• Non ci sono risultati.

"Gli Enti Non-Profit: prospettive di sviluppo e co-progettazione con la Pubblica Amministrazione".

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ""Gli Enti Non-Profit: prospettive di sviluppo e co-progettazione con la Pubblica Amministrazione"."

Copied!
127
0
0

Testo completo

(1)

Indice

Introduzione...pag.3

CAPITOLO 1 - Il principio di sussidiarietà orizzontale...6

1.1 Il principio di sussidiarietà...6

1.2 Il principio di sussidiarietà orizzontale...13

CAPITOLO 2 - Il Terzo Settore (o settore Non-Profit)....20

2.1 Nascita e caratteristiche...20

2.2 Ambito di operatività...25

2.3 Le principali tipologie di Imprese Non-Profit...28

2.3.1 Le Ipab...42

2.3.2 Le imprese sociali...44

2.4 Il contesto sociale odierno...46

2.5 Il Terzo settore e la Pubblica Amministrazione...49

2.5.1 Il rapporto con l'ente pubblico...52

CAPITOLO 3 - La programmazione sociale...56

3.1 Il ruolo dell'amministrazione centrale...60

3.2 Il ruolo del Terzo settore...63

3.3 La programmazione substatale...65

3.3.1 La programmazione degli Enti locali...66

(2)

CAPITOLO 4 - I servizi sociali...73

4.1 I servizi sociali: l'evoluzione normativa...73

4.1.1 Il profilo sociale in ambito europeo...81

4.2 La disciplina dei servizi sociali...84

4.3 Il ruolo del Terzo settore nei servizi sociali...91

4.4 Gli strumenti per la coprogettazione...96

CAPITOLO 5 - Un esempio pratico...109

5.1 La Convenzione tra i Comuni della Zona

Livornese...111

5.2 La Convenzione tra il Comune di Livorno e l'AUSER

di Collesalvetti...118

Conclusioni...122

(3)

Introduzione.

L'argomento oggetto della tesi riguarda un settore che produce beni e servizi dalle caratteristiche peculiari e che negli ultimi decenni si è trovato al centro dell'attenzione di politici, amministratori e della stessa opinione pubblica: il Terzo Settore (o settore Non-Profit).

Esso si è sviluppato come un vero e proprio settore della società civile, accanto a quelli “tradizionali” dello Stato e del Mercato, ed è costituito da un insieme di organizzazioni che, senza finalità di lucro, producono servizi di utilità collettiva.

Nell'esaminare l'argomento, ho posto l'attenzione sulla natura dei rapporti che intercorrono tra i soggetti del Terzo Settore e la Pubblica Amministrazione, in particolare sul tema dei servizi sociali, sottolineando come i rapporti tra i due dovrebbero andare nella direzione di colmare le lacune molto spesso lasciate dalla Pubblica Amministrazione, intervenendo laddove quest'ultima non trova le risorse, fornendo le conoscenze necessarie in settori dove le istituzioni pubbliche sono carenti, indicando delle proposte innovative in un'ottica di collaborazione e cooperazione.

(4)

esperienze di collaborazione è l'adozione di un approccio fondato sulla contaminazione di saperi, competenze e pratiche che costituiscono un valore aggiunto nelle azioni di progettazione, formazione e pianificazione delle politiche pubbliche per lo sviluppo locale.

In questa prospettiva il Terzo Settore non deve essere considerato un semplice “braccio operativo” della Pubblica Amministrazione, bensì un ambito composto da una pluralità di soggetti, caratterizzati da diversi strumenti e modalità organizzative, ma con un obiettivo comune, cioè quello di costruire un modello basato su equità e solidarietà che si realizzi attraverso le modalità della partecipazione.

In questo senso con la riforma costituzionale del 2001, ed in particolare con l'art.118 della Costituzione, si sono aperti nuovi ambiti di confronto e collaborazione tra le parti.

Infatti con il principio di sussidiarietà orizzontale si è valorizzata l'autonoma iniziativa dei cittadini, sia come singoli sia come associati, nell'esercizio delle attività di interesse generale e si è auspicato che alla cura di bisogni collettivi provvedano anche direttamente i cittadini, con loro proprie iniziative, dotandosi dell'organizzazione e dei mezzi adeguati e usufruendo dell'aiuto, laddove sia necessario, delle organizzazioni pubbliche.

(5)

Le persone riacquistano in questo modo una nuova centralità, che sarà diversa a seconda del contesto non-profit nel quale si inseriscono, sia questo una Cooperativa, un'Organizzazione di volontariato, un'Associazione, una Fondazione, un'Organizzazione non governativa, un Comitato o una Onlus.

Infatti sono convinta che il Terzo Settore, grazie alla sua vocazione solidaristica, alla capacità di coinvolgere le persone, di leggere i bisogni e costruire risposte concrete ma soprattutto grazie alla sua capacità di pianificazione “partecipata”, sia una risorsa che possa offrire un contributo determinante nello sviluppo del nostro Paese.

Nella seconda parte della tesi ho quindi analizzato un esempio pratico di intervento del non-profit nel settore socio-assistenziale, sottolineando come questo sia un'esperienza di collaborazione che consente di intervenire a livello locale, completando e migliorando le reti delle grandi strutture pubbliche.

(6)

CAPITOLO 1

Il principio di sussidiarietà orizzontale.

1.1 Il principio di sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà è un principio che si è affermato progressivamente nella società moderna e contemporanea, e viene solitamente definito come quel principio regolatore per cui se un ente che sta “più in basso” è capace di fare qualcosa, l'ente che sta “più in alto” dovrà lasciargli questo compito, eventualmente sostenendone anche l'azione.

Il fondamento storico di questo principio si rinviene in numerosi documenti pontifici, ma la formulazione classica e più nota è quella contenuta nell'enciclica “Quadragesimo Anno” di papa Pio XI del 1931, dove si afferma esplicitamente che “siccome non è

lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”.

Si sosteneva quindi che le società di ordine superiore dovessero aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori e allo stesso tempo si indicava un dovere di non ingerenza della realtà superiore rispetto a quella inferiore.

(7)

Tale concetto viene ripreso anche in Assemblea costituente dove si introdusse la problematica del ruolo delle formazioni sociali nelle attività di solidarietà sociale e più in generale nelle azioni di interesse pubblico; tuttavia la sussidiarietà quale principio giuridico rimase sostanzialmente assente dall'ordinamento fino agli anni novanta, quando, dapprima con la legge n.59/1997 (Legge Bassanini) e poi con il d.lgs. n.267/2000 (Testo Unico enti locali), si riconobbe espressamente per la prima volta il ruolo del corpo sociale nelle attività di interesse pubblico.

Del principio di sussidiarietà si parla anche nella Costituzione Italiana (nel testo modificato dalla legge cost. n. 3/2001) in tre diversi contesti:

- innanzitutto, ai fini della distribuzione delle funzioni amministrative tra i vari livelli di governo territoriale e i relativi enti nei quali si articola la Repubblica (art.118, co.1);

- poi, come principio ispiratore delle attività dei pubblici poteri intese a favorire lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei cittadini, sia come singoli sia come associati (art.118, co.4);

- ed infine come principio che, unitamente a quello di leale collaborazione, deve essere seguito nell'esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Governo nei confronti degli enti

(8)

territoriali, e deve essere rispettato dal legislatore nel dettare la disciplina di detti poteri (art.120, co.2).

Come si vede, in tutti questi contesti, tale principio viene ad incidere sulla dislocazione, sull'esercizio o sullo svolgimento di attività di carattere amministrativo.

Più specificatamente il primo di questi contesti (riferito all'art.118, co.1) attribuisce le funzioni amministrative alla organizzazione di governo territorialmente più prossima agli amministrati. Questa regola viene tuttavia derogata nel caso in cui sia necessario assicurare l'esercizio unitario di una determinata funzione a livello provinciale, regionale o nazionale: cioè il legislatore attribuisce la titolarità di una determinata funzione amministrativa all'uno o all'altro ente di governo a seconda della dimensione dell'interesse curato.

Dunque questo criterio di decentramento-autonomia locale viene inteso come applicazione del principio di sussidiarietà: per cui lo Stato e la Regione devono conferire le funzioni amministrative nelle materie di loro competenza, non ad organi ed uffici di loro emanazione inseriti nella loro organizzazione, ma agli enti locali. Si sottolinea poi che tale principio opera nel nuovo testo costituzionale unitamente ai principi di differenziazione ed adeguatezza: il primo impone al legislatore di tenere conto, nel

(9)

momento in cui imputa le funzioni amministrative ai diversi enti, anche della rispettiva capacità di governo, che dipende dalle dimensioni organizzative, dall'entità del personale e dei mezzi e così via. Mentre il principio di adeguatezza si traduce nella politica delle aggregazioni comunali fondate sull'associazionismo; per cui certe funzioni, che dovrebbero essere esercitate a livello comunale e che invece richiedono una certa organizzazione, presuppongono che gli enti si aggreghino tra loro (cioè può accadere che l'ente di governo territoriale non presenti una capacità di governo adeguata: in tal caso la funzione viene conferita all'ente di governo di livello superiore).

Nel secondo contesto (art.118, co.4) la sussidiarietà investe la problematica dei rapporti tra pubblico e privato: il pubblico dovrà infatti sussidiare il privato nell'esercizio di attività di interesse generale.

E di tali attività svolte da privati, i pubblici poteri dovranno tenere conto nell'organizzazione e nel dimensionamento stesso della propria attività: laddove siano operanti in modo adeguato dei soggetti privati di pubblica utilità, non è possibile per un ente pubblico intervenire successivamente ed in via di sostituzione, riducendo lo spazio o addirittura estromettendo le formazioni private espressione della realtà sociale (si prevede infatti uno

(10)

specifico obbligo di motivazione a carico degli enti pubblici nel caso in cui assumano direttamente un'attività di interesse generale già esercitata da un soggetto privato).

Infine, l'ultimo contesto nel quale si esplica il principio di sussidiarietà è quello dell'art.120, co.2, dove si prevede un potere sostitutivo a carattere generale in capo al Governo nell'esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti locali del governo territoriale.

Tale potere viene solitamente esercitato a fronte di una situazione di inadempimento da parte degli enti “nel rispetto del principio di leale collaborazione”, cioè deve essere sempre il frutto di una qualche forma di concertazione con gli enti interessati. La previsione di questi poteri sostitutivi, tra l'altro, può essere concepita come il potere di intervenire nella sfera amministrativa riservata ad un ente diverso da parte dell'ente superiore, nella carenza di attività del primo.

Il principio di sussidiarietà, insomma, trova la sua ragion d'essere in una concezione della società e del suo sistema di governo intesa a valorizzare al massimo le autonome organizzazioni della società stessa operanti sul territorio: lo Stato è infatti tenuto a limitare la sua azione per favorire l'autonoma espressione dei corpi sociali nella cura dei loro interessi, sia che si tratti di corpi

(11)

sociali che si identificano in comunità territoriali dotate di proprie organizzazioni di carattere pubblico (i comuni e le province), sia che si tratti di corpi sociali espressione diretta della società civile aventi carattere privatistico (che si fanno carico da soli della cura dei propri interessi).

Pertanto c'è una limitazione dello Stato a favore dei corpi minori ma, allo stesso tempo, un suo obbligo ad intervenire a favore di essi laddove sia necessario.

Sussidiarietà, infatti, non significa né residualità delle organizzazioni dei cittadini né delega in bianco ad esse di responsabilità istituzionali, ma piuttosto esprime la connessione tra gli attori della comunità e il fatto che ci si faccia carico dei bisogni e dei problemi della società avendo una visione complessiva degli stessi su un determinato territorio, evitando di operare isolatamente, avendo un'agenda di intenti e coordinandosi con le altre risorse singole o collettive.

Infatti un'organizzazione di governo è legittimata, e allo stesso momento tenuta, a intervenire con la sua azione in aiuto o in favore di un'altra che sia dotata di minore capacità di governo (poiché ad esempio non ha mezzi o organizzazione sufficienti), anche in settori di attività che sarebbero di competenza di quest'ultima.

(12)

Con questo principio il cittadino, singolo o associato, diventa il fulcro a fronte del quale verificare la legittimità dell'azione delle istituzioni pubbliche tanto nel ripartire le funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, quanto in relazione all'obbligo cui sono tenuti tutti i poteri a favorire l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, finalizzata allo svolgimento di attività di interesse generale.

La sussidiarietà diventa dunque un parametro della validità dell'azione dei pubblici poteri.

Infine, non si potrà fare a meno di sottolineare che tale principio di sussidiarietà contiene due significati: uno negativo, nella parte in cui limita l'azione delle organizzazioni di governo di livello superiore (e quindi dello Stato), nei confronti delle organizzazioni minori e delle organizzazioni sociali; e un significato positivo laddove consente alle organizzazioni di governo di livello superiore di intervenire con la propria azione in favore e a sostegno delle organizzazioni minori.

Nel primo senso si parlerà di principio sussidiarietà verticale, mentre nel secondo senso di principio di sussidiarietà orizzontale1.

(13)

1.2 Il principio di sussidiarietà orizzontale.

Il principio di sussidiarietà nella sua versione “orizzontale”, prima dell'entrata in vigore della Legge 3/2001, era già richiamato nell'art.4, co.3, della Legge 59/1997 (Legge Bassanini), secondo il quale il conferimento di funzioni agli enti deve osservare, tra gli altri, il principio di sussidiarietà, “attribuendo le responsabilità

pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. In realtà anche il Testo Unico sugli

enti locali (D.lgs. 267/2000, art.3, co.5) con una formulazione analoga, stabilisce che “I Comuni e le Province svolgono le loro

funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali”.

Successivamente, con la riforma del titolo V della Costituzione, tale principio di sussidiarietà orizzontale ha avuto un riconoscimento anche a livello costituzionale tramite l'articolo 118, co.4, inserendosi nei rapporti tra pubblico e privato, descrivendo un rinnovato modello del rapporto tra Stato e cittadini in direzione di una valorizzazione dell'autonoma iniziativa di questi ultimi, sia come singoli sia come associati,

(14)

nell'esercizio delle attività di interesse generale e auspicando che alla cura di bisogni collettivi provvedano anche direttamente i cittadini, con loro proprie iniziative, dotandosi dell'organizzazione e dei mezzi adeguati e usufruendo dell'aiuto, laddove sia necessario, delle organizzazioni pubbliche.

Articolo, il quale espressamente stabilisce che: “Stato, Regioni,

Città metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Si nota da subito la novità che viene introdotta e cioè che non si mira alla esclusione del settore pubblico dai settori di interesse generale, ma, al contrario, si potrebbe parlare di una vera e propria collaborazione tra soggetti pubblici e privati che ha come obiettivo l'elaborazione e lo sviluppo di strategie comuni di azione in rilevanti settori di interesse generale, prospettando un miglioramento dei servizi2.

Tale articolo è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento, ma deve essere interpretato in maniera coerente anche con i principi fondamentali della Costituzione.

Fra questi è possibile individuare un legame fra il principio di sussidiarietà orizzontale e il dovere di solidarietà (espresso 2 Renato Cameli, “La sussidiarietà orizzontale, ovvero un altro modo di

(15)

dall'art.2 della Costituzione3): infatti i cittadini che si attivano in

base all'art.118, co.4 esercitano una particolare forma di “libertà solidale”, perché non c'è dubbio che tra le motivazioni dei cittadini che si prendono cura dei beni comuni vi è il senso di responsabilità e la solidarietà nei confronti della comunità di appartenenza.

Un altro legame con i principi fondamentali emerge leggendo il co.2 dell'art.4 della Costituzione, secondo il quale “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: in tal senso, realizzare la sussidiarietà orizzontale è sicuramente uno dei modi più efficaci per contribuire al miglioramento della comunità di appartenenza. Ma i legami più significativi sono quelli fra il principio di sussidiarietà e quello di uguaglianza sostanziale espresso dall'art.3, co.2, il quale dispone che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, 3 Art.2 Cost. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo,

sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

(16)

economica e sociale del Paese”.

Mentre finora si poteva ritenere che solo i poteri pubblici potessero provvedere in tal senso, ora, grazie al principio di sussidiarietà, la Repubblica ha trovato degli “alleati” che si assumono l'onere di contribuire al compito di creare le condizioni per la piena realizzazione di ciascuno dei cittadini; grazie all'art.118, co.4 la cittadinanza attiva viene ora legittimata anche sul piano costituzionale come componente essenziale di un nuovo sistema di governo, allargato e partecipato.

Tale principio viene dunque ad inserirsi nei rapporti tra amministrazione pubblica e privata iniziativa, valorizzando la sfera privata nel momento in cui quest'ultima possa essere utilmente esercitata nell'interesse generale e riconoscendo il valore delle attività dei cittadini, trasformandoli in alleati dei soggetti istituzionalmente preposti alla realizzazione dell'interesse pubblico.

Dunque la norma stabilisce per la prima volta il principio che le attività di interesse generale non sono monopolio dei pubblici poteri, ma possono essere svolte anche da privati.

L'oggetto del favorire è quello dell'autonoma iniziativa dei cittadini nell'esercizio di “attività di interesse generale”: tali attività non si riferiscono ai servizi pubblici a carattere

(17)

industriale, commerciale ed alle attività di impresa ma consistono in operazioni supportate da attività negoziali, caratterizzate dalla non essenzialità del fine di lucro e rispondenti ai bisogni emergenti dalla realtà storico-sociale. Possono comprendere alcuni tipici settori, da quello dell'assistenza e cura dei disabili, degli anziani e degli infermi, a quello della manutenzione e cura dei beni culturali, dell'ambiente e dei beni pubblici in generale, a quello dell'organizzazione di programmi di ricerca scientifica e di manifestazioni culturali4.

L'elemento centrale del rapporto delineato dall'art.118, co.4 Costituzione è la definizione di un vero e proprio obbligo giuridicamente rilevante a carico degli enti, obbligo che assume significati diversi in relazione alle varie esigenze: anzitutto esso comporta la predisposizione di condizioni idonee affinché i cittadini (come singoli e come formazioni sociali) siano favoriti nell'assunzione dell'esercizio delle attività di interesse generale e, in secondo luogo, nella fase successiva al sorgere di tali iniziative, l'obbligo può manifestarsi nella predisposizione di infrastrutture, agevolazioni, erogazione di fondi, fino alla dislocazione del personale dall'ente. In definitiva, laddove operino adeguatamente dei soggetti privati in settori di pubblica utilità, non è 4 Vedi “Enciclopedia Giuridica”, cap.3 “”Il problema del rapporto tra pubblici

(18)

consigliabile per un ente pubblico intervenire in via sostitutiva, riducendo o estromettendo le formazioni private espressione della realtà sociale.

È evidente quindi che la corretta applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale comporta una vera e propria riduzione della sfera del pubblico nell'esercizio delle attività di interesse generale, in quanto l'autonoma iniziativa dei privati acquista sempre più rilievo, anche in settori finora riservati alla competenza esclusiva degli apparati amministrativi, poiché attraverso di essa è possibile soddisfare i bisogni collettivi, cioè realizzare delle utilità generali.

Tutto ciò nella consapevolezza, per un verso, della crisi dello Stato e della sua incapacità di portare reale benessere ai soggetti sociali più deboli; e, per altro verso, del fatto che lo Stato è comunque il soggetto politico in grado di vigilare affinché comunità locali e associazioni intermedie non siano strumento di disuguaglianza sociale, di clientelismo e di particolarismo.

Si potrebbe quindi parlare di una nuova concezione di privato cittadino inteso innanzitutto come partner di una Pubblica Amministrazione chiamata a rimuovere gli ostacoli che di fatto possano limitare l'avvicinamento tra lo stesso cittadino e le Istituzioni, e in secondo luogo come soggetto capace di

(19)

concorrere in prima persona alla tutela degli interessi collettivi. La sussidiarietà viene quindi intesa come una nuova forma di esercizio della sovranità popolare, a completamento delle forme tradizionali della partecipazione politica e della partecipazione amministrativa: le funzioni pubbliche infatti, laddove sia possibile e conveniente, devono poter essere svolte in via primaria dagli stessi cittadini, attraverso le loro formazioni sociali, adeguatamente sostenuti allo scopo dalle Amministrazioni pubbliche.

È proprio in questo contesto che opera il Terzo Settore (denominato anche Settore Non-Profit), il cui sviluppo si accompagna ad un orientamento che gli attribuisce un ruolo decisivo nella realizzazione di un sistema di servizi che diano risposta ai bisogni emergenti della società.

(20)

CAPITOLO 2

Il Terzo Settore (o settore Non-Profit).

2.1 Nascita e caratteristiche.

Con il termine “Terzo Settore” si intende quel complesso di enti privati che si pongono all'interno del sistema socio-economico e si collocano tra Stato e Mercato, orientati alla produzione di beni e servizi di utilità sociale.

Tale espressione, utilizzata per la prima volta nella metà degli anni Settanta in ambito europeo, definisce il settore “negativamente”, ovvero qualificandolo come “Terzo” rispetto ai due settori tradizionali, cioè lo Stato e il Mercato5.

Tale posizionamento deriva da un'interpretazione della sua esistenza, che sostiene da un lato, che esso nasca in risposta all'impossibilità dello Stato di far fronte all'intera domanda di beni pubblici espressa dai cittadini; dall'altro, che si origini in risposta al fatto che esistono dei bisogni che non sono soddisfatti dalle imprese, proprio perché esse stesse non potrebbero ottenere alcun profitto; in situazioni come queste, per ovviare a questa mancanza, interviene il Terzo Settore.

In realtà il legislatore non ne ha mai fornito una definizione valida 5 Vedi Unicredit Foundation “Ricerca sul valore economico del Terzo Settore in

(21)

in generale, ma questa esigenza viene oggi avvertita come non più rinviabile.

Si è avuta finora una numerosa legislazione speciale, nata a causa della inadeguatezza del Codice Civile del 1942 a regolare le nuove forme di aggregazione della società civile racchiuse nell'ambito del Terzo settore: infatti l'impostazione di fondo del codice tra le “società aventi scopo di lucro” e “gli altri enti” risulta da sempre sfavorevole alle entità intermedie tra cittadino e Stato e quindi alla galassia del Terzo settore.

La sua affermazione si è tra l'altro legata all'evolversi della forma stessa di Stato: in particolare il Terzo settore emerge nel momento della crisi dello Stato sociale, quando quest'ultimo non è più in grado di garantire i diritti sociali per il benessere individuale e della società che la Costituzione proclama, e quando non è più in grado di corrispondere alle aspettative richieste. Emerge così un soggetto terzo in grado di dare risposta ai bisogni sociali nati dai fallimenti dello Stato e del mercato.

La crescita del settore non-profit è un fenomeno che, dalla fine degli anni Settanta, interessa tutti i paesi europei.

Nonostante inizialmente l'azione delle organizzazioni non-profit si configurasse soprattutto come intervento di tipo assistenziale, si andava sempre più delineando la fase del riconoscimento di tali

(22)

organizzazioni, che iniziò nel 1988, quando la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo l'art.1 della Legge Crispi, secondo cui tutte le organizzazioni che operavano nell'ambito dei servizi sociali dovevano assumere uno statuto pubblicistico. Venne pertanto riaffermata la legittimità dei privati di costituire e gestire organizzazioni impegnate nella produzione di servizi sociali senza fine di lucro.

Successivamente, nel 1991, il riconoscimento del settore non-profit ha fatto un ulteriore passo in avanti attraverso due fondamentali provvedimenti legislativi che si ponevano l'obiettivo di legittimare, da un lato, e regolare, dall'altro, le due principali forme organizzative che si erano fino a quel momento sviluppate: le organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali.

Infine, il periodo che va dall'approvazione delle due leggi di settore ad oggi è caratterizzato da un'accelerazione della struttura del settore.

In questo contesto le imprese del Terzo Settore svolgono attività capaci di rispondere a particolari bisogni dei cittadini, attività che non sono in grado di produrre profitti; per questo motivo vengono definite “non-profit”. Pertanto la loro distintività non risiede tanto in ciò che fanno (produzione o erogazione di beni e servizi), ma piuttosto nella modalità attraverso cui tali soggetti

(23)

non-profit agiscono, cioè attraverso iniziative autonome, decentrate, costruite “dal basso” e sottratte al meccanismo impersonale del mercato capitalistico.

A tale proposito si sottolineano le caratteristiche fondamentali di queste organizzazioni:

• innanzitutto l'origine del soggetto, che nasce dall'autonomia negoziale dei soggetti privati, autonomia che lo Stato riconosce e favorisce.

• In secondo luogo il campo di intervento delle organizzazioni, che si caratterizzano per la presenza diffusa in settori di forte rilievo etico e sociale (in particolare la concentrazione di tali attività nei campi più strettamente legati alla “persona” e ai suoi bisogni), e conseguentemente la particolarità di non porsi altro obiettivo che non quello di corrispondere pienamente alla realizzazione dello scopo sociale prefissato (solitamente si parla di “produzione di beni e di servizi”, intendendo non necessariamente quelli destinati ad essere venduti sul mercato, ma anche quelli che hanno una destinazione interna all'organizzazione).

• Si sottolinea poi l'assenza di uno scopo di lucro: tali enti infatti non sono destinati alla realizzazione di profitti,

(24)

perciò reinvestono gli utili interamente per gli scopi organizzativi e i loro membri non potranno trarre guadagni finanziari dal loro operato o appropriarsi di eventuali surplus da essi generati6.

• Infine, il capitale umano, che è uno degli elementi distintivi del non-profit, in quanto le motivazioni presenti negli individui che fanno parte di tali enti rivestono una particolare importanza: a tal proposito si sottolinea che la vera ricchezza del settore è costituita dalla forza lavoro volontaria. La quasi totalità delle istituzioni si avvale infatti di personale non retribuito nelle sue varie forme (servizio civile, volontari, stagisti, collaboratori), ma sono comunque presenti dei lavoratori retribuiti, la maggior parte dei quali viene assunta con contratti a tempo indeterminato (dopo un periodo di prova con contratto di collaborazione)7.

La presenza di volontari influenza inoltre l'agire organizzativo perché consentono e stimolano l'organizzazione a seguire, nella produzione di servizi, un principio di reciprocità, cioè si tende a privilegiare la

6 CNEL, “Relazione sull'economia sociale”, 24 Novembre 2004.

7 Unicredit Foundation, “Ricerca sul valore economico del Terzo Settore in Italia”, 2012.

(25)

risposta ai bisogni piuttosto che attenersi esclusivamente ai contratti stipulati con gli utenti o con le amministrazioni pubbliche. In quest'ottica la funzione dei volontari è quella di favorire lo svilupparsi di “imitazioni” del loro comportamento da parte degli operatori retribuiti e tutto ciò nell'esclusivo interesse dell'organizzazione, la quale potrà continuare a perseguire la soddisfazione dei bisogni reali dei cittadini utenti.

2.2 Ambito di operatività.

Il Terzo settore rappresenta dunque una vera modalità alternativa di azione, attivata dalla società civile e rispondente a logiche del tutto diverse dall'impresa for-profit.

Gli ambiti di operatività di queste organizzazioni senza scopo di lucro sono molteplici: i soggetti non-profit sono infatti organismi che svolgono le loro attività istituzionali come una organizzazione di stampo aziendalistico, anche se si differenziano dalle aziende per il fatto che gli utili prodotti vengono reinvestiti totalmente in attività istituzionali e le attività svolte sono dirette a soddisfare i bisogni umani della società nel suo complesso o di singole porzioni di essa, con benefiche ricadute sull'intera collettività. I principali fenomeni che hanno caratterizzato il loro nascere e il

(26)

loro sviluppo, cioè il tessuto sociale che ha dato vita a tali organizzazioni, deriva non soltanto dalla necessità di intervenire in settori in cui la presenza della Pubblica Amministrazione negli anni è venuta meno, ma anche dalla necessità di lasciare spazio alle capacità di autorganizzazione dei cittadini e permettere ad essi di intraprendere tutti i tentativi per rispondere alle esigenze della singola persona e dei gruppi sociali.

I settori in cui questi enti operano sono numerosi e spaziano dall'ambito sanitario (come le diverse associazioni di malati di malattie rare), a quello sociale (come le associazioni di tutela dei bambini o delle donne maltrattate) ed economico (come le associazioni che si occupano del commercio equo e solidale); svolgendo quindi una funzione economico sociale assai rilevante nel territorio in cui operano, in quanto gestiscono beni e servizi di pubblica utilità e di interesse collettivo.

Il non-profit infatti interviene laddove la Pubblica Amministrazione non è in grado o non ritiene di dover intervenire: va oltre un tipo di servizio standardizzato e ciò perché è mosso da convinzioni che vanno al di là del valore economico, grazie anche ad una maggiore vicinanza al territorio e alla domanda di cui è espressione.

(27)

alla funzione ricoperta dall'ente pubblico; quest'ultimo infatti mantiene la titolarità dei servizi ma si avvale della collaborazione di altri soggetti privati organizzati che operano per finalità di utilità sociale o di interesse generale.

Il compito di queste organizzazioni non è quello di smantellare le macrostrutture pubbliche, bensì quello di organizzare la coesistenza tra queste e le iniziative sociali. Queste ultime infatti hanno la possibilità di integrare e completare le reti delle grandi strutture e devono farlo anche tramite una pianificazione che non sia calata dall'alto, ma partecipata.

Perciò, le principali finalità delle organizzazioni non-profit sono molteplici: innanzitutto contribuiscono a modificare la distribuzione delle risorse e delle opportunità derivanti dall'azione congiunta di mercato e Stato; in secondo luogo possono svolgere funzioni di innovazione e flessibilizzazione dell'offerta dei servizi essendo in grado di intervenire in situazioni di disagio o svantaggio sociale, dove spesso i bisogni non sono garantiti dalla presenza pubblica; infine rispondono ad esigenze di contenimento dei costi di politiche di welfare messe in forte difficoltà dalla crisi fiscale e dagli obblighi di contenimento della spesa pubblica (connessi agli impegni presi per entrare nell'Unione Europea).

(28)

2.3 Le principali tipologie di Imprese

Non-Profit.

Passando adesso ad esaminare le tipologie di imprese non-profit, dobbiamo da subito affermare che nel nostro paese esse sono molteplici e, secondo molti studiosi, essendo una realtà economica, culturale e sociale molto ampia, sono anche in continua evoluzione.

Per esaminarle al meglio è opportuno prendere come punto di riferimento il “Primo Rapporto CNEL/ISTAT sull'economia sociale”8, il quale ha posto l'attenzione sulle dimensioni e sulle

caratteristiche strutturali delle istituzioni non-profit in Italia. Innanzitutto in tale Rapporto si premette che, con la legge 383/2000 si è giunti al riconoscimento formale del Terzo settore italiano, dopo che tale riconoscimento era stato già ampiamente attribuito dalla società civile, e che le organizzazioni rientranti in tale settore pur svolgendo attività prevalentemente orientate all'interesse sociale, di fatto concorrono in modo significativo alla “produzione di beni e servizi”, partecipando all'attuazione del principio di sussidiarietà introdotto nella Costituzione con la riforma del Titolo V.

Il Rapporto analizza l'universo delle istituzioni non-profit 8 Vedi “Primo Rapporto CNEL/ISTAT sull'economia sociale”, Giugno 2008.

(29)

classificandole, in base alla forma giuridica, come: • Associazioni di promozione sociale,

Fondazioni,

Cooperative sociali,

Organizzazioni di volontariato,

Organizzazioni Non Governative (ONG),Comitati,

ONLUS.

É necessario analizzarle più specificatamente9.

-Le Associazioni di promozione sociale possono essere definite come quelle organizzazioni in cui gli individui si associano per il perseguimento di un fine comune, purché non sia di natura commerciale. Quindi la loro valenza sociale deriva dal fatto che esse non sono assimilabili a quelle associazioni che hanno come finalità la tutela esclusiva di interessi economici dei membri (come accade ad esempio per le associazioni sindacali, di partito o di categoria).

La definizione di queste associazioni fa riferimento a quella prevista dalla legge 383/2000, secondo la quale “sono considerate

associazioni di promozione sociale le associazioni riconosciute e

9 Vedi “Primo Rapporto CNEL/ISTAT sull'economia sociale”, Parte II “Analisi settoriale delle Istituzioni Non-Profit”.

(30)

non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”10.

Questa tipologia di associazioni si caratterizza per due requisiti in particolare: lo svolgimento di un'attività sociale e l'assenza di fini di lucro. In riferimento a quest'ultimo requisito è la stessa legge che precisa quali siano le fonti di finanziamento, e cioè la possibilità di ricevere quote e contributi degli associati, eredità e donazioni, contributi dello Stato, Regioni, Enti locali o istituti pubblici, contributi dell'Unione Europea e di organismi internazionali e in generale entrate che siano comunque compatibili con le finalità sociali dell'associazionismo.

Tali associazioni di promozione sociale si costituiscono con atto scritto nel quale deve essere indicata la sede legale; inoltre nello statuto devono essere espressamente previsti: la denominazione, l'oggetto sociale, l'assenza di fini di lucro e la previsione che eventuali proventi non possono essere divisi tra gli associati, l'obbligo di reinvestire l'eventuale avanzo di gestione a favore di attività istituzionali previste, i criteri di ammissione ed esclusione degli associati e i loro diritti e obblighi ed infine l'obbligo di 10 Legge n.383/2000, art.2, co.1.

(31)

devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento, cessazione o estinzione, dopo la liquidazione, a fini di utilità sociale.

La legge 383/2000 istituisce anche un registro nazionale, al quale possono iscriversi le associazioni di promozione sociale a carattere nazionale, e un registro regionale, e prevede la necessità dell'iscrizione all'uno o all'altro registro per l'associazione che voglia usufruire dei benefici della legge (benefici che possono ad esempio consistere nella possibilità di ricevere donazioni o eredità, nel finanziamento, in particolare nell'accesso al credito agevolato, nella possibilità di ottenere riduzioni sui tributi da parte degli enti locali nelle materie di loro pertinenza).

Come per gli altri enti non-profit anche tali associazioni si avvalgono prevalentemente delle attività prestate in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati ma possono comunque assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo, anche ricorrendo ai propri associati.

I settori di attività in cui operano prevalentemente sono quelli della Cultura, sport e ricreazione, il settore della Tutela dei diritti e attività politica, quello dell'Assistenza sociale e delle Relazioni sindacali.

(32)

C'è infine da sottolineare che tali associazioni rappresentano anche uno strumento a disposizione delle Amministrazioni pubbliche per l'assolvimento di alcuni obblighi istituzionali. Nella legge 383/2000 infatti si è previsto che lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti pubblici possano stipulare convenzioni con le associazioni di promozione sociale iscritte nei rispettivi registri da almeno sei mesi. Questo perché le associazioni perseguono anche finalità che hanno grande rilevanza per l'amministrazione.

-Per quanto riguarda le Fondazioni, esse rappresentano un importante attore nel panorama del non-profit; sono definite come enti senza fini di lucro con una sorgente di reddito che viene impiegata per scopi di utilità sociale.

A differenza delle associazioni non trovano il loro fondamento nei soci e nelle attività da loro svolte, ma piuttosto nella possibilità di beneficiare di un patrimonio che dà loro un'ampia capacità finanziatrice.

Una fondazione è solitamente costituita da un fondatore tramite un atto pubblico o una disposizione testamentaria e le principali norme organizzative per il corretto funzionamento dell'ente sono raccolte nello statuto, che costituisce un complesso di norme che regolano l'attività e la struttura dell'ente. Una volta costituita è

(33)

necessario il riconoscimento giuridico nazionale o regionale per poter operare.

Solitamente esse distribuiscono le loro risorse scegliendo i loro interlocutori e valutandone i progetti; in particolare le aree in cui operano maggiormente sono la Cultura e l'Assistenza sociale, l'Istruzione e la Ricerca, dando quindi preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale.

Secondo il Rapporto del CNEL/ISTAT, le fondazioni hanno tre caratteristiche fondamentali: innanzitutto hanno una propria fonte di reddito che deriva normalmente, ma non esclusivamente, da un patrimonio (questo è un elemento necessario in quanto la legge e la giurisprudenza non ammettono fondazioni finanziate esclusivamente da contributi di terzi).

Altra caratteristica è che sono dotate di un organo di autogoverno, e l'organo di cui è obbligatoriamente prevista l'esistenza è il Consiglio di amministrazione, composto da un Presidente e da uno o più amministratori che sono responsabili verso l'ente secondo le norme del mandato (ciò significa che l'esecuzione dell'atto di fondazione e il perseguimento dello scopo non sono demandati al fondatore ma al Consiglio di amministrazione, in quanto il fondatore si è spogliato definitivamente del patrimonio conferito).

(34)

Da ultimo, le fondazioni sono caratterizzate dall'utilizzare le proprie risorse finanziarie per scopi educativi, culturali, religiosi, sociali o altri fini di pubblica utilità, sia sostenendo direttamente persone e associazioni, sia organizzando e gestendo propri programmi.

-Le Cooperative sociali invece sono state disciplinate dalla legge n.381/1991 e secondo l'art.1 di tale legge esse hanno lo scopo di perseguire “l'interesse generale della comunità alla promozione

umana e all'integrazione sociale dei cittadini”.

La disciplina normativa le definisce come soggetti di natura giuridica privata e con caratteristiche d'impresa senza finalità di lucro, a cui attribuisce la possibilità di perseguire scopi di interesse collettivo.

Da questo punto di vista le cooperative sociali rappresentano un'innovazione rispetto alle forme cooperative tradizionali; infatti mentre le cooperative tradizionali (di consumo, di lavoro, ecc.) sono società mutualistiche, cioè società che nascono per soddisfare il bisogno dei soci, offrendogli beni e servizi o occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle dettate dal mercato, le cooperative sociali, invece, nascono con lo scopo di soddisfare bisogni che non coincidono esclusivamente con quelli dei soci proprietari, bensì con quelli della comunità,

(35)

ovvero bisogni collettivi.

Il Rapporto CNEL/ISTAT elenca quattro tipologie di cooperative sociali: le “cooperative di tipo A” che svolgono attività finalizzate all'offerta di servizi socio-sanitari ed educativi; le “cooperative di tipo B” che forniscono attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate; le “cooperative di tipo misto” che svolgono entrambe le precedenti tipologie di attività; i “consorzi sociali” che sono costituiti come società cooperative con base sociale formata in misura non inferiore al settanta per cento da cooperative sociali.

Queste organizzazioni sono spesso definite come “imprese sociali” in quanto costituiscono l'anello di congiunzione fra il mondo delle imprese e quello delle organizzazioni non-profit, cioè tra interesse privato e interesse generale.

Gli statuti delle cooperative sociali possono prevedere la presenza di soci volontari che prestino la loro attività gratuitamente, tuttavia il personale che vi opera è costituito per la maggior parte dai lavoratori interinali, dai dipendenti e dai collaboratori. Inoltre nella legge 381/1991 si prevede la necessità di un albo regionale di tali cooperative, l'adozione da parte delle regioni di convenzioni-tipo per i rapporti tra le cooperative sociali e le amministrazioni pubbliche e l'emanazione di norme volte alla

(36)

promozione, al sostegno e allo sviluppo della cooperazione sociale.

Inoltre si sottolinea che le cooperative appartenenti al tipo A offrono servizi socio-sanitari ed educativi, attraverso la gestione di residenze protette, asili nido, centri diurni, comunità, presidi sanitari o prestando assistenza domiciliare ad una vasta gamma di utenti, la maggior parte dei quali si trova in situazioni di disagio o fragilità sociale. Diversamente le cooperative di inserimento lavorativo (di tipo B) forniscono opportunità di occupazione a persone svantaggiate, favorendo in tal modo l'integrazione sociale di soggetti che altrimenti rimarrebbero esclusi dal mercato del lavoro. Queste possono svolgere qualsiasi attività di impresa in campo agricolo, industriale, artigianale, commerciale e di servizi, ma sono tenute a riservare una parte dei posti di lavoro a soggetti svantaggiati (alcolisti, detenuti ed ex detenuti, disabili fisici e psichici, minori, pazienti psichiatrici, tossicodipendenti ed altre persone che, per povertà o per la perdita di una precedente occupazione, si trovano escluse dal mercato del lavoro).

-Le Organizzazioni di volontariato, invece, sono organizzazioni non-profit la cui disciplina è stata profondamente innovata con la legge n.266/1991.

(37)

organizzazioni di volontariato è concessa quando, innanzitutto, esse si avvalgano in modo determinante o prevalente di prestazioni volontarie e gratuite dei propri aderenti; quando utilizzino lavoratori dipendenti o prestazioni di lavoro autonomo “esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento”; quando prevedano espressamente “l'assenza di fini di lucro, la democraticità della struttura,...nonché la gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti”; ed infine quando rispettino “l'obbligo di formazione del bilancio, dal quale devono risultare i beni, i contributi o i lasciti ricevuti”11.

Le organizzazioni di volontariato possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro scopi e la loro azione non è rivolta solo ai propri soci ma svolgono la loro attività mediante strutture proprie o nell'ambito di strutture pubbliche o con queste convenzionate.

Secondo la legge 266/1991, le Regioni e le Province autonome disciplinano l'istituzione e la tenuta dei registri generali delle organizzazioni di volontariato, l'iscrizione nei quali è condizione necessaria per accedere ai contributi pubblici, per stipulare convenzioni e per beneficiare delle agevolazioni fiscali.

La medesima legge stabilisce che per qualificare l'attività di 11 Legge 266/1991, art.3.

(38)

lavoro volontario occorre che esso non soltanto sia prestato in modo spontaneo e gratuito esclusivamente per fini di solidarietà, ma anche che non possa essere retribuito in alcun modo (quindi che il carattere di volontario sia incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l'organizzazione di cui egli fa parte).

I settori in cui il volontariato risulta essere maggiormente presente sono quelli dell'Assistenza sociale, della Sanità e a seguire la Cultura, sport e ricreazione, l'Istruzione e la ricerca ed infine la Cooperazione e solidarietà internazionale.

Infine il Rapporto evidenzia che i volontari costituiscono la risorsa umana numericamente più consistente, poiché il ricorso a lavoratori dipendenti è un fenomeno relativamente poco diffuso tra le organizzazioni di volontariato proprio per le loro caratteristiche intrinseche, cioè il fatto di essere un'attività di sostegno e di aiuto che non risponde alla logica del profitto.

-Passando ad esaminare le Organizzazioni Non Governative (O.N.G), si sottolinea che esse sono nate intorno agli anni Settanta e svolgevano prevalentemente un'attività di sostegno del mondo missionario presente nei paesi in via di sviluppo; oggi invece sono considerate espressioni organizzate della società civile di

(39)

ispirazione anche laica impegnate sul fronte della cooperazione, in quanto contribuiscono anche all'elaborazione di strategie politiche.

I campi di intervento sono molto vasti e riguardano, a vari livelli, la politica estera, l'economia, la globalizzazione, la difesa dei diritti umani, la questione del debito estero, la pace.

Le O.N.G rientrano tra le istituzioni non-profit italiane e indicano una qualsiasi organizzazione che non sia creata da un Governo e che sia impegnata, senza alcuno scopo di lucro, nel settore della solidarietà sociale e della cooperazione allo sviluppo.

Queste loro attività di cooperazione si inseriscono in ciascuna realtà locale che è fatta di relazioni politiche, sociali ed economiche, a cui si potrà partecipare solo attraverso il pieno coinvolgimento e il supporto delle comunità locali e delle loro organizzazioni che di quelle realtà sono parte integrante e ne conoscono al meglio i problemi e le necessità.

La legge n.49/1987 identifica le O.N.G come quelle organizzazioni che ottengono dal Ministero degli Esteri un riconoscimento di idoneità a condizione che presentino determinate caratteristiche, come ad esempio, di avere come fine istituzionale quello di svolgere attività di cooperazione allo sviluppo in favore delle popolazioni del terzo mondo; di non perseguire finalità di lucro;

(40)

di non avere rapporti di dipendenza con enti aventi scopo di lucro; di dare adeguate garanzie in ordine alla realizzazione delle attività previste; di accettare controlli periodici ai fini del mantenimento della qualifica e di obbligarsi alla presentazione di una relazione annuale sullo stato di avanzamento dei programmi in corso.

Per questo tipo di organizzazione i finanziamenti sono di origine prevalentemente privata e, contrariamente a quanto accade per altre tipologie di istituzioni non-profit, il numero di lavoratori dipendenti è quasi analogo a quello dei volontari (questo perché costituiscono una realtà molto diversa dal volontariato comunemente inteso, poiché la loro struttura operativa è professionalmente finalizzata allo svolgimento delle attività di cooperazione e tende ad inserirsi e ad incidere concretamente nei processi sociali e politici delle comunità in cui opera).

-I Comitati vengono solitamente costituiti da più persone allo scopo di reperire fondi o altre utilità per la realizzazione di uno scopo di interesse pubblico che si sono prefissati.

All'interno del comitato si distinguono i promotori, che promuovono la realizzazione dell'opera, ne firmano il programma e favoriscono la raccolta dei fondi e gli organizzatori, che curano la conservazione dei fondi e la loro destinazione alla realizzazione

(41)

dello scopo annunciato dal comitato. Inoltre, è necessaria la presenza di sottoscrittori, che aderiscano al programma ed effettuino le donazioni necessarie.

-Per quanto riguarda le ONLUS, cioè le Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale, sono regolate dal D.lgs. 460/1997. Queste in realtà non sono una tipologia civilistica di organizzazioni non-profit, ma rappresentano una categoria di enti beneficiari di un regime tributario di favore in materia di imposte sui redditi, di imposta sul valore aggiunto e di ulteriori specifici tributi.

I soggetti che possono assumere la qualifica di ONLUS sono le associazioni, le fondazioni, i comitati, le società cooperative ed altri enti privati con o senza personalità giuridica.

Tuttavia, secondo alcuni, possono essere fatte rientrare tra le istituzioni non-profit proprio per il fatto che non perseguono uno scopo di lucro (infatti la legge prevede il divieto di distribuire eventuali utili o avanzi di gestione e l'obbligo di impiegarli per la realizzazione delle attività istituzionali previste), ma una finalità di utilità sociale, la quale potrà esplicarsi in varie forme come ad esempio l'assistenza sociale e socio sanitaria, la beneficenza, l'istruzione, la formazione, la tutela e la valorizzazione della cultura, dell'arte, dell'ambiente e la ricerca scientifica di

(42)

particolare interesse sociale.

2.3.1 Le Ipab.

Una particolare figura che è da sempre considerata “un'area grigia” del sistema assistenziale del nostro paese, a metà strada tra pubblico e privato, è quella delle Ipab, cioè le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.

Esse sono enti di diritto pubblico che hanno in tutto o in parte il fine di prestare assistenza ai più poveri o provvedere all'educazione, all'istruzione, all'avviamento a qualche professione o mestiere, o al miglioramento morale ed economico. Operano sotto la vigilanza e il controllo delle Regioni e svolgono attività socio assistenziali a favore di anziani, portatori di handicap, minori ed altre categorie deboli.

Le Ipab furono istituite con una legge, la n. 6972 del 1890, con la quale il governo Crispi impose la natura giuridica pubblica alla maggior parte delle istituzioni assistenziali private o religiose in quel momento esistenti, garantendo un continuo controllo statale sul corretto perseguimento di finalità considerate pubbliche. Originariamente queste istituzioni avevano una natura privata, ma tale legge Crispi le trasformò in enti pubblici locali e questa loro natura perdurò fino alla sentenza della Corte Costituzionale

(43)

n. 396/1988, che sancisce la parziale incostituzionalità dell'art.1 della legge Crispi laddove non si prevede la possibilità di far tornare le Ipab al regime giuridico privatistico e che ha aperto la strada alla trasformazione delle Ipab che ne avessero i requisiti in associazioni e fondazioni di diritto privato.

Questa sentenza venne poi recepita nell'ordinamento giuridico nazionale12 e successivamente le Regioni, sulla base di questo

recepimento, adottarono numerosi provvedimenti in tema di “depubblicizzazione” delle Ipab, trasformandole in enti privati. Più di recente, con la legge quadro 328/2000, che tra l'altro delega il Governo ad emanare una nuova disciplina per queste istituzioni, è stato promulgato il d.lgs. n. 207/2001 sul “Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”.

Con questo decreto si delineano due modelli: alcune ex Ipab sono trasformate in “Aziende di Servizi alla Persona” (Asp) e conservano la personalità giuridica di diritto pubblico, svolgendo direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali; altre invece vengono privatizzate trasformandosi in persone giuridiche di diritto privato senza fine di lucro, dotate di autonomia statuaria 12 Ciò è avvenuto con il D.P.C.M. 16 febbraio 1990, recante “Direttiva alle

Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza a carattere regionale e infraregionale”.

(44)

e gestionale, che perseguono scopi di utilità generale, entrando quindi nella categoria dei soggetti del Terzo settore.

2.3.2 Le imprese sociali.

Una particolare figura che rientra nel mondo non-profit è quella dell'impresa sociale, disciplinata dal d.lgs. 115/2006.

Con la sua istituzione è stata definitivamente acquisita la distinzione tra il concetto di impresa e quello della finalità lucrativa, potendo esistere adesso imprese finalizzate alla produzione di beni sociali.

Con il riconoscimento delle imprese sociali si dà atto della presenza di attività con finalità diverse dal profitto. Infatti i soggetti che possono conseguire il titolo di impresa sociale sono “tutte le organizzazioni private”13, comprese le società che

esercitano in via principale un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale. È quindi necessario che essa operi in settori di particolare rilievo sociale (come ad esempio quello sanitario, socio-assistenziale, dell'istruzione) o che persegua l'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati o disabili.

(45)

Altro requisito per qualificare un'attività di impresa come sociale è l'assenza dello scopo di lucro: viene infatti specificato che gli utili e gli avanzi di gestione siano destinati allo svolgimento dell'attività statuaria o all'incremento patrimoniale.

Infine, l'ultimo requisito, è rappresentato dall'impossibilità per i soggetti pubblici e per le imprese private con finalità lucrative di detenerne il controllo o di esercitare attività di direzione.

Osservando i campi di intervento dell'impresa sociale si può notare che questa nuova entità si candida a ricoprire un ruolo di primo piano nel panorama del Terzo settore, anche in conseguenza della crisi odierna.

Si sta guardando sempre più a questo modello di impresa perché può rappresentare uno strumento innovativo per gestire le crisi aziendali tutelando i livelli occupazionali e innovando i processi produttivi14.

La formula dell'impresa sociale, infatti, potrebbe essere utilizzata come una nuova impresa che ha il compito di risanare l'impresa in crisi: avendo la possibilità di aprire il proprio capitale sia alla partecipazione dei lavoratori, sia all'imprenditore stesso, sia infine a soggetti terzi interessati a preservare l'esistenza dell'impresa sul territorio, si potrebbe operare una riconversione 14 Vedi A.Di Turi, “Modello di salvataggio”, www.avvenire.it/lavoro.

(46)

dell'attività aziendale verso altri settori con maggiori prospettive, come ad esempio quelli caratterizzati dai contenuti sociali.

Quindi l'impresa sociale, partecipata e solidale rappresenta sicuramente una nuova attività rientrante nel Terzo settore non-profit.

2.4 Il contesto sociale odierno.

Le realtà non-profit esaminate costituiscono una risorsa fondamentale per dare risposta ai bisogni emergenti delle comunità, ecco perché spesso si parla di un necessario rafforzamento del ruolo del Terzo settore.

Infatti la crisi economica del mondo occidentale ha portato ad una vera e propria “embolia” del sistema dell'offerta nell'ambito dei servizi tradizionalmente elargiti dallo Stato: scuola, sanità, assistenza sociale, cultura, sport, ricerca soffrono la mancanza di fondi scaturita dai tagli operati dai Ministeri (anche quando questi fondi erano indirizzati al Terzo settore).

Tutto ciò ha portato la mancata garanzia di risposte adeguate alle diffuse forme di povertà e di disagio sociale; da qui si sottolinea la necessità di approcci alternativi e in tal senso la collaborazione e la cooperazione con la Pubblica Amministrazione consente di sperimentare efficaci ed innovative risposte ai bisogni espressi

(47)

dalle comunità locali.

Oggi risulta sempre più necessario applicare un modello economico alternativo, sostenibile e consapevole delle interdipendenze, in grado di operare per il benessere della società, e le componenti del Terzo settore, essendo soggetti che operano all'interno di questa visione socio-economica, si sono progressivamente caratterizzate come organizzazioni in grado di procedere in questa direzione.

Infatti, ammettendo alla loro base sociale e negli organi di gestione dei soggetti (come i volontari e gli stessi consumatori) che hanno il proprio interesse primario nella qualità del servizio riescono a limitare i comportamenti opportunistici che si hanno nei soggetti for-profit e, inoltre, attraverso il loro coinvolgimento diretto sono in grado di garantire un maggior livello di efficienza. Il Terzo settore, quindi, può offrire un contributo determinante. In tale senso si esprime anche Giulio Tremonti, il quale, in un suo recente libro, identifica nel Terzo settore e nella sua valorizzazione lo strumento fondamentale per risolvere alcuni dei problemi cruciali posti dai processi di globalizzazione.

Egli scrive che “..saranno sempre più drammatici i vincoli di

bilancio pubblico...Offrire tutto con lo Stato sarà impossibile, negare qualcosa sarà immorale...Il volontariato è l'unica speranza

(48)

per produrre, con costi limitati ma con effetti di ritorno quasi illimitati, la massa crescente di servizi sociali di cui abbiamo (e avremo) sempre più bisogno, per quantità e qualità. Servizi che lo Stato burocratico da solo non sarebbe capace di produrre o, comunque, di pagare...La soluzione è fuori dallo Stato nel “comunitario”,...rompendo il monopolio della politica, trasferendo quote crescenti di potere e di responsabilità allo Stato e alla società”15.

Come si evince dal testo si sottolinea che sono proprio le grandi trasformazioni di questi ultimi decenni che rendono necessario un intervento del Terzo settore. Questo perché lo Stato non ce la può fare senza un ampio ricorso alla mobilitazione delle risorse della società civile, del territorio, delle comunità intermedie, della collaborazione con il privato e con il non-profit.

Risulta sempre più decisivo il ruolo delle realtà territoriali: esse possono diversificare e completare i beni e i servizi pubblici, possono assicurare un miglior rapporto tra benefici e costi e un migliore adeguamento alla molteplicità delle domande sociali. Perciò si ribadisce che la valorizzazione del Terzo settore, la utilizzazione delle sue risorse e il rafforzamento delle forme di collaborazione tra questo e la Pubblica amministrazione 15 G. Tremonti, “La paura e la speranza”, pp. 93-96.

(49)

costituiscono sicuramente una delle chiavi principali per vincere le sfide della globalizzazione.

Esso rappresenta una vera e propria modalità alternativa di azione, attivata dalla società civile e rispondente a logiche del tutto diverse rispetto all'impresa for-profit.

Costituisce un nuovo spazio in cui la persona non ricopre più soltanto il ruolo tradizionale di destinataria di beni e servizi, ma diventa attrice nel campo economico e sociale attraverso delle forme proprie di aggregazione.

2.5 Il Terzo settore e la Pubblica

Amministrazione.

Il rapporto tra il Terzo settore e la Pubblica amministrazione viene molto spesso percepito e relegato allo svolgimento di compiti esclusivamente esaustivi, quale braccio operativo della Pubblica amministrazione.

In realtà il Terzo settore è ben altro: è infatti costituito da una pluralità di soggetti aventi molteplici compiti, strumenti e modalità organizzative, i quali però hanno un obiettivo comune e cioè un modello di sviluppo basato su equità, solidarietà e sostenibilità da realizzarsi attraverso le forme della partecipazione.

(50)

Ed è per questo motivo che va sempre più acquistando importanza la cooperazione e la collaborazione tra questi soggetti, che si sostanzia nella partecipazione del Terzo settore alle attività di pianificazione e programmazione delle politiche di settore.

Le amministrazioni pubbliche, infatti, nel corso degli anni hanno incontrato sempre maggiori difficoltà nell'esercizio delle loro funzioni ed è risultato molto spesso necessario un trasferimento di funzioni all'esterno, quindi a soggetti che fossero in grado di intervenire e di meglio comprendere le esigenze del territorio. Fino a poco tempo fa il Terzo settore e la Pubblica amministrazione si muovevano in modo autonomo ma, dalla fine degli anni Ottanta, si è andata gradatamente affermando l'idea che il Terzo settore possa essere una risorsa per uno sviluppo del Paese nella logica del superamento di una concezione statalista dell'iniziativa pubblica16.

Nel tempo gli organismi non-profit sono divenuti veri e propri produttori di servizi, acquistati dagli enti pubblici, e i loro rapporti sono stati improntati su relazioni di scambio economico che affidano agli enti pubblici il ruolo di acquirenti e alle organizzazioni non-profit quello di produttori di servizi.

16 Vedi “Dove lo Stato non arriva”, ASTRID, a cura di C.Cittadino, pp.335 e seguenti.

(51)

Questo percorso ha visto la produzione di numerosi interventi normativi, dall'approvazione, nel 2000, della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di servizi sociali alla riforma del Titolo V della Costituzione, con cui si è sancita l'introduzione del principio di sussidiarietà orizzontale e verticale.

Proprio la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà ha avuto un'importanza decisiva per i rapporti tra Pubblica amministrazione e Terzo settore, i cui soggetti concorrono al perseguimento di interessi generali, pur essendo soggetti diversi dalle pubbliche amministrazioni.

Questo ha significato un nuovo legame tra pubblico e privato nella erogazione dei servizi, un legame caratterizzato da una sorta di “favoritismo” da parte dei soggetti pubblici nei confronti degli interventi sociali dei privati.

Inoltre già la legge quadro 328/2000 aveva permesso e riconosciuto un forte coinvolgimento dei soggetti del Terzo settore nelle attività di programmazione, organizzazione e gestione del sistema integrato dei servizi sociali degli Enti locali, delle Regioni e dello Stato. Essa ha infatti introdotto il sistema integrato dei servizi sociali, in cui i soggetti privati sono ammessi a concorrere alla programmazione stessa dei servizi da erogare. La collaborazione tra mondo non-profit e Pubblica

Riferimenti

Documenti correlati

Una delle problematiche che il consulente tecnico medico legale chiamato dal giudicante deve affrontare è quella relativa alla possibilità/doverosità da parte

Perché queste politiche erano viste come banco di prova dell’attuazione delle riforme e, quindi, dell’esercizio di responsabilità spettante al sistema delle autonomie in un quadro

In questo caso, il legislatore, ha predisposto per la regolamentazione di eventuali patologie derivanti dall’attività d’impresa, la procedura di liquidazione coatta

Democrazia elettronica e miglioramento della qualità della convivenza 118 6.1 Esperienze significative: i casi della regione Umbria e dei comuni di Firenze, Torino e Verona

Il soggetto attuatore metterà a disposizione proprie risorse strumentali (strutture, attrezzature e mezzi), risorse umane e finanziarie che dovranno essere definite nella

Nelle parole della Corte di Giustizia, “se è legittimo che uno Stato membro riservi la concessione di vantaggi fiscali agli enti che perseguono alcuni dei suoi

In concreto, ciò significa che gli enti non commerciali che svolgono un’attività commerciale non possono più adottare un sistema contabile unico che consentiva di

"6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva