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L'obbligo di sicurezza del datore di lavoro tra adempimento e danno.

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INDICE

Premessa ... 5

CAPITOLO 1 L’OBBLIGO DI SICUREZZA SECONDO L’ARTICOLO 2087 CODICE CIVILE .. 7

1. Evoluzione storica dell’obbligo di sicurezza nei luoghi di lavoro. ... 7

2. Contenuto dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 codice civile. ... 14

2.1. Il contenuto dell’art. 2087 cod. civ. in connessione con le fattispecie di rilevanza penale. ... 18

3. L’esecuzione dell’obbligazione di sicurezza. ... 22

4. Tipologie di responsabilità: la colpa per omissione. ... 24

4.1. La culpa in eligendo. ... 27

4.2. La culpa in vigilando. ... 29

4.3. Colpa esclusiva e colpa concorrente del lavoratore. ... 30

5. I destinatari dell’obbligo di sicurezza: i datori di lavoro. ... 33

5.1. La Pubblica Amministrazione come destinatario dell’obbligo di sicurezza. ... 35

5.2. I delegati per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza. ... 36

CAPITOLO 2 L’OBBLIGO DI SICUREZZA NELL’AMBITO DELLA DISCIPLINA PREVENZIONISTICA ... 39

1. La tutela prevenzionistica prima dell’obbligo di sicurezza. ... 39

1.2. Il decreto legislativo n. 626/1994. ... 41

2. Il decreto legislativo n. 81/2008. ... 43

2.1. Le figure del lavoratore e del datore di lavoro. ... 45

2.2. Ambito applicativo. ... 51

3. Il sistema istituzionale. ... 57

3.1. Il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. ... 57

3.2. La Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro. ... 60

3.3. Il sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP). 62 3.4. L’interpello. ... 63

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5. Delega di funzioni. ... 68

5.1. Il contenuto e l’efficacia liberatoria della delega. ... 69

5.2. La subdelega. ... 71

6. Obblighi non delegabili del datore di lavoro. ... 72

6.1. La valutazione dei rischi. ... 72

6.2. Il servizio di prevenzione e protezione e il suo responsabile. ... 74

7. Gli obblighi dei lavoratori. ... 77

8. Fine prevenzionistico attraverso azioni pubbliche e sociali in spirito di leale collaborazione. ... 79

9. I rapporti del D.Lgs. n. 81/2008 con la disciplina comunitaria e sovranazionale. ... 80

10. Il D.Lgs. n. 81/2008 e la sicurezza sul lavoro quale materia di competenza concorrente tra Stato e Regioni. ... 81

CAPITOLO 3 LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER INFORTUNIO SUL LAVORO E PER MALATTIE PROFESSIONALI ... 85

1. La responsabilità del datore di lavoro: premessa storica... 85

1.1. Nascita dell’assicurazione obbligatoria. ... 87

1.2. La disciplina normativa del secondo dopoguerra. ... 90

2. La responsabilità civile del datore di lavoro ... 93

2.1. L’azione di regresso dell’INAIL. ... 96

2.2. L’azione di surroga dell’INAIL. ... 107

2.3. Profili di incostituzionalità del T.U. n. 1124/1965. ... 111

3. Il danno differenziale e il danno biologico; la sentenza costituzionale n. 184/1986. 115 3.1. Il contributo della legislazione penale. ... 117

4. La situazione anteriore alla riforma del 2000. ... 118

4.1. Il decreto legislativo 23 febbraio 2000 n. 38. ... 120

4.1.1. Nuova classificazione dei datori di lavoro. ... 125

4.1.2. Nuovi obbligati alla tutela assicurativa. ... 126

4.1.3. La malattia professionale. ... 130

4.1.4. Il danno biologico INAIL. ... 134

4.1.4.1. L’incongruenza della disciplina del danno biologico INAIL... 140

4.1.4.2. Mancanza di linearità nell’evoluzione normativa. ... 145

4.1.4.3. Il danno biologico e il suo rapporto con il danno esistenziale. ... 147

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4.2. Alcuni rilievi critici. ... 154

5. La responsabilità penale del datore di lavoro. ... 155

6. La responsabilità amministrativa del datore di lavoro. ... 157

6.1. Il meccanismo della responsabilità amministrativa degli enti secondo il D.Lgs. n. 231/2001. ... 158

6.2. I soggetti. ... 162

CAPITOLO 4 IL DANNO BIOLOGICO NELL’EVOLUZIONE DEL DIRITTO VIVENTE. ... 163

1. Nascita del danno biologico. ... 163

1.1. Le prime proposte del Tribunale genovese. ... 165

1.2. Il parere della Corte Costituzionale. ... 167

1.2.1. Il leading precedent della Corte Costituzionale. ... 171

1.3. Successive evoluzioni del concetto di danno biologico. ... 175

1.4. Il danno biologico nel diritto vivente a seguito dell’intervento della Corte di Cassazione. ... 177

2. La nuova concezione del danno non patrimoniale e dell’art. 2059 cod. civ.. ... 179

2.1. La nuova tipicità del danno non patrimoniale e il suo confronto con il danno esistenziale. ... 184

3. Il danno da mobbing. ... 186

3.1. Il risarcimento del danno da mobbing. ... 188

Osservazioni conclusive ... 191

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Premessa

Il tema della salute del lavoratore e quello, necessariamente correlato, della responsabilità del datore di lavoro, ha rivestito e riveste un’importanza basilare fin dal momento immediatamente successivo alla rivoluzione industriale. Un po’ in ritardo rispetto ad altri Paesi europei dove l’esigenza della tutela della salute psicofisica del prestatore d’opera è stata avvertita prima, in Italia si è iniziato a parlare di sicurezza e salubrità dell’ambiente di lavoro solo sul finire del XIX secolo. Il percorso grazie al quale oggi possiamo affermare di avere un sistema moderno e garantista della salute del lavoratore dipendente è stato lungo e difficoltoso. Basti pensare che i primi giuristi che si occuparono della materia ritenevano impensabile la circostanza che fosse il datore a subire le conseguenze di un eventuale incidente dovuto a una mera fatalità. Successivamente, con costanza e avanzando lentamente, partendo dai collegi probivirali, che risolvevano i conflitti tra padroni e operai e passando per la teoria del rischio professionale, si è giunti oggi a avere un sistema che consente al lavoratore infortunato di ottenere un pieno ristoro di qualunque tipo di danno occorso sul luogo di lavoro1.

La norma cardine dell’intero meccanismo è rappresentata dall’art. 2087 cod. civ.2 che sancisce l’obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a garanzia dell’incolumità dei propri dipendenti. Trovano qui fondamento tutte le leggi emanate successivamente che hanno avuto lo scopo di rendere effettiva e non meramente formale l’obbligazione del codice civile. Si parla di norme quali il D.P.R. n. 1124 del 19653

, ma anche più recenti, ad esempio il D.Lgs. n. 38 del 20004. Quest’analisi intende svolgere un

excursus storico e legislativo attraverso tutte le norme che si sono succedute nel corso del

tempo, per poter essere coscienti di come in concreto si sia arrivati a ottenere i risultati attuali e dei lunghi passi fatti rispetto agli albori della disciplina della tutela del lavoratore. Basti pensare che al giorno d’oggi rientra nell’assicurazione obbligatoria dell’INAIL anche

1

E in realtà non solo, se poniamo la mente anche al c.d. infortunio in itinere.

2 Art. 2087 cod. civ. “Tutela delle condizioni di lavoro.

L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

3

“Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”.

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il danno biologico, che ancora non è annoverabile con certezza tra i danni patrimoniali, oppure al fatto che qualora il dipendente riesca a dimostrarla in giudizio, si considera come malattia professionale il c.d. danno da mobbing o da persecuzioni, alla stregua di una qualunque altra patologia che non rientri nelle tabelle predisposte dall’Istituto assicuratore. Lo scopo, attraverso questo percorso, è quello di riuscire a capire se, considerando anche una serie di eventi accaduti in questi anni5, l’ordinamento giuridico sia adeguato agli elevati standard della nostra società; si vuole cioè capire se il sistema di responsabilità del datore per la sicurezza sul lavoro riesca a prevenire gli infortuni e se, una volta che questi si siano verificati, indennizzi in maniera congrua il lavoratore.

5 Un esempio per tutti, il caso dello stabilimento della società Ilva di Taranto che si occupa di lavorazione

dell’acciaio. La vicenda giudiziaria è ancora in corso, ma il gruppo Riva, che rappresenta in sostanza la società, è accusato di aver omesso anche le misure di sicurezza minime, provocando così l’insorgere di gravi patologie in coloro che abitano nelle zone limitrofe della fabbrica.

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CAPITOLO 1

L’OBBLIGO DI SICUREZZA SECONDO L’ARTICOLO 2087

CODICE CIVILE

1. Evoluzione storica dell’obbligo di sicurezza nei luoghi di lavoro.

I problemi che riguardano l’obbligo giuridico di sicurezza nei luoghi di lavoro non sono risolvibili solo attraverso l’interpretazione e l’applicazione della normativa vigente ma si inseriscono in un più ampio quadro di trasformazione economico sociale degli assetti e della concezione dell’impresa e delle istituzioni.

Il giurista ha un ruolo tuttavia complementare in quest’assetto, ruolo che si ricollega alla circostanza che il tasso di pericolosità e di nocività delle fabbriche rappresenta il riflesso di variabili collegate all’evoluzione tecnologica e alle situazioni socio economiche del sistema della realtà storica dei rapporti di produzione e di quelli di potere tra le varie classi sociali. Per quanto complementare, in ogni caso il ruolo dell’interprete risulta tutt’altro che inefficace; basta guardare all’evolversi delle tecniche e delle ideologie giuridiche, che ha spinto il giurista in alcuni casi a farsi condizionare più dalla volontà di evitare danni irreversibili ai rapporti di produzione piuttosto che da quella di tutelare l’integrità fisica e la salute dei lavoratori. Nel codice del 1865 il “libero” contratto di lavoro aveva la funzione di trasportare il prestatore d’opera dalla sfera del diritto reale a quella del diritto delle obbligazioni: a seguito dell’identificazione tra persona umana e soggetto giuridico, il lavoratore non era più considerato una res. Si valorizzavano dunque la personalità e la libertà del singolo, ritenendo che il lavoratore fosse pienamente in grado di autotutelarsi; si pensava che con la volontaria stipulazione del contratto, il prestatore accettasse e riconoscesse alla controparte un potere unilaterale di comando in qualche misura insindacabile, dal cui esercizio poteva anche derivare una limitazione della sua libertà individuale; limitazione, peraltro, che “essendo uno stato liberamente voluto dal lavoratore, non è che un particolare atteggiamento del suo status libertatis..”: con il fenomeno della subordinazione si concilia, dunque, perfettamente la volontaria sottoposizione del lavoratore alla volontà futura dell’altro contraente6

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6 B

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Il contratto si arrestava sempre davanti al limite costituito dall’organizzazione, la quale rientrava nella sfera di autonomia del datore-imprenditore e nella quale allo Stato non era consentito entrare, mentre al prestatore d’opera era consentito difendersi solo con la propria libertà da contrapporre alla libertà e all’autonomia della controparte; si aveva così uno schema in cui i mezzi di tutela della salute e dell’integrità fisica erano quasi inesistenti, creando gravi carenze, soprattutto in un’epoca in cui i rischi ambientali e organizzativi erano molto maggiori rispetto a quelli odierni. Solo verso la fine del secolo si è iniziato a utilizzare la categoria dell’obbligazione di correttezza tra le parti del rapporto, in base alla quale l’imprenditore aveva il compito di curare l’integrità fisica e morale del dipendente,

esposte al pericolo a causa dell’instaurarsi della relazione di lavoro. Per molto tempo infatti l’unico dato normativo di riferimento in materia è stato l’art. 1151

cod. civ. del 18657, secondo lo schema della responsabilità extracontrattuale per colpa e secondo il principio “dell’agire a proprio rischio”, quale massima espressione “dell’ideologia della fatalità” che fa si che il datore non sia responsabile per tutti quegli infortuni imputabili a colpa del dipendente, caso fortuito o forza maggiore. In sostanza, il diritto al risarcimento del danno da lavoro nella vigenza del codice civile del 1865 era condizionato alla dimostrazione della colpa aquiliana del datore di lavoro, ex art. 1151 cod. civ.: quest’ultimo era assolto a meno che il prestatore non avesse fornito ai sensi dell’art. 1312 cod. civ. del 18658 la prova della sua colpevolezza. Sostanzialmente si aveva a che fare con una probatio diabolica, poiché era pressoché sempre presente l’esimente del caso fortuito. In ogni caso anche quando successivamente si iniziò a trasporre parti del diritto delle obbligazioni nel diritto del lavoro il lavoratore infortunato poteva solo sperare di conseguire il risarcimento per i danni subiti, ma non si faceva mai riferimento alla possibile esistenza di situazioni di tutela preventiva. Dall’interpretazione estensiva dell’art. 1124 cod. civ. del 18659 si ricavava l’obbligo datoriale di fornire un ambiente sano di lavoro. Tuttavia questa stessa impostazione andava a inficiare tutto il potenziale prevenzionistico nel momento stesso in cui circoscriveva il rilievo giuridico dell’obbligo

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Art. 1151 cod. civ. del 1865 “Qualunque fatto dell’uomo che arreca danni ad altri , obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il danno”.

8 Art. 1312 cod. civ. del 1865 “Chi domanda l’esecuzione di un’obbligazione, deve provarla, e chi pretende

esserne stato liberato, deve dal suo canto provare il pagamento o il fatto che ha prodotto l’estinzione della sua obbligazione”.

9

Art. 1124 cod. civ. del 1865 “I contratti debbono essere eseguiti di buona fede, ed obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano”.

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ad una fase successiva al verificarsi dell’evento lesivo e ne prospettava la lettura in termini di mero criterio di responsabilità patrimoniale.

Bisogna notare però che all’epoca le interpretazioni a favore della tutela prevenzionistica erano così “prudenti” proprio perché mancava la materia prima normativa a cui fare riferimento. Questo però non riusciva a giustificare il mantenimento nell’alveo della responsabilità patrimoniale della successiva disciplina, e, in particolar modo dell’ampio disposto dell’art. 2087 cod. civ.10, concepito appositamente per dare rilievo al momento prevenzionistico di tutela dell’ambiente di lavoro. Trasferire la norma dalla logica risarcitoria a quella della tutela preventiva, con l’intento quindi non solo di riparare ma anche di impedire l’evento dannoso, è stata una difficoltà che fino agli anni’70 era sembrata insormontabile. Il precetto espresso dall’art. 2087 cod. civ., o meglio, dalla sua inosservanza, veniva utilizzato per integrare l’elemento costitutivo dei reati di cui agli artt. 43711 e 45112 nonché 58213 e 59014 del codice penale; era un mero indicatore di un criterio

10 Art. 2087 cod. civ. “Tutela delle condizioni di lavoro.

L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

11 Art. 437 c.p. “Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro.

Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni”.

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Art. 451 c.p. “Omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro.

Chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati all'estinzione di un incendio , o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 10 a euro 516”.

13 Art. 582 c.p. “Lesione personale. Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una

malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.

Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa”.

14 Art. 590 c.p. “Lesioni personali colpose.

Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309.

Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239.

Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni. Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.

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di imputabilità del datore di lavoro, che oltretutto operava in concreto solo in quegli spazi in cui la filosofia assicurativo-corporativa non era riuscita a canonizzare sul piano legislativo l’irresponsabilità dell’impresa.

Quest’impostazione era l’emblema della refrattarietà della cultura giuridica a finalizzare le tecniche giuridiche ad obiettivi non strettamente patrimoniali: una riluttanza che, per altro, neppure la Carta Costituzionale era riuscita a superare con i suoi disposti volti alla salvaguardia della persona umana e dei suoi attributi di libertà, dignità e sicurezza. Non si è riusciti a evitare che il diritto alla salute (art. 32 della Costituzione15) venisse ristretto nei limiti di una tutela assicurativa patrimoniale per sua stessa natura successiva al verificarsi del danno, proponendo una lettura in chiave risarcitoria dell’art 41 comma 2 Cost.16

in tema di garanzia dei valori personalistici.

L’evoluzione dell’interpretazione dell’art. 2087 cod. civ. è collegata al dibattito che si è svolto in seguito all’entrata in vigore della Costituzione in tema di diritti fondamentali del cittadino; l’art. 2087 cod. civ. in quanto applicazione qualificata nei luoghi di lavoro del disposto dell’art. 32 comma 1 Cost. è stato coinvolto nelle vicende ricostruttive dell’interpretazione della norma costituzionale che sono state a loro volta influenzate dal dibattito sui diritti fondamentali. In una prima fase di tale dibattito si è valorizzata la “monovalenza” dei diritti costituzionalmente garantiti. Si riteneva cioè che quest’ultimi riguardassero esclusivamente il rapporto Stato-cittadino; erano definiti come “diritti pubblici soggettivi” (o diritti sociali). A questa prima visione si collega l’orientamento volto a negare ogni possibilità di estrarre dall’art. 2087 codice civile un diritto soggettivo perfetto del lavoratore alla salute e alla sicurezza, facendosi leva sulla diretta imputazione al soggetto pubblico del credito di sicurezza del cittadino-lavoratore come del relativo

Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale”.

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Art. 32 Cost. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

16 Art. 41 Cost. “L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

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debito legislativamente imposto a carico dell’imprenditore17. L’art 2087 cod. civ. era una norma intesa a stabilire una relazione di doverosità intercorrente esclusivamente tra datore e Stato, impostazione agevolata dall’impronta lasciata sul codice dall’ideologia corporativa.

Ma proprio in quanto collegata esclusivamente al sistema corporativo, la responsabilità nei confronti dello Stato ora non trova alcun fondamento normativo, anzi, inquadrare l’art. 2087 cod. civ. nella logica del diritto di impresa anziché in quella, maggiormente garantista del diritto del lavoro, è totalmente incomprensibile, se valutata alla luce dei principi della Costituzione. Nei primi anni ’60 si iniziò a assistere a una sorta di “disgelo” costituzionale, grazie al quale tutte le norme dirette a salvaguardare le esigenze di sicurezza e dignità del cittadino sono state riscoperte in termini di “polivalenza” dei diritti fondamentali della persona, trasferendo dal piano meramente pubblicistico a quello privatistico le situazioni giuridiche garantistiche che troviamo nella Costituzione in tema di valori personali e facendo diventare immediatamente operativa la normativa costituzionale all’interno dei rapporti contrattuali. Dal momento che la lettura aggiornata dell’art. 32 Cost. consentiva l’enucleazione in capo al cittadino-lavoratore di un generale diritto soggettivo alla salute da spendere anche nei rapporti tra privati, un’interpretazione dell’art. 2087 cod. civ. che escludesse la diretta titolarità di situazioni giuridiche attive in capo al lavoratore diveniva insostenibile. Emersero allora posizioni che tentavano di dare al diritto alla salute negli ambienti di lavoro strutture dogmatiche tali da ridurne la portata in ordine all’oggetto, al contenuto, alle facoltà, ai criteri di commisurazione della soddisfazione da parte dell’obbligato. Ad esempio quella che pretendeva di assolutizzare la struttura del diritto soggettivo alla sicurezza, in modo da avere soltanto la generica posizione di dovere incombente sugli omnes e non la più incisiva posizione passiva tipica dei rapporti obbligatori, con un conseguente svuotamento degli aspetti contenutistici della pretesa attiva del prestatore di lavoro. È facile quindi rendersi conto che l’allineamento dell’obbligo datoriale a quello del soggetto passivo di un diritto assoluto finisce per assolvere la funzione di relegare il diritto nel ghetto dell’astrattezza e della formalità, di renderlo assolutamente asettico, neutro e impermeabile rispetto alle potenzialità lesive del rapporto in cui esso dovrebbe trovare svolgimento18.

17 B

IANCHI D’URSO, Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro, Napoli, 1980, pag. 13.

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È bene in ogni caso prendere atto di queste tecniche “riduttive” a cui si è accennato sopra che, anche se attraverso modalità differenti, tendevano comunque verso un unico risultato. Da una parte infatti si è inciso sul profilo attivo della relazione giuridica delineata dall’art. 2087 cod. civ., rinvenendosi nello Stato l’altro termine del rapporto intersoggettivo e rendendo irrilevante qualunque posizione giuridica attiva del prestatore; dall’altra, nel momento in cui il diritto soggettivo del lavoratore alla sicurezza è apparso incontestabile, l’operazione si è diretta sul versante passivo del rapporto, equiparando l’obbligo del datore a quello genericamente incombente sugli omnes consociati. Nel primo caso si è sostanzialmente ridimensionato la situazione attiva del lavoratore, nel secondo ci si è limitati a delimitare la posizione passiva del datore: in ogni caso, si è comunque raggiunto il risultato di evitare che dall’art. 2087 cod. civ. potessero derivare due situazioni giuridiche perfettamente identiche in capo alle due parti del rapporto individuale di lavoro.

Per contrasto a questa prima impostazione, verso la fine degli anni ’60 emerse una più accorta dottrina che articolò le situazioni di diritto soggettivo sulla specificità dei rapporti interprivati. Si iniziò a prendere consapevolezza che solo inserendo il diritto all’integrità fisica all’interno della struttura contrattuale obbligatoria del rapporto di lavoro si sarebbero potute ottenere possibilità concrete di tutela. Il rifiuto della natura extracontrattuale dell’obbligo prevenzionale del datore di lavoro è determinato dalla specifica ragione che soltanto il rigoroso collegamento dell’obbligo stesso con lo svolgimento del rapporto contrattuale di lavoro subordinato consente la piena esplicazione della peculiare funzione protettiva ad esso attribuita dall’ordinamento19

; da qui la successiva presa di coscienza che solo riconducendo il diritto nell’alveo delle obbligazioni fondamentali del contratto si sarebbe potuto salvarlo da una decadenza altrimenti inevitabile. Purtroppo neanche questa prospettazione in termini di relatività del diritto può essere considerata realmente soddisfacente, specie sul piano dell’effettività della normativa prevenzionistica.

Anche sul versante penale le linee di tendenza emergenti nella giurisprudenza avvaloravano la propensione a un’interpretazione formalistica e riduttiva, sostanzialmente compromissoria, dell’apparato repressivo. I pochi strumenti giudiziari disponibili non erano molto sfruttati, fatto dovuto in parte a una mentalità legata alla teoria della fatalità e ineluttabilità dell’infortunio, in parte a un fondamento eziologico dell’inesistenza di

19 L. S

PAGNUOLO VIGORITA, Responsabilità dell’imprenditore, in Nuovo trattato di diritto del lavoro diretto da RIVA SANSEVERINO e MAZZONI, II, Padova, 1971, p. 451.

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efficienti strutture tecniche che avevano spinto la magistratura a sottovalutare il fenomeno infortunistico. Si possono trarre dati particolarmente significativi osservando le prassi applicative delle norme penali, in particolare quelle dell’art. 437 c.p.: tale norma è stata scarsamente applicata e ampiamente manipolata nelle sue interpretazioni, tanto da renderla sostanzialmente inoffensiva. Ad esempio la giurisprudenza ha affermato che la disposizione non ha una portata così ampia da potervi ricomprendere qualunque omissione o rimozione degli apparecchi, escludendo in questo modo le infrazioni più lievi, potenzialmente idonee a produrre solo danni personali. In alcuni casi poi si è fatto riferimento all’elemento psicologico del reato, punendo l’imprenditore solo qualora questi avesse avuto l’intenzione di causare l’infortunio, disapplicando in tal modo la norma a causa delle difficoltà nel provare la sussistenza dell’elemento doloso.

Il minimo comun denominatore di queste teorie risiede nel fatto che si tende a ricondurre il problema della sicurezza del lavoratore a un problema di sicurezza della gestione aziendale. L’imprenditore è titolare di obblighi che gli competono solo in quanto organizzatore di un’attività per alcuni aspetti pericolosa. Gran parte degli eventi dannosi subiti dal lavoratore finiscono per essere considerati come inevitabili, per cui il datore che si sia attenuto ai criteri di correttezza e diligenza, commisurati non alle esigenze specifiche del prestatore ma al corretto uso della gestione imprenditoriale, è esonerato da ogni tipo di responsabilità. La tutela della salute dunque, da limite posto all’iniziativa economica privata ex art. 41 comma 2 Cost., finisce in realtà per rimanere legata alle ragioni di quest’ultima, essendo così condizionata dallo stesso oggetto (l’esercizio dell’impresa privata) che essa dovrebbe viceversa condizionare all’origine.

È stata poi la rivoluzione “culturale” operaia dei primi anni ’70 che ha fatto maturare una rivolta contro tutte queste interpretazioni statiche della normativa e ha imposto una contestazione di principi che si ritenevano ormai consolidati, in particolare quelli dell’obiettività del processo di produzione, che era considerato un’inevitabile fonte di rischio per il lavoratore, e dell’organizzazione del lavoro vista come estranea alla dinamica del conflitto industriale. La strategia sindacale dei primi anni ’70 si basava su una serie di principi quali la non delega al tecnico, il rifiuto della monetizzazione, l’affermazione del principio della validazione consensuale. Essa ha avuto la conseguenza di informare la stessa attività interpretativa, più propensa adesso a riempire i contenuti dell’obbligo di sicurezza attraverso i controlli delle rappresentanze operaie. Tali orientamenti trovano

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d’altra parte un aggancio sistematico nello Statuto dei lavoratori, che all’art. 920

legittima l’attività di controllo e promozione in materia di sicurezza e più in generale si pone in un’ottica di rovesciamento dei principi finora affermati; l’interesse dell’impresa non è più un criterio di commisurazione dei diritti dei prestatori nei luoghi di lavoro. L’interesse aziendale non è più un dato preminente, ma va valutato in senso relativo; relatività che è applicata anche in relazione alla materia della sicurezza, sottraendo le situazioni soggettive del lavoratore alle ragioni, non più dunque prevalenti, del profitto e del sistema economico. In definitiva, mentre alcuni valori come quelli di libertà e dignità del lavoratore difficilmente possono primeggiare sui limiti posti dall’organizzazione, quello della salute non può più essere compresso dal contratto sociale tipico del rapporto di lavoro. La salute del lavoratore è un dato aprioristico e indiscutibile, che prevale sulle ragioni dell’organizzazione del lavoro ed è totalmente estraneo all’oggetto stesso del conflitto industriale.

2. Contenuto dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 codice civile.

L’approvazione dell’art. 2087 cod. civ. ha costituito un momento di basilare importanza per il pieno e effettivo riconoscimento del diritto alla salute nei luoghi di lavoro; con tale disposizione si è sancito in maniera definitiva l’obbligo del datore di “adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la dignità morale dei prestatori di lavoro”. Pur essendo antecedente alla nostra Carta fondamentale, l’art. 2087 cod. civ. è una norma che presenta diversi caratteri di modernità, e che si pone come strumento attuativo degli artt. 32 e 41 Cost.. Dal combinato disposto di queste norme ricaviamo infatti il principio per cui l’attività economica non può in alcun modo svolgersi in contrasto con le esigenze di dignità e sicurezza umana, e quindi con il fondamentale diritto alla salute.

Il contenuto della norma del codice civile è quindi di particolare rilevanza; in tempi passati c’è stato chi riteneva che da tale articolo discendesse una situazione di vantaggio classificabile non in termini di diritto soggettivo, bensì di interesse legittimo, in quanto

20 Art. 9 Statuto dei lavoratori. “Tutela della salute e dell'integrità fisica.

I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.

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connessa alla tutela di un pubblico, e quindi, più ampio, interesse21. Per i primi interpreti dunque l’art. 2087 cod. civ. avrebbe costituito semplicemente un dovere verso la pubblica autorità, la quale sarebbe dovuta intervenire a tutela di interessi generali. Questa impostazione si giustifica col fatto che sicuramente la tutela della salute dei lavoratori investe non solo un interesse della collettività ma anche precisi obblighi dello Stato, tuttavia l’obbligazione verso lo Stato non può far venir meno la tutela dei diretti interessati, non si può cioè sostenere che i lavoratori non vantino un diritto soggettivo all’osservanza delle norme di sicurezza sulla base del fatto che scopo di queste è la tutela di un bene generale, anche perché dall’inosservanza delle norme sulla sicurezza deriva una responsabilità pubblica dell’imprenditore verso lo Stato, ma anche una responsabilità civile, sempre dell’imprenditore, nei confronti dei lavoratori. Un’azione risarcitoria dunque, che, in quanto tale, può aversi solo quando a essere leso è un diritto e non un interesse legittimo. Il “carattere bifrontale dell’obbligo”22

, che verso lo Stato ha anche rilevanza penalistica, non è suscettibile di interpretazioni riduttive; dall’art. 2087 cod. civ. sorge una posizione di diritto soggettivo che ha come contropartita una posizione passiva di dovere o di obbligo in senso stretto.

Il diritto alla sicurezza espresso dalla norma del codice civile è chiaramente un’espressione del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost., che spetta a tutti i soggetti dell’ordinamento e in quanto tale è un diritto assoluto. Il legislatore ha però deciso di attribuire ai lavoratori un diritto specifico nei confronti di un determinato soggetto, differenziando così la posizione giuridica di questi rispetto a quella di ogni altro soggetto passivo di diritti assoluti, che è caratterizzata dal generico dovere negativo di neminem

laedere. Si tratta di uno specifico dovere di comportamento di un soggetto determinato, e

la posizione giuridica correlata non può essere quindi un diritto assoluto, ma soltanto un diritto di credito. Il diritto alla sicurezza si sostanzia in un diritto relativo, il cui credito corrispondente si attrae nell’orbita del rapporto di lavoro, di modo che sul datore gravi uno specifico obbligo di protezione, un dovere positivo di attivarsi, e non semplicemente quello generico, erga omnes, di contenuto negativo. Corrispondentemente il prestatore ha titolo per esigere il corretto adempimento dell’obbligazione di sicurezza, da qualificare come obbligazione di risultato.

Un’indiretta conferma della dinamica appena descritta la possiamo trovare nell’art. 9 statuto dei lavoratori: dal fatto che il diritto alla sicurezza sia inserito anche in tale testo,

21 Vedi G. D’E

UFEMIA, Norme inderogabili e interessi legittimi nel rapporto di lavoro, in Riv. dir. lav., 1969.

22 F. S

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che si riferisce alla generalità dei lavoratori, possiamo dedurre che la sicurezza, oltre a essere un diritto individuale, è anche un interesse collettivo di tutti i lavoratori, in particolare di quelli partecipi della c.d. “comunità di rischio”, soggetta ai pericoli provocati dal medesimo ambiente di lavoro. Da qui poi la previsione di apposite rappresentanze con il compito di individuare i fattori di rischio.

Prescindendo dall’aspetto pratico dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, non si può negare che esso sancisca un diritto funzionale a quello azionabile in via giudiziaria, finalizzato a ottenere le prestazioni in grado di rendere sicuro il lavoro. In sostanza, ciascun lavoratore ha la possibilità di agire individualmente in via giudiziale per ottenere l’adempimento dell’obbligo alla stregua del principio generale stabilito dall’art. 1453 cod. civ.23

.

Il dato giuridico costituito dall’art. 2087 cod. civ. assume dunque una portata determinante, tanto più se si considera l’esistenza di un diritto soggettivo azionabile da parte del lavoratore che può “servire a riempire tempestivamente le lacune dell’iniziativa pubblica. Ciò particolarmente se si tiene conto dell’ampio spazio di operatività che la giurisprudenza recente attribuisce ai provvedimenti d’urgenza previsti dall’art. 700 c.p.c.2425

.

La giurisprudenza, infatti, ha ammesso in maniera ampia il ricorso alla tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. dinnanzi al giudice del lavoro per denunciare la violazione da parte datoriale di norme sulla sicurezza del lavoro. Nel caso in cui l’imprenditore persistesse nel rifiuto di ottemperare e rimediare, non vi sono soluzioni certe; in linea di principio può essere esatto affermare che se non sono state predisposte le misure necessarie a rendere sicuro l’ambiente lavorativo al lavoratore residua la facoltà di rifiutarsi di adempiere all’obbligo di prestare lavoro, e di recedere contemporaneamente per giusta causa, fondata

23

Art. 1453 cod. civ. “Risolubilità del contratto per inadempimento.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.

24

Art. 700 c.p.c. “Condizioni per la concessione. Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”.

25

SUPPIEJ V.G., Il diritto dei lavoratori alla salubrità dell’ambiente di lavoro, Testo della relazione tenuta al Convegno su “Tutela della salute negli ambienti di lavoro e malattie professionali”, svoltosi ad Abano Terme dal 2 al 4 giugno 1988, in Riv., it., dir. lav., 1988, I, 449.

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sull’exceptio non ademplendi contractus, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ.26 27

. Tuttavia è palese che una strada del genere non è percorribile, perché comporterebbe in ogni caso la perdita del posto di lavoro. Allo stesso modo, non assume rilevanza la mora accipiendi in cui versa il datore che non ha cooperato a realizzare il credito di sicurezza, anche se questa soluzione determinerebbe la conservazione dello stipendio, poiché il rifiuto di lavorare in condizioni pericolose è legittimo, così come la possibilità di pretendere in via giudiziaria l’adempimento, ex art. 1453 cod. civ.28

. In dottrina questa tesi è stata espressa in maniera di volta in volta diversa: secondo alcuni l’astensione avrebbe potuto concernere l’astensione

tout court29, secondo altri invece l’astensione sarebbe stata da riferirsi solo a quelle attività che comportano pericoli30, in base a un’altra parte ancora della dottrina vi sarebbe stato un diritto di limitare i ritmi dell’attività, modificando il contenuto della prestazione per eliminarne le parti dannose31.

Se dunque, una parte della dottrina ha affermato che “l’accento va posto prima di tutto sulla necessità di eliminare le situazioni di pericolo e di nocività, in via preventiva, o quanto meno di ridurle al limite reale della fatalità e della imprevedibilità” 32, l’altra ha finito inevitabilmente per spostare l’interesse sulla rilevanza della norma nel meccanismo risarcitorio. La lettura dell’art. 2087 cod. civ. da privilegiare è sicuramente quella in

26 Art. 1460 cod. civ. “Eccezione d'inadempimento.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria , salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.

Tuttavia non può rifiutarsi l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze , il rifiuto è contrario alla buona fede”.

27 V. S

INAGRA, Obblighi e responsabilità nella prevenzione degli infortuni sul lavoro e nella tutela igienica

del lavoro, in Securitas 1966, 130-131.

28 Art. 1453 cod. civ. “Risolubilità del contratto per inadempimento.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.

29

SIMI,Interesse pubblico ed attività amministrativa nella tutela della sicurezza del lavoro, in Riv. inf. mal. prof., 1969, 293.

30 L. M

ONTESANO,Sulle azioni civili a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, in Securitas, 1965, 121.

31 G. G

IUGNI,Intervento alla tavola rotonda sugli aspetti applicativi degli artt. 5-9-11-12 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, in Rass. med. lav., 1971, 83.

32 C. S

MURAGLIA, La tutela della salute del lavoratore tra principi costituzionali, norme vigenti e

prospettive di riforma, Testo della relazione tenuta al Convegno su “Tutela della salute negli ambienti di

lavoro e malattie professionali”, svoltosi ad Abano Terme dal 2 al 4 giugno 1988, in Riv. it. dir. lav., 1988, I, 416.

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18

termini prevenzionistici, valorizzando in tal modo la pretesa all’adempimento, ma nella pratica non si può sottacere l’importanza della norma anche come mezzo di coazione ai fini dell’attuazione delle misure di sicurezza. Anche a tal fine, la relativa obbligazione è stata inserita ope legis nell’area contrattuale, in base al principio di integrazione del contratto voluto dall’art. 1374 cod. civ.33

; infatti, come alla natura contrattuale dell’obbligo di sicurezza si riconduce una corrispondente pretesa all’esecuzione, così da essa si fa discendere, in coerenza con il principio generale dell’art. 1218 cod. civ.34, un’inversione dell’onere della prova sull’apprestamento di misure idonee alla tutela35

. Una volta cioè che il lavoratore ha dimostrato danno e nesso causale con l’attività lavorativa, sarà il datore a dover provare di avere fatto quanto necessario, cioè tutto il possibile, per evitare il danno. L’art. 2087 cod. civ. impone dunque la massima diligenza nell’adempimento.

2.1. Il contenuto dell’art. 2087 cod. civ. in connessione con le fattispecie

di rilevanza penale.

La responsabilità del datore di lavoro si accerta partendo proprio dall’art. 2087 cod. civ., norma di base per il riconoscimento di quest’ultima in quanto impone al datore di adottare le misure atte a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Generalmente parlando, si può affermare che le obbligazioni connesse con l’art. 2087 cod. civ. sono tali che il nesso tra obbligazione e inadempimento non si interrompe per effetto della delega, si tratta sempre di una responsabilità diretta del datore di lavoro, in ogni caso mai qualificabile come responsabilità oggettiva; questo perché si tratta di una norma che impone ad una determinata persona un certo comportamento, la cui violazione, anche se perpetrata ad opera di persone delegate, comporta sempre per l’imprenditore una responsabilità di qualche tipo. Infatti, di norma il destinatario delle norme antiinfortunistiche non esaurisce il proprio compito con l’approntare i mezzi occorrenti

33

Art. 1374 cod. civ. “Integrazione del contratto.

Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità”.

34 Art. 1218 cod. civ. “Responsabilità del debitore.

Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

35 M

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19

all’attuazione delle misure di sicurezza e col disporre che essi vengano opportunamente

usati, ma è tenuto ad accertarsi che le disposizioni impartite abbiano concreta esecuzione. La Cassazione ha ripetutamente affermato che “l’art. 2087 cod. civ. non configura

un’ipotesi di responsabilità oggettiva in quanto la responsabilità del datore di lavoro va comunque collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento; ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno come pure la nocività dell'ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altro e non tanto l'onere di indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”36

.

Un’osservazione completamente diversa vale per la responsabilità penale, che è personale37: l’art. 2087 cod. civ. si può collegare al riguardo in primo luogo all’art. 40 c.p.38, che afferma che nessuno può essere punito per un reato se l’evento da cui dipende quest’ultimo non è conseguenza della sua azione e omissione, e successivamente all’art. 43 c.p.39, che precisa che il delitto è colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente. È in questo senso che l’art. 2087 cod. civ. assume rilevanza penale; “se si considera la complessa e vasta normativa penale vigente in materia di prevenzione degli infortuni e malattie professionali e di tutela degli ambienti di lavoro, risulta del tutto marginale in concreto l'eventualità di un fatto lesivo che non integri gli estremi di un

36 Cass., sez. lav., 3 aprile 1999, n. 3234, inedita per quanto consta. 37Art. 27 comma 1 Costituzione “La responsabilità penale è personale”. 38Art. 40 c.p. “Rapporto di causalità.

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

39 Art. 43 c.p. “Elemento psicologico del reato.

Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;

è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente;

è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.

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illecito penale, essendo sufficiente per affermare la responsabilità penale per colpa a norma dell'art. 43 c.p. che il fatto sia stato determinato da negligenza o inosservanza di disposizioni di legge”40

. Secondo la giurisprudenza prevalente, l'accertamento che l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale siano stati determinati da negligenza o da inosservanza di disposizioni legislative e quindi dei doveri posti dal medesimo art. 2087

cod. civ., implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi del reato di lesioni colpose.

In sostanza l’art. 2087 cod. civ. crea un’obbligazione di mezzi per il datore di lavoro, che non viene meno neppure in presenza di condotte di segno contrario dei dipendenti, che vanno eliminate in sede di prevenzione e con gli adeguati controlli per evitare di incorrere in responsabilità penale. In realtà, quando si è trattato di porre l’art. 2087 cod. civ. come base per la ricostruzione di fattispecie penalistiche, si è sempre incorsi in difficoltà, dal momento che la sicurezza sul lavoro è sicuramente un limite all’autonomia imprenditoriale, ma quando su tale limite si intende basare una fattispecie criminosa, viene in considerazione l’indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale: porre a carico del datore un obbligo così generico e indeterminato violerebbe gli artt. 2541 e 2742 della Costituzione per contrasto con i principi di riserva di legge in materia penale e di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.

Tuttavia la Consulta non è propriamente di tale avviso: essa infatti riconosce che “la cogenza dei valori espressi dall'art. 41 della Costituzione - secondo il quale l'iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana - è certamente tale da giustificare una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione al rischio dei propri dipendenti”; ma chiarisce poi che per evitare la

40

Vedi Corte Cost., 26 maggio 1981, n. 74, in Giust. civ. 1981, I, 1530.

41

Art. 25 Cost. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.

42 Art. 27 Cost. “La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

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denunciata violazione dell'art. 25 Cost. bisogna operare, in sede di applicazione della norma specifica, “una lettura tale da restringere, in maniera considerevole, la discrezionalità dell'interprete. Tutto ciò nella consapevolezza che, attesa la scelta del legislatore di sanzionare penalmente il generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori, che trova nell'art. 41 della Costituzione il suo fondamento, il principio di determinatezza incide sulla fattispecie penale in maniera peculiare”43

.

Relativamente all’uso di norme penali “in bianco”, la Corte Costituzionale ha ricordato che il principio di legalità nemmeno nella legislazione penale è attuato seguendo sempre un criterio rigoroso di descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano a una descrizione sommaria e all’uso di espressioni che risultano meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti che costituiscono reato. “Non può farsi questione di genericità e indeterminatezza della fattispecie quando il legislatore fa riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico. Né per l'imprenditore, né per il giudice può rappresentare un problema la consultazione della scienza”44

.

La Corte Costituzionale tuttavia si preoccupa anche di marcare i limiti di utilizzabilità penale della norma; afferma che sicuramente l’art. 41 Cost e il dovere da esso desumibile di protezione dei lavoratori potrebbe portare a pretendere molto di più dall’imprenditore, ma la scelta di sanzionare penalmente con una norma generale tutte le fattispecie in cui il datore si sottragga a questo ruolo, “ha di necessità il suo contrappeso costituzionale, che è dato dall'esigenza di restringere, in una interpretazione costituzionalmente vincolata, le potenzialità della disposizione, per non vanificare il canone di determinatezza della fattispecie penale”45

. La Corte Costituzionale assimila surrettiziamente l’art. 2087 cod. civ. alle norme penali “in bianco”, quando afferma che vi sono molte norme penali che a causa dell’ampiezza del loro raggio di azione non sono suscettibili di una descrizione tassativa e che quindi, per essere interpretate, richiedono il ricorso del giudice a concetti di comune esperienza: ad esempio l’art. 529 c.p. (atti osceni), l’art. 570 c.p. (condotta contraria all’ordine e alla morale della famiglia). Insomma, a parere della Corte, il principio “nullum

crimen sine lege” non è attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di

rigida descrizione del fatto, spesso anzi le norme penali si limitano a una descrizione

43 Corte Cost., 25 Luglio 1996, n. 312, in Foro it., 1996, I, 2957. 44

Corte Cost., 27 Aprile 1988, n. 475, in Riv. giur. lav., 1988, III, 247, Mass.

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sommaria o attuata con espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato.

Ma è proprio la piccola differenza circa i limiti della interpretazione delle legge penale e di quella civile a rappresentare un problema, adombrando in questo caso una sovrapponibilità dell’illecito penale a quello civile tutt’altro che dimostrata; l’art. 2087 cod. civ. connesso con l’art. 43 c.p. ha un vigore autonomo e una prevalenza giurisprudenziale penale che non si vogliono attenuare; si vuole al contrario richiamare l’attenzione sull’importanza anche di quel marginale e residuale numero di sentenze nelle quali il ruolo civilistico dell’articolo citato appare esclusivo, rilevando in tal modo che ogni forzatura nell’applicazione in sede penale dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ. rischierebbe di svilirlo a mero strumento persecutorio, con il rischio di attenuarne l’impulso prevenzionistico. L’utilizzabilità della norma civile in ambito penale va dimostrata di volta in volta tenendo ben presenti e saldi i limiti che la legge pone all’interprete.

3. L’esecuzione dell’obbligazione di sicurezza.

Nel nostro sistema giuridico esiste la c.d. “teoria del rischio lecito”, secondo la quale l’interesse perseguito è di così alta utilità sociale (c.d. “adeguatezza sociale dell’azione”) da eliminare l’antigiuridicità del fatto lesivo. Tale teoria non può essere riferita alla materia del diritto del lavoro: non si può in alcun modo contrapporre un interesse oggettivo dell’impresa al diritto soggettivo del lavoratore di rendere la propria prestazione in condizioni sicure e salubri, subordinando il secondo al primo46. D’altra parte, l’esigenza di garantire in assoluto e senza alcuna riserva la salute del prestatore di lavoro è diventata insopprimibile grazie all’avvento della Costituzione, segnatamente degli artt. 32 e 41 comma 2, partendo dai quali si è riusciti a affermare la categorica inderogabilità dell’art. 2087 cod. civ.. Ciò comporta che l’unica diligenza che può esonerare il datore di lavoro da responsabilità non è mai quella volta a rendere socialmente tollerabile il rischio connesso con l’attività lavorativa, ma quella tendente a ridurre il più possibile il coefficiente di rischio (se non proprio a eliminarlo). Tale diligenza deve essere valutata in astratto, con questa specificazione: essa è una diligenza particolarmente qualificata, in quanto al “buon

46 G

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23 imprenditore”47

si chiede la massima attenzione, prudenza e perizia, al fine di evitare, con riguardo al tipo di lavorazione svolta e all’esperienza e alla tecnica acquisita nel settore (in astratto, non da ciascun soggetto specificatamente), l’evento lesivo48

.

Il datore di lavoro non può avere una diligenza, una prudenza ed un’esperienza classificabili solamente come “normali”. La tesi secondo cui l’obbligo di organizzare il lavoro in modo da evitare danni, derivanti al lavoratore dallo svolgimento della prestazione, è implicitamente contenuto negli obblighi di diligenza media e di esecuzione in buona fede del contratto49 deve essere integrata precisando che all’imprenditore non si richiede un atteggiamento di media diligenza, ma una diligenza che consenta l’assoluto rispetto dell’integrità fisica e della salute del dipendente. L’assunto per cui l’art. 2087 cod. civ. non si potrebbe considerare una norma innovativa, dal momento che si limiterebbe a specificare meglio obblighi che sarebbero in realtà già ricavabili dalla disciplina ordinaria del contratto, va rivisto alla luce del vero scopo del legislatore; la norma codicistica ha la funzione di adeguare continuamente e in maniera progressiva l’ordinamento alla mutevole realtà socio economica.

La reale portata dell’art. 2087 cod. civ. emerge chiaramente se lo raffrontiamo con il contenuto dell’art. 2050 cod. civ.50, che sanziona la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, accollando all’agente la prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, laddove invece l’art. 2087 cod. civ. impone l’adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore. Tra le due norme intercorre un’evidente similitudine: entrambe mirano alla salvaguardia della salute costituendo il lavoro fonte di pericolo per il prestatore allo stesso modo in cui per i terzi può esserlo l’esercizio di una certa attività “per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati”51. L’osservanza del precetto di cui all’art. 2087 cod. civ. oltre a una diligenza qualificata – per il fatto che il debitore di sicurezza è datore di lavoro - comporta altresì una responsabilità aggravata dal

47 Art. 1176 comma 2 cod. civ. “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività

professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

48

MARINO, La responsabilità del datore per infortuni e malattie da lavoro, Milano, 1990, pag. 86.

49 M

ARANDO, Le azioni di responsabilità contrattuale per infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 1977, I°, pag. 64.

50 Art. 2050 cod. civ. “Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.

Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

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fatto che il datore “in ogni caso e comunque” dovrà attuare tutti gli accorgimenti necessari52.

Per misure “necessarie” ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. devono intendersi non quelle ritenute tali dal datore in base alle sue conoscenze e capacità ma quelle che l’esperienza e la tecnica suggeriscono come le più affidabili53. Di conseguenza il giudizio di colpa prescinderà da fattori individuali che in caso contrario fungerebbero da strumenti di esonero. Detto in altri termini, il grado di conoscenza, esperienza, capacità tecnica o forza economica non incide sulla misura della diligenza che si può esigere; ad esempio, se un sistema di sorveglianza integrale a cellula fotoelettrica è in grado di rilevare qualunque guasto o difetto, e quindi di bloccare una pressa, la piccola ditta artigiana così come la grande holding che svolgono la medesima attività sono tenute entrambe a munirsene, senza che la prima possa invocare, in caso di incidente, alcuna scriminante per le sue dimensioni, per la sua debolezza economica, per l’impossibilità di aggiornarsi, rispetto alla seconda54. L’unica cosa che rileva dunque è quanto sia oggettivamente possibile fare per evitare l’evento dannoso; come già osservato, la colpa va valutata in astratto e non in concreto. Per lo stesso motivo non rileveranno neppure le condizioni personali del lavoratore, dal momento che non si può pretendere che l’imprenditore disponga un ambiente ad hoc a misura di ciascun singolo lavoratore.

4. Tipologie di responsabilità: la colpa per omissione.

La colpa per omissione in riferimento all’art. 2087 cod. civ. è strettamente connessa al concetto di tecnopatie o malattie professionali, patologie cioè contratte a causa dell’esposizione prolungata a stimoli nocivi (ad esempio, materiali usati durante l’attività) presenti nell’ambiente di lavoro. In materia la giurisprudenza si è orientata verso l’applicazione di criteri molto rigorosi e a questo nuovo modo di concepire il problema infortunistico, che si sostanzia nell’attuazione della ricerca della responsabilità, ha fatto seguito il venir meno dell’esonero. Per molto tempo al contrario l’incidente sul lavoro è

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GAGLIANO CANDELA, Il contenuto prevenzionale dell’art. 2087 c. c. , in Giur. it., 1979, IV, 266.

53 Cass., 23 giugno 1986, n. 4171, in Riv. inf. mal. prof., 1986, II, 163. 54 M

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stato considerato come un prodotto oggettivo dell’impresa, e a quest’impostazione si è ricollegata per molto tempo la rinuncia a perseguire le colpe.

Superata questa fallace interpretazione si recupera la nozione di tutela della salute come onere dell’apparato statale, rivalutando la funzione (fondamentale) della prevenzione. Al dogma dell’ineluttabilità è seguito quello dell’evitabilità; adesso quando non è stato possibile scongiurare l’evento si puniscono le colpe. Nonostante questo, l’attività preventiva e repressiva nei confronti dei comportamenti colposi che hanno provocato l’insorgenza di una malattia da lavoro è estremamente scarsa rispetto a quelli che hanno originato un infortunio; tale fenomeno è indice di un’insufficiente presa di coscienza del problema; come l’infortunio, anche la malattia professionale non è ineluttabile. Si è affermato al riguardo che in tema di tecnopatie “la responsabilità penale deve scaturire dall’accertamento di una colpa specifica… e dalla reale inosservanza di quanto disposto dal legislatore in materia di igiene del lavoro”, per cui non vi sarebbe “nessuna colpa ad esempio per la presenza di polveri in una galleria e la conseguente insorgenza di silicosi”55. In realtà, dobbiamo arrivare a considerare le fattispecie riguardanti le tecnopatie in base agli stessi canoni di valutazione del giudizio di responsabilità sugli infortuni. L’obbligo del datore si estende tanto alla prevenzione degli infortuni quanto alla profilassi delle malattie. Per prevenire gli infortuni si dovrà, ad esempio, schermare certe macchine, isolare certi impianti, fornire ai lavoratori gli attrezzi adeguati, predisporre protezioni, e così via. Per la profilassi delle malattie occorrerà invece occuparsi della salubrità dell’intero ambiente di lavoro, fornendo indumenti appropriati, mezzi di difesa da eventuali esalazioni nocive, ecc. Il lavoratore deve essere tutelato da qualsiasi alterazione organica che possa in lui prodursi a motivo dell’ambiente, del materiale, dei sistemi di lavoro. Naturalmente, quando si parla di malattie, non si fa riferimento solo a quelle elencate tra le malattie professionali, ma a qualunque malattia che sia collegabile all’ambiente di lavoro anche da un nesso puramente occasionale56. Il rigore interpretativo che caratterizza la nozione di diligenza deve mantenersi intatto quando si tratta di valutare la responsabilità in tema di tecnopatie; al riguardo la Cassazione ha affermato che “il datore commette il reato di cui all’art. 21 del D.P.R. 19 marzo 1956 n. 30357, qualora non adotti le misure tecnologicamente più

55 Z

ACCONE, Responsabilità penale e malattie professionali, in Mass. giur. lav., 1983, 293.

56 S

MURAGLIA, La tutela della salute del lavoratore tra principi costituzionali, norme vigenti e prospettive

di riforma, Testo della relazione tenuta al convegno di Abano su “Tutela della salute negli ambienti di lavoro

e malattie professionali”.

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avanzate per contenere l’esposizione dei lavoratori a polveri”58

. Il giudice di legittimità ha altresì affermato che le violazioni della normativa antinfortunistica che cagionino una malattia professionale hanno “natura di reato permanente, e fanno si che la situazione antigiuridica si protrae e persiste fino a quando il responsabile non avrà provveduto ad adottare le prescritte misure cautelari”59.

Il problema delle tecnopatie assume un’importanza sempre maggiore, se si considera che al giorno d’oggi ormai gli agenti nocivi non limitano la loro estensione alla fabbrica ma espandono il rischio anche alle zone limitrofe. La presenza di certi agenti patogeni sul luogo di lavoro è inevitabile, ma questo non significa che non si debba fare quanto possibile per ridurre al minimo la soglia della loro incidenza; oggi è consentito, sia al giudice civile che a quello penale, di ricercare le cause eziologiche e le relative responsabilità senza condizionamenti; rimane così inalterata la valenza dell’art. 2087 cod. civ., ed è obbligatorio l’apprestamento di ogni tipo di mezzo protettivo per evitare l’insorgere di tecnopatie.

La portata della valenza del bene salute è assoluta, non può essere limitata in sede di regolamentazione pattizia, come se fosse un diritto di credito. Il giudice, e solo lui, si potrà pronunciare sull’eventuale configurazione dell’illecito, senza che abbia alcun tipo di

Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambito di lavoro, nell'ambiente di lavoro”.

Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.

Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.

Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.

Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro.

Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai comma precedenti, e non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai comma precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione.

I mezzi personali possono altresì essere prescritti dall'Ispettorato del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al comma terzo e quarto del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà d'ordine tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri”.

58 Cass. pen., 18 aprile 1986, in Foro it., 1987, II, 208. 59 Cass. pen., 7 marzo 1987, in Cass. Pen., 1987, 1638.

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