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Un tessuto sociale in disgregazione: la riapertura dell'Antico Teatro Anatomico "La Vida" di Venezia

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea

Magistrale

in

Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica

Tesi di Laurea

“Questa comunità non si scioglierà”:

la riapertura di Palazzo La Vida a Venezia

Parole e pratiche di resistenza alla turistificazione

Relatrice

Ch.ma. Prof.ssa Franca Tamisari

Laureando Andrea Pacini Matricola 857786 Anno Accademico 2018 / 2019

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Ai miei genitori, Sara & Nicola. Se sono qui, lo devo soprattutto se non esclusivamente a voi. Ai sorrisi che mi avete rivolto, ai litigi che abbiamo avuto, all’amore che provo per voi. Grazie.

Ai miei nonni, Emo & Renza. A tutti i giorni che avete trascorso a crescermi per arrivare felici e sempre insieme a

vedermi qui oggi.

Agli zii di casa e di una vita, Sonia & Franco, e a mia cugina Marta, la sorellina che non ho avuto.

A Damiano, Giulia e Alessandra, perché la famiglia (di amici) è l’unica cosa che conta.

A Flavia, che ha sopportato questi mesi di scrittura, di ansia e di paura senza mai perdere la fiducia in me. A tutti i mesi che ancora ci aspettano insieme.

Alla professoressa Franca Tamisari, per non avermi mai fatto mancare il suo appoggio, le sue indicazioni, la sua esperienza e anche i suoi rimproveri in questo lungo percorso.

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Indice

INTRODUZIONE

- TURISTI, SPAZI PUBBLICI E RESIDENZIALITA’ OVVERO: COME HO

IMPARATO A PREOCCUPARMI DELLA GENTRIFICATION E (NON) VIVERE FELICE………p.7 - METODOLOGIA: SFIDE E LIMITI DI UNA ANTROPOLOGIA DELLE E NELLA

CITTA’………..…………p.10 - POSIZIONAMENTO: STRANIERO IN PATRIA.………..p.15

CAPITOLO 1 LO STUDIO DEI MOVIMENTI SOCIALI IN ANTROPOLOGIA: STORIA, STRUMENTI, RISULTATI

- 1.1 UN DIFFICILE INQUADRAMENTO………...p.17 - -1.2 ANTROPOLOGIA DEI MOVIMENTI SOCIALI: UNA PANORAMICA...p.21 - 1.2.1 I PRINCIPALI APPROCCI DI STUDIO AI MOVIMENTI SOCIALI.…….p.22 - 1.2.2 LA SVOLTA: GLI ANNI SESSANTA E SUCCESSIVI.………...p.23 - 1.2.3 IL CONTRIBUTO ANTROPOLOGICO RECENTE: FRAMING THEORY E

DYNAMICS OF CONTENTIONS.………...………..p.25

- 1.3 COME L’ANTROPOLOGIA PUO’ CONTRIBUIRE ALLO STUDIO DEI

MOVIMENTI SOCIALI.………..p.29 - 1.3.1 L’ASPETTO CULTURALE.………...p.29 - 1.3.2 UNO STUDIO IBRIDO.………..p.33 CAPITOLO 2 LA CITTA’ COME ATTRAZIONE, LA CITTA’ RIPENSATA: QUESTIONI EMERGENTI NEL PANORAMA VENEZIANO………p.36

- 2.1 LA CITTA’ COME ATTRAZIONE, LA CITTA’ RIPENSATA: DA DE

CERTEAU A HARVEY………p.36 - 2.2 OVERTOURISM, RIBELLIONI E MOVIMENTI SOCIALI: I NUMERI DI UN

TURISMO (IN)SOSTENIBILE………p.41 - 2.3 L’OVERTOURISM COME OCCASIONE DI INCONTRO E L’EMERGERE

DEI MOVIMETI SOCIALI………..p.47 - 2.4 RAPPRESENTAZIONE DI UNO SPAZIO: POLITICA DELLA STRADA,

PRATICHE, VISIBILITA’………p.50 - 2.5 TENSIONI, CONFLITTI, INTERAZIONI: LE RETI DI RELAZIONI………p.54 - 2.6 LA VICENDA DE LA VIDA: UNA STORIA………...p.57 CAPITOLO 3 IL FENOMENO DELL’ASSOCIAZIONISMO NEL CONTESTO

EUROPEO, ITALIANO E REGIONALE………p.60 - 3.1 L’ASSOCIAZIONISMO NEL CONTESTO EUROPEO……….…..p.61 - 3.2 L’ASSOCIAZIONISMO IN ITALIA……….p.64 - 3.2.1 APS, COOPERATIVE E ORGANIZZAZIONI DI VOLONTARIATO……p.67 - 3.2.2 LA DISTRIBUZIONE DELL’ASSOCIAZIONISMO A LIVELLO

REGIONALE………p.69 - 3.3 L’ASSOCIAZIONISMO A VENEZIA………..p.74

CAPITOLO 4 ANTICO TEATRO ANATOMICO LA VIDA; ETNOGRAFIA DI UNO SPAZIO URBANO RIAPERTO………...p.76

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- 4.1 INQUADRAMENTO DELLO SPAZIO ETNOGRAFICO………p.76 - 4.2 “LA COMUNITA’ SI MOBILITA IN DIFESA DEI BENI COLLETTIVI”:

L’INGRESSO SUL CAMPO………p.78 - 4.3 LE ASSEMBLEE PUBBLICHE……….p.81 - 4.3.1 I TAVOLI DI LAVORO………..p.95 - 4.3.2 L’INAUGURAZIONE DELLE “MANI PER LA VIDA”, LO SBARACCO E

ALTRE FORME DI INCONTRO

………p.97 - 4.3.3 LE CENE PER LA VIDA E LE PASSEGGIATE CONSAPEVOLI……….p.101 - 4.4 LA VOCE DEL CAMPO: COMMERCIANTI E RISTORATORI…………..p.104 - 4.5 CARATTERISTICHE ORGANIZZATIVE………..p.106 CONCLUSIONI………..p.111

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INTRODUZIONE

Turisti, spazi pubblici e residenzialità ovvero: come ho imparato a

preoccuparmi della gentrification e (non) vivere felice

Hannertz (1992) ha definito la città come luogo privilegiato della serendipity. Si tratta di un termine dalla difficile traduzione in se non con “serendipità”, ovvero il luogo dei colpi di fortuna, delle scoperte per caso, della possibilità di trovare qualcosa nel mezzo di un’altra ricerca. Non potrei non essere più d’accordo poiché sono stato toccato direttamente di questo: la mia ricerca, partita da un soggetto di studio tanto definito quanto vasto (il problema della massiccia turistificazione a Venezia e l’impegno di una associazione, Poveglia per Tutti, a invertire e limitare la tendenza alla svendita di isole per trasformarle in fonte di reddito per privati) si è per un colpo di fortuna spostata sul problema degli spazi pubblici, sul loro essere reclamati da parte di una fetta di cittadinanza attiva e sui problemi che questi cittadini vivono nell’esperienza nel quotidiano.

Rimane sullo sfondo, ma come problema a monte, il fenomeno dell’overtourism e della monocoltura turistica che non può non incidire. Le politiche comunali e regionali da anni puntano sull’immagine della città lagunare come principale punto di riferimento e di

attrattiva, come sineddoche ed intersezione di tutti i frammenti che compongono il Veneto (il mare, l’arte, il cibo etc.), al punto da utilizzare a livello pubblcitario lo slogan “Veneto: The Land of Venice”1. I processi turistici di massa, ormai pienamente globalizzati, volti a

massimizzare il profitto andando ad incidere in qualunque angolo di mondo, sembrano non tenere in debita considerazione l’impatto che queste trasformazioni, talvolta repentine talvolta più silenti, hanno sul tessuto sociale.

La sfida che mi sono posto è quella di riuscire a rappresentare e tentare una

interpretazione, nel quadro più ampio delle dinamiche dei movimenti sociali, delle tattiche messe in atto da una parte della comunità, quella raccoltasi attorno a San Giacomo dall’Orio e a Palazzo La Vida, come resistenza alla turistificazione e alla privazione di spazi pubblici intesi come luoghi ad uso e consumo del cittadino che può fruirne quando vuole e come vuole, luoghi di assemblea, di riunione, di dialogo; tattiche dal basso volte a riappropriarsi di

1 Fonte:

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spazi un tempo pubblici e che subiscono un processo di privatizzazione e omogeneizzazione. Non intendo esporre nel dettaglio l’impatto numerico del turismo a Venezia (di cui ho deciso di dare una panoramica nel Capitolo 2), bensì tracciare gli aspetti del comportamento che i cittadini hanno assunto per dimostrare il proprio dissenso, un comportamento che vive di una doppia facciata e di una doppia narrazione: una riapertura legittima di uno spazio per la cittadinanza; una occupazione illegittima per le istituzioni e i soggetti privati in gioco.

Queste pagine sono senza dubbio il frutto di tre anni trascorsi in questa città, una città che nel tempo ho imparato a conoscere come mia e che ho capito aver bisogno di essere difesa.

Sono arrivato a Venezia per la prima volta nel settembre del 2015 per iniziare i miei studi in antropologia culturale, dopo un anno sabbatico trascorso in Irlanda. Sceso dal treno alla stazione di Santa Lucia mi sono trovato davanti ad uno spettacolo a cui nessuna foto, nessun video, nessun racconto di amici o parenti mi aveva minimamente preparato: una vera e propria città galleggiante, una perla punteggiata di palazzi storici, campi, calli, chiese e giardini nascosti delicatamente adagiata sull’acqua, percorsa da frotte di migliaia di turisti di ogni nazionalità che si accalcano su per Strada Nuova o per il Ponte degli Scalzi, ansiosi di raggiungere San Marco, il Ponte dei Sospiri o il primo imbarcadero per un giro in gondola.

Ho passato le mie prime settimane ad esplorare ogni calle, a cercare di capire questa città davvero unica al mondo, ad esplorare gli angoli meno noti, ad annusarla, a toccarla. Dopo quasi tre anni posso dire con assoluta certezza che si tratta dell’ultima città a misura d’uomo al mondo: è l’unica città in cui, per necessità, puoi e devi spostarti a piedi, in cui puoi raggiungere l’altro capo del “pesce” di cui sembra avere la forma senza aver bisogno di nient’altro che delle tue gambe, dei tuoi occhi e di tutti i tuoi sensi. Per limiti strutturali, Venezia non si è mai potuta allargare ma ciò non significa che non si sia voluta e dovuta snaturare ed evolvere.

Nei due anni che hanno preceduto la mia ricerca sul campo ho avuto modo di stringere amicizia e conoscenza con molti residenti, studenti e non, e di raccogliere già da loro le prime impressioni sul tema della mancanza di spazi pubblici e come questo sia legato a doppio nodo a quello della turistificazione. Ho subito notato un atteggiamento ambivalente: da una parte la lamentela per una Venezia che si sta lentamente perdendo; dall’altra la consapevolezza quasi rassegnata che quel modello di città, forse idealizzato, non può essere riattuato oggi e quindi l’unica soluzione sembra essere quella di soccombere e piegarsi al vivere in una città che campa sul turismo, attraverso i suoi ormai ex-abitanti.

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perché di questa apparente rassegnazione. Il mio momento di serendipity coincide con il mio ultimo trasloco, in una casa a poche centinaia di metri da Campo San Giacomo. Ho iniziato ad interessarmi direttamente alla ricerca riguardo l’occupazione/ riapertura di Palazzo La Vida dopo il 6 marzo 2018, dopo che gli occupanti erano stati costretti allo sgombero dei locali e alla conseguente apertura di quella che è stata chiamata “La Vida Accanto”, un gazebo installato davanti al Palazzo e creato per non abbandonare la causa, per non rinunciare a far valere le proprie istanze di riappropriazione. Prima di tale data, nonostante non vi avessi mai preso parte in prima persona, ero comunque venuto a conoscenza della situazione che si era creata, fin da settembre 2017, con l’occupazione del piano terreno, una superficie di circa 200 mq e le attività (ludoteca, cinema ec.) ad esso legate. Ciò era stato possibile grazie

all’attenzione mediatica, soprattutto attraverso Facebook, che la questione aveva sollevato, oltre al volantinaggio che tuttora si può notare in città, con numerosi locali e negozi che espongono cartelli recitanti lo slogan “Io sto con La Vida”, presenti sia nei dintorni di Campo San Giacomo che negli altri sestieri.

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Metodologia: sfide e limiti di una antropologia della e nella città

L’etnografia è prima di tutto una pratica, un vivere-con, un coinvolgimento percettivo, affettivo ed emotivo, ma vive di un paradosso: nel momento in cui uno osserva un fenomeno, questo muta proprio perchè è osservato (Devereux in Piasere, 1998; 36). L’antropologo “trova informazioni e interazioni anche quando non le cerca perchè son attorno a lui. Vi è, appunto, immerso” (ibid.). Oggi che i concetti di popolo, nazione, società e cultura assumono connotati sempre più sfumati e che il “diverso” ed “esotico” si può trovare anche nell’inquilino

dell’appartamento accanto al nostro, è una sfida ardua applicare i contributi delle più

importanti etnografie della storia dell’antropologia al contesto urbano. Immergersi in una città è un’esperienza ben diversa da quella dell’immergersi in un villaggio sperduto e lo è ancor di più immergersi nell’oceano delle associazioni e dei vari gruppi che la popolano.

Il mio soggetto di ricerca, come detto, ha subito un cambio di destinazione in corso d’opera: la prima scelta era infatti ricaduta sull’associazione Poveglia per Tutti, da anni impegnata nel tentativo di riacquisire dal Comune l’isola un tempo nosocomio per restituirla alla comunità. Dopo un primo contatto con il principale rappresentante dell’associazione sono venuto casualmente a conoscenza di ciò che stava accadendo a Palazzo La Vida, una

occupazione in fieri avviata da pochi mesi a differenza della situazione di Poveglia che vive invece di un momento di stallo e di estemporanee, sebbene organizzate e promosse, iniziative di sensibilizzazione, come i blocchi acquei e i tavoli di discussione.

Per studiare il fenomeno che presenterò nelle prossime pagine ritengo doveroso avere un giusto inquadramento della zona in cui si trovano Campo San Giacomo e La Vida.

Palazzo La Vida si affaccia direttamente su Campo San Giacomo dall’Orio, uno dei più ampi di tutta Venezia, il quale prende il nome dall’omonima chiesa risalente al XII secolo, la quale oltre ad essere una delle più antiche della città era anche il luogo di partenza per i pellegrini diretti a Santiago de Compostela. Ad oggi, nonostante il sestiere di Santa Croce sia stato uno dei primi ad essere maggiormente colpito dai flussi turistici e di merci vista la sua appartenenza all’area di Santa Lucia e Piazzale Roma, San Giacomo è uno dei quartieri e dei campi meno colpiti dalla turistificazione. Nonostante la presenza di vari ristoranti e negozi di souvenir, vi si possono ancora trovare quotidianamente bambini a giocare a pallone, anziani intenti a chiacchierare sulle panchine, qualche bancarella di negozi durante il mercato. In Campo San Giacomo si può ancora respirare l’aria della Venezia a misura d’uomo e di

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cittadino, di residente, che si sta velocemente e a tratti inesorabilmente perdendo altrove, soffocata da un turismo che snatura i sestieri, porta un innalzamento dei prezzi di immobili e servizi e un conseguente spopolamento a favore di una residenzialità non più stanziale ma solo stagionale .

La forma del Campo risulta abbastanza “anomala”: esso infatti non si sviluppa in un quadrilatero come la maggior parte dei campi, o in lunghezza come il più noto Campo Santa Margherita. Lo spazio ricorda quello di un “otto strozzato”, come è stato definito da Agostino, uno dei frequentatori de La Vida, in cui la Chiesa si inserisce nel corpo stesso del campo e ne determina la configurazione, chiudendolo in due sottocampi.

Se infatti ci posizioniamo con le spalle rivolte alla facciata della Chiesa, vedremo solo una metà del Campo, quella prospiciente il Palazzo, che ho evidenziato col colore blu

nell’immagine n°1 (p. 12), e ci è impedita la visuale sulla parte che invece si sviluppa alla nostra sinistra, attorno all’abside della Chiesa e alla zona alberata, evidenziata in giallo. Se allarghiamo ulteriormente lo sguardo, potremmo considerare il Campiello del Piovan,

evidenziato in verde, come una terza parte del Campo, anch’essa nascosta dalla struttura della Chiesa. Risulta quindi evidente come Campo San Giacomo si sia sviluppato attorno

all’omonima Chiesa, in armonia con i suoi volumi.

Come ho avuto modo di scoprire durante i miei colloqui, il termine “campo” deriva proprio dall’antica pratica di utilizzare questi spazi per la coltivazione diretta in laguna, pratica che poi è andata perdendosi ma che in Campo San Giacomo ha lasciato tracce nei piccoli “orti urbani” che periodicamente alcuni cittadini cercano di riportare in vita. Nell’immagine n°1 si può infatti notare, evidenziato in giallo, a differenza di molti altri campi cittadini, una forte presenza di verde.

Durante tutto il mio percorso di ricerca mi sono avvalso dell’uso del registratore anche se ho spesso preferito fare ricorso ad un più classico taccuino (utile soprattutto durante le assemblee per segnare i punti all’ordine del giorno e le varie voci che intervenivano) e alle note mentali, poiché è spesso capitato che le informazioni più rilevanti e utili ai fini della mia ricerca siano emerse durante una chiacchierata informale.

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Figura 1: Immagine satellitare di Campo San Giacomo. Fonte: Google Maps

Oltre ciò, ho corredato la mia etnografia di diverse foto, la maggior parte delle quali realizzate da me o recuperate attraverso la pagina facebook de La Vida, sia durante gli eventi che durante semplici passaggi in Campo, così da mostrare come esso fosse vivo al di là dei momenti di aggregazione organizzati dai ragazzi e dalle ragazze de La Vida.

Nel primo capitolo traccerò una panoramica riguardo l’apporto antropologico allo studio dei movimenti sociali: partendo da una definizione degli stessi, ho ripercorso le principali linee teoriche e applicative per giungere ad un quadro quanto più generale e prossimo possibile. In questo capitolo intendo far emergere la necessità di un maggior coinvolgimento della conoscenza antropologica nella materia, soprattutto per quanto riguarda la sfera

dell’analisi da un punto di vista culturale, e, secondariamente, la necessità di uno studio ibrido, che tenga in considerazione e si avvalga delle conoscenze di altre discipline quali le arti visive, le scienze politiche, l’architettura.

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Nel secondo capitolo affronto la questione della rappresentazione della città nella teoria antropologica, partendo dallo scarto che esiste tra la città “orizzontale”, quella delle planimetrie, e la città “verticale”, quella direttamente vissuta da coloro che la abitano. Passando per il processo di “Disneyfication” di Venezia, ovverosia la sua trasformazione in un parco giochi a cielo aperto, intendo poi prendere in esame i numeri del turismo a Venezia e come le pratiche di resistenza ad esso abbiano creato una rete di relazioni a livello

transnazionale tra le associazioni. In ultimo, partendo dal volume di Koensler (2012) cercherò di far emergere come l’esperienza de La Vida e dei Vidani sia perfettamente inquadrabile in un frame comune a molti movimenti sociali.

Il terzo capitolo prende in esame l’evoluzione dell’associazionismo partendo da un livello

macro, europeo, per scendere poi nel micro della realtà veneta e veneziana, analizzando come

si sia evoluta la partecipazione dagli anni Sessanta ad oggi, in rapporto ai mutati contesti sociali ed economici.

Il quarto capitolo, dal titolo “Etnografia di uno spazio urbano riaperto”, consta

dell’etnografia vera e propria: andrò ad esporre i dati raccolti nelle assemblee a cui ho preso parte tra marzo 2018 e febbraio 2019, appuntamenti che ho potuto seguire sia direttamente che in fieri attraverso scambi di mail e pagine Facebook, gli incontri informali avuti sia con rappresentanti e partecipanti alla riapertura sia con semplici turisti, passanti e commercianti della zona. Seguendo un filo cronologico partirò da “La Vida Accanto” per arrivare allo sgombero totale e a quella che è stata definita “l’era post-gazebo”, viva ancora oggi, la quale si articola sempre in assemblee e nuove iniziative. In queste pagine intendo far risaltare alcuni aspetti unici e specifici della realtà de La Vida, quale, soprattutto, il suo non essersi affrancata come “associazione” formalmente riconosciuta, bensì l’essere rimasta una comunità aperta, inclusiva, priva di leader e portavoce, fatta dai cittadini per i cittadini stessi. Si tratta di una personale autopsia di un gruppo di cittadini che, non muovendosi da soli ma in concerto con numerose altre realtà territoriali vicine e lontane, cerca di proporre un modello di sviluppo e sfruttamento del territorio diverso dalla monocoltura turistica messa in atto dalle istituzioni e dai privati.

Nelle conclusioni, cercando di tessere le fila di un lavoro che mi ha impegnato per circa un anno, si mescoleranno i due aspetti precedentemente tracciati: da una parte la teoria dei movimenti sociali, dall’altra la pratica dei Vidani, per dimostrare che le singole, minute azioni volte a un cambiamento del paradigma imperante e al rinsaldare relazioni e tessuti sociali in

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disgregazione possono integrarsi ed essere analizzate alla luce di un occhio antropologico, anche laddove il conflitto non sfoci in forme violente.

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Posizionamento: straniero in patria

Quello del posizionamento rappresenta uno dei punti cruciali per quanto riguarda la ricerca sul campo. Immergersi nel proprio campo, accettare di essere investiti, coinvolti e talvolta colpiti da una serie di stimoli (sensazioni, emozioni etc) quasi sempre imprevedibili, prevede e richiede un posizionamento.

La situazione che mi ha inizialmente spiazzato e strappato un sorriso è stata quella di trovarmi a fare ricerca sul campo in un Campo: può suonare pleonastico ma è stato quello con cui mi sono trovato a dover fare i conti, una situazione per certi aspetti paradossale.

Per quanto concerne la mia ricerca sul campo, posso dire di aver vissuto uno shift, un mutamento della mia posizione, lungo tutta l’esperienza: mi sono avvicinato alla prima assemblea pubblica davanti Palazzo La Vida in anonimato, cercando di intercettare le prime voci per capire l’umore di quella gente lì raccolta, per poi “presentarmi” o meglio

qualificarmi come studente di antropologia interessato all’esperienza in corso ai fini della mia relazione finale. Passare dall’essere un semplice osservatore e partecipante alle attività

all’essere poi sempre riconosciuto dai Vidani come “l’antropologo” o “quello col taccuino” (diario di campo 2 aprile) ha portato con sé evidenti vantaggi e svantaggi: da un lato, l’essere personalmente vicino alla causa, mi ha permesso di accedere ad una serie di dati, parole, esperienze che difficilmente mi sarebbe stato possibile raccogliere da semplice auditore; dall’altra mi sono trovato davanti alla difficoltà spesso di dover decidere, per il bene e il proseguo dell’azione dei Vidani, ad operare una cernita delle informazioni, specialmente per quanto riguarda aspetti che, durante le assemblee, venivano accennati e sostenuti a mezza voce, come se si trattasse di argomenti tabù, conosciuti ma non divulgabili a piacimento oltre i limiti della cerchia raccolta.

Pormi o presentarmi come “l’antropologo”, come detto, ha portato vantaggi e svantaggi: le parole riportate nella mia etnografia sono state raccolte nell’arco di circa un anno, cercando col tempo di assumere una postura che rendesse estraneo il familiare: avendo abitato a Venezia ormai già per quasi tre anni, dovevo necessariamente trovare il modo di rendere nuovo un ambiente che già conoscevo e che in parte avevo già osservato, utilizzando al contempo il mio occhio di cittadino e le conoscenze acquisite nel mio percorso di studi. Ciò è stato facilitato dall’essermi immerso in un campo che era sì nella mia città ma in un quartiere del quale avevo al tempo ancora poca familiarità.

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Spesso mi sono dovuto confrontare altresì con la difficoltà di far comprendere quello che fosse il mio intento: è capitato che alcuni partecipanti chiedessero quale fosse il lavoro dell’antropologo, se fosse assimilabile a quello di un giornalista vedendomi quasi sempre impegnato ad annotare sul mio diario di campo, se si trattasse di un reportage. Nel mio tentativo di spiegare quelli che erano i miei intenti, mi hanno colpito le parole di uno dei partecipanti più anziani, Chicco, che, avendo visto altri studenti della facoltà di architettura occuparsi del caso, mi ha detto che “Fa bene che ci siano anche persone che si interessano alle nostre voci, e non solo agli aspetti materiali della Vida” (diario di campo 2 aprile).

Ritengo queste parole di una importanza vitale all’interno della mia ricerca: quello che ha mosso il mio interesse sono state in prima istanze le voci della gente, le parole stesse di coloro che stavano affrontando questa sfida. Quelle che riporto non vogliono essere semplici

citazioni ma una fedele trascrizione delle sensazioni e delle emozioni provate dai Vidani in quei momenti ma anche dal sottoscritto, avendo partecipato nel tempo a quel senso di comunità tanto forte.

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Capitolo 1

LO STUDIO DEI MOVIMENTI SOCIALI

IN ANTROPOLOGIA:

STORIA, STRUMENTI, RISULTATI

1.1 Un difficile inquadramento

Definire in maniera univoca e quanto più onnicomprensiva possibile i movimenti sociali è impresa complessa, data la loro mutevolezza e la loro capacità di adattamento nel tempo e nello spazio, nonché alle mutate condizioni storiche e socio-economiche del nostro tempo in perenne divenire. Essi sono al centro di quella “politica del conflitto” (contentious politics) (Tilly, Tarrow, 2007) nella quale si rendono manifeste le linee di tensione di un determinato periodo storico, sono la frontiera in cui si acuiscono e possono esplodere conflitti rimasti a lungo latenti.

I movimenti sociali hanno la capacità di esplodere e manifestarsi nella maggior parte dei casi se non quasi esclusivamente senza apparente preavviso e per quanto studiabili sono difficilmente prevedibili nei loro caratteri e nella loro evoluzione. Si tratta, per usare una definizione il più ampia possibile, di “reti di interazioni prevalentemente informali, basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali attraverso un uso frequente di varie forme di protesta” (Dalla Porta, 2003; 18). La teoria più accreditata e spendibile sulla nascita dei movimenti sociali è che essi “traggono origine dalla formazione degli stati nazionali – frattura centro/periferia (o statalizzazione/autonomie locali o

corporative) e stato/chiesa – e dalla nascita del capitalismo industriale – frattura capitale/lavoro e città/campagna (o industria/agricoltura)” (Pellizzoni, 2014)

Se indubbiamente queste fratture esistono ancora oggi, esse hanno subito pesanti trasformazioni dovute in primo luogo al processo di globalizzazione delle idee, delle immagini, dei media. Permane il fondamento foucaltiano del rapporto tra potere e opposizione: il potere esercita una azione coercitiva sulla società attraverso una serie di agenti, siano essi gli organi istituzionali, quelli di stampa o religiosi; chi protesta, chi scatena o prende parte ad un movimento lo fa per proporre un ordine alternativo, per sottrarsi a questa

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azione di forza. I movimenti sociali destabilizzano quell’ordine che si è lungamente accettato come immutabile, mostrato da chi sta al potere come il migliore dei mondi possibili.

La società di massa ha amplificato a dismisura questa percezione: l’idea di essere liberi, l’idea stessa di libertà, a partire dagli albori della società industriale, è venuta mano a mano a scemare, e restiamo in balia di mezzi di comunicazione, della pubblicità, del consumo, i quali diventano veri e propri mezzi di coercizione. Nel suo “L’uomo a una dimensione”, Marcuse (1964), appena quattro anni prima dell’esplosione dei movimenti del ’68, analizza questa trasformazione: l’uomo della società di massa è inquadrato in una griglia mentale di cui è inconsapevole che lo priva della sua capacità critica, rendendolo addirittura complice del perpetuarsi di questo schema di dominio. Marcuse allarga dunque la sua riflessione, per cui, venuto meno il proletariato di marxiana memoria, i nuovi fautori della rivoluzione non possono che essere gli ultimi, i reietti, gli sfruttati, i “dannati della terra” (Fanon, 2007), quei colonizzati che nell’opera del francese somatizzano impotenza, alienazione, senso di

spersonalizzazione in una serie di psicosi, deliri di persecuzione e tentati suicidi che sfociano nei meccanismi di risposta all’occupazione a livello transnazionale. Per quanto oggi possa apparire in parte anacronistico parlare ancora di colonizzati e colonizzatori, questo rapporto dialettico che a un livello più generale riproduce quello del servo e del padrone, è ancora in essere, sia appunto in forme di colonialismo più o meno evidente, sia in forme di vessazione sulla popolazione non più solo nel Terzo Mondo ma anche nella società europea e

nordamericana. Come l’autoaffermazione e l’autorappresentazione dei popoli indigeni, così oggi l’autoaffermazione di gruppi di lotta, di rivendicazione, di emancipazione in un mondo assoggettato alla globalizzazione che tutto livella. Se per Fanon il bisogno primario di un popolo annichilito per mettere in atto la propria riabilitazione è quella di riscorprirsi popoli, così i movimenti sociali insistono sul senso di comunione, di collettività, di mutuo soccorso.

Il movimento sociale principe del XX secolo è indubbiamente stato quello operaio, nel contesto più ampio della lotta di classe, e solo negli ultimi anni dello scorso secolo all’interpretazione economica e materiale di questo si è affiancata una matrice culturale. Melucci (1988) in particolare intende i movimenti sociali come veri e propri processi di formazione dell’identità, che superano un agire strumentale per arrivare alla creazione di un ordine solidale e collettivo. Specie nel mondo contemporaneo, e italiano in particolar modo, in cui le grandi istituzioni sono in crisi da lungo tempo (crisi acuitasi con la fine della Prima Repubblica all’inizio degli anni Novanta), in cui la fiducia nei partiti e nelle istituzioni è ai

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minimi storici, in cui la Chiesa non rappresenta più il faro dell’esistenza di ciascuno, in cui la crisi economica ha falcidiato la fiducia nel progresso e nella crescita perenne, i movimenti sociali si posizionano in quell’intercapedine, in quello spazio angusto in cui i soggetti cercano di riformulare la propria identità.

Ogni movimento, però, si muove e si situa in un dato tempo e contesto che non è fuori dalle relazioni di potere, poiché questo “fuori” non esiste: il potere lo si ritrova in tutte le relazioni sociali. L’opposizione allora deriva dal potere, ne rende manifesta la presenza e anche i suoi limiti, il suo non essere completo e totalmente pervasivo. Per questo motivo i movimenti sociali non muovono da una alterità radicale che presupporrebbe una possibilità di astrazione da cui “guardare” il potere contestato bensì dalla possibilità di sorprendere il potere “di modificare o invertire il senso degli elementi di cui esso si avvale” (Pellizzoni, 2014).

Hannertz (1998) colloca i movimenti sociali tra le quattro cornici che producono il flusso dei significati culturali: lo stato, il mercato, le forme di vita e appunto i movimenti. Questi ultimi più che gestire, modificano i significati prodotti dai primi due, emergendo dalle forme di vita: le persone, avvertendo un disagio, sentendosi minacciate e non appagate dalle prime due cornici (quelle dominanti), cercano di esprimere questa insoddisfazione attraverso i movimenti che, propugnando un cambiamento, hanno la caratteristica di essere instabili, adattabili, soggetti al cambiamento a seconda delle condizioni che si vengono a creare.

Il principale motivo scatenante dei movimenti sociali è allora quello di evitare il presente inteso e sentito come una entità fissa e immutabile. E’ il “divenire-folle” (Deleuze; 1969), “la] dimensione del mondo la cui peculiarità è quella di schivare il presente in quanto entità fissa e permanente” (Koensler 2012; 47) che può apparire insensato nella sua individualità ma che diventando e venendo letto come fatto sociale cambia o almeno tenta di cambiare l’ordine del mondo a partire da un pugno di idee e dallo sfruttare azioni e pratiche familiari. Touraine definisce questo aspetto la “storicità” dei movimenti: come le tradizioni popolari, come esposto perfettamente nei suoi saggi sul Meridione da De Martino, vivono e nascono da un repertorio comune che ammette una serie di variazioni nel qui e ora ma sempre all’interno di una trama condivisa, così anche i movimenti sociali sembrano avvalersi di un simile

meccanismo. Come le tradizioni popolari, i movimenti sociali sono fatti sociali, evitano l’individualismo e non è riscontrabile in essi un singolo autore o capostipite che ne sia portavoce, essi sono il frutto di una concertazione. I tratti peculiari sono collaborazione, comunità e cooperazione: sono entrambi creazioni culturali collettive. A un livello culturale, i

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movimenti sociali si mostrano come argine alla deriva del consumismo più sfrenato e all’avanzata del neoliberismo che ha trasformato ogni oggetto e soggetto in merce: l’epoca dell’individualismo viene data per morente a favore di una nuova epoca del collettivismo. Laddove le politiche messe in atto dai rappresentanti dei cittadini non riescono a colmare il gap o comunque a risolvere le questioni sentite come più pressanti, ecco che intervengono i movimenti sociali: in un circolo che parte dai cittadini e passa attraverso i cittadini stessi, convoglia in sé le loro voci e si rende più capace di venire incontro ai loro bisogni. Se il modello economico imposto, quello del neoliberismo e dell’autoaffermazione, sembra voler dire che il singolo deve prevalere sulla collettività a qualunque costo, consumando senza fine, i movimenti sociali propugnano un modello alternativo, quello di un uso collettivo delle risorse, di un beneficiare della ricchezza (materiale ma soprattutto immateriale) ugualmente divisa.

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1.2 Antropologia dei movimenti sociali: una panoramica

L’antropologia dei movimenti sociali, a differenza di altre branche del sapere che ne studiano i caratteri e la storia da decenni, è una branca relativamente recente, che si incentra “sulle relazioni tra la capacità di agire degli attori sociali (agency) e le strutture socio-politiche” (Koensler, 2012). Come messo in luce da Bader (1991; 45), nell’approccio antropologico alla materia è cruciale tenere in considerazione che la dimensione culturale gioca nei vari momenti che si possono distinguere all’interno del più ampio panorama dei movimenti sociali (dalla presa di coscienza, passando per la nascita di una identità collettiva e di una organizzazione o leadership fino alla mobilitazione delle risorse e all’esplodere della protesta) e delle risposte da parte delle autorità o degli oppositori. Questo ruolo risalta in particolar modo “in episodes like the formation of habitus and collective identity. It is

however also present in the concrete evolvment of episodes like the framing of interestes, and the design of utopis and concomitant slogans” (Salman, 2017; 63). Se la cultura è l’oggetto di studio principe dell’antropologia e se la cultura investe tutto il corso vitale dei movimenti sociali, allora l’antropologia non può non occuparsene. Questo non significa che essi siano riducibili ad una dimensione esclusivamente culturale, come vedremo in seguito.

Essendosi l’antropologia storicamente posizionata e come uno studio dell’altro, dell’uomo, delle differenze tra le società e anche, ai suoi albori, come uno studio e comprensione

dell’altro in funzione dell’azione colonizzatrice occidentale, in un incessante percorso di costruzione del Noi attraverso lo specchio dell’Altro, ha sempre dovuto fare i conti con il problema del posizionamento:

Il fatto fondamentale che condiziona il futuro dell’antropologia è che essa si occupa della conoscenza degli altri. Questa conoscenza ha da sempre implicato responsabilità etiche e politiche, e oggi gli “altri” che gli antropologi hanno fatto oggetto dei loro studi rendono esplicite e inevitabili quelle responsabilità. Devono essere considerate le conseguenze che comportano, per gli individui tra i quali si lavora, il semplice fatto di stare fra loro,

l’acquisizione di conoscenze riguardo alla loro vita e la fine che queste conoscenze fanno (Hymes 1979: 68)

Risulta allora importante sottolineare come per studiare “chi sta in basso”, gli attori principali dei movimenti sociali, sia necessario tenere in debita considerazione anche coloro che “stanno in alto”, quelli che determinano le condizioni di inferiorità e di rivolta.

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Nello studio dei movimenti sociali oggi si mostra con particolare rilevanza quella difficoltà della ricerca antropologica ad astrarre il fenomeno, a renderlo empiricamente osservabile come in un esperimento di laboratorio: in essi più che altrove si sperimenta la quasi

impossibilità di mettere dei paletti, di determinare dove esso inizi o finisca, dove si sviluppi, quando abbia inizio e quando abbia termine.

1.2.1 I principali approcci di studio ai movimenti sociali

Alexander Koensler (2012) individua due linee di sviluppo nelle teorie sullo studio dei movimenti sociali: la prima consiste nell’abbandono della classica ipotesi che essi siano fondamentalmente irrazionali, andando invece a scandagliare con maggiore attenzione le motivazioni degli attori in gioco. Possiamo riassumere questa posizione in un passaggio dall’irrazionalità alla razionalità dei movimenti sociali (Barrows, 1981). La seconda concentra la sua attenzione verso quello che gli attori fanno, verso le loro produzioni culturali

(Kurzman, 2008).

Per quanto concerne la prima tendenza, essa è direttamente collegabile agli studi sulla psicologia di massa dell’inizio del XIX secolo, sebbene questo approccio sia poi proseguito anche successivamente all’interno della Scuola di Chicago: l’idea alla base è quella di un pensiero “caotico” stante alla base dei movimenti sociali, un pensiero e un comportamento collettivo (Canetti in Rutigliano, 2007; 27) che travalica il singolo il quale finisce per accettare in maniera quasi del tutto passiva ciò che viene proposto o imposto da un leader particolarmente capace o carismatico. Si tratta di un approccio fortemente deterministico, riscontrabile già in Marx e nel suo considerare la “coscienza operaia” come una sovrastruttura ugualmente diffusa tra i singoli e determinata dalla sottomissione ai mezzi di produzione e al sistema capitalista. L’idea marxiana è stata poi tradotta sul contesto tipicamente italiano dagli scritti di Gramsci, per cui la “cultura popolare” sarebbe caratterizzata dalla convivenza e dall’opposizione tra una cultura egemonica e una cultura delle classi subalterne: se da un lato oggi quella larga parte di comunità identificabile un tempo come “tradizioni popolari” non è più individuabile, è altrettanto vero che la mancanza di quel legame con una concezione locale della vita e del mondo rischi di portare i movimenti sociali a non intaccare i nodi strutturali del politico che si propongono di andare a contrastare (Pellizzoni, 2014).

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1.2.2 La svolta: gli anni Sessanta e successivi

E’ solo dagli anni Sessanta in poi che la prospettiva e il pensiero dei singoli agenti inizia a diventare oggetto di attenzione. Questo perché “il presupposto che le masse si comportano in modo irrazionale non poteva più spiegare le mobilitazioni degli studenti fuori dalle porte delle università̀” (Koensler, 2012; 49). Il mutato contesto globale, con l’ombra e i timori della Guerra Fredda “could not be easily classified in terms of the working class centred approaches” (Salman, 2017; 68). Il dibattito si sposta sulla costruzione di uno studio dei movimenti sociali che sia una vera e propria disciplina a se stante, convogliando in essa i contributi della sociologia, della psicologia, della storia e dell’antropologia.

Nella nuova macroteoria emergente dagli anni Sessanta, Koensler individua due linee di studio per i movimenti sociali che sembrano non essere più imbrigliabili nello schema del “pensiero caotico”: da una parte quella della “mobilitazione delle risorse”, concentrata sulla capacità da parte dei movimenti sociali di mobilitare risorse economiche e simboliche e quindi sull’analisi del fatto che a scatenarli non sarebbe tanto l’ingiustizia sociale o la miseria bensì la capacità di acquisire le risorse necessarie; dall’altra, le “teorie dei nuovi movimenti sociali”, legate in particolar modo a figure come Touraine (teorico della post-industrial society), per i quali i “nuovi movimenti” non sono “nuovi” per il fatto di essere venuti dopo il movimento operaio e i movimenti nazionalisti. Essi sono nuovi perché emergono dalla crisi della modernità e dal superamento della tradizionale lotta di classe, a favore di un

riconoscimento della propria “differenza” culturale, perché affrontano temi e adottano strutture diverse da quelle fino ad allora attuate: “Those conflicts [quelli precedenti i nuovi movimenti sociali] had revolved around issues of distribution at an institutional and political level, but the movement of the post-industrial society addresses cultural issues” (Salman, 2017; 69). Koensler (2012; 51) conclude che “Partecipare a questi movimenti diventa spesso fine a se stesso e porta alla costruzione di nuove soggettività”. Se fino agli anni Sessanta la rivendicazione da cui prendevano il via i movimenti sociali era essenzialmente di tipo

collettivo e collettivistico (si vedano le rivendicazioni del movimenti operaio e dei movimenti di autodeterminazione dei popoli inserire riferimenti bibliografici), i nuovi movimenti sociali in essere spostano l’asse di interesse e interpretazione dalla psicologia della massa a quella dell’individuo: egli non si sente disperso sebbene partecipe in un gruppo, ma prende parte per riaffermare la propria posizione, la propria individualità, fino a rimodellare la propria

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Non è una novità che nella contemporaneità imperversi il tema della soggettività: essa incombe da ogni lato e mette a repentaglio la convivenza tanto con il “Noi” quanto con gli “Altri”. Assillata dal perenne confronto con se stessa e con l’altro, la soggettività ricerca continuamente nuove forme di affermazione, dall’avvicinarsi ad un movimento al seguire una moda. La vita è un susseguirsi di rimodulazioni della soggettività e ciò avviene in maniera lampante sul campo etnografico: esso stesso è un incontro di soggettività, sia interne al campo che tra i partecipanti, interni ed esterni (osservatori, antropologi) del campo. L’approccio ermeneutico in antropologia (Geertz, 1973) ha permesso l’ampliarsi dello spettro delle soggettività tenute in considerazione nel testo etnografico: è venuto meno quel timore di mettere a fianco della soggettività dell’autore quelle delle persone che compongono il campo delle relazioni indagate. Questo non comporta però che il testo etnografico diventi una sorta di autobiografia dell’antropologo sul campo, bensì una maggiore consapevolezza e sensibilità riguardo all’autoriflessività.

Riflettere sulla soggettività all’interno dei movimenti sociali richiede di tenere conto di due fattori: gli individui contemporanei devono perennemente confrontarsi da un lato con una comunicazione che si è fatta totalizzante anche e soprattutto attraverso nuovi metodi e codici, dall’altra con una realtà che tende invece sempre più alla frammentazione. Come affermato in precedenza, se l’individuo appare più libero è anche vero che è imbrigliato in una rete di relazioni e riflessività con il resto del mondo di cui è parte ma difficilmente artefice: il

cittadino contemporaneo vive una situazione altalenante in cui ha a disposizione potenti mezzi per incidere sulla sua esistenza all’interno della comunità, ma al contempo questi non sempre risultano pienamente efficaci o riconosciuti dalle istituzioni, soprattutto quando si tratta di avere a che fare con questioni estremamente tecniche come piani regolatori e simili.

Non è un caso, dunque, che questi nuovi movimenti emergano proprio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, da quel punto di snodo che è stata la crisi del welfare state, della

democrazia parlamentare, del modello produttivo liberista, insomma da tutto quell’apparato che aveva garantito fino ad allora decenni di crescita e una relativa pace sociale. Le

rivendicazioni studentesche, femministe, pacifiste, sono indice che le vecchie categorie concettuali non sono più congrue a definire il mondo in cui viviamo, i nuovi movimenti sociali non sono imbrigliabili in una coscienza di classe, di ceto o di appartenenza politica. Non si tratta solo di richiedere accesso a risorse e margine decisionale, bensì di rivendicare la possibilità di diverse forme di vita, di rappresentanza, legate all’individuo e ad aspirazioni

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non più solo materiali. L’oppositore contro cui muoversi è meno sfumato di quanto non fosse in precedenza (l’industria, il capitale) ed assume le forme del maschilismo, del modello di famiglia, di tutto il “sistema”. L’attenzione dello studioso deve allora spostarsi dalle cause strutturali della protesta ai fattori organizzativi concreti che danno il la alla protesta stessa (la mobilitazione di risorse, le relazioni che si creano etc.) fino a uno shift cognitivo che passi dalla polarizzazione razionale-irrazionale ad una cognitivo-normativo (Pellizzoni, 2014)

Il movimento sociale diventa allora il mezzo attraverso il quale un individuo o un gruppo si affranca dalle rappresentazioni di sé che la quotidianità impone loro per crearsi come nuovi attori, più liberi e responsabili. Il fine dei movimenti sociali quindi non si esaurisce in una rivendicazione, nel tentativo di sovvertire o ribaltare un ordine costituito bensì si spinge oltre, cercando di riformulare le categorie del sé.

1.2.3 Il contributo antropologico recente: framing theory e

dynamics of contentions

Il contributo spiccatamente antropologico allo studio dei movimenti sociali, come detto, è arrivato relativamente tardi, e ancora di più a partire dagli anni Novanta, con le pubblicazioni di Arturo Escobar (1992; 2), il quale individuò le ragioni di questa lacuna in primis nella difficoltà di conciliare la sfera “politica” con quella “culturale”. La ricerca etnografica è da sempre concentrata sull’aspetto della “cultura”, lasciando in un’altra cornice la politica, considerata separatamente. Si deve proprio ad Escobar (1992) la definizione “politica culturale” la quale: “le pratiche culturali come una delle dimensioni delle istituzioni sociali, politiche e economiche. Per Escobar, queste pratiche sono politiche nel senso che

contribuiscono a ridefinire i processi nei quali si manifesta il potere sociale” (Koensler, 2012).

In secondo luogo, la ricerca etnografica ha a lungo privilegiato le pratiche che tendono a perpetuare e riprodurre la vita sociale, e non quelle che la sovvertono, a livello sia individuale che collettivo. E da questa consapevolezza è utile riprendere il concetto del “divenire folle”: l’antropologia deve prendere in considerazione tanto il perpetuarsi della cultura quanto le linee di tensione che quella cultura possono portare a sovvertirla, facendoci ritrovare senza coordinate in un mondo capovolto.

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Per Blumer (1994; 60) i movimenti sociali possono essere letti come imprese collettive per fondare un nuovo ordine vitale. L’inizio si ha da una condizione di rivolta, mentre la loro forza deriva da un lato dall’insoddisfazione nei confronti dell’attuale forma di vita, dall’altro lato dal desiderio e dalla speranza in un nuovo schema o sistema di vita. Inserire virgolette se citazione diretta. Si deve indentare se citazione è di 4 righe o superiore.

Negli ultimi anni due decenni sono emerse con particolare interesse due nuove direzioni di ricerca: la framing theory e la dynamics of contention. Per framing theory, la quale si rifa al concetto di frame introdotto da Erving Goffman (1974) inteso come uno schema

interpretativo atto a trasformare la realtà in qualcosa di significativo per i singoli attori, si intende lo studio dei processi attraverso i quali i pensieri e gli orientamenti individuali tendono ad allinearsi alle attività e agli obiettivi delle organizzazioni che prendono parte ai movimenti sociali. Come precedentemente sottolineato, anche in questo caso il focus non è centrato sul perché dell’azione collettiva ma sul come, sulle pratiche concrete: l’obiettivo dei singoli movimenti sarebbe allora quello di costruire un masterframe (Koensler 2012; 67) capace di operare da sovrastruttura per ovviare ai problemi messi in luce dai singoli

movimenti, analizzando le specifiche situazioni e fornendo una gamma di soluzioni. La teoria denominata come dynamics of contention portata avanti da studiosi come Tilly (2007),

integrando in un unico sistema diverse delle tradizioni teoriche precedentemente considerate, si pone come obiettivo più ambizioso quello di lasciare sullo sfondo lo studio dei movimenti sociali tout court per concentrarsi sulla politica del conflitto (menzionata in apertura del capitolo), di modo da elaborare dei modelli per interpretare i pattern che ricorrono in singoli eventi di lotta/rivolta anche distanti tra loro (geograficamente, temporalmente e nei modi di espressione). Per contentios politics si intende allora ogni fenomeno, sia esso ricorrente o singolo, in cui le istituzioni o un soggetto dominante vengono messi in discussione al punto da poter apportare delle serie modificazioni allo status quo. Il vantaggio apportato da questo approccio è quello di essere estremamente dinamico, evitando una visione statica e

deterministica dei movimenti sociali, intendendoli nella loro mobilità e nel loro essere un insieme di relazioni in perenne mutamento e in contatto più o meno diretto.

Venendo allo scenario attuale, i protagonisti delle battaglie odierne, non solo a livello italiano, sono in genere comitati, gruppi organizzati, con una struttura liquida o comunque non nettamente gerarchizzata, i quali si riuniscono sul territorio e che lottano contro progetti di cambiamento che minerebbero la qualità di vita. Questi comitati, pur agendo localmente e singolarmente, hanno nel tempo sviluppato reti identitarie e di solidarietà, sia nel concreto con incontri e proteste in copartecipazione, sia in quello che è l’ambito dei social media, con una

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massiccia campagna di comunicazione. I temi maggiormente toccanti sono quelli

dell’ambiente e della sicurezza, ma anche della difesa di beni pubblici, contro processi di

gentrification, come testimoniano i lavori di Vitale (2007), Dalla Porta e Piazza (2008),

Pellizzoni (2011). Come messo in luce anche dagli studi di Taussig (2013), queste nuove forme di rappresentazione hanno molto a che spartire con i nuovi movimenti sociali emersi negli anni Sessanta e Settanta, a partire da una debole struttura organizzativa, intesa come una allergia alla burocrazia e alla delega, il cardine della rappresentazione è il sé che agisce all’interno del collettivo; non si parla attraverso leader ma più spesso con portavoce, con agenti che abbiano mandati limitati e simili. Ugualmente presente è una vocazione single

issue, ovvero a confrontarsi con una singola questione: nel caso etnografico affrontato da

Taussig, ad esempio, è la crisi economica post 2007/2008, esemplificata dall’occupazione di Wall Street a New York. La costruzione del sé non avviene attraverso linee di classe o di appartenenza politica ma sull’appello a una serie di valori considerati universali come il diritto alla casa, alla stabilità lavorativa etc. La mobilitazione delle risorse non viene tanto ricercata quanto attivata: è un processo di solidarietà collettiva. La ricerca di risorse sembra non essere più uno dei preamboli allo scoppiare di un movimento sociale, bensì essa emerge in maniera spontanea: una volta che il movimento è reso visibile, nella piazza, sul territorio, sulla rete, una volta che ha conquistato il suo spazio e che ha dato inizio al suo discorso, le risorse sono in grado di convogliarsi in maniera autonoma verso di esso, sono i cittadini i primi a voler dare qualcosa al movimento anche quando non espressamente richiesto, sia esso un sostegno materiale inteso a livello monetario o di infrastrutture oppure immateriale con la propria partecipazione e col proprio diffondere la conoscenza di quell’esperienza. Citando le parole di Assies in Salman (2017; 87) “social movements have, at times, been interpreted as ‘practice ? grounds for democracy’”, un vero banco di prova della democrazia in due sensi: da un lato, essi rappresentano una maggiore consapevolezza politica e dei processi decisionali, una maggiore attenzione alla coesione e alla mutua assistenza; dall’altro, essi pongono le istituzioni davanti ai loro limiti.

Se da un lato si possono osservare queste costanti, tanto da poter parlare di “un ciclo unico dei movimenti sociali” (Caruso 2010; 20) che muove dagli anni Sessanta e arriva ai giorni nostri, le maggiori discrepanze sono da rintracciarsi nella perdita di rilevanza (per molti ma non tutti i movimenti) dell’asse divisorio destra/sinistra, allorquando i movimenti attuali mescolano tematiche di entrambe le ideologie, come l’anticapitalismo e il conservatorismo. La spinta ideologica ad impegnarsi viene meno a favore di una spinta più individualistica, per

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mettersi in gioco col fine di ribaltare o rovesciare le condizioni che ci fanno avvertire un senso di ingiustizia nel quotidiano. Parallelamente perde di rilievo il ruolo dello Stato come antagonista principale e l’utopia di una trasformazione totale della società a favore di cambiamenti microscopici che possano però portare ad un maggior benessere diffuso (Koensler, 2012).

In conclusione, per quanto riguarda lo studio dei movimenti sociali in antropologia e in sociologia possiamo individuare due momenti ben distinti: una prima fase, sviluppatasi per buona parte del Ventesimo Secolo la quale considerava i movimenti sociali e la consente protesta come una conseguenza delle mutate condizioni sociali, come la valvola di sfogo di un sistema avvertito come diseguale, legato all’incapacità di certi settori della popolazione di adattarsi al mutamento in atto; una seconda fase, che ha preso piede dagli anni Sessanta e dalla teoria dei nuovi movimenti sociale, nella quale si è ribaltato il tradizionale modo di intendere e considerare la relazione tra movimenti e cambiamento: i primi non sono la conseguenza del secondo, ma sono essi stessi attori del cambiamento in atto, per usare le parole di Melucci (1991; 7) Annunciano il mutamento possibile.

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1.3 Come l’antropologia può contribuire allo studio dei

movimenti sociali

1.3.1 L’aspetto culturale

I movimenti sociali occupano uno spazio sempre maggiore nella sfera pubblica e privata, modificando l’immaginario politico, le forme di partecipazione e dell’identità. Studiare i movimenti sociali nelle loro numerose sfaccettature può rappresentare l’occasione per ottenere delle importanti chiavi di interpretazione, utili per cogliere trasformazioni

socioculturali in atto, per cercare di raggiungere una per quanto limitata capacità di predirne gli sviluppi.

Lo sguardo antropologico, circoscritto ad una comunità o un territorio e da sempre rivolto agli ultimi alle periferie intese come luogo di incubazione di nuove idee (Homi Bhabha, 2001), ben si adatta allora allo studio dei movimenti sociali. Sulla frontiera, intesa non solo geograficamente e politicamente, si può osservare la quotidianità e in essa le sue

contraddizioni e frammentazioni, come nel saggio sui movimenti anti-mafiosi in Sicilia di Schneider e Schneider (2003), in cui i ricercatori partecipano a un pic-nic al quale si

presentano sia manifestanti contro il pizzo che esponenti delle cosche. Si tratta di situazioni limite ma che a maggior ragione possono e devono rappresentare un campo di indagine etnografica.

Un errore di analisi spesso commesso nello studio dei movimenti sociali è stato quello di intenderli, come detto, come pura espressione di un malcontento che si incanala in rabbia e che infine può esplodere, mosso più da una psicologia della massa che legata alle singole azioni degli individui. Come espresso da Salman (2017; 58) “Social movement analysis, to the contrary, should situate events in the setting of ordinary, routine life patterns and in the dominant cultural configurations”. Come abbiamo sottolineato in precedenza, i movimenti sociali sono un fatto culturale e nella loro diversità certificano un aspetto che da sempre viene sottolineato in antropologia: la cultura non è una scatola chiusa, un insieme di norme e

costumi appartenenti ad un popolo che si tramanda di generazione in generazione. La cultura è “plural, contested, and fragmented – as in any society” (Salman, 2017; 63) tanto da tendere

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più a dividere che a omogenizzare una società.

Oggi più che nel secolo passato, i movimenti sociali sono diventati più locali, propugnando la centralità del territorio, inteso come uno spazio sul quale insistono forme di vita e attività specifiche che investono e determinano i caratteri di un dato luogo. Nella società

contemporanea e specialmente europea, il conflitto si è reso locale nel senso che le

rivendicazioni non hanno come contenitore fisico un dato luogo bensì esso è il presupposto da cui parte: “Thus, culture not only is the shared discursive and practical backdrop for the parties in (political) conflict, it also, in its heterogeneous, globalized and contested nature, is one of the very sub- stances of the conflict.” (Salman, 2017; 64).

Se da un lato la globalizzazione e i mass media hanno permesso una sempre maggiore diffusione e interconnessione a livello digitale (basti pensare all’apporto che danno sia strumenti come le pagine Facebook che siti adibiti al censimento di movimenti e simili) e transnazionale (è il caso della stessa Venezia presa in esame nel presente lavoro, che da anni porta avanti un discorso sulle strategie di resistenza al turismo di massa con Barcellona e Dubrovnik sopra a tutte), dall’altro questa localizzazione (si pensi alle manifestazioni contro la TAV Torino-Lione, alle occupazioni di stabili da parte di cittadini o cooperative sociali, alle rivolte parigine dei Gilet Jaunes) permettono all’antropologo di osservare fenomeni “minuti” intesi come singole manifestazioni, la preparazione alle stesse, per tentare poi di inserirli in un paradigma più ampio che, come detto, muove da una sfiducia nel neoliberismo e nell’individualismo.

Nello studio dei movimenti sociali da parte degli antropologi, una questione di particolare rilevanza è posta dal posizionamento ideologico, ovverosia quanto sia auspicabile che il ricercatore patteggi o prenda parte, a maggior ragione considerando che nel mondo

contemporaneo la grande maggioranza dei movimenti sociali nasce e si sviluppa nel contesto urbano, soprattutto delle grandi città, vicino a noi e quindi mettendo in gioco anche quelle che sono le nostre idee e le nostre posizioni in merito. Tracciare una linea di condotta per

l’antropologo dei movimenti è quanto mai complessa: per alcuni etnografi prendere posizione non rappresenta un problema e può derivare da una precedente militanza o da convinzioni etiche e politiche (Hamm, 2015); altri hanno tentato un approccio più distaccato, sviluppando metodologie che permettessero di mantenere una certa distanza e garantisse un certo limite di obiettività. Non intendo fornire una risposta univoca a questa problematica ma ritengo opportuno un richiamo al concetto di “pensiero relazionale” di Bourdieu (2005; 13). Il suo

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intento era quello di introdurre nelle scienze sociali il modo di pensare relazione, ovverosia un metodo che, “rompendo con il modo di pensare sostanzialista, conduce a caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un sistema, dal quale deriva il suo senso e la sua funzione” Bourdieu è stato tra i primi a cogliere la necessità di evitare di concepire il mondo come uno spettacolo, una serie di significato da interpretare, bensì a cogliere in esso i problemi concreti che richiedono soluzioni altrettanto concrete, accanto ad uno sforzo di perenne riflessività dello studioso il quale deve sempre tenere a mente che ogni oggetto di conoscenza è costruito e non semplicemente dato e da lui descritto. L’obiettivo dello studioso francese è la ricerca di un linguaggio quanto più aperto possibile che permetta ai concetti di dispiegarsi in tutta la loro forza, evitando briglie e categorie, un approccio che ritengo fruttuoso per lo studio dei movimenti sociali intesi come un campo di forze in cui necessariamente convergono e conversano un ricercatore (con il suo bagaglio accademico) e gli attori (con le loro categorie emiche). E’ questo un altro importante fattore a favore di una maggiore considerazione dell’approccio antropologico allo studio dei movimenti sociali: l’occhio dell’antropologo tiene in ampia considerazione quelle che sono le percezioni del gruppo e del singolo, cerca di comprendere bisogni, dubbi, domande sia di coloro che partecipano direttamente sia di coloro che prendono parte in maniera meno indiretta?.

La prospettiva emica “focuses on the intrinsic cultural distinctions that are meaningful within that society” (Salman, 2017; 59), scandaglia parole, azioni, rituali che hanno

particolare rilevanza all’interno del gruppo stesso, laddove la prospettiva etica ricerca concetti e categorie che hanno significato per coloro che studiano un determinato campo, i quali spesso non sono conosciuti o considerati da coloro che sono oggetto dello studio. Tenere in considerazione gli aspetti emici significa altresì, e questo non solo per lo studio dei

movimenti sociali, ricercare un approccio quanto più olistico possibile per studiare un dato fenomeno “in its social whole” (ibid.; 59): una manifestazione per le strade di una città oppure un sit-in in Wall Street non può non tenere conto delle componenti economiche, politiche, sociali, religiose, di genere, che convergono in essa. Questo aspetto può essere meglio inteso nella cornice dei fatti sociali totali (Mauss;1925) ovvero quei fatti capaci di influenzare e determinare una massa di fenomeni simili e affini, quei fatti capaci di coinvolgere una larga parte delle dinamiche operanti all’interno di una società o di un gruppo. Come il rito del dono, nell’analisi di Mauss, influenzava aspetti pratici, economici, mitici e religiosi, così i

movimenti sociali innescano una serie di reazioni a catena che partendo da un focus si

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fenomeno di Occupy Wall Street coinvolge un’ampia gamma di sfere che esulano da quella esclusiva della rivendicazione di un nuovo modello economico post crisi del 2008 per arrivare a una totale ridefinizione del sé e della comunità in tutti gli aspetti del quotidiano.

Prendere parte ai movimenti sociali e come attivisti e come etnografi rimette in discussione il concetto ormai dato per assodato di osservazione partecipante, come si domande Hamm (2015; 17) a riguardo della sua ricerca sull’Euromayday Parade: “How would I negotiate my participation in the movement as an activist and a political subject with the role of an

ethnographer?”. A un livello simbolico, di immagine oserei dire, l’etnografo dei movimenti sociali partecipa secondo un “codice” facilmente riconoscibile, ovverosia quello del

ricercatore che con penna e taccuino documenta quanto gli avviene attorno. Come ho avuto modo di sperimentare personalmente, a un livello più teorico e metodologico, diverse questioni emergono dal campo. Come messo in luce da Hamm (ibid.; 20) può capitare che alcuni dei partecipanti con cui si entra in contatto siano a loro volta studiosi o ricercatori di discipline sia affini che distanti all’antropologia (dalla storia all’architettura). Nonostante ciò, la problematica sollevata giustamente da Hamm è quella relativa alla “Partecipation as animperative”: l’incessante richiamo alla partecipazione da parte di governi e corporazioni all’interno di predefiniti schemi economico-governativi rappresenta la principale caratteristica del cognitive capitalism (ibid.; 22). Tale approccio, definito come partecipatory action

research (PAR), sfruttato in ambito educativo, sociale, medico, mira ad un utilizzo della partecipazione che produca una conoscenza pratica utile sul campo, già predeterminata dall’alto piuttosto che mossa dal basso:

“Researchers are expected to let chosen field actors participate in the research process by asking them for their needs within a predefined project. […] In governmentality studies, the participation imperative is seen as a mechanism of regulation that helps producing a certain type of self” (ibid.; 21, 22).

L’autore conclude che:

It has been noted that a degree of betrayal and manipulation is inevitable in social

interactions with the aim of ethnographic writing. […] I feared that my partial involvement in the field of activism was not sufficient to justify access to movement knowledge. Thus my ‘researcher’s angst’ reflected the moral economy of the grassroots strands of action-oriented social movements, where participation is highly valued” (ibid.; 26)

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perennemente in costruzione attraverso una comprensione della partecipazione che sia

orizzontale, orientata alla pratica, direttamente partecipata dall’etnografo. Riconoscere questa posizione vuol dire non abbandonare mai la posizione di insider/outsider sul campo ma al contempo significa sfruttare questa ibridazione al fine di giungere ad una descrizione etnografica quanto più valida possibile, che tenga in considerazione la posizione

dell’etnografo ma anche quella del soggetto che ci sta di fronte, il quale sa di essere oggetto della nostra narrazione:

I presented myself in the introductory go-around: ‘My name is Marion, and I am researching the Euromayday network.’ With succinct briefness, the next participant in the round continued: ‘My name is X, and I am being researched.’ In one sentence, he had neatly flagged up the com- plexity of research with, by, for or about people. (ibid.; 27)

1.3.2 Uno studio ibrido

L’approccio portato avanti da studiosi come Michael Taussig (2013) risulta

particolarmente proficuo: l’antropologia, avvalendosi anche e soprattutto del contributo di altre discipline, diventa parte integrante di un processo di comprensione multifocale. Non solo quindi, nel caso specifico dell’etnografo australiano, una thick description dell’esperienza diretta di Zuccotti Park a New York, ma anche l’interesse di uno studioso di scienze politiche come Bernard Harcourt impegnato nell’analisi del rifiuto da parte del movimento di eleggere figure leader e di stilare una serie di richieste come solito nelle classiche forme di

disobbedienza politica che “fundamentally rejects the ideological landscape that has dominated our collective imagination” (ibid.; 46). Si tratta di un aspetto che porta a una struttura non gerarchica ben distinta da quella dei movimenti sociali storici, volta

all’inclusione e alla non imposizione di alcuna ideologia, una struttura la quale “may open possibilities rather tan close them” (ibid. 70).

In ultimo il contributo di uno studioso di arti visive come W.J.T. Mitchell per analizzare il ruolo che immagini, slogan, media e spazio pubblico giocano nel connettere specifici luoghi e proteste in una sfera più ampia di circolazione, in un mondo in cui è sempre più difficile parlare di “momenti” essendo perennemente interconnessi: per Mitchell a giocare un ruolo di primo piano è tanto l’immagine quanto la parola, quanto e come si parla di un dato luogo anche all’altro capo del mondo: “as images of Occupy Wall street went viral in the global media, the park began to take on the look of a revolutionary space” (ibid.; 96), venendo meno

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il ruolo di un volto riconoscibile “the only figure that circulates globally… is the figure of occupation itself” (ibid.; 101).

Taussig (2013; 4) avvalendosi di uno stile di scrittura che richiama lo “stream of consciousness”, come il movimento stesso, mescola le voci e le immagini (non solo dei partecipanti ma anche di filosofi e poeti), senza però perdere quello che è l’obiettivo della descrizione, cerca di far trasparire “the trance of that other reality” che è indotta sia dalla sperimentazione di un nuovo modo di vivere sia “by testing the limits of monetized space” (ibid.; 17) laddove l’occupazione diventa pratica artistica, “the art of being alive” (ibid.; 18). A farla da padrone è l’utilizzo del segno, la ricorrenza di cartelli autoprodotti, di slogan personali: “Most of all, I was struck by the statuesque quality of many of the people holding up their handmade signs: like centaurs, half-person, half-sign” (ibid.; 25)

Essendo l’antropologia da sempre impegnata nella decodifica (e non solo nella rassegna) dei segni, questi, sempre più presenti nei movimenti sociali, necessitano di una

contestualizzazione e di una interpretazione: sono segni di frattura che intendono cambiare una precisa visione del mondo.

Si tratta quindi di approcciare lo studio in maniera ibrida, come ibridi e sul confine sono sempre i movimenti sociali: non vi è più il solo conflitto capitale/lavoro, ma si rintracciano una serie di conflitti minori, anche interni agli stessi movimenti (correnti, fronde etc.), che necessitano di un concerto di competenze, come perfettamente messo in luce dal lavoro di Taussig-Harcourt-Mitchell. Ogni differente movimento sociale richiede l’intervento di differenti discipline: nel caso di Taussig si è reso indispensabile il dialogo con esperti di arte visiva e scienze politiche, in altri casi può essere indispensabile l’apporto di un approccio che tenga in considerazione le strutture societarie (Touraine, 1985). I movimenti sociali

contengono al loro interno una molteplicità di aspetti a cui l’antropologia deve approcciarsi con quello spirito multidisciplinare e multifocale che la contraddistingue.

Una delle sfide più affascinanti dell’antropologia dei movimenti sociali è quella di dover affrontare sul campo un’esperienza che non è, come detto, circoscrivibile, della quale difficilmente si può prevedere il termine e le conquiste, ma ogni campo etnografico deve giungere ad un termine, al raccogliere una serie di dati, voci, fatti concreti che permettano di districarsi nella costellazione di significati che invadono quell’angolo di mondo. Questo è particolarmente complesso in un angolo di mondo che si è ritagliato all’interno stesso del

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mondo, cercando di sovvertirlo, cercando di metterne in discussione alcuni assunti, cercando di ridefinirne delle categorie.

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Capitolo 2

LA CITTA’ COME ATTRAZIONE, LA

CITTA’ RIPENSATA: QUESTIONI

EMERGENTI NEL PANORAMA VENEZIANO

2.1 La città come attrazione, la città ripensata: da De Certeau a

Harvey

Le città non sono mai state […] sistemi equilibrati di rapporti umani integrati e sereni: al contrario, le città sono sempre state il punto di massima tensione di ciascun sistema sociale, a causa della accentuata divisione del lavoro che le caratterizza e della interdipendenza delle funzioni e dell’antagonismo degli interessi, che da essa derivano. […] Alla metropoli si rimprovera la sua ‘invivibilità’, il suo non essere ‘a misura d’uomo’

Ogni quartiere di edilizia sociale si presenta per l’antropologo […] come un terreno di contatto culturale tra cultura dei progettisti e cultura degli abitanti, anzi di vera e propria acculturazione più o meno forzata.

[Signorelli, 1999]

L’errore principale che si può commettere è pensare che una città, qualunque città, nei suoi quartieri, sia solo un complesso di cemento e strade, un susseguirsi di vie e palazzi in cui si svolgono le storie delle nostre giornate. La città ha “un ruolo centrale nell’esistenza delle persone da un punto di vista simbolico, politico, culturale, sociale ed economico” (Governa, 2011; 1).

Nel cemento e nelle strade si intrecciano storie di vita, tradizioni e parole, percorsi unici e irripetibili che, nel corso di secoli e millenni, trasformano quel territorio, quelle strade e piazze, in Venezia, in Firenze, in Roma, nella specificità di quell’angolo di mondo. Questo processo di “investitura di simboli” su una città può durare decenni o secoli ma può parimenti subire rapide inversioni di rotta e riformulazioni. Se originariamente siamo portati a ritenere che una cultura investa la città di simboli per dotarla di significato e identità propria, oggi più che mai i simboli che denotano una città sono volti all’incentivare il suo consumo e la

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