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Relazione tra stress ossidativo, infiammazione e funzione endoteliale nel paziente con diabete mellito di tipo due

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Academic year: 2021

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SCUOLA DI MEDICINA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale - Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica - Dipartimento di Ricerca

Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA E CHIRURGIA

“ Relazione tra stress ossidativo, infiammazione e

funzione endoteliale nel paziente con diabete mellito di

tipo due”

Candidata: Relatore: Costanza Casella Chiar.mo Prof. Stefano Taddei Correlatori: Chiar.mo Prof. Francesco D’Aiuto

Dott. Stefano Masi

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It’s only the giving

That makes you what you are

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Riassunto analitico

L’infiammazione è sempre più riconosciuta come un importante fattore di rischio nelle patologie cronico degenerative, incluso il diabete e la malattia cardiovascolare aterosclerotica. Sebbene numerosi studi documentino un importante ruolo dell’esposizione infiammatoria cronica nel controllo dell’omeostasi vascolare e metabolico di pazienti con diabete mellito, i meccanismi attraverso i quali l’infiammazione media queste patologie rimangono ancora scarsamente studiati. Lo stress ossidativo è considerato uno degli elementi cruciali nello sviluppo di complicazioni in pazienti affetti da diabete mellito e sembra essere coinvolto/condizionato anche nella regolazione del metabolismo glicemico.

Questo studio ha utilizzato un modello infiammatorio cronico di infiammazione, quale quello della parodontite e suo trattamento, per analizzare l’impatto della

risoluzione della risposta infiammatoria e dei relativi cambiamenti

dell’esposizione allo stress ossidativo intra ed extracellulare sulla funzione endoteliale e sul controllo metabolico di pazienti affetti da diabete mellito tipo 2. Il modello parodontale è stato scelto in quanto precedenti pubblicazioni avevano mostrato come il trattamento della patologia orale si associa ad un miglioramento altamente prevedibile dell’infiammazione sistemica, della funzione endoteliale e del controllo metabolico in pazienti con diabete.

Le misure di stress ossidativo sistemiche sono state condotte su campioni appartenenti ad un precedente studio (Appendice I), che ha dimostrato, per la

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prima volta, come in una popolazione di pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 con malattia parodontale, fosse possibile correlare la riduzione dello stress ossidativo mitocondriale ad un miglioramento della funzione endoteliale e del controllo glicemico, sottolineando come tale stress ossidativo potrebbe quindi rappresentare un nuovo target terapeutico per prevenire la malattia cardiovascolare nei soggetti affetti da diabete.

Tale studio è stato condotto presso l’Eastman Clinical Investigation Centre (ECIC) ed ha coinvolto un totale di 51 pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 e malattia parodontale. I pazienti sono stati randomizzati in 2 gruppi: uno ha ricevuto un trattamento intensivo della parodontite (IPT, n = 27) ed uno un trattamento di controllo (CPT, 24 pazienti). L’intensità del trattamento parodontale correla con l’entità della riduzione dello stimolo infiammatorio orale e sistemico. In ogni gruppo parametri di stress ossidativo mitocondriale su cellule infiammatorie periferiche misurato tramite fluorocitometria, , di stress ossidativo sistemico ottenuto tramite la misurazione dei metaboliti ossidanti e le capacità antiossidanti del sangue, lo stato infiammatorio sistemico definito sulla base dei livelli circolanti di markers infiammatori circolanti, il controllo metabolico dato dal valore dell’emoglobina glicata e la funzione endoteliale misurata mediante flow mediated dilation (FMD) sono stati misurati al basale e 6 mesi dopo il trattamento parodontale. Le misurazioni di stress ossidativo sistemico (extracellulare) sono state eseguite mediante d-ROM e BAP test. La raccolta dei dati si è svolta presso l’ECIC da Novembre 2017 a Gennaio 2018.

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I risultati dello studio hanno dimostrato come IPT non inducesse un significativo cambiamento dello stress ossidativo sistemico, nonostante si associasse ad un miglioramento del profilo metabolico ed infiammatorio del paziente, oltre che della funzione endoteliale rispetto al gruppo CPT. Al contrario, cambiamenti dello stress ossidativo prodotto a livello intracellulare da parte dei mitocondri, nella stessa popolazione, si era dimostrato in grado di predire i cambiamenti della FMD.

Questi dati suggeriscono che, nel paziente con diabete di tipo 2, una risoluzione dell’infiammazione cronica potrebbe associarsi ad un miglioramento dell’omeostasi vascolare e del controllo metabolico tramite meccanismi principalmente mediati dal cambiamento della produzione di stress ossidativo intracellulare e non extracellulare. Questo potrebbe avere importanti ripercussioni cliniche in quanto suggerisce che misure di stress ossidativo extracellulare sono scarsamente efficaci nel definire il rischio di complicanze a lungo termine nei pazienti con diabete mellito di tipo 2, mentre la produzione di stress ossidativo mitocondriale potrebbe rappresentare un nuovo ed importante target terapeutico per prevenire le complicanze cardiovascolari di questa malattia.

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Sommario

1. Introduzione ... 9

1.1 Malattie non comunicabili ... 9

1.1.1 Definizione, trends e stime attuali ... 9

1.1.2 Fattori di rischio ... 11

1.1.3 Prevenzione e controllo delle NCDs ... 12

1.1.4 NCDs e infiammazione cronica ... 14

1.2 La malattia aterosclerotica ... 15

1.2.1 Definizione ... 15

1.2.2 Anatomia delle arterie e funzione endoteliale ... 16

1.2.3 Epidemiologia ... 19 1.2.3.1 Fattori di rischio ... 20 1.3 Il Diabete Mellito... 22 1.3.1 Diagnosi ... 22 1.3.2 Classificazione ... 23 1.3.2.1 Diabete di tipo I (T1DM) ... 24 1.3.2.2. Diabete di tipo 2 (T2DM) ... 24 1.3.2.3. Diabete gestazionale ... 25 1.3.3. Epidemiologia... 25 1.3.3.1. Fattori di rischio ... 26 1.4 L’infiammazione ... 27 1.4.1 Storia ... 27

1.4.2 Risposte infiammatorie acute e croniche come salvaguardia dell’omeostasi interna ... 29

1.4.3 Pathways biologici coinvolti nell’infiammazione ... 31

1.4.4 Risposte infiammatorie acute ... 34

1.4.4.1 meccanismi molecolari e cellulari coinvolti nelle risposte infiammatorie acute34 1.4.4.1.1 Induttori microbici ... 34

1.4.4.1.2 Induttori non microbici ... 36

1.4.4.2 Risoluzione del processo infiammatorio: via per l’infiammazione cronica ... 38

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1.4.5.1 Meccanismi cellulari e molecolari coinvolti nelle risposte infiammatorie

croniche ... 39

1.4.5.2 L'infiammazione cronica come legame comune tra invecchiamento, fragilità e malattie legate all'età ... 44

1.4.5.2.1 Prove epidemiologiche ... 44

1.4.5.2.1.1 Possibili vie biologiche ... 46

1.4.5.2.1.1.1 Il ruolo centrale delle cellule infiammatorie ... 46

1.4.5.2.1.1.2 Il ruolo centrale dello stress ossidativo ... 48

1.4.5.2.1.1.2.1 Meccanismi indiretti di infiammazione indotta da RS ... 49

1.4.5.2.1.1.2.2 Meccanismi diretti di infiammazione indotta da RS ... 52

1.4.5.2.1.1.2.3 Possibile ruolo del mitocondrio nel controllo di pathways infiammatori54 1.4.6 Modelli umani di infiammazione sistemica acuta... 56

1.4.6.1 Iniezione endovenosa di lipopolisaccaridi (LPS) ... 57

1.4.6.2 Infusione di citochine ... 59

1.4.6.3 Vaccino tifoide ... 59

1.4.6.4 Esercizio fisico intenso ... 60

1.4.6.5 Trattamento parodontale ... 60 1.5 La Malattia Parodontale ... 61 1.5.1 Definizione ... 61 1.5.2 Classificazione ... 63 1.5.2.1 Parodontite cronica ... 64 1.5.2.2 Parodontite aggressiva ... 65 1.5.3 Epidemiologia... 66 1.5.4 Eziologia ... 67 1.5.4.1 Fattori di rischio ... 67

1.5.5 Trattamento della parodontite ... 71

1.5.5.1 Terapia parodontale non chirurgica ... 72

1.5.5.2 Terapia parodontale chirurgica ... 72

1.6 Associazione tra parodontite e malattie sistemiche ... 73

1.6.1 Introduzione ... 73

1.6.2 Parodontite e malattie cardiovascolari ... 74

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2. Scopi ... 77

3.Metodi ... 79

3.2 Test biochimici ... 81

3.3 Test di funzione endoteliale ... 82

3.4 Misure di stress ossidativo ... 83

3.4.1. d-ROM Test ... 84

3.4.1.1 Principi del test ... 84

3.4.1.2 Fattori che possono influenzare il test... 86

3.4.1.3 Applicazioni Cliniche ... 87

3.4.2 BAP test ... 87

3.4.3 Test di stress ossidativo mitocondriale ... 88

3.5 Analisi Statistica ... 90

4. Risultati ... 91

5. Discussione ... 107

5.1 Riassunto dei risultati e importanza dello studio clinico ... 107

5.2 Possibili meccanismi alla base dei risultati ottenuti ... 107

5.3 Correlazione tra stress ossidativo mitocondriale, miglioramento metabolico e funzione endoteliale: possibili vie biologiche ... 109

5.4 Rilevanza clinica dei ritrovamenti ... 114

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1. Introduzione

1.1

Malattie non comunicabili

1.1.1 Definizione, trends e stime attuali

Le malattie non comunicabili, meglio conosciute come noncommunicable diseases (NCDs), rappresentano un vasto gruppo di patologie profondamente diverse tra loro, ma accomunate da importanti elementi. Sono infatti tutte patologie tendenzialmente croniche, non trasmissibili, di lunga durata, che spesso risultato da una combinazione di fattori genetici, ambientali, patofisiologici e comportamentali.

La WHO, in una review del 2018, evidenzia i tratti salienti delle NCDs:

 Uccidono 41 milioni di persone ogni anno, pari al 71% di tutte le morti

nel mondo.

 Ogni anno 15 milioni di persone muoiono a causa di una NCD tra i 30 e

i 69 anni; oltre l'85% di queste morti "premature" si verifica in paesi a basso e medio reddito.

 Le malattie cardiovascolari rappresentano la maggior parte dei decessi di NCDs, ovvero 17,9 milioni di persone all'anno, seguite da tumori (9,0 milioni), malattie respiratorie (3,9 milioni) e diabete (1,6 milioni).  Questi 4 gruppi di malattie rappresentano oltre l'80% di tutte le morti

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 Il consumo di tabacco, l'inattività fisica, l'uso nocivo dell'alcool e le diete non salutari aumentano il rischio di morire di una NCD.

 L'individuazione, lo screening e il trattamento delle NCDs, così come le

cure palliative, sono componenti chiave nella gestione delle NCDs.

I principali tipi di NCDs sono le malattie cardiovascolari (principalmente su base aterosclerotica), i tumori, le malattie respiratorie croniche (come le broncopneumopatie croniche ostruttive e l'asma) ed il diabete. Le NCDs colpiscono in modo prevalente le persone a basso e medio reddito, dove si verificano più di tre quarti dei decessi globali dovuti a NCDs - 32 milioni di persone.

Persone di tutte le fasce d'età, regioni e paesi sono colpite dalle NCD. Seppur queste condizioni siano spesso associate a gruppi di età più avanzata, è dimostrato che 15 milioni di tutti i decessi attribuiti alle NCDs si verificano tra i 30 e i 69 anni. Si stima che oltre l'85% di questi decessi "prematuri" si verifichi nei paesi a basso e medio reddito. I bambini, gli adulti e gli anziani sono tutti vulnerabili ai fattori di rischio che contribuiscono alle NCDs, che si tratti di diete non salutari, inattività fisica, esposizione al fumo di tabacco o all'uso nocivo dell'alcol.

Un ruolo fondamentale nella direzione di queste malattie si attribuisce alla rapida urbanizzazione, la globalizzazione di stili di vita non sani e l'invecchiamento della popolazione. Le diete non sane e la mancanza di attività fisica possono manifestarsi nelle persone sottoforma di aumento della pressione sanguigna, aumento della glicemia, aumento dei lipidi nel sangue e obesità. Questi

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rappresentano importanti fattori di rischio metabolico che possono portare a malattie cardiovascolari, il principale gruppo di NCDs in termini di decessi prematuri1.

1.1.2 Fattori di rischio

 Fattori di rischio comportamentali modificabili

Comportamenti modificabili, come il consumo di tabacco, l'inattività fisica, un'alimentazione non sana e il consumo nocivo di alcol, aumentano il rischio di NCDs. Il tabacco è responsabile di oltre 7,2 milioni di decessi ogni anno (compresi gli effetti dell'esposizione al fumo passivo) e si prevede che aumenterà

notevolmente nei prossimi anni2. Inoltre, è stato stimato che 4,1 milioni di decessi

annui possano essere attribuibili all'assunzione eccessiva di sale e sodio mentre più della metà dei 3,3 milioni di decessi annui attribuibili al consumo eccessivo di alcol sarebbero dovuti a NCDs, compreso il cancro. Anche la sedentarietà è gravata da un importante mortalità, con 1,6 milioni di morti all'anno attribuiti a un'attività fisica insufficiente.

 Fattori di rischio metabolico

Con questo nome vengono indicati quattro cambiamenti metabolici chiave che aumentano il rischio di NCDs:

1. aumento della pressione sanguigna 2. sovrappeso/obesità

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12 4. iperlipidemia

In termini di importanza, il principale fattore di rischio metabolico a livello globale è l'aumento della pressione sanguigna (a cui è attribuito il 19% dei decessi globali), seguito da sovrappeso e obesità e aumento della glicemia.

1.1.3 Prevenzione e controllo delle NCDs

Per ridurre la diffusione delle NCDs è importante concentrarsi sulla riduzione dei fattori di rischio associati a queste malattie. Per essere completo, un programma per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili deve integrare politiche volte a promuovere un ambiente sociale in cui le persone sono incoraggiate a fare e mantenere scelte di vita sane, promuovere l'alfabetizzazione sanitaria in modo che le persone possano proteggere e migliorare la propria salute. E’ inoltre fondamentale fornire strutture sanitarie che consentano la diagnosi precoce e la gestione economicamente efficiente delle malattie non trasmissibili e dei loro fattori di rischio.

Gli interventi di popolazione possono comprendere misure quali l'aumento della tassazione del tabacco e dell'alcool, la riduzione del sale e dei grassi saturi negli alimenti trasformati e la creazione di spazi pubblici senza fumo e favorevoli all'esercizio fisico. Tra i fattori di rischio identificati come cause principali di malattie non trasmissibili3 , i fattori di rischio alimentare e l'inattività fisica sono in parte determinati da preferenze individuali, ma sono sostanzialmente influenzati anche dalle pratiche di produzione e commercializzazione dell'industria alimentare e dagli ambienti edilizi e sociali che consentono o

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impediscono l'attività fisica. Spesso, la semplice attenzione ai fattori comportamentali non è sufficiente nell’eliminare o attenuare il peso dei fattori di rischio nella popolazione generale, e si rendono quindi necessarie terapie farmacologiche mirate. Questo pone il problema di incrementare, potenzialmente, il divario tra paesi industrializzati e non, in quanto alcune terapie (come la somministrazione di agenti antiipertensivi generici e statine) che sono considerate a basso costo secondo gli standard dei paesi ad alto reddito, sono prescritte nei paesi a basso e medio reddito solo per una piccola parte dei pazienti che sono candidati a tale trattamento.

Per quanto riguarda Il tabacco, esso è la seconda causa di decessi e NCDs in tutto il mondo: il controllo del tabacco potrebbe prevenire circa un terzo di tutti i

decessi per cancro negli Stati Uniti4e potrebbe anche ridurre rapidamente i decessi

per malattie cardiovascolari e polmonari croniche. Stessa importanza ha l'aumento dei tassi di obesità presuppone un aumento della mortalità per un'ampia gamma di

tumori5; pertanto, la prevenzione dell'obesità è una priorità per la prevenzione del

cancro, così come per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e del diabete.

Molti di questi interventi sono stati identificati dall'OMS come potenzialmente vantaggiosi basandosi sulla stima della loro efficacia rispetto ai costi che sarebbero necessari per la loro implementazione6. La stessa OMS ha suggerito l’adozione di politiche di "miglior acquisto" a livello globale, ossia di strategie basate su di un ridotto rapporto costo-efficacia e di una semplicità di attuazione. Queste includono le tasse sul tabacco e sull'alcool, il divieto di pubblicità e le avvertenze per prodotti potenzialmente nocivi, la riduzione dell'assunzione di sale

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e grassi saturi, la promozione dell'attività fisica e la vaccinazione contro l'epatite B. Gli interventi "best buy" dell'assistenza sanitaria comprendono la consulenza per la riduzione del fattore di rischio e la terapia polifarmacologica per le persone ad alto rischio di malattie cardiovascolari o diabete, la terapia con aspirina per le persone con una storia di infarto miocardico acuto, e lo screening e il trattamento del cancro cervicale. Questi interventi richiedono una serie complessa di azioni legislative, campagne di sensibilizzazione, interventi di sanità pubblica, nonché un

numero adeguato di personale clinico e adeguate forniture di farmaci7.

1.1.4 NCDs e infiammazione cronica

La maggior parte delle patologie che classificate come NCDs, indipendentemente dai fattori associati, sono accomunate da un substrato infiammatorio cronico, che sostiene e alimenta l’andamento della malattia. Tale substrato corrisponde a un documentato rialzo nei markers infiammatori ematici ( IL-1 beta, PCR, VES, fibrinogeno). Sono sempre più numerosi gli studi mirati ad analizzare la correlazione tra livelli circolanti di citochine pro infiammatorie, prime tra tutti la IL1beta, e l’andamento di NCDs. Evidenze si accumulano anche circa l’efficacia di terapie antiinfiemammatorie nel migliorare la prognosi di pazienti affetti da NCDs, confermando quindi il ruolo causale dell’infiammazione nell’inizio e sviluppo di queste patologie. Per esempio, un recente trial clinico randomizzato dal nome CANTOS (Canakinumab Anti-inflammatory Thrombosis Outcome Study) ha mostrato come il blocco selettivo dell’asse infiammatorio dell’IL-1beta possa associarsi ad una significativa riduzione del rischio di eventi cardiovascolari

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secondari in pazienti con precedente infarto del miocardio8e ad una riduzione importante del rischio di mortalità per tumore al polmone9. Questi dati non solo confermano un ruolo causale dell’infiammazione nello sviluppo di molte NCDs, ma suggeriscono anche che processi infiammatori comuni possono essere responsabili di più malattie.

Due tra le più importanti NCDs per il loro impatto sui costi sanitari la morbilità e mortalità globale sono rappresentate dalla malattia cardiovascolare su base aterosclerotica ed il diabete mellito.

1.2 La malattia aterosclerotica

1.2.1 Definizione

L'arteriosclerosi è una condizione cronica che colpisce le superfici delle arterie di medie e grandi dimensioni, costituita dall'ispessimento della parete vascolare dovuto all'accumulo di lipidi e componenti fibrose che formano placche aterosclerotiche10. Essa può condurre all'ischemia dei tessuti situati distalmente alle lesioni, per un processo di stenosi dei vasi sanguigni o, spesso, alla

formazione di trombi sovrapposti ad placca aterosclerotica fessurata11. A seconda

della localizzazione dell'occlusione arteriosa, la successiva ischemia può indurre ictus, infarto miocardico o arteria periferica. Seppur il processo di aterogenesi inizi fin dalla giovane età, le sue manifestazioni cliniche sono normalmente osservate a partire dalla mezza età12 e sono responsabili della maggior parte dei decessi nel mondo.

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1.2.2 Anatomia delle arterie e funzione endoteliale

Le arterie possono essere suddivisi in base al loro calibro in vasi di grandi dimensioni (o elastiche), di medie dimensioni (o muscolari) e arteriole.13 La composizione della parete arteriosa varia è costituita da 3 strati (detti anche tuniche) che, a seconda delle dimensioni del vaso, hanno una struttura diversa per la loro diversa funzione e le diverse componenti pressorie ed emodinamiche che su di esse agiscono.

 Tunica Intima

Lo strato interno dell'arteria è rappresentato dalla tunica intima, una stretta regione che separa il flusso sanguigno da uno strato elastico, la lamina elastica interna (IEL)14 . L'intima è costituita da uno strato di cellule endoteliali con importanti funzioni paracrine1516, le principali delle quali sono: la regolazione del tono vasale, lo scambio di fluidi e soluti con il parenchima circostante, l’emostasi, l’angiogenesi e la vasculogenesi. L'endotelio può regolare il tono dei vasi sanguigni in risposta a stimoli chimici o meccanici rilasciando diversi mediatori vasoattivi tra cui prostaciclina, ossido nitrico (NO), perossido di idrogeno (H2O2)

per rilassare le vicine VSMC (vascular smooth muscle cells) o trombossano,

endotelina o angiotensina II per indurne contrazione17. Inoltre, l'endotelio, attraverso piccole giunzioni (gap mioendoteliale) può comunicare direttamente con i VSMCs rilasciando al loro interno piccole correnti di ioni calcio (Ca2+) che

ne causano la contrazione18. Oltre alla regolazione del tono vascolare, l’endotelio

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l’ambiente intravascolare e quello extravascolare. Le giunzioni interendoteliali permettono lo scambio di piccole molecole, mentre grandi soluti richiedono un trasporto vescicolare. Il processo infiammatorio può causare un’alterazione dei meccanismi di controllo della permeabilità vascolare regolati dall’endotelio, favorendo lo stravaso di maggiori quantità di liquidi nello spazio extravascolare e formazione di edema. Un’ulteriore importante funzione regolata dall’endotelio è l’emostasi. Sebbene in condizioni fisiologiche le cellule endoteliali non inizino l'emostasi, quando vanno incontro ad attivazione come risultato dell’esposizione infiammatoria possono produrre il fattore tessutale (TF) che a sua volta attiva la cascata di coagulazione. Le cellule endoteliali producono poi mediatori pro coagulanti come il fattore von Willebrand (vWF), l'inibitore dell'attivatore del plasminogeno-1 (PAI-1) o molecole anticoagulanti che comprendono NO e prostaciclina19. Infine, in condizioni di ipossia e sotto lo stimo di vari fattori di crescita, le cellule endoteliali svolgono un’importante ruolo nella regolazione dell'angiogenesi20. Questo processo è favorito non solamente dalla replicazione delle cellule endoteliali in loco, ma anche dalla localizzazione di cellule progenitrici endoteliali (EPC) provenienti dal midollo emopoietico che vengono attratte in corrispondenza di siti di danno endoteliale dalle cellule endoteliali adiacenti alla sede di rottura21.

Tutte le funzioni regolate dall’endotelio che garantiscono una normale omeostasi vascolare possono essere alterate quando le cellule endoteliali sono esposte a fattori di rischio cardiovascolare. La risposta endoteliale a questi stimoli non comporta solamente una compromissione delle funzioni endoteliali elencate

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precedentemente, ma si basa anche sulla produzione di mediatori infiammatori e molecole di adesione per aumentare il reclutamento dei leucociti22. L'endotelio può rilasciare citochine e chemochine anche in risposta a numerosi stimoli proinfiammatori come lipopolisaccaride (LPS), fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α), l'interleuchina-1 (IL-1) e l'interleuchina-6 (IL-6). Queste risposte prefigurano l’instaurarsi di un circolo vizioso, in cui il contatto di citochine proinfiammatorie con le cellule endoteliali induce un ulteriore produzione di mediatori infiammatori da parte di queste ultime, favorendo l’amplificazione della risposta infiammatoria a livello della parete vascolare. Tale risposta risulta sostenuta anche dall’up-regolazione delle molecole di adesione sulla superficie della cellula endoteliale (selectine P ed E, molecola di adesione intercellulare endoteliale 1 - ICAM-1- e molecola di adesione cellulare vascolare 1 - VCAM-1) che determinano una maggiore interazione tra i leucociti e la parete del vaso

aumentando il loro reclutamento e passaggio nello spazio subendoteliale23.

 Tunica media

Rappresenta lo strato medio e più spesso della parete arteriosa. È contenuto dalla lamina elastica interna ed esterna e si compone di uno strato di VSMCs, di fibre collagene e, a seconda delle dimensioni del vaso, di fibre elastiche. Lo strato mediale, ad eccezione dei casi di ispessimento patologico, è normalmente avascolare. Le VSMC con la loro contrazione regolano il diametro del vaso e, come conseguenza, il valore delle resistenze periferiche. Spessore medio-intimale

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Con l'invecchiamento e l'esposizione ad una varietà di fattori di rischio (fumo, obesità, aumento della pressione sanguigna) le cellule muscolari lisce tendono a proliferare invadendo lo strato intimale. Ciò si associa a deposizione di matrice extracellulare che determina un lento ispessimento dello strato intimale della parete vascolare. Lo sviluppo di tecniche ultrasonografiche ad alta risoluzione ha consentito di monitorare questi cambiamenti della struttura vascolare a livello delle arterie carotidi, fornendo importanti informazioni sull’entità di danno a carico della parete vascolare dovuto all’esposizione cronica ai fattori di rischio.

2425

 Tunica avventizia

Lo strato più esterno è costituito dall’'avventizia, formato principalmente da collagene e tessuto elastico. L'avventizia fornisce nutrimento alla parete del vaso attraverso ì vasa vasorum, così come l'innervazione dell'arteria.

1.2.3 Epidemiologia

E' stato stimato che solo negli Stati Uniti, 12,6 milioni di persone soffrono di CHD e 4,6 milioni di ictus. La Gran Bretagna e la Scandinavia registrano il più alto tasso26 di patologie legate alla malattia aterosclerotica, in particolare in Scozia e Finlandia. Negli ultimi vent'anni, i tassi di incidenza sono diminuiti in diversi paesi industrializzati, ma non nei paesi in via di sviluppo. Ciò è molto probabilmente dovuto all'iniziativa di sanità pubblica che aumenta la prevenzione dell'aterogenesi attraverso la miglior gestione dei fattori di rischio comuni quali l’ipercolesterolemia, l’ipertensione ed il fumo.

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1.2.3.1 Fattori di rischio

Il Framingham Study27 ha aiutato ad identificare i principali fattori di rischio per

la CVD (cardio-vascular disease- malattia cardiovascolare), tra cui: sesso maschile, età, storia familiare, abitudine al fumo, presenza di diabete, obesità (soprattutto alti livelli di adiposità viscerale), ipertensione, iperlipidemia e stile di vita sedentario. Questi fattori di rischio classici per le malattie cardiovascolari su base aterosclerotica sono suddivisibili in non modificabili (sesso, età, familiarità) e modificabili (fumo, ipertensione arteriosa, stile di vita sedentario, obesità, ipercolesterolemia, diabete mellito). La maggior parte di questi fattori di rischio sono in qualche modo correlati, direttamente o indirettamente. Escludendo i fattori non modificabili come l'età, il sesso e la storia familiare, la prevenzione dell'aterosclerosi si attua tramite intenso controllo dei suoi principali fattori di rischio modificabili. Inoltre, nel corso degli ultimi anni, è diventato sempre più evidente come una buona proporzione di soggetti della popolazione generale vada incontro allo sviluppo di aterosclerosi pur presentando livelli relativamente ben controllati dei comuni fattori di rischio. Questo ha fatto ipotizzare alla presenza di ulteriori meccanismi che possano contribuire allo sviluppo della malattia. Un’attenzione particolare, quindi, è attualmente dedicata all’identificazione di potenziali nuovi fattori di rischio cardiovascolare o marcatori i malattia, che possano migliorare le nostre capacità di identificare pazienti ad alto rischio di eventi futuri. Questi includono:

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 Le lipoproteine e apolipoproteine come la lipoproteina (LP) (a), apoA, apoB

 Marcatori infiammatori quali il fibrinogeno, la conta leucocitaria, la

proteina C reattiva ad alta sensibilità (hs-PCR), l’IL-6, il TNFα, l’IL-18

 Marcatori di attivazione e disfunzione endoteliale quali ICAM, VCAM,

E-Selectina

 Marcatori trombotici quali l’attivatore tissutale del plasminogeno ( t-PA),

inibitore 1 dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1), D-dimero, fattore di Von Willebrand (vWF) e omocisteina.

Inoltre, data l’evoluzione di metodiche di imaging che consentono la diretta visualizzazione della struttura vascolare, alcuni autori suggeriscono l’introduzione di misure di danno o rimodellamento vascolare (definizione tramite ultrasuoni dello spessore medio-intimale carotideo, valutazione tramite TC del grado di calcificazione coronarica) nella stratificazione del rischio del paziente. a sempre maggiore disponibilità di tecniche non invasive che consentono la visualizzazione diretta della struttura vascolare.

Sebbene sia difficile attribuire un peso specifico nello sviluppo del processo aterosclerotico ai veri fattori di rischio cardiovascolare, alcuni di essi sembrano essere associati ad un maggior rischio di patologia aterosclerotica rispetto ad altri, quali, ad esempio, il diabete mellito. Questo rappresenta un problema considerevole data l’epidemia di obesità a livello mondiale che potrebbe

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determinare un significativo incremento a livello globale della prevalenza di diabete mellito di tipo 2.

1.3 Il

Diabete Mellito

Con il termine diabete mellito si fa riferimento ad un gruppo di malattie caratterizzate da iperglicemia derivante da una carenza nella capacità dell'organismo di produrre insulina o da una resistenza alla sua azione28. Il diabete mellito è associato ad un rischio maggiore di danno vascolare osservabile in forma di complicazioni microvascolari come retinopatia, nefropatia e neuropatia, o di complicazioni macrovascolari come cardiopatia ischemica, ictus, aneurisma

dell’aorta addominale e malattie vascolari periferiche29. Di conseguenza, il diabete

è legato a un deterioramento della qualità e dell'aspettativa di vita.

1.3.1 Diagnosi

La diagnosi di diabete si basa sul livello glicemico al di sopra del quale si registra un aumento delle complicanze microvascolari. Secondo l’Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS) e l’American Diabetes Association3031, la diagnosi

del diabete può basarsi su tre diversi criteri basati sui valori di glicemia:

 Concentrazione casuale di glucosio nel plasma ≥ 200 mg/dl (≥ 11,1

mmol/l).

 Glucosio plasmatico a digiuno ≥126 mg/dl (≥7,0 mmol/l)

 Glucosio post-carico a 2 ore ≥200 mg/dl (≥11,1 mmol/l) durante una

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Ultimamente, per la diagnosi di diabete mellito è stata considerata valida anche un valore di emoglobina glicata ≥6.5%, anche se questo parametro risulta maggiormente utilizzato per il monitoraggio a lungo termine del controllo glicemico. La diagnosi richiede la conferma di uno di questi criteri in almeno 2 occasioni.

Oltre a questi limiti per la diagnosi di diabete, esistono condizioni cliniche di alterato metabolismo glucidico che rappresentano delle vere e proprie spie di incrementato rischio futuro di sviluppare la malattia. Queste sono:

 l’alterata glicemia a digiuno, definita come glucosio plasmatico a digiuno

≥100 mg/dl ma ≤125 mg/dl (tra 5,6 e 6,9 mmol/l) e

 l’alterata tolleranza al glucosio, definita come una concentrazione di

glucosio plasmatico 2 ore post carico ≥140 mg/dl ma ≤199 mg/dl (tra 7,8 e 11,1 mmol/l).

1.3.2 Classificazione

L'OMS ha pubblicato la prima classificazione ampiamente riconosciuta nel 1980, incluse due categorie principali di diabete mellito32:

- Diabete mellito insulino-dipendente (IDDM)

- Diabete mellito mellito non insulino-dipendente (NIDDM)

e altre forme come il diabete gestazionale. Nel 1985 è stato suggerito di non utilizzare i termini IDDM e NIDDM che propongono di classificare i pazienti in base al loro trattamento piuttosto che seguire la patogenesi33. I termini tipo I e tipo

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II sono stati quindi introdotti per descrivere una forma relativa alla distruzione delle cellule beta pancreatiche nel primo caso e una forma derivante da difetti nella secrezione ed azione periferica dell’insulina nel secondo caso. Nel 1997, l'American Diabetes Association ha pubblicato una nuova classificazione che è stata poi modificata nel 2003.

1.3.2.1 Diabete di tipo I (T1DM)

Il T1DM è la conseguenza della distruzione delle cellule β pancreatiche per mezzo di un processo immuno-mediato che porta alla mancanza di secrezione di insulina. L'incidenza maggiore si osserva durante l'adolescenza, ma circa il 15-30% dei casi

può verificarsi dopo i 30 anni di età34. L'alterazione del metabolismo del glucosio

dovuta alla riduzione o assenza di secrezione di insulina richiede la somministrazione di insulina esogena per la sopravvivenza del paziente per evitare la chetoacidosi, una condizione potenzialmente mortale. Anticorpi specifici per le cellule pancreatiche sono rilevabili nei pazienti affetti da T1DM35. L’elevata influenza di fattori geneti nello sviluppo di questo tipo di diabete è confermata dall’evidenza che gemelli monozigoti hanno una concordanza per T1DM del 30-50%.

1.3.2.2. Diabete di tipo 2 (T2DM)

È la forma più comune di diabete. Nella maggior parte dei casi è preceduta da uno stato prediabetico in cui la glicemia è anormale a digiuno o post-carico, pur non raggiungendo il livello necessario per essere diagnosticato come diabete. Si deve ad un progressivo incremento dell’insulino-reistenza dei tessuti periferici che

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stimola l’iperproduzione di insulina da parte delle beta-cellule pancreatiche. Fino a quando questa iperinsulinemia riesce a compensare gli incrementi dell’insulino-resistenza periferica, la glicemia sarà normale o moderatamente alterata. Quando però i valori di insulino-resistenza periferici superano le capacità secretive di insulina del pancreas, si verrà a sviluppare diabete conclamato. Sebben questo fosse il modello patogenetico descritto per anni alla base dello sviluppo di T2DM, al giorno d’oggi è noto che un alterato controllo glicemico in questi pazienti può essere considerato anche il risultato di una disfunzione della secrezione insulinica, pur in presenza di riserve che sarebbero sufficienti per controllare adeguatamente il profilo glicemico. Inoltre, appare sempre più evidente come, molti dei danni a carico dell’apparato cardiovascolare indotti dal T2DM, inizino in realtà fin dalle fasi di pre-diabete.36.

1.3.2.3. Diabete gestazionale

Questa classe di diabete viene rilevata per la prima volta durante la gravidanza. È associata a storia familiare del diabete ed è conseguenza di un progressivo sviluppo di insulino-resistenza da parte della madre nel corso della gravidanza, che ha lo scopo fisiologico di reindirizzare substrati energetici al feto, soprattutto nelle fasi terminali della gestazione quando l’accrescimento fetale è più rapido. Se non trattata, può causare complicazioni al neonato quali la macrosomia. Inoltre, è legato ad un rischio più elevato di sviluppare il T2DM sia per la madre che per il neonato a distanza dalla gravidanza37.

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A partire dal 1950 c'è stato un aumento lineare dei casi di T1DM in Scandinavia,

Regno Unito e Stati Uniti38. Potenziali fattori scatenanti che spiegano la

distruzione delle cellule pancreatiche potrebbero essere la risposta autoimmune alla proteina del latte vaccino39 o un'infezione da enterovirus40. La Scandinavia ha la più alta incidenza di T1DM con più di 30 casi/anno/100.000 persone, mentre

l'Asia ha il minor numero di nuovi casi con 0,5 casi/anno/100.00041. La

prevalenza di T2DM è stimata, solo negli Stati Uniti, in circa 16 milioni di persone e altri 30-40 milioni presenterebbero ridotta tolleranza al glucosio42. I nativi americani sembrano essere la popolazione più colpita e la recente epidemia di obesità sembra essere destinata ad aumentare ulteriormente il numero di casi di diabete sia negli USA che a livello globale.

1.3.3.1. Fattori di rischio

Il diabete è associato sia a fattori di rischio modificabili, come l'obesità e lo stile di vita sedentaria, sia a fattori di rischio non modificabili, compresi etnia e familiarità. Nel T1DM la storia familiare rappresenta il maggior contributo, quindi l'American Diabetes Association raccomanda che chiunque abbia un parente di primo grado con il T1DM debba essere sottoposto a screening per la malattia. Un importante fattore di rischio è anche un danno pancreatico derivante da un trauma o da una malattia, come ad esempio la pancreatite cronica. Per il T2DM, i principali fattori di rischio sono l’obesità, la dieta, l’inattività fisica, l'età avanzata, la storia familiare di diabete, la razza e l’etnia. Specifiche variazioni genetiche sono legate alla sua insorgenza e alcuni gruppi etnici come gli afro-americani,

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messicani americani, indiani americani, hawaiani nativi e alcuni asiatici hanno una maggiore incidenza di T2DM con gli afro-americani che rappresentano la popolazione a più alto rischio. Il regime alimentare, l'inattività fisica e l’epidemia dell’obesità stanno contribuendo al suo più rapido sviluppo nei paesi altamente sviluppati.

I fattori di rischio individuati dal Framingham study rendono conto di circa il 50% del rischio CV dei pazienti diabetici. Il rimanente 50% è probabilmente da attribuirsi a fattori ancora sconosciuti, tra i quali però un ruolo emergente sembra essere attribuibile all’infiammazione.

1.4 L’infiammazione

1.4.1 Storia

La prima descrizione della risposta infiammatoria risale all’antichità. Il primo a definire i sintomi clinici relativi alla risposta infiammatoria fu il dottore romano Cornelio Celso nel I secolo A.C. che, nel suo trattato De Medicina, avevano compreso come la risposta tissutale al danno poteva esser ricondotta a quattro segni principali: rubor (rossore dovuto all’iperemia), tumor (gonfiore causato dall’aumentata permeabilità microvascolare e perdita di proteine nello spazio interstiziale), calor (calore associato all’aumentato flusso ematico e all’attività metabolica dei mediatori cellulari dell’infiammazione) e dolor (dolore, in parte dovuto ai cambiamenti peri-vascolari e alla conseguente attivazione delle

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terminazioni nervose associate)43.È stato solo nel diciannovesimo secolo che

Augustus Waller e Julius Cohnheim scoprirono le basi fisiologiche dei quattro segni caratteristici44. Essi ipotizzarono che la risposta infiammatoria acuta fosse caratterizzata dalla migrazione di leucociti dai vasi sanguigni allo spazio extravascolare, accompagnata da altri cambiamenti vascolari locali come la vasodilatazione e passaggio di plasma nello spazio interstiziale. Nel 1958, Rudolph Virchow aggiunse un quinto attributo all’infiammazione deinito come

functio lesa, per descrivere la disfunzione d’organo che si sviluppa durante il

processo infiammatorio. A differenze degli altri segni che si applicano soltanto all’infezione acuta che accompagna ferite e infezioni, la functio lesa accompagna universalmente tutti i processi infiammatori. L’introduzione del concetto di fagocitosi cellulare e della teoria dell’immunità cellulare di Elie Metchnikoff nel tardo novecento ha rappresentato la successiva pietra miliare nella comprensione del processo infiammatorio, descrivendo per la prima volta il processo di fagocitosi di corpi estranei da parte dei leucociti. Basandosi sulle sue scoperte, enfatizzò gli aspetti benefici dell’infiammazione, sottolineando il ruolo chiave dei macrofagi e dei neutrofili nella difesa dell’ospite e nel mantenimento dell’omeostasi dei tessuti45

. Seguenti tappe importanti includono l’identificazione di diverse molecole del siero come regolatori cruciali della risposta infiammatoria. Nei decenni più recenti, l’introduzione di esami ad alta sensibilità per i markers infiammatori ha enormemente aumentato la comprensione dei meccanismi fisiopatologici interessati nelle risposte infiammatorie. L’infiammazione non solo agisce come prima linea di difesa del corpo umano contro aggressioni esterne ma,

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più genericamente, rappresenta una risposta adattativa del corpo umano a perturbazioni transitorie o persistenti dell’omeostasi interna.

1.4.2 Risposte infiammatorie acute e croniche come salvaguardia dell’omeostasi interna

I meccanismi di controllo omeostatico assicurano che l’ambiente interno e i parametri vitali (come la concentrazione di glucosio e ossigeno) siano mantenuti entro range fisiologici definiti da specifici limiti46. Le aggressioni esterne o le perturbazioni interne dell’omeostasi tissutale possono causare una deviazione in parametri oltre i range fisiologici, risultando in stress acuto di cellule e tessuti che suscita un temporaneo adattamento al nuovo ambiente (infiammazione acuta). Come risultato, l’infiammazione acuta rappresenta una risposta adattativa a breve termine ad anormalità transienti. Il suo obiettivo è la rimozione della causa che ha determinato la perturbazione dell’equilibrio fisiologico, al fine di restaurare la funzionalità e l’omeostasi del tessuto. La possibilità di individuare clinicamente la presenza di questa risposta infiammatoria (ad es. attraverso l’utilizzo di markers infiammatori tradizionali) dipende dalla natura e dal grado della sottostante malfunzione tissutale. Per esempio, lievi stress possono causare soltanto alterazioni locali che possono essere facilmente gestite da cellule infiammatorie residenti nel tessuto (soprattutto macrofagi e mastociti) non portando quindi a manifestazioni sistemiche. Un danno o disfunzione tissutale più estesi possono richiedere, invece, il reclutamento di ulteriori cellule infiammatorie proteine plasmatiche, causando un transitorio aumento nei livelli sistemici di cellule infiammatorie e/o markers.

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30

Qualora si mantengano le condizioni che hanno determinato una perturbazione dell’equilibrio omeostatico interno, sono richiesti dei cambiamenti adattativi più prolungati (infiammazione cronica). Il processo infiammatorio determina una modifica dei range considerati di normalità di parametri coinvolti nella regolazione della funzione tissutale, nel tentativo di definire un nuovo equilibrio più consono alla persistenza della noxa patogena. Tale risposta adattativa generalmente interviene a spese di molti altri processi fisiologici e non può esser sostenuta senza effetti avversi.

Quindi, se uno shift adattativo dei set points endogeni può portare benefici a breve termine, nel lungo termine può divenire mal adattivo causando ulteriori alterazioni omeostatiche. Ciò spiega perché, anche se la risposta infiammatoria cronica è meno aggressiva della acuta, la prima è considerata come il principale

contribuente al peso economico nelle società industrializzate47. La riduzione della

sensibilità insulinica del muscolo scheletrico come risultato dell’infiammazione

cronica rappresenta un buon esempio di questo fenomeno4849. Il transitorio

abbassamento della sensibilità insulinica durante l’infiammazione acuta è potenzialmente benefico, permettendo la ridistribuzione di glucosio da uno dei suoi maggiori consumatori (muscolo scheletrico) ai leucociti. Ciò ha lo scopo di sostenere l’attivazione metabolica delle cellule immuno-infiammatorie e, quindi, le loro funzioni. Però, la riduzione della sensibilità insulinica muscolare scheletrica richiede un adattamento a nuovi livelli di produzione insulinica da parte delle beta cellule pancreatiche. Tali cellule possono aumentare la secrezione per rispondere alla riduzione della sensibilità periferica, ma tale risposta può esser

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mantenuta solo per brevi periodi. Di conseguenza, se il processo infiammatorio non si risolve, l’attività delle beta cellule pancreatiche non riesce più a compensare la persistente riduzione dell’insulino-sensibilità del muscolo scheletrico, potendo condurre allo sviluppo di diabete di tipo 2. La potenzialità di effetti avversi è intrinseca ad ogni risposta adattativa biologica, sia che tali cambiamenti avvengano a livello cellulare, tissutale o dell’organismo in sé.

1.4.3 Pathways biologici coinvolti nell’infiammazione

Anche se diverse vie cellulari e biologiche caratterizzano l’infiammazione, tutti i processi infiammatori possono essere riassunti, in modo schematico, dall’attivazione consecutiva di quattro componenti principali: induttori, sensori, mediatori e effettori (figura 1).

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Figura 1 Il pathway infiammatorio. Un pathway infiammatorio generico consiste di induttori, sensori, mediatori ed effettori50

Gli induttori sono triggers che iniziano la risposta infiammatoria. Essi attivano sensori specializzati, i quali poi causano la produzione di uno specifico set di mediatori. I mediatori poi agiscono sugli effettori, che rappresentano i tessuti e gli organi che sono coinvolti nel processo infiammatorio. Le alterazioni specifiche indotte negli effettori conducono usualmente alle manifestazioni cliniche della risposta infiammatoria. Ovviamente, l’attività dei mediatori determina specifiche modificazioni di funzione in organi e tessuti.

Gli induttori infiammatori hanno un ruolo cruciale nell’influenzare i pathways molecolari e cellulari coinvolti nello stato infiammatorio. Possono essere generalmente raggruppati in fattori microbici e non-microbici. Esistono poi due classi di induttori non-microbici (figura 1): la prima include allergeni, irritanti, corpi estranei e composti tossici, mentre la seconda include molecole esposte dopo danno tissutale o cellulare. Nonostante questa classificazione possa sembrare relativamente semplice, è stata recentemente complicata da un numero crescente di condizioni sistemiche infiammatorie croniche dove gli induttori infiammatori rimangono sconosciuti (figura 1). Questi stati di infiammazione sistemica accompagnano diverse patologie del mondo occidentale, incluso obesità, aterosclerosi, malattie degenerative e cancro. Attualmente si ritiene che l’evoluzione di tali processi infiammatori dipenda da un circolo vizioso che connette infiammazione e i processi patologici che la accompagnano. Ad esempio, l’obesità può risultate da una eccessiva introduzione di cibo che causa disfunzione

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del tessuto adiposo (con accumulo di grasso ectopico e infiammazione del tessuto

adiposo), portando a uno stato infiammatorio cronico51. A sua volta,

l’infiammazione può promuovere diabete associato ad obesità contribuendo all’insulino-resistenza52

, aumentando la produzione basale di stress ossidativo e di citochine pro infiammatorie.

L’attività degli induttori è riconosciuta da specifiche cellule che sono sia residenti nei tessuti locali, sia reclutate dal torrente ematico (sensori). Queste cellule sono parte della risposta innata e adattativa, due sistemi sviluppati per

proteggere il corpo umano da aggressioni endogene ed esogene53. Il sistema

immunitario innato è costituito da cellule (mastociti tissutali e macrofagi, così come neutrofili) con capacità di difesa rudimentali, in grado di riconoscere potenziali induttori infiammatori e di iniziare la risposta infiammatoria54 che, comunque, non è specifica e si indirizza non solo ai possibili induttori infiammatori, ma anche ai tessuti circostanti. Se tale risposta non è in grado di eradicare l’aggressore (il trigger infiammatorio), il rilascio di molteplici molecole chemotattiche dalle cellule del sistema innato attiva cellule più specializzate, parte del sistema immunitario adattativo (macrofaci, cellule T e B)55. Queste cellule producono citochine, anticorpi, e altri reagenti infiammatori che in modo selettivo colpiscono gli induttori infiammatori, riducendo il danno ai tessuti

circostanti56.Quindi, l’interazione tra sistema innato e adattativo orchestra

l’evoluzione della risposta infiammatoria attraverso la produzione di multipli mediatori infiammatori57.

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34

I mediatori infiammatori possono esser classificati in sette gruppi, a seconda delle loro proprietà biochimiche: amine vasoattive, peptidi vasoattivi, frammenti di componenti del complemento, mediatori lipidici, citochine,

chemochine, enzimi proteolitici e anticorpi58. Ogni mediatore determina

cambiamenti specifici nei tessuti locali (vasodilatazione, distruzione del connettivo, attività citotossica in cellule locali e sul trigger infiammatorio) i quali, se l’aggressione da parte dell’induttore, o se la risposta infiammatoria è particolarmente severa, risulteranno nella manifestazione clinica del processo infiammatorio.

1.4.4 Risposte infiammatorie acute

1.4.4.1 meccanismi molecolari e cellulari coinvolti nelle risposte infiammatorie acute

I meccanismi cellulari e molecolari coinvolti nell’infiammazione acuta sono altamente dipendenti dalla natura degli induttori infiammatori.

1.4.4.1.1 Induttori microbici

Gli induttori microbici sono solitamente riconosciuti dalla presenza di

pathogen-associated molecular patterns (PAMPs), un ampio gruppo di molecole dalla

struttura altamente conservata espressi sulla superficie dei patogeni (sia

patogenetici che commensali) ma estranei ai mammiferi59. Esempi di PAMPs

includono il lipopolisaccaride (LPS), fosfatidilserina di superficie, così come forme modificate di classici fattori di rischio aterosclerotici, che includono LDL modificate da processi di ossidazione o glicosilazione. Tali molecole sono

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identificate da vari recettori del sistema immunitario innato, come scavenger o toll-like receptors (TLRs), espressi sui macrofagi stanziali tissutali, neutrofili e mastociti60.

Il legame di recettori scavenger può condurre a endocitosi e degradazione

lisosomiale dei ligandi6162, mentre il legame di TLRs può condurre alla

produzione di diversi mediatori infiammatori, incluso chemochine, citochine, amine vasoattive, eicosanoidi e prodotti della cascata proteolitca 636465. I mediatori amplificano la risposta infiammatoria e scatenano la produzione di un essudato infiammatorio locale. Le proteine plasmatiche e i neutrofili (soprattutto neutrofili) normalmente relegati nei vasi sanguigni guadagnano accesso ai tessuti extravascolari nel sito di infezione.

L’endotelio attivato dei vasi sanguigni nel sito di infiammazione induce l’espressione di selectine e integrine di superficie le quali interagiscono con ligandi complementari sulla membrana leucocitaria, permettendo la diapedesi selettiva di neutrofili e prevenendo quella degli eritrociti66. Raggiunto il sito affetto, i neutrofili si attivano, o per diretto contatto i patogeni o attraverso l’azione delle citochine secrete dalle cellule tissutali. I neutrofili attivati rilasciano il contenuto tossico dei loro granuli incluse le specie reattive dell’ossigeno (ROS) e le specie reattive dell’azoto (RNO), proteasi 3, catepsina G ed elastasi, nel

tentativo di rimuovere lo stimolo infiammatorio67.Dal momento che questi potenti

effettori non discriminano tra bersagli microbici e tessuti dell’ospite, un danno collaterale ai tessuti dell’ospite è inevitabile.

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36

Anche se questa sequenza di eventi caratterizza la maggior parte dei processi infiammatori acuti evocati dagli induttori microbici, virus, batteri o parassiti possono attivare diversi sensori , mediatori e tessuti bersaglio, in modo da evocare la risposta infiammatoria più appropriata per contrastare il patogeno responsabile dell’aggressione. Ad esempio, un’infezione virale induce la produzione di interferone di tipo I (IFN-α, IFN-β) dalle cellule infette e l’attivazione di linfociti citotossici68

, mentre infezioni da parassiti portano alla produzione di istamina, IL-4, IL-5, e IL-13 da parte dei mastociti e basofili69.

1.4.4.1.2 Induttori non microbici

La prima classe di induttori non microbici include allergeni, irritanti, corpi estranei e composti tossici. Gli allergeni possono esser riconosciuti in quanto mimano l’attività lesiva di parassiti, mentre gli irritanti disturbano l’omeostasi e attivano le cellule sulla superficie epiteliale. In entrambi i casi, la risposta infiammatoria coinvolge l’attivazione di mastociti e basofili in quanto, similmente a quello che succede con i parassiti, la difesa contro allergeni e irritanti ambientali

dipende dall’espulsione e clearance mediata dall’epitelio mucosale70

. Al contrario, la risposta infiammatoria evocata da corpi estranei è dominata dall’attività fagocitica dei macrofagi71.

Molecole intra ed extra cellulari, che normalmente, nei tessuti intatti, sono sequestrate in compartimenti non immunogenici, possono esser rilasciate dopo danno acuto tissutale o cellulare, rappresentando la seconda classe di induttori non microbici. Durante la morte cellulare per necrosi, ad esempio, viene persa

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l’integrità della membrana plasmatica, risultando nel rilascio di alcuni costituenti cellulari, incluso ATP, HMGB1 (high-mobility group box 1 protein) e diversi membri della famiglia di proteine leganti il calcio S100 (S100A8, S100A9 e

S100A12)7273. L’ATP lega i recettori per le purine sulla superficie dei macrofagi

tissutali e può cooperare con altri segnali per attivare l’inflammosoma NAPL374.

Allo stesso modo, KMGB1 e S100A12 ingaggiano il recettore RAGE (recettori specifici per advanced glication end-product) il quale, almeno nel caso KMGB1, si associa con i TLRs per indurre la risposta infiammatoria7576.

Similmente i danni tissutali possono causare alterazioni delle cellule epiteliali, le quali normalmente separano i compartimenti interni ed esterni nei vari organi e tessuti. Questo può causare” decompartimentalizzazione” ed esporre antigeni endogeni ai recettori TLR espressi sui macrofagi residenti sulla lamina propria , risultando nell’induzione di una risposta infiammatoria locale. Ad esempio il danno all’endotelio vascolare permette alle proteine plasmatiche e piastrine di migrare nello spazio extravascolare. Un regolatore chiave dell’infiammazione derivato dal plasma, il fattore di Hageman (anche conosciuto come fattore XII) si attiva dal contatto con il collagene e altre componenti della matrice extracellulare. Il fattore di Hageman attivato agisce come un sensore di danno vascolare e inizia le quattro cascate proteolitiche che generano i mediatori infiammatori: la cascata callicreina–chinina, la cascata coagulativa, la cascata

fibrinolitica e la cascata del complemento133. Le piastrine sono attivate anche dal

contatto col collagene e producono vari mediatori infiammatori, inclusi trombossani e serotonina133.

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38

1.4.4.2 Risoluzione del processo infiammatorio: via per l’infiammazione cronica

Generalmente, le risposte infiammatorie evocate dal danno tissutale e cellulare, sortiscono effetti benefici in quanto promuovono la riparazione tissutale e aiutano a prevenire la colonizzazione dei tessuti danneggiati da parte di patogeni opportunisti. La loro evoluzione temporale è ristretta al tempo necessario per eliminare l’insulto scatenante e riparare il danno locale. Da qui, per avere una effettiva riparazione, non solo è necessario rimuovere le cellule e molecole pro-infiammatorie, ma anche ristorare, per quanto possibile, la normale architettura e funzione del tessuto. Anche se i meccanismi coinvolti nella cessazione della risposta infiammatoria sono normalmente considerati come un semplice processo che segue l’eliminazione di patogeni locali, evidenze recenti hanno dimostrato che si tratta di un processo molto più complesso che coinvolge un numero di vie altamente regolate77. L’interruzione dell’esposizione al fattore pro-infiammatorio è un prerequisito che anticipa la rimozione dei granulociti infiltranti. Durante la risoluzione spontanea, i neutrofili vanno incontro ad apoptosi, un meccanismo di morte cellulare altamente regolato che previene il rilascio di contenuto istotossico78. Le alterazioni in markers di superficie dei neutrofili e i cambiamenti morfologici durante l’apoptosi favoriscono il riconoscimento di queste cellule da parte dei fagociti, che mediano l’effettiva eliminazione delle cellule morenti79. Una volta che l’ambiente pro-infiammatorio è stato rimosso, le priorità diventano la riparazione tissutale e il recupero dell’omeostasi. Una riparazione tissutale di successo richiede la restituzione coordinata di diversi tipi cellulari e strutture, non

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solo cellule epiteliali e mesenchimali, ma anche matrice extravascolare e vascolare. Le chemochine sono critiche per il rimodellamento vascolare dopo

l’infiammazione80

. Senza una adeguata restitutio della parete vascolare, una alterata ossigenazione dei tessuti può impedire il normale processo di riparazione, risultando in atrofia o fibrosi. L’atrofia è spesso accompagnata dall’espansione di elementi dello spazio extra-cellulare, in particolare il collagene, risultando in fibrosi e deposito di tessuto connettivo in eccesso.

Stimoli infiammatori persistenti o una disregolazione nei meccanismi della fase di risoluzione possono risultare in infiammazione cronica168, riconosciuta come un fattore chiave sottostante a molteplici patologie, inclusa l’aterosclerosi8182, l’artrite83

e le malattie neurodegenerative croniche, come la malattia di Alzheimer84.

1.4.5 Risposte infiammatorie croniche

1.4.5.1 Meccanismi cellulari e molecolari coinvolti nelle risposte infiammatorie croniche

Le risposte infiammatorie croniche possono esser stimolate da ciascuno degli induttori in grado di causare reazioni infiammatorie acute. Similmente alle reazioni infiammatorie acute, le risposte infiammatorie croniche possono avere origini microbiche o non microbiche e i pathways cellulari e molecolari coinvolti nello stato infiammatorio cronico sono fortemente influenzati dalla natura dello stimolo infiammatorio.

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Se gli stimoli infiammatori non sono efficientemente rimossi durante la flogosi acuta, l’infiltrato neutrofilico e macrofagico viene progressivamente rimpiazzato da cellule T. Lo shift da immunità innata ad adattativa porta a un meccanismo più finemente regolato che richiede il riconoscimento di specifiche strutture molecolari (antigeni) sulla superficie degli induttori infiammatori85. L’induzione di una risposta immune adattativa inizia nel momento in cui un patogeno viene fagocitato da una cellula dendritica nel tessuto infetto86. Queste cellule fagocitiche specializzate sono stanziali nella maggior parte dei tessuti e a vita relativamente lunga, con un lento turn-over. Esse derivano dallo stesso precursore midollare dei macrofagi, e migrano dal midollo osseo in periferia, dove il loro ruolo è di sorvegliare l’ambiente locale dall’aggressione di patogeni. Tutte le cellule dendritiche residenti nei tessuti migrano attraverso il sistema linfatico ai linfonodi regionali, dove interagiscono coi linfociti naive circolanti87. Le cellule dendritiche immature possiedono sulla loro superficie recettori per il riconoscimento di strutture comuni a molti patogeni, come i proteoglicani di parete batterici194. Come avviene nel caso di macrofagi e neutrofili, il legame di un batterio a tali recettori stimola la cellula dendritica alla fagocitosi del patogeno e alla sua degradazione intracellulare. La funzione della cellula dendritica, comunque, non è primariamente di distruggere i patogeni, bensì di presentare gli antigeni estranei agli organi linfoidi periferici, per presentarli ai linfociti T194. Quando una cellula dendritica cattura un patogeno in un tessuto infetto, si attiva e migra al più vicino linfonodo. Nell’atttivarsi, la cellula dendritica matura, acquisendo funzioni di cellula presentante l’antigene (APC) e subisce dei

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cambiamenti che la rendono in grado di attivare linfociti patogeno-specifici che trova nel linfonodo88. Le cellule dendritiche attivate secernono citochine che influenzano entrambe l’immunità innata ed adattativa, facendo sì che queste cellule siano dei guardiani essenziali che determinano se e come il sistema immune risponde alla presenza di agenti infettivi195. La presentazione degli antigeni microbici alle cellule T è seguita dall’attivazione di cellule T citotossiche89 e la produzione di anticorpi da cellule B90 che bersagliano selettivamente le molecole che evocano le risposte immuno-infiammatorie. Le cellule T possono differenziarsi in almeno due sottotipi (T helper 1, Th1; T helper 2, Th2)91, che attivano diversi pattern di citochine infiammatorie e controllano

diversi rami del processo immuno-infiammatorio92 (Figura2 ).

Ruolo dei Th1 eTh2 nella risposta immuno-infiammatorio.

La risposta immune adattativa coinvolge la produzione di citochine Th1 e Th2

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Le cellule Th1 producono IL-2, TNF-α e IFN-γ e sono associate all'immunità cellulo-mediata contro gli agenti patogeni intracellulari, oltre ad essere coinvolte in reazioni cutanee di ipersensibilità di tipo ritardato. Le cellule Th1 vanno anche a stimolare la produzione di chemochine, che forniscono un importante collegamento tra il reclutamento di cellule infiammatorie e immunità adattiva. Le chemochine sono fondamentali per stimolare la migrazione dei leucociti dal sangue ai tessuti e possono essere secrete in risposta alle citochine Th1, comprese

IL-1 e TNF94. Al contrario, le citochine Th2, come IL-4, -5 e -10, sono coinvolte

nel controllo delle infezioni da elminti extracellulari e degli agenti patogeni circolanti migliorando l'immunità anticorpo-mediata Tuttavia, esse sono anche associate a malattie allergiche come asma, rinite allergica ed eczema (dermatite atopica)200.

Se l'effetto combinato dei macrofagi e dell'immunità adattiva è ancora insufficiente per rimuovere l'induttore infiammatorio, il persistente reclutamento di cellule infiammatorie può portare alla formazione di granulomi o tessuti linfoidi terziari95. La formazione di un granuloma segue l'esposizione a induttori microbici (cioè mycobacterium tuberculosis) e non microbici (cioè corpi estranei). I macrofagi tendono ad aggregarsi l'uno intorno all'altro, formando una capsula di diversi strati cellulari che circondano l'agente patogeno. Questo processo si traduce in un sequestro dell'induttore infiammatorio, neutralizzando la sua capacità di reclutare e attivare nuove cellule infiammatorie. Analogo processo infiammatorio viene attivato da infiammatori endogeni, come i cristalli di urato monosodico e di calcio pirofosfato diidrato (che causano rispettivamente la gotta e

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pseudo-gotta)96. Sebbene la formazione di un granuloma sia efficace nel limitare

la virulenza dell'induttore infiammatorio, uno stato di infiammazione cronica che circonda gli agenti patogeni può persistere per decenni all'interno di questa nicchia biologica. Il granuloma può riattivarsi in una fase successiva, causando una nuova risposta infiammatoria acuta. A livello globale, la tubercolosi è l'esempio più diffuso di formazione di granuloma cronico, anche se processi simili sono stati descritti in altre malattie croniche, comprese le placche aterosclerotiche97. Quando questa reazione infiammatoria è abbastanza attiva da distruggere le pareti cellulari, prodotti contenuti all'interno del granuloma vengono rilasciati nei tessuti circostanti (es. polmone), innescando un'altra reazione infiammatoria locale e/o sistemica.

Durante le risposte infiammatorie croniche locali, alcuni fattori scatenanti possono provocare stati infiammatori sistemici e cronici. Esempi di ciò includono gli AGE (prodotti finali di glicazione avanzata) e le lipoproteine ossidate a bassa densità. Gli AGE sono il risultato della glicazione non enzimatica di proteine a lunga vita (cioè il collagene)98 e possono determinare il cross-linking delle proteine a cui sono attaccati, portando ad un graduale deterioramento funzionale di queste molecole. Gli AGE sono riconosciuti da specifici recettori localizzati sulla superficie di fagociti e linfociti mononucleati (RAGE), che hanno attività

infiammatoria da soli (167) o in combinazione con i TLR99. L'accumulo di AGE è

stato descritto in condizioni iperglicemiche e pro-ossidative, tra cui diabete di tipo 1 e 2, insufficienza renale, stati neurodegenerativi e in generale disturbi dell'invecchiamento. Analogamente agli AGE, le lipoproteine ossidate a bassa

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densità possono innescare un'infiammazione vascolare sistemica attivando macrofagi subendoteliali o circolanti. Quando queste cellule tentano di rimuovere le lipoproteine ossidate a bassa densità dallo spazio subendoteliale utilizzando i loro recettori scavenger, rilasciano potenti ossidanti, tra cui l'enzima mieloperossidasi, che causano l'ossidazione di altri fosfolipidi LDL e

contribuiscono all'evoluzione cronica del processo infiammatorio100.

1.4.5.2 L'infiammazione cronica come legame comune tra invecchiamento, fragilità e malattie legate all'età

1.4.5.2.1 Prove epidemiologiche

Studi su una vasta popolazione hanno ripetutamente documentato un aumento dei livelli sierici di citochine pro-infiammatorie, come IL-6 (noto anche come "citochina gerontologo")101 e fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α), di

2-4 volte maggiore con età avanzata207102103104

La spiegazione più semplicistica di questo fenomeno risiede nel considerare questo aumento di citochine proinfiammatorie come un riflesso dell'aumentato rischio di malattie infiammatorie croniche negli anziani105106. Tuttavia, l'invecchiamento fisiologico (invecchiamento senza comorbilità) è anch’esso associato ad una bassa esposizione infiammatoria in vivo. Numerosi studi su anziani indicano che i livelli di diverse citochine (tra cui IL-6 e TNF-α) aumentano con l'età, anche in individui apparentemente sani e in assenza di infezione acuta o cronica 107108. Questi risultati sono confermati da studi che coinvolgono centenariani e persone fragili.

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