: la terra. Il commercio, quindi, in questo contesto rappresenta un gioco a somma zero, incapace di produrre alcuna forma di plusvalore, unicamente finalizzabile all’indebolimento economico dei concorrenti nella corsa alla terra116.
A giudizio di Pincus, tale paradigma, lungi dall’essere unanimemente accettato, appare piuttosto come una delle sponde di un vivace dibattito che caratterizza lo sviluppo del modello imperiale britannico fin dai suoi albori. A essa si contrappone, infatti, una concezione delle risorse economiche meno limitata, in base alla quale la ricchezza non viene posta in esclusiva relazione con il possesso della terra e di altre risorse naturali finite, ma risulta generabile e incrementabile grazie al lavoro personale di ogni individuo. Si aprono in questo filone le porte alla teorizzazione di un paradigma fondato sul concetto di crescita economica potenzialmente infinita, nel quale il commercio viene a ricoprire un ruolo centrale non come mero strumento di guerra tra potenze coloniali, ma come vero e proprio mezzo necessario alla produzione di ricchezza. Tale modello risulterà essere il perno dello sviluppo commerciale che caratterizzerà in modo particolare la
115 Steve Pincus, “Rethinking Mercantilism: Political Economy, the British Empire and the Atlantic World in
the Seventeenth and Eighteenth Centuries”, in The William and Mary Quarterly, vol. 69, no. 1 (2012), pp.
3–34.
116 Ivi, p. 14: “Early moderns adopted an economic theory and implemented a wide variety of economic
practices […] because they were mercantilists. Fundamental to their mercantilism was a commitment that trade was a zero-sum game, a necessarily vicious competition between nation-states for a strictly finite set of economic resources generated from the land”.
38
fase storica del Secondo Impero Britannico, che, non a caso, fonderà la propria costruzione sul paradigma del libero mercato.
Sarà solo a margine della Glorious Revolution e dell’avvio di un’autentica politica pubblica espansionistica117 che il dibattito tra le due concezioni della ricchezza e del ruolo del commercio
sfocerà in una contrapposizione che caratterizzerà il nucleo del dibattito pubblico britannico. A partire da questo momento, infatti, se la “versione agraria” della ricchezza viene fatta propria dalla parte politica conservatrice dei Tories, quella commerciale diviene il vessillo degli avversari
Whigs. La generale prevalenza del modello mercantilistico si manifesta, in questo contesto, nelle
politiche del Re Giacomo II e nel consolidamento della maggioranza parlamentare nelle mani dei
Tories. Nasce, così, la spinta pubblica all’espansione coloniale, accompagnata da uno spirito
commerciale assolutamente monopolistico. Vengono costituite in questo periodo, per rispondere a tali esigenze ideali e politiche, le prime chartered companies, quali la East India Company e la Royal African Company, dotate dei più ampi poteri finalizzati alla protezione dei mercanti e delle linee mercantili tra la madrepatria e le colonie. Josiah Child, uno dei più importanti direttori dell’East India Company, rappresenta uno dei più espliciti assertori del modello mercantilistico e della convinzione che il commercio consista in un gioco a somma zero