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Private equity e quotazione in Borsa: il caso Technogym

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT Corso di Laurea Magistrale in Banca, Finanza Aziendale e Mercati

Finanziari

Tesi di Laurea

Private Equity e Quotazione in Borsa: il Caso Technogym

RELATORE

Prof.ssa Elena BRUNO

Candidato Giada NANNI

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INDICE

PREMESSA ... 4

1. I CANALI DI FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE ... 7

1.1 Introduzione: Capitale di Debito e Capitale di Rischio ... 7

1.2 Il Capitale di rischio come strumento alternativo al canale bancario: Private Equity e Venture Capital ... 11

1.3 IL Private Equity ... 11

1.3.1 Le fasi del ciclo di vita dell’impresa ... 12

1.3.2 Il processo di investimento ... 18

1.3.3 Il Mercato del Private Equity in Italia ... 24

1.3.4 Impatto economico del Private Equity e Venture Capital in Italia ... 29

2. LE EXIT STRATEGIES ... 33

2.1 Le exit strategies in Italia ... 33

2.2 Il disinvestimento tramite Trade Sale ... 37

2.3 Disinvestimento tramite Secondary Buy Out ... 38

2.4 Il disinvestimento tramite Quotazione ... 39

2.4.1 Vantaggi e Svantaggi delle quotazione in Borsa per l’impresa ... 42

3. QUOTAZIONE IN BORSA COME FORMA DI SOSTEGNO PER LA CRESCITA DELL’IMPRESA ... 50

3.1 La struttura dell’operazione di IPO ... 50

3.2 I requisiti per la quotazione ... 51

3.3 Ammissione delle azioni alla quotazione in Borsa ... 53

3.4 Gli attori del processo di quotazione ... 54

3.5 Il processo di quotazione ... 56

4. TECHNOGYM, DA UN GARAGE DI CESENA A PIAZZA AFFARI ... 69

4.1 La Storia ... 69

4.1.1 Evoluzione societaria ... 77

4.1.2 Principali attività ... 79

4.1.3 Il modello operativo ... 83

4.1.4 Principali Mercati ... 85

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4.2.1 Motivazioni alla base dell’operazione ... 90

4.2.2 Modalità di conclusione dell’operazione e nuova composizione del capitale . 91 4.2.3 Il patto parasociale ... 94

4.2.4 I risultati con l’ingresso del fondo di Private Equity ... 100

4.3 L’uscita del fondo: la Borsa ... 104

4.3.1 Ammissione alla negoziazione e modalità di negoziazione ... 107

4.3.2 Over allotment e greenshoe ... 107

4.3.3 Intervallo di prezzo e prezzo dell’offerta ... 108

4.3.4 I risultati del collocamento istituzionale ... 112

4.3.5 Accordi di lock up ... 114

4.4 Il debutto in Borsa ... 115

4.4.1 Le Dichiarazioni del presidente e fondatore di Technogym alla Stampa ... 117

4.5 I risultati del gruppo post-quotazione ... 119

4.5.1 Il 2016 anno storico per TECHNOGYM ... 121

4.5.2 Andamento del titolo 2016 ... 123

Conclusioni ... 127

Riferimenti Bibliografici ... 132

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PREMESSA

La recente crisi economico-finanziaria ha evidenziato particolarmente uno dei difetti più destabilizzanti di un sistema finanziario caratterizzato da un eccessivo orientamento banco-centrico, che ha come effetto principale l’incapacità di fornire la liquidità necessaria alle imprese nel momento in cui esse ne hanno maggiormente bisogno.

La difficoltà di accesso al canale creditizio bancario ha riacceso negli ultimi anni il tema della diversificazione delle fonti di finanziamento, ed in questo senso l’attività del Private Equity ha acquisito un ruolo di primo piano fra le risorse alternative funzionali al rilancio dell’economia italiana.

Per questo motivo il presente lavoro si propone di inquadrare il tema del PE dapprima nelle sue linee generali e poi attraverso l’esame di un caso reale.

Il lavoro si suddivide in quattro sezioni:

Nel capitolo 1 dopo una breve introduzione sulle varie opzioni di finanziamento delle imprese, si è definita l’attività di Private Equity ,facendo in primo luogo un’analisi del mercato del PE in Italia, in secondo luogo illustrando le varie modalità di intervento in relazione al ciclo finanziario dell’impresa, i modelli più ricorrenti per finanziare e gestire l’attività di investimento nel capitale di rischio e le fasi che contraddistinguono quest’ultima.

Nel capitolo 2 si è dato spazio, in prima istanza, all’esame delle exit

strategies degli operatori di Private Equity anche al fine di massimizzare il

rendimento dell’operazione. In seconda istanza sono stati trattati i vantaggi/svantaggi che una modalità di exit in particolare, ovvero la quotazione in Borsa, apporta alle imprese.

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In letteratura l’exit tramite Ipo viene infatti considerata la forma di disinvestimento più attrattiva in presenza di operatori di Private Equity, poiché grazie ad essi è possibile ridurre alcuni svantaggi tipici della quotazione e facilitare l’ingresso dell’azienda nel mercato azionario.

Nel terzo capitolo si è analizzato il processo di quotazione in Borsa.

Nella quarta e ultima parte del lavoro viene analizzato in modo dettagliato il processo che ha portato alla quotazione di Technogym, tipico esempio di impresa nata piccola e ora societa' neo-quotata e uno dei principali player nello scenario italiano ed internazionale. Si tratta, in particolare, di un caso che riguarda una eccellenza italiana che ha saputo ben armonizzare, con il fondamentale coinvolgimento di operatori finanziari qualificati, il proprio sentiero di crescita e di sviluppo con gli strumenti di finanza che un moderno mercato dei capitali può mettere a disposizione di chi ha le giuste idee imprenditoriali e le capacità di realizzarne.

In particolare, dopo aver descritto il Gruppo con il supporto del Prospetto Informativo, dei bilanci e dei comunicati stampa diramati dalla societa', l’attenzione si e' focalizzata inizialmente sull’analisi di come il fondo di private equity interviene nell’operazione e come questo abbia impattato sulla struttura di Technogym e, successivamente, sui soggetti che hanno assistito Tecnogym nel processo di quotazione in Borsa; sui dati e sulle condizioni relativi all’Offerta Globale; sui risultati dell’Offerta Globale, nonche' sulle reazioni del mercato e della stampa alla quotazione di Technogym a Piazza Affari.

Questo lavoro ha permesso di focalizzare alcuni importanti aspetti del processo di quotazione in Borsa. Questa rappresenta per l’impresa un’opzione strategica di fondamentale importanza e il vantaggio piu'

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immediato e' la possibilita' di accedere ad una fonte di finanziamento alternativa sia al prestito bancario, che all’equity dei soci originali.

Entrambe le risorse, non solo non sono sempre sono disponibili nella quantità adeguata, ma neanche si dimostrano gli strumenti (almeno non gli unici) più adeguati al sostegno di un percorso di crescita.

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1. I CANALI DI FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE

1.1 Introduzione: Capitale di Debito e Capitale di Rischio

Il reperimento di capitali necessari a finanziare un’impresa è il problema con cui quotidianamente si scontra la quasi totalità degli imprenditori. Questa situazione di continua ricerca di risorse determina il sorgere di un fabbisogno finanziario che, in termini generali, è motivato dalla necessità di incrementare le attività e/o ridurre le passività, e mantenere un equilibrio costante fra fonti e impieghi.

In particolare i principali canali di copertura di tale fabbisogno sono costituiti dall’autofinanziamento, dal capitale di debito e dal capitale di rischio1.

Il capitale di rischio è rappresentativo del coinvolgimento diretto nel progetto imprenditoriale ed è pienamente soggetto al rischio d'impresa. Per tale motivo al capitale di rischio non è associata una remunerazione minima predefinita su base contrattuale. La remunerazione del capitale di rischio (ad esempio delle azioni) dipende dal risultato di gestione raggiunto oltre che dalla capacità dell’impresa di prevederne la remunerazione senza alterare le proprie condizioni di equilibrio, mentre il capitale di debito da diritto al rimborso del capitale e alla corresponsione di un interesse indipendentemente dal risultato di gestione dell'impresa. E’ bene premettere che questa distinzione può farsi più tenue nel caso in cui ci troviamo in presenza di debiti postergati o subordinati, o di strumenti finanziari ibridi, le cui caratteristiche possono talvolta renderli più simili al capitale di rischio che non a quello di debito.

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Il capitale di debito comprende i debiti di regolamento e i debiti di finanziamento. Nei primi rientrano i debiti concessi dai fornitori, ossia le dilazioni di pagamento; nei secondi rientrano i prestiti bancari, i mutui, gli scoperti di conto corrente e i prestiti obbligazionari. E' chiaramente intuibile la diversa natura delle due componenti del capitale di debito: i debiti di regolamento mostrano una natura spiccatamente operativa, mentre i debiti di finanziamento sono tipicamente di natura finanziaria. Entrambi danno diritto al rimborso del capitale e alla corresponsione di un interesse anche se va chiarito che un credito commerciale che vada oltre le normali condizioni di dilazione e che per questo è fruttifero di interessi tende ad essere assimilabile ad un debito finanziario.

Una volta fatta questa prima suddivisione bisogna distinguere i finanziamenti anche sulla base del soggetto erogatore. Abbiamo allora i finanziamenti concessi da soci e quelli concessi da soggetti terzi. Incrociando entrambe queste classificazioni otteniamo la matrice sottostante.

Fonte: Perrini F. La Gestione della Quotazione per Valorizzare le PMI. Egea, 2000

Nel primo quadrante troviamo gli apporti in capitale di rischio erogati dagli stessi soci dell’impresa. Fanno parte di questa prima categoria:

• l’autofinanziamento: in questo caso i finanziamenti provengono non dall’apporto di terzi, nelle forme di capitale proprio o di debito, ma dalla gestione stessa dell’azienda in virtù degli utili netti conseguiti nell’esercizio e del loro mancato prelevamento;

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• l’aumento di capitale: è un atto o un’operazione di carattere straordinario nella vita di una società in quanto, andando a modificare il capitale sociale, determina una variazione dell’atto costitutivo che deve essere deliberata dall’assemblea in seduta straordinaria. Può essere realizzato o con la modifica del patrimonio netto (aumento a pagamento) o con la semplice imputazione di riserve o fondi di bilancio (aumento gratuito), in questo caso viene vincolato a capitale l’autofinanziamento già generato dall’impresa. Può avere luogo in denaro o con conferimenti di beni diversi dal denaro e può, a certe condizioni, escludere o limitare il diritto di opzione spettante ai soci. In entrambi i casi l'aumento può aver luogo con l’emissione di nuove azioni o con l’aumento del valore nominale dei titoli in circolazione.

Rimanendo sui finanziamenti tramite investimento in capitale di rischio individuiamo nel secondo quadrante quelli effettuati da terze parti. Questa è sicuramente l’area che più ci interessa dal momento che contiene al suo interno due strumenti che hanno una importanza centrale all’interno di questo lavoro:

• il private equity: E’ quella forma di impiego di capitali a m/l termine proveniente da investitori professionali che acquisiscono partecipazioni di imprese non quotate con l’obiettivo di rivenderle dopo 5/7 anni generando una plusvalenza;

• la quotazione sui mercati finanziari: attraverso questa formula è possibile ottenere un ammontare di capitali solitamente rilevante da parte di investitori professionali e non. Per essere ammessi alla quotazione sui mercati principali è necessario avere predeterminati requisiti in termini di trasparenza, capitalizzazione e dimensione ( ma non solo, come vedremo in modo più approfondito). Per questo non tutte le società possono quotarsi.

Passiamo ora alle forme di finanziamento di natura debitoria andando prima ad analizzare quelle messe a disposizione dagli stessi soci dell’impresa:

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• le obbligazioni sottoscritte da soci: le obbligazioni come definite dal Codice Civile all’Art. 2412, sono dei titoli di debito emessi dalla società che attribuiscono al suo possessore il diritto al rimborso del capitale prestato all’emittente alla scadenza, più un interesse su tale somma;

• il leverage buyout: E’ quella forma di finanziamento attraverso la quale soggetti interni o esterni all’azienda cercano di acquisirne il controllo, tramite un veicolo da indebitare, sfruttando la leva finanziaria e contando sugli stessi mezzi finanziari dell’impresa acquisita per far fronte al servizio del debito.

Nell’ultimo quadrante vi sono quelle forme di finanziamento in capitale di debito proveniente da soggetti terzi. Sono le forme preferite dalle piccole e medio imprese italiane e comprendono:

• le obbligazioni sottoscritte da soggetti terzi;

• i prestiti bancari: finanziamenti in denaro concessi dalle banche sulla base di una serie di valutazioni preliminari aventi principalmente ad oggetto la solvibilità dell’impresa, ovvero la capacità di rimborso dell’impresa stessa;

Per essere competitivi, reagire alla concorrenza e avere una crescita finanziariamente sostenibile, le imprese hanno bisogno di avere liquidità e adeguato sostegno finanziario a disposizione per far fronte a tutti gli investimenti necessari ad alimentare l’attività produttiva e la crescita.

La struttura finanziaria delle medie imprese italiane è generalmente non molto diversificata e oltre al canale interno quello bancario è la principale ( e per giunta, prevalente anche largamente rispetto al primo) fonte di finanziamento esterno utilizzato per far fronte ai proprio fabbisogni. Con la recessione economica, soprattutto per le PMI è diventato sempre più difficile ottenere un finanziamento dalle banche. Questo anche perché la crisi finanziaria prima e la recessione dopo hanno reso difficile per queste ultime trovare finanziamenti al mercato all’ingrosso, ma anche perché il

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cospicuo stock dei crediti deteriorati che è andato accumulandosi negli anni della crisi e i requisiti patrimoniali sempre più stringenti che sono stati imposti alle banche, hanno agito da fattori prociclici diminuendo la capacità e la propensione delle banche a fare credito.

Un ruolo crescente del capitale di rischio è dunque essenziale per la prospettiva di consolidamento della struttura finanziaria delle imprese e per accompagnarne la crescita strutturale.

1.2 Il Capitale di rischio come strumento alternativo al canale bancario: Private Equity e Venture Capital

Il settore degli investimenti in capitale di rischio si candida a divenire un volano per la ripresa economica. Esso possiede delle intrinseche proprietà anticicliche, che lo rendono una delle leve principali per la ripresa, basata sull’avvio di nuovi processi di creazione di valore. Nel nostro paese, il sistema imprenditoriale presenta alcuni elementi diffusi , quali la valenza familiare, la dimensione piccola, la scarsa capacità di accesso al credito. Allo stesso tempo sono anche presenti nel nostro tessuto imprenditoriale una spiccata vocazione all’export, una propensione all’innovazione e, non di rado, un buon posizionamento nella catena del valore, soprattutto quando siamo in presenza di imprese legate a determinati settori o filiere( quali quelle del sistema moda o della meccanica e robotica). Tali caratteristiche, ovvero sia i limiti che le valenze, rendono una parte non marginale del nostro tessuto imprenditoriale, da un lato bisognoso, dall’altro attrattivo per le operazioni di Private Equity.

1.3 IL Private Equity

Con il termine Private Equity si intende l’apporto di capitale di rischio da parte di operatori specializzati, in imprese prevalentemente non quotate, al

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fine di realizzare guadagni in conto capitale nel medio /lungo termine, attraverso la creazione di valore da parte delle imprese stesse. In altre parole parole, affinchè tale obiettivo si realizzi è necessario che l’impresa, durante il tempo dell’investimento da parte del Private Equit, generi valore.

Ciò che si può realizzare supportando l’attività d’impresa nella fase di costituzione, di sviluppo o di cambiamento.

1.3.1 Le fasi del ciclo di vita dell’impresa

Secondo quanto appena accennato, in Europa si individuano 3 stadi del ciclo di vita2:

1) Venture capital 2) Expansion capital 3) Buy outs

1.3.1.1 Le operazioni di avvio

Con la definizione di early stage si intente il finanziamento effettuato per supportare lo stadio iniziale dello sviluppo dell’impresa. Indicando perciò quell’attività che può essere definita come venture capital in senso stretto. ( vi può essere una fase addirittura precedente che può essere definita neonatale o de seed capital).

Dal punto di vista della domanda (impresa) la richiesta di intervento è infatti, generalmente riconducibile a un imprenditore, intenzionato a sviluppare una nuova invenzione o a migliore/implementare un prodotto/processo produttivo esistente. Prima che la commercializzazione del nuovo prodotto sia avviata e consegua i primi successi, servono spesso

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ricerche( di base, di mercato) o altre attività, le quali richiedono investimenti a volte onerosi, il cui ritorno è spesso incerto e dove, perciò, il rischio è molto elevato.

Nelle operazioni di avvio, o di early stage , l’imprenditore necessità spesso , più che di un mero contributo in termini di capitali, di un aiuto nella definizione della formula imprenditoriale, nella riflessione sulla propria posizione competitiva attuale e prospettica, e nella definizione di azioni organizzative e di governo dell’impresa. Al tempo stesso l’investitore deve necessariamente avere fiducia non solo nelle potenzialità del business ma anche negli uomini che lo condurranno.

L’imprenditore trovandosi nella necessità di reperire risorse , non solo finanziarie, propone e presenta un business plan a uno o più investitori istituzionali. Superata questa fase e dopo una valutazione positiva, ha inizio una fase negoziale che porterà alla strutturazione dell’operazione. Tipicamente, l’apporto dell’imprenditore è in prevalenza in termini di idee e conoscenza del business e il suo coinvolgimento in termini di capitale può essere relativamente limitato.

Al contrario, il venture capitalist contribuisce con un ammontare di capitale relativamente alto in proporzione a quello fornito dalla controparte.

Volendo analizzare con maggior dettaglio le caratteristiche degli investimenti finalizzati al finanziamento all’avvio, è possibile reinserire la classificazione per sottostadio di sviluppo ed evidenziarne le singole peculiarità.

Si parla di seed financing qualora l’investitore in capitale di rischio intervenga già nella fase di sperimentazione, quando non esiste un prodotto, bensì un’idea o un’invenzione. Le competenze necessarie sono quindi, oltre che manageriali, soprattutto tecniche e specifiche, di conoscenza approfondita del business e dei processi industriali.

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Successivamente, l’investitore può intervenire nella fase di avvio dell’attività produttiva (start up financing) pur non essendo ancora affermata la validità commerciale del prodotto/servizio. In questa fase sono richieste anche le risorse finanziarie utili per supportare lo sviluppo dell’attività produttiva e delle diverse funzioni aziendali.

Si parla poi di first stage financing, qualora l’avvio dell’attività produttiva sia già completato, ma si debba valutare ancora appieno la validità commerciale del prodotto/servizio. L’imprenditore cerca fondi per finanziare un business sviluppato in forma modesta e che necessità di capitale per la sua crescita.

1.3.1.2 Le operazioni di sviluppo

La seconda macro- categoria di interventi effettuati da investitori istituzionali nel capitale di rischio è riconducibile a tutte quelle situazioni nelle quali, a diverso titolo e secondo diverse modalità, l’impresa si trovi di

fronte a problematiche connesse al suo sviluppo3.

Le operazioni di expansion financing rientrano tra gli interventi di venture

capital effettuati dagli investitori specializzati. Si tratta di un investimento

temporaneo in quote di partecipazione al capitale della società, che avviene solitamente attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale e/o di un prestito obbligazionario convertibile, ed è finalizzato a finanziare le fasi di sviluppo dell’impresa.

La crescita può essere perseguita o internamente (attraverso ad esempio l’aumento della capacità produttiva) oppure attraverso un processo di diversificazione geografica o una strategia di M&A, ovvero tramite un processo di integrazione con altre attività.

La diversa struttura imprenditoriale europea, più incentrata sulle imprese familiari rispetto a quella anglosassone, ha fatto si che gli operatori di

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Gervasoni A., Sattin F. L., Private Equity E Venture Capital. Manuale Di Investimento Nel Capitale Di Rischio, Milano, Guerini Studio, 2004.

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private equity sviluppassero una diversa modalità operativa. L’investimento

può sostanziarsi nell’acquisizione di partecipazioni di minoranza, spesso il fondo di Private Equity acquisisce la maggioranza ma vuole con se l’imprenditore che perciò avrà anche un ruolo di manager oltre che di socio di minoranza.

L’imprenditore, infatti, il più delle volte non vuole perdere il controllo della propria azienda ma, nonostante ciò, in determinati momenti della vita della stessa può sentire l’esigenza di riorganizzarla per dare il via a una fase di sviluppo o per meglio gestire un cambio generazionale. I cambi generazionali sono momenti critici, durante i quali la stabilità dell’impresa, e la sua stessa sopravvivenza, possono essere messe in serio pericolo qualora i soggetti cui spetta la successione non siano in grado di governare l’azienda di cui divengono proprietari.

Totalmente diversa è la modalità operativa degli operatori sui mercati anglosassoni: acquistano il controllo di società pubbliche, già quotate e con azionariato diffuso per poi effettuare un’operazione di delisting tramite l’operazione di investimento (c.d. public to private). La giusta scelta dell’investitore è molto importante in questo tipo di operazioni. Il ruolo degli investitori, infatti, non è limitato al solo apporto di capitali, che passa quasi in secondo piano, ma consiste in un contributo strategico-organizzativo fornito grazie anche ai diversi contatti con il mondo dell’economia a livello internazionale.

A differenza delle tradizionali forme di finanziamento, come il ricorso al capitale di debito, la partecipazione al capitale di rischio da parte di investitori specializzati, soprattutto in questi casi, si sostanzia in uno stretto rapporto di collaborazione tra l’imprenditore e l’investitore stesso. È per questo che a volte si parla di vera e propria partnership, in quanto si tratta di scegliere un partner con il quale condividere strategie, obiettivi e decisioni importanti. Oltre al capitale, l’investitore apporta competenze professionali strategiche, finanziarie, di marketing, di organizzazione,

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manageriali e offre una rete di contatti utili, finanziari e non, in ambito nazionale ed internazionale. Ai fini dell’identificazione dell’investitore ideale è necessaria una chiara definizione degli obiettivi. Se, ad esempio, l’obiettivo dell’operazione riguarda la quotazione in un mercato estero bisognerà ricercare un partner che in quel mercato opera e gode di una elevata e riconosciuta reputazione. Se l’obiettivo invece è quello di crescere a livello internazionale attraverso una strategia di acquisizioni bisognerà ricercare un partner che è in grado di supportare un processo di questo tipo e che ha una profonda conoscenza dei mercati target.

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17 1.3.1.3 Le operazioni di cambiamento

La terza categoria di interventi in capitale di rischio è finalizzata al finanziamento di processi di cambiamento interni all’azienda, che spesso

portano a una profonda modifica dell’assetto proprietario della stessa4.

Un primo motivo sul quale può fondarsi l’esigenza di cambiamento consiste nella volontà da parte di uno o più azionisti dell’impresa target di abbandonare l’attività imprenditoriale cedendo le quote in proprio possesso. In tale contesto si parla di replacement capital qualora ci si riferisca alla mera sostituzione di azionisti di minoranza che non sono più interessati al proseguo dell’attività aziendale e la cui uscita dalla compagine azionaria, generalmente, non comporta grandi cambiamenti nella strategia dell’impresa. Diverso è il caso di cambio radicale di proprietà da parte dall’impresa.

In tutte le circostanze sopra definite, obiettivo dell’intervento dell’investitore specializzato è quello di supportare finanziariamente e realizzare il cambiamento dell’assetto proprietario, da cui il termine Buy

Out con cui si definiscono tali interventi che rappresentano la categoria più

rilevante, in termini di ammontate investito, di tutto il settore del Private

Equity.

Le operazioni di Buy Out sono quindi caratterizzate dal fatto che contestualmente all’investimento si verifica un cambiamento della struttura azionaria di controllo che normalmente viene acquisito dall’operatore di Private Equity con tutte le conseguenze e responsabilità che tale posizione comporta. Ed è per questa ragione che queste operazioni si differenziano in modo sostanziale da quelle di sviluppo e da quelle di avvio. Qui non si parla

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Gervasoni A., Sattin F. L., Private Equity E Venture Capital. Manuale Di Investimento Nel Capitale Di Rischio, Milano, Guerini Studio, 2004.

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di partnership con l’imprenditore. In tali operazioni il partner dell’investitore è sempre e comunque il management, o meglio, un management team, che normalmente viene coinvolto anche a livello di azionariato sin dalle prime fasi di analisi e strutturazione dell’operazione e che si dovrà occupare della gestione e dell’implementazione delle strategie. Tuttavia il management team, non è quasi mai in grado di acquisire il controllo della società. Quasi sempre il controllo azionario è dell’operatore di Private Equity che in tutto e per tutto svolge il ruolo di azionista di maggioranza. Conseguentemente, indipendentemente dalla partecipazione acquisita, di fatto la gestione e responsabilità operativa dell’azienda passa nelle mani del management e l’investitore focalizza normalmente il proprio ruolo a quello di indirizzo strategico, supporto allo sviluppo, partecipazione alla corporate governance , monitoraggio e valutazione dei risultati.

1.3.2 Il processo di investimento

Il processo attraverso cui i fondi di PE gestiscono i singoli investimenti è riconducibile a una sequenza di fasi5:

1) Individuazione dell’impresa target 2) Valutazione del management team 3) Condivisione del business plan 4) Definizione del prezzo

5) Accordi di governance 6) Negoziazione

7) Accordi per l’exit 8) Monitoraggio 9) Disinvestimento

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Nella prima fase, l’obiettivo è quello di individuare un flusso crescente di opportunità di investimento da parte degli operatori professionali specializzati.

In Italia, la scarsa conoscenza di questi strumenti, rende necessaria un’attività che si potrebbe definire di “marketing diretto” da parte degli operatori specializzati. In questi casi è quindi indispensabile per l’investitore identificare preliminarmente il target potenziale , raccogliendo informazioni e stabilendo una valida rete di contatti, spesso informali, con altri professionisti.

In ogni caso bisogna generare un flusso di opportunità, di proposte di investimento, potenzialmente interessanti al fine di innescare un deal flow. Le modalità attraverso le quali l’operatore tende a strutturare un flusso sistematico di opportunità sono influenzate da tre ordini di fattori:

a) Le caratteristiche dell’operatore e, in particolare: la notorietà, l’immagine, l’esperienza e la considerazione di cui gode nell’ambito del mercato specifico, che influenzano fortemente la capacità di generare un flusso sistematico di opportunità di investimento.

b) L’area geografica di intervento, con particolare riferimento alle esperienze e alle abitudini degli operatori economici e degli imprenditori.

c) La tipologia di investimenti effettuati. Se l’obiettivo è l’identificazione di start up in settori specifici, tipicamente quelli ad alte tecnologie, delle telecomunicazioni, il maketing dovrà essere focalizzato al settore specifico di riferimento e in luoghi dove tali opportunità si generano ( università, centri ricerca); se si è invece alla ricerca di operazioni di turnaround, contatti sistematici con professionisti esperti in procedure concorsuali o comunque di ristrutturazione, possono essere indubbiamente molto utili.

La seconda fase è quella fondamentale per decidere il successo o il fallimento dell’investimento da parte dell’operatore specializzato. A

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seguito del flusso di richieste di finanziamento ottenute grazie alla prima fase, si passa ora a scremare le opportunità sulla base del profilo dell’imprenditore o del management team al vertice dell’impresa target. Si passa a valutare dunque se le aspettative dell’imprenditore siano in linea con le esigenze dell’investitore e le necessità dell’impresa.

Si valutano, poi, anche l’azienda ed il business.

La finalità ultima dell’investimento in capitale di rischio è quello di ottenere elevati tassi di rendimento dell’investimento su un orizzonte temporale di medio lungo termine. Gli investitori, quindi, preferiscono aziende dinamiche con elevati tassi di crescita e con obiettivi predefiniti ed esplicitati. Lo strumento principale in questa fase per effettuare un’analisi e una scrematura delle proposte di investimento è sicuramente il business plan, documento che illustra le intenzioni strategiche dell’imprenditore e del management relative alle strategie competitive dell’azienda, le azioni che saranno realizzate per il raggiungimento degli obiettivi strategici, l’evoluzione dei key value drivers e dei risultati economici e finanziari attesi.

La terza fase è quella in cui iniziano le negoziazioni con i vertici dell’impresa target per arrivare ad una definizione del prezzo. Nell’ambito delle transazioni di PE, la valutazione non è mai teorica o astratta , ma sempre legata a un prezzo, reale ed effettivo, che costituirà la base di scambio nella transazione. La società in oggetto, dunque , viene “prezzata” e quindi nel risultato finale entreranno in gioco non solo aspetti qualitativi determinanti, ma anche , e soprattutto, la libera negoziazione tra le parti e la relativa forza contrattuale di ciascuna di esse.

Rimanendo sempre all’interno della fase di valutazione dell’azienda si passa successivamente ad effettuare delle due diligences relative all’impresa target.

Lo scopo della Due Diligence è quello di agevolare l’assunzione di decisioni informate circa l’opportunità e le modalità di acquisizione in relazione ad aree critiche e punti di forza della target al fine di comprendere

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meglio le potenzialità dell’operazione e fornire gli elementi base della valutazione e della negoziazione. La pianificazione e la gestione della Due

Diligence dipendono dalle modalità con cui il team di lavoro ha accesso ai

dati della target e al personale della stessa. La Due Diligence è un processo che riguarda molteplici aspetti del business oggetto di vendita. Questo perché le possibili esigenze investigative in relazione ad una transazione sono varie e sono il risultato di un insieme di analisi specialistiche ovvero:

 Financial due diligence  Legal due diligence  Due diligence fiscale  Commercial due diligence  Due diligence ambientale  Due diligence assicurativa

A Queste verifiche, quasi sempre tutte presenti, se ne possono affiancare altre a seconda del settore e del tipo di imprese.( Es. Due

Diligence tecnologica)

Particolare attenzione alla Financial DD le cui risultante costituiscono base per la valutazione del business oggetto della transazione e per la negoziazione del prezzo del contratto.

La quarta fase è quella in cui avviene la negoziazione vera e propria, il cui esito finale, se positivo, è riassunto in una serie complessa di contratti che prevedono, in particolare, clausole dirette a regolare la fase di uscita dell’investimento.

È importante ricordare che all’interno del processo di investimento si fa riferimento anche alla definizione di clausole contrattuali che regolano il rapporto tra il fondo investitore e la società partecipata tra cui , i cosiddetti tag/along rights, ovvero meccanismi che rendano il processo di dismissione realmente perseguibile nei tempi e nei modi stabiliti, evitando, quindi, qualsiasi possibilità di opposizione o rallentamento da parte degli altri soci.

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Alcuni di questi principi vengono definiti e tutelati all’interno dei cosiddetti

“patti parasociali”, stipulati al momento della realizzazione

dell’investimento.

La possibilità di procedere alla cessione della partecipazione entro un dato periodo o raggiunti determinati risultati può essere innanzitutto garantita da un’opzione put riconosciuta a favore dell’investitore, solo nel caso in cui l’investitore ha il diritto di rivendere al vecchio socio o a soggetto predeterminato. In tali casi, il soggetto potenzialmente acquirente avrà il diritto di acquistare le azioni dall’investitore(opzione call). In questo modo viene formalmente stipulato un contratto in base al quale si attribuisce all’operatore di Private Equity il diritto di vendere la propria la quota all’azionista di maggioranza ad una certa data, o entro un periodo prestabilito di tempo e ad un prezzo determinato secondo procedure definite al momento del contratto. Da parte sua, l’azionista( di solito di maggioranza) rimane obbligato a comprare l’intera partecipazione.

In alternativa all’opzione put, è possibile stipulare un contratto avente ad oggetto quello che nel gergo degli operatori del settore viene definito “reverse drag along right”, cioè quel diritto a mettere in vendita, all’interno di un predeterminato arco temporale, l’intera società, garantendo al tempo stesso, al socio di maggioranza, il diritto di prelazione sull’acquisto.

Un’ulteriore clausola contrattuale volta a tutelare il processo di disinvestimento è rappresentata dal “ diritto di seguito” (tag along rights) che si sostanzia nella facoltà garantita al socio di minoranza di partecipare pro-quota a tutte le transazioni che prevedono la cessione di azioni poste in essere dall’azionista di maggioranza. Attraverso tale diritto, si garantisce la parità di trattamento per tutti gli azionisti della società, indipendentemente dalla quantità di azioni possedute, uniformando le opportunità di negoziazione.( talvolta può essere previsto un premio di maggioranza). Infine, in forma speculare rispetto a quanto visto in tema di diritto di seguito, viene spesso previsto già al momento dell’investimento il cosiddetto “ diritto di trascinamento” ( drag along right), che garantisce

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all’azionista di maggioranza che quello di minoranza lo segua, pro-quota, in ogni atto di vendita. Si tratta in pratica, di un principio molto simile a quello visto sopra, che si differenzia da esso soltanto per il soggetto su cui cade lo specifico obbligo.

La quinta fase è quella della gestione e del monitoraggio dell’investimento. Anche in questa fase l’azione dell’investitore in capitale di rischio cambia a seconda della tipologia di investimento effettuata. Ci sono situazioni in cui il fondo di private equity si limita ad apportare il capitale e a monitore l’andamento dell’azienda, altre in cui partecipa molto più attivamente alla gestione dell’azienda fornendo consulenza manageriale, finanziaria e di supporto alla crescita del progetto imprenditoriale.

Indipendentemente dalla partecipazione o meno alla gestione dell’impresa, sicuramente il private equiter, durante tutto il periodo cercherà, di monitorare il proprio investimento attraverso un attento controllo non solo dei risultati finanziari ed economici dell’azienda ma anche del management, del mercato e del prodotto. In particolare la qualità e le prestazioni del

management non solo sono in grado di determinare la sopravvivenza di

un’azienda, ma sono anche uno degli elementi distintivi che ne consentono di conseguire il successo.

La sesta ed ultima fase è quella del disinvestimento che sarà trattata approfonditamente nel capitolo 2. In questa fase l’operatore di private

equity ha a disposizione varie ways out o exit strategies:

 cessione della partecipazione ad una società di natura industriale (trade sale);

 vendita delle azioni sul mercato borsistico attraverso l’offerta pubblica oppure in un momento successivo (IPO);

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 riacquisto della partecipazione da parte del socio originario (buy

back);

 abbattimento totale o parziale della partecipazione (write off o write

down).

Prima di passare all’analisi delle exit strategies, con particolare attenzione alla quotazione in Borsa, è utile fare un’ inquadratura generale sul mercato del Private Equity in Italia e sull’impatto economico del Private Equity e del Venture Capital nel nostro Paese.

1.3.3 Il Mercato del Private Equity in Italia

Nel corso del 2016 sono state registrate sul mercato italiano del private

equity e venture capital 322 nuove operazioni6, distribuite su 245 società, per un controvalore pari a 8.191 milioni di Euro, corrispondente ad un incremento del 77% rispetto all’anno precedente, quando le risorse complessivamente investite erano state pari a 4.620 milioni di Euro. Tale dato, fortemente influenzato da alcune operazioni di grande dimensione, realizzate prevalentemente da soggetti internazionali, rappresenta il valore più alto mai registrato nel mercato italiano.

Con riferimento alla tipologia di operazioni realizzate nel 2016 i buy out hanno continuato a rappresentare il comparto del mercato verso il quale è confluita la maggior parte delle risorse (5.772 milioni di Euro), seguiti dal segmento delle infrastrutture (942 milioni di Euro) e dall’expansion (710 milioni di Euro), entrambi caratterizzati da alcune operazioni di dimensioni significative.

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Fonte:www.aifi.com

Passando ad analizzare l’evoluzione che ha interessato i singoli segmenti di mercato, il comparto dell’early stage (seed, start up, altro early stage e later stage) ha mostrato una crescita sia in termini di numero di operazioni, passate da 122 nel 2015 a 128 nel 2016, con un incremento del 5%, sia dell’ammontare investito, passato da 74 milioni nel 2015 a 104 milioni nel 2016 (+39%). Nel corso del 2016, nel segmento dell’expansion sono stati investiti 710 milioni di Euro, distribuiti su 67 operazioni. Rispetto all’anno precedente, i dati risultano in calo del 12% in termini di numero e in crescita del 132% in termini di ammontare, grazie anche ad alcune operazioni di ammontare significativo. Il segmento del turnaround anche nel 2016 ha mantenuto un ruolo di nicchia, con la realizzazione di soli 3 investimenti, contro i 4 dell’anno precedente, mentre l’ammontare è passato da 64 a 66 milioni di Euro. Le risorse investite nel comparto del

replacement sono state pari a 597 milioni di Euro, in leggera crescita

rispetto al 2015 (494 milioni investiti). Infine, il segmento dei buy out ha attratto il 70% dei capitali complessivamente investiti nel corso del 2016, pari a 5.772 milioni di Euro, con una crescita dell’83% rispetto ai 3.155 milioni del 2015.

Se si considera la sola attività posta in essere in Italia, il 76% del numero di operazioni ha riguardato aziende localizzate nel Nord del Paese (74% nel

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2015), seguito dal Centro con il 14% (17% l’anno precedente), mentre le regioni del Sud e Isole hanno pesato per il 10% (9% nel 2015).In termini di ammontare, invece, il Nord ha attratto il 90% delle risorse complessivamente investite in Italia, seguito dalle regioni del Centro con l’8%, mentre rimane ancora ridotta la quota di risorse destinate al Sud Italia (2%).

Fonte: www.aifi.com

A livello regionale si conferma il primato della Lombardia, dove è stato realizzato il 45% del numero totale di operazioni portate a termine in Italia nel corso del 2016, seguita da Emilia Romagna (10%) e Veneto.

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Fonte: www.aifi.com

L’analisi della distribuzione settoriale delle società oggetto di investimento evidenzia come, nel 2016, il settore ICT (comunicazioni, computer ed elettronica) abbia rappresentato il principale target di investimento in termini di numero di operazioni, con una quota del 19% seguito dal comparto dei beni e servizi industriali (16%) e da quello medicale (10%).

Fonte:www.aifi.com

Relativamente alla distribuzione del numero di investimenti per dimensione delle aziende target, i dati del 2016 mostrano una concentrazione delle

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operazioni su imprese di taglio medio-piccolo (80% del numero totale, 81% nel 2015), caratterizzate da un numero di dipendenti inferiore alle 250 unità. Queste aziende hanno attratto risorse per un ammontare complessivo pari a 2.181 milioni di Euro (27% del totale, 34% nel 2015), mentre il resto del mercato, con un peso del 20% in termini di numero di investimenti, ha assorbito il 73% delle risorse totali (6.010 milioni di Euro).

Fonte: www.aifi.com

Anche la distribuzione degli investimenti per classi di fatturato delle aziende target evidenzia come le imprese di piccola e media dimensione (con un fatturato inferiore ai 50 milioni di Euro), pur avendo attratto risorse per circa il 16% del totale, rappresentino, anche per il 2016, il principale target verso cui sono indirizzati gli investimenti di private equity e venture capital in Italia, con una quota del 75% sul numero complessivo di operazioni.

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29 Fonte:www.aifi.com

1.3.4 Impatto economico del Private Equity e Venture Capital in Italia

1.3.4.1 Impatto economico del Private Equity

 Nel 2015 le aziende gestite da Private Equity in Italia hanno registrato performance migliori rispetto sia a PIL nazionale sia ad altre aziende italiane con dimensioni simili7.

Anche se in leggero calo rispetto al 2015, la crescita dei ricavi delle aziende in portafoglio a Private Equity continua ad essere significativamente più alta del tasso di crescita del PIL italiano.

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30 Fonte:Aifi e analisi pwc

Rispetto al benchmark, le aziende in portafoglio a Private Equity e Venture

Capital registrano un tasso di crescita dei ricavi superiore del 4% rispetto al benchmark.

Fonte: Aifi e analisi Pwc

 Inoltre la crescita dei ricavi delle società possedute da Private Equity ha un riflesso positivo sulla generazione di posti di lavoro.

Nel decennio 2005-2015 il tasso di crescita occupazionale delle aziende gestite da Private Equity e Venture Capital rimane in linea con il periodo precedente e fa registrare valori nettamente superiori al tasso di crescita occupazionale italiano (4,9% vs -0,5%).

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31 Fonte: Aifi e analisi Pwc

Anche rispetto al benchmark, le società partecipate da Private Equity registrano un tasso occupazionale nettamente superiore (+5,2%). In termini di crescita di risorse negli ultimi 3 anni, il campione di imprese analizzato (142 società) ha evidenziato la creazione di circa 12.000 posti di lavoro.

Fonte: Aifi e analisi Pwc

1.3.4.2 Impatto economico del Venture Capital in Italia

Le aziende partecipate da Venture Capital, nel periodo 2005-2015, registrano ricavi superiori al benchmark (+5,4%) e una marginalità (EBITDA) superiore dell’1,4% mentre, nello stesso periodo, le aziende

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oggetto di Buy-out registrano un EBITDA superiore dell’7,7% a fronte di ricavi superiori solo del 2,8%.

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2. LE EXIT STRATEGIES

2.1 Le exit strategies in Italia

Nel corso del 2016 l’ammontare disinvestito, calcolato al costo di acquisto delle partecipazioni, ha raggiunto quota 3.656 milioni di Euro, in crescita del 26% rispetto ai 2.903 milioni registrati l’anno precedente. In termini di numero, invece, si sono registrate 145 dismissioni, dato che segna un calo del 19% rispetto al 2015 (178 exit), distribuite su 113 società8.

Fonte: Aifi e analisi Pwc

Per quanto riguarda le modalità di cessione delle partecipazioni, in termini di ammontare, la vendita ad altri operatori di private equity ha rappresentato il canale di disinvestimento preferito (1.993 milioni di Euro), con un’incidenza del 54%, seguita dalla cessione a soggetti industriali (trade sale), con un peso del 34% (1.228 milioni di Euro).

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34 Fonte: Aifi e analisi Pwc

La vendita a partner industriali ha rappresentato la tipologia di exit più utilizzata in termini di numero, con 54 exit (37% del totale), seguita dalla cessione ad altri operatori di private equity (35 disinvestimenti, 24% del totale).

Da ultimo, incrociando il numero di disinvestimenti con la tipologia di investimento originario, emerge come il maggior numero di dismissioni sia riconducibile ad operazioni di buy out (38%), seguite dagli expansion (37%) e dagli early stage (19%).

Al di la dei principi che devono regolare il processo di disinvestimento e delle forme contrattuali, descritte nel precedente capitolo, sul piano pratico le principali modalità di cessione della partecipazione a disposizione dell’investitore sono rappresentate da9:

1) La vendita delle azioni sui mercati regolamentati

2) La cessione della partecipazione ad un socio di natura industriale ( trade sale)

3) La cessione ad un altro operatore di private equity o venture capital

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( replecement o secondary buy out)

4) Il riacquisto della partecipazione da parte del socio originario, rimasto, con quote di maggioranza o di minoranza, nella compagine azionaria per tutta la durata dell’operazione (buy back).

La scelta del canale di disinvestimento, seppur indicativamente già definita al momento della negoziazione, deriva da una serie di fattori legati alla tipologia dell’impresa target (dimensioni, settore di attività, caratteristiche organizzative ecc.), ai risultati raggiunti attraverso la collaborazione tra investitore e imprenditore, a elementi congiunturali, nonché alle specifiche volontà e preferenze di tutti gli shareholders.

Uno studio condotto dall’ allora Price Waterhouse per l’EVCA10 su alcuni

casi di operazioni di successo, è giunto alla definizione di due diverse tipologie di investitori , in funzione dell’approccio da questi manifestato nei confronti del processo di disinvestimento.

La prima categoria viene definita dei pro active investors, soggetti che preferiscono acquisire quote di maggioranza e, al tempo stesso, utilizzare in forma diffusa piani di stock option per incentivare il management della partecipata. Accanto a questi investitori esistono poi i passive investitors, che si differenziano, innanzitutto, per la frequente acquisizione delle quote di minoranza. Inoltre l’investitore istituzionale nel capitale di rischio “passivo” opera nella maggior parte dei casi in un orizzonte temporale più lungo rispetto a quello dei pro active investors, senza avere in mente una specifica modalità di dismissione della partecipazione e facendo particolare affidamento, ai fini del proprio guadagno , sui dividendi forniti dalla partecipata.

Sempre con riferimento a quanto emerso da tale ricerca , le più frequenti cause di fallimento o di problemi, collegabili al processo di disinvestimento, sono così individuate:

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 il limitato apprezzamento della partecipata da parte del mercato borsistico;

 lo scarso interesse verso il titolo da parte di investitori istituzionali in un’ operazione di IPO;

 lo scarso interesse da parte di potenziali acquirenti industriali in caso di trade sale;

 la scarsa collaborazione del management o dei co-investitori;  i risultati del processo di due diligence;

 la ridotta performance aziendale.

Molti di questi problemi possono essere pervenuti grazie a un’attenta attività di pianificazione dell’intero processo di investimento. Di fatto, gli sforzi per la realizzazione di un approfondito piano di investimento dovrebbero essere finalizzati anche, e soprattutto, alla soluzione del problema dell’uscita.

Assunzioni circa lo stato dell’economia nazionale, del settore di riferimento e l’andamento dei mercati azionari al tempo del probabile disinvestimento , avranno, ad esempio, una particolare influenza sulla decisione d’investimento. Eventuali problemi congiunturali o di carenza di interesse verso il titolo da parte di investitori istituzionali potrebbero poi essere superati prevedendo un eventuale disinvestimento alternativo tramite trade sale.

L’approccio al problema del disinvestimento da parte di un investitore nel capitale di rischio è, inoltre, influenzato da numerosi altri fattori, tra i quali le sua abilità nella valutazione delle tecnologie e delle persone, nel vendere le imprese, nel realizzare contatti interpersonali.

Un’altra importante variabile nella scelta del canale di disinvestimento è rappresentata dalla quota di capitale posseduta dall’investitore: dismettere una partecipazione di maggioranza o di minoranza comporta valutazioni

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differenti, preferendosi generalmente, la cessione a terzi nel primo caso, e il collocamento sul mercato(IPO) nel secondo.

2.2 Il disinvestimento tramite Trade Sale

Nell’ambito della gamma delle possibilità di disinvestimento, la modalità più diffusa è comunque rappresentata dalla cessione delle quote della partecipata a nuovi soci industriali, o dalla fusione con altre società.

Rispetto alla quotazione in Borsa, tale canale di dismissione presenta particolari complessità, anzitutto in ordine al fatto che presuppone necessariamente un accordo sia con il management che con i soci portatori della responsabilità imprenditoriale e, inoltre perché le sue logiche e modalità di realizzazione possono essere le più varie. Relativamente alla prima tipologia di problematica, essa e riconducibile a due fattori estremamente correlati. In primo luogo la cessione di quote azionarie a soggetti portatori di interessi industriali dà luogo, infatti a un livello di interferenza da parte di questi ultimi sia strategica che operativa sicuramente maggiore rispetto a quello normalmente associato all’apertura del capitale al mercato finanziario. Al tempo stesso, tale possibilità di interferenza, risulterà tanto più esercitabile, quanto maggiore sarà la quota di capitale ceduta.

Di fatto, la via del Trade Sale, risulta quindi percorribile quasi esclusivamente qualora si riesca a offrire ai potenziali acquirenti una quota di controllo, se non di maggioranza assoluta.

Gli investitori europei hanno dichiarato in un’intervista dell’EVCA11

vantaggi e svantaggi riconducibili a tali operazione. Sotto il profilo dei vantaggi viene evidenziato che:

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 gli acquirenti possono pagare un prezzo maggiore, riconducibile al premio attribuibile all’importanza strategica che ha per loro l’acquisto dell’impresa target.

 È possibile liquidare immediatamente il 100% della partecipazione posseduta;

 Si tratta di un’operazione più economica, veloce e semplice rispetto a un IPO.

 A volte è l’unica opzione per alcune imprese minori.

 E’ necessario convincere un solo soggetto acquirente, anziché l’intero mercato.

In termini di svantaggi è emerso che:

 Spesso il management dell’impresa target è contrario all’operazione  In alcuni paesi non ci sono molti trade buyers

 Alcuni investitori istituzionali non sono disposti a concedere le garanzie tipicamente richieste dagli acquirenti.

Il Trade Sale rappresenta una via di dismissione della massima importanza, attraverso la quale l’apporto dell’investitore in capitale di rischio può essere determinante per la creazione di complessi più adatti a sostenere la competizione internazionale e a marciare più velocemente sulla via dello sviluppo.

2.3 Disinvestimento tramite Secondary Buy Out

Un’altra importante tipologia di disinvestimento è rappresentata dalla vendita delle quote azionarie a un altro operatore di private equity.

Sotto il profilo del soggetto cedente, e quindi del disinvestimento, si tratta in realtà di un’operazione avente caratteristiche analoghe a quanto visto per

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i trade sale, con la sola significativa differenza che ad acquistare sia un altro fondo di Private Equity e non un’azienda industriale.

I secondary buy out, nascono dunque dall’esigenza di un operatore di dismettere la propria partecipazione, generalmente alla fine di un ciclo che ha visto l’impresa oggetto di una prima operazione di buy out. Spesso in questa fase, l’azienda è riuscita a rimborsare tutto o gran parte del capitale di debito inizialmente utilizzato per la sua acquisizione (tipicamente le operazioni di PE comportano l’utilizzo della leva finanziaria, più o meno spinta a seconda dei casi e della propensione all’utilizzo da parte del fondo) e quindi l’investitore di PE è pronto a capitalizzare il proprio investimento. Al tempo stesso, da parte dell’acquirente vi è la convinzione che l’impresa , attraverso i suoi flussi di cassa prospettici e/o la cessione di alcuni asset, sia in grado di ripetere la medesima performance o di incrementarla e farsi carico di ulteriori quote di capitale di debito. Viene quindi organizzata una seconda operazione di Buy out, che vede come protagonisti, in termini di apportatori di equity nella newco, nuovi investitori nel capitale di rischio.

Date le particolari caratteristiche finanziarie di questa operazione, questa modalità di disinvestimento si adatta ad aziende operanti in settori maturi, in grado di produrre stabili flussi di cassa nel tempo.

2.4 Il disinvestimento tramite Quotazione

La quotazione dei titoli della società partecipata su un mercato regolamentato rappresenta, nella maggior parte dei casi, la più ambita via di dismissione della partecipazione da parte dell’investitore istituzionale. Specie se questi, come già accennato, possiede una partecipazione di minoranza.

Allo stesso tempo, tuttavia, l’ammissione al listino ufficiale di Borsa, ma anche all’AIM, non è un processo semplice per le imprese minori e, quindi,

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tale canale può essere inserito in un’ottica di medio-lungo termine, come modalità avente un ragionevole grado di certezza, solo per quelle società che hanno già raggiunto un certo sviluppo e una certa maturità.

In via generale la quotazione in Borsa presenta per l’investitore vantaggi e svantaggi. Essa infatti , da un lato, aumentando la liquidità dei titoli, consente di smobilizzare in forma graduale quote del capitale ed, eventualmente, di effettuare più facilmente nuove emissioni, ma dall’altro, sottoponendo l’impresa a controlli che potrebbero risultare non graditi e, non ultimo, comportando un certo costo, potrebbe generare un attrito tra l’investitore e gli altri soci, che potrebbe compromettere tutto quello fatto in precedenza.

Sul fronte dell’impatto del processo di quotazione sull’azienda partecipata,

è opinione ormai diffusa anche tra gli imprenditori12, che la presenza di un

socio istituzionale nella compagine azionaria riduca gli effetti “traumatici” facilitando al tempo stesso, l’avvicinamento dell’azienda al mercato. Le regole, in parte informali, di corporate governance richieste dall’investitore istituzionale nel capitale di rischio al momento del suo ingresso in azienda, anticipano gran parte degli adempimenti formali richiesti dai regolamenti di tutte le Borse mondiali evolute, preparando anche culturalmente management e imprenditori. In questo modo, potendo contare anche sul supporto consulenziale fornito dagli advisor, l’azienda viene di fatto posta in condizione di affrontare nel modo migliore l’apertura al mercato. Verificandosi inoltre, non di rado, la permanenza del socio istituzionale, con una quota generalmente ridotta, anche nel periodo immediatamente successivo a quello di quotazione.

Anche per questa modalità di disinvestimento, così come fatto per le precedenti, sulla base di indicazioni fornite da un selezionato gruppo di

12 Private Equity e Venture Capital, Manuale di investimento nel capitale di rischio, Anna Gervasoni-Fabio Sattin

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investitori europei13, i principali vantaggi sono attribuibili ai seguenti fattori:

 Possibilità di spuntare un prezzo più alto (Questo però nel mercato italiano, come vedremo, analizzando il caso trattato, non è sempre vero e il rendimento dell’investitore è molto condizionato dalla leva utilizzata).

 La maggiore facilità di incontrare le preferenze del management dell’impresa

 La possibilità di un guadagno ulteriore derivante dall’incremento del valore, post quotazione, delle azioni rimaste in portafoglio dell’investitore istituzionale.

Sul fronte opposto i principali svantaggi, dichiarati dagli stessi investitori sono rappresentati da:

 La dimensione dei costi, maggiore rispetto ad altre alternative di dismissione

 Le clausole di lock up che impediscono agli investitori presenti nella

compagine azionaria prima della quotazione di cedere

immediatamente tutte le partecipazioni detenute.  L’illiquidità di molti mercati europei

 La necessità affinchè l’Ipo vada a buon fine, di attrarre un vasto numero di investitori

 Il fatto che tale opzione, sia in realtà impercorribile per alcune piccole imprese.

E’ importante sottolineare che nel caso in cui la quotazione delle azioni della società in un mercato regolamentato sia stata preventivamente prevista nell’accordo tra i diversi soci, spetta in genere all’investitore il diritto di richiedere, all’interno di un intervallo temporale predefinito, l’avvio della relativa procedura. Nella maggior parte dei casi, si prevede inoltre che tale

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procedura non possa essere impedita dagli eventuali azionisti di maggioranza, a meno che questi non decidono di acquistare in prima persona il pacchetto azionario detenuto dall’investitore allo stesso prezzo a cui i titoli sarebbero venduti sul mercato.(FAIR MARKET VALUE).

Una problematica estremamente rilevante che investitore e imprenditore devono comunque affrontare congiuntamente , nell’ambito della decisione di quotazione, riguarda la scelta del mercato. La definizione del mercato borsistico sul quale l’impresa intende quotarsi acquista un valore importante soprattutto in termini di incidenza che tale scelta assume in relazione alla strategia aziendale. Alla luce di ciò, le variabili che devono essere prese in considerazione per la scelta del mercato sono:

 I tempi e i costi di quotazione e permanenza sul mercato

 La localizzazione geografica del mercato e le eventuali connessioni con altri mercati

 La dimensione del mercato

 L’immagine di efficienza e di trasparenza del mercato

 L’eventuale specializzazione del mercato in termini di caratteristiche settoriali e/o dimensionali delle imprese quotate.

 Le caratteristiche del mercato in termini di attività e liquidità e, in definitiva, l’attitudine a formare prezzi che sono in linea col valore del sottostante.

2.4.1 Vantaggi e Svantaggi delle quotazione in Borsa per l’impresa

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La quotazione in Borsa rappresenta una scelta chiave per il successo di un’azienda, capace di creare valore non solo per gli azionisti di riferimento ma anche per gli altri investitori e il mercato nel suo complesso.

Con riferimento alle esigenze dell’emittente, la quotazione è spesso intesa come risposta a uno o più dei seguenti bisogni14:

a) raccogliere nuovi capitali per finanziare rilevanti progetti impren-ditoriali, anche se, per l'Italia, alcuni studi hanno rilevato che la quotazione abbia seguito, e non preceduto, un'accelerazione della crescita e degli in-vestimenti delle società coinvolte;

b) diversificare le fonti di finanziamento per ridurre la dipendenza dell'impresa dal capitale di debito e allargare la base di raccolta del capitale di rischio assicurandone, al contempo, il frazionamento del possesso presso gli investitori al fine di non mettere a rischio il preesistente assetto di controllo dell’impresa;

c) rafforzare il proprio prestigio per godere di ricadute positive in termini di potere contrattuale sia sul mercato dei fattori produttivi che su quello dei beni e servizi prodotti;

d) migliorare il proprio standing creditizio al fine di ridurre il costo del capitale, anche e soprattutto di debito, sia per l'effetto diretto connesso alla minor leva finanziaria che si determina per la società che emette nuove azioni, sia per l'effetto indiretto della maggior disciplina nel governo aziendale imposta dalla necessità di rispettare le regole di corporate

governance e di trasparenza verso il pubblico previste dal regolamento del

mercato;

e) disporre di moneta di scambio per possibili future operazioni di fusione o acquisizione;

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f) disporre di uno strumento addizionale di incentivazione e motivazione del management e dei dipendenti;

g) ottenere una valutazione di mercato che esprima il risultato di un’attenta, continua e credibile attività di monitoraggio esterno sull’efficacia del management nella creazione di valore;

Da tale elenco si evince come la scelta di un’impresa di quotarsi risponda solo in parte ad una logica finanziaria, potendo il più delle volte essere dettata da considerazioni di natura strategica o di governo aziendale. Infatti, a ciò che si è appena detto si può aggiungere e meglio precisare che:

- il prestigio e la notorietà derivante dalla quotazione rendono più agevole e meno costoso reclutare capitale umano di qualità, estendere la rete dei rapporti commerciali con altre imprese e affermare il proprio brand nel pubblico dei clienti potenziali;

- la possibilità di emettere azioni quotate e scambiate quotidianamente sotto condizioni ideali di visibilità e trasparenza permette all'impresa di impegnarsi in acquisizioni di altre società senza alterare il proprio equilibrio finanziario offrendo come mezzo di pagamento azioni proprie anche di nuova emissione;

- la quotazione offre l’opportunità di concordare più attraenti piani di incentivazione del management basati su stock options, di promuovere l'a-zionariato dei propri dipendenti, di avere un riscontro immediato del giudizio del mercato sulle scelte intraprese dal management;

- disporre di un azionariato diffuso, infine, rende l'azienda più forte sul piano "politico" interagendo con le autorità impegnate in attività di re-golamentazione e supervisione e con altre istituzioni.

La quotazione può, però, anche servire a soddisfare esigenze proprie di coloro che sono già azionisti. La creazione di un mercato pubblico per i titoli azionari infatti permette loro di:

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a) diversificare la propria ricchezza, senza perdere il controllo sulla società;

b) realizzare rilevanti capital gain (tempificando il collocamento nei periodi più positivi del ciclo di borsa in modo da spuntare nell'offerta prezzi superiori a quelli che la conoscenza da insider della realtà aziendale suggerirebbe come appropriati);

c) favorire il passaggio generazionale, agevolando l'uscita degli eredi dell'originario imprenditore non interessati a proseguire nella conduzione dell'azienda;

d) assecondare il desiderio di rientro dall'investimento di merchant banks e di fondi di private equity e venture capital che abbiano apportato capitale di rischio alla società per favorirne lo sviluppo o una trasformazione manageriale, senza, però, mettere a repentaglio l'assetto di controllo preesi-stente alla quotazione grazie alla dispersione delle azioni collocate presso una pluralità di risparmiatori.

2.4.1.2 Svantaggi

Da quanto sopra illustrato emerge che la quotazione comporta numerosi benefici che si traducono in una migliore efficienza e trasparenza della società. E' importante tuttavia che la società prenda in considerazione anche gli obblighi e gli aspetti potenzialmente critici che la quotazione può comportare. Questi fattori di criticità, che variano a seconda delle circostanze e delle caratteristiche dell’azienda coinvolta, sono15:

 il titolo è maggiormente suscettibile alle condizioni del mercato in quanto può essere influenzato dalle azioni speculative e dalla congiuntura negativa della borsa, indipendentemente dalle scelte strategiche dell’azienda;

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