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Cellule progenitrici endoteliali (EPCs) nel paziente obeso e obeso diabetico prima e dopo chirurgia bariatrica.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

“Cellule Progenitrici Endoteliali (EPCs) nel paziente obeso e obeso diabetico

prima e dopo chirurgia bariatrica”

Relatore:

Candidata:

Chiar.mo Prof. Stefano Del Prato Isabella Irene Ferreri

Correlatore:

Dott.ssa Annamaria Ciccarone

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“Lampada per miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino”

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Indice ……….……...…. 3

Riassunto ……….……... 5

Introduzione

Obesità ………..………….…….

8

Classificazione dell’Obesità ………

………..……….….. 20

Obesità e insulino-resistenza, disfunzione endoteliale ed eventi cardiovascolari ....

23

Chirurgia bariatrica nel trattamento dell’Obesità ………...

30

Cellule progenitrici endoteliali (EPC) ……….….…

37

Cellule progenitrici endoteliali (EPC) e Diabete Mellito .………...

44

Cellule progenitrici endoteliali (EPC) come biomarker del rischio cardiovascolare ...

52

Obesità ed EPC ………...

60

Obiettivi dello studio

……….….…

64

Pazienti ……….…...

65

Criteri di inclusione ed esclusione ……….…..…... 66

Disegno dello Studio ……….... 67

Metodi

Valutazione delle caratteristiche cliniche e dei parametri di laboratorio ……….……

68

Valutazione del numero di EPCs circolanti mediante citofluorimentria a flusso (CFM)

……….….. 69

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4

Caratteristiche dei partecipanti allo studio .………

74

Risultati

Effetti clinici e metabolici della perdita di peso

………...……… 77

Livelli di Adiponectina, Insulinemia ed HOMA-IR …….………

79

Numero di EPCs al basale tra Controlli e Obesi (Ob-DM+ e Ob-DM−) ed in relazione a sesso M/F, Classi di obesità II/III, e DM+/DM−

……….…….………….. 80

Numero di EPCs tra gli Obesi prima e dopo chirurgia bariatrica

…….………..…. 81

Grafici delle EPCs

………...…………. 84

Classi di Obesità prima e dopo Chirurgia Bariatrica

……… 89

Diabete Mellito prima e dopo Chirurgia bariatrica

……….. 90

Discussione ………... 91

Conclusioni ……….. 93

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5

Riassunto

L'aumento del BMI è un fattore di rischio per la mortalità precoce e l’obesità grave, o obesità di classe III (BMI ≥40 kg/m²), e si associa ad una riduzione dell’aspettativa di vita di 6,5-13,7 anni rispetto al normopeso. L'obesità aumenta il rischio di diabete, ipertensione e iperlipidemia, tutte patologie associate allo sviluppo di malattie cardiovascolari. La malattia cardiovascolare è una delle principali cause di mortalità correlata all'obesità, probabilmente a causa di alterazioni della microvascolarizzazione, della fisiologia degli adipociti, della alterata secrezione di adipochine e della infiammazione cronica di basso grado. Livelli più alti di emoglobina glicata (HbA1c) sono associati a tassi di mortalità più elevati negli adulti con diabete di tipo 2. Danno e disfunzione endoteliale sono tra i principali meccanismi per il rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare associati all’aumento di adiposità. Nei soggetti obesi il numero delle cellule progenitrici endoteliali circolanti (EPCs), che svolgono un ruolo importante nella riparazione e nel mantenimento dell'integrità dell’endotelio, è ridotto e numerosi studi dimostrano che dopo perdita di peso vi è un recupero del numero e della funzione di tali cellule. La chirurgia bariatrica (BS) è un'opzione terapeutica per il trattamento dell’Obesità e numerosi studi suggeriscono che il rischio di mortalità per tutte le cause migliora dopo la chirurgia bariatrica.

Obiettivo

Obiettivo dello studio è stato quello di valutare l'influenza dell'obesità e dei maggiori fattori di rischio cardiovascolari, quali diabete mellito tipo 2, iperlipidemia ed ipertensione arteriosa sul livello delle EPCs circolanti.

Inoltre, in un sottogruppo di soggetti obesi con e senza diabete sottoposti a chirurgia bariatrica (BS) sono stati valutati la riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare, i livelli EPCs circolanti e la loro relazione.

Pazienti e metodi

Sono stati valutati un totale di 86 obesi, 23 obesi senza diabete (Ob-DM−) e 63 con diabete o alterazioni del metabolismo glucidico (Ob-DM+) (BMI 49,9±12,0 kg/m²) e 41 soggetti di controllo (BMI 24,8±2,8 kg/m²). I pazienti erano 62,8% donne e 37,2% uomini ed avevano un ampio range di durata del diabete (da 0 a 15 anni). Il 72,1% apparteneva alla classe III dell’obesità, il 25,6% alla classe II, mentre solo il 2,3% alla classe I. Il 45,3% non era iperteso, mentre il 54,7% aveva la diagnosi di ipertensione arteriosa. Le differenze di peso e BMI erano quelle appartenenti alla definizione dei gruppi.

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Un totale di 47 degli 86 pazienti arruolati, di cui 16 senza diabete (Ob-DM−) e 31 con diabete o alterazioni del metabolismo glucidico (Ob-DM+), sono stati sottoposti a chirurgia bariatrica (BS) e seguiti con follow-up a 1 mese e a 12 mesi dall'intervento. Sono stati raccolti campioni di sangue periferico per il dosaggio delle EPCs (CD34+, CD34+/KDR, CD34+/KDR+/CD133+) ed il conteggio è stato effettuato mediante citofluorimetria a flusso (FACS). Ad ogni controllo sono stati valutati i principali parametri metabolici e infiammatori.

Risultati

Al basale, le EPCs, CD34+ (media±ES 2526,4±181,5 vs 1839,5±157,1 cell/ml), CD34+/KDR+ (659,6±66,9 vs 284,7±22,2 cell/ml) e CD34+/KDR+/CD133+ (332,9±27,1 vs 123,3±13,3 cell/ml) erano significativamente ridotte nei pazienti Obesi rispetto ai controlli. In tutta la coorte non vi era alcuna differenza nei livelli di EPCs circolanti, tra maschi e femmine, tra Obesità di classe II e classe III e tra Ob-DM+ vs Ob-DM−.

Un mese dopo l’intervento di chirurgia bariatrica (BS), il BMI risultava significativamente ridotto 46,8±6,3 kg/m² vs 40,6±6,3 kg/m² (p=0,0001), con miglioramento di tutti i parametri metabolici esaminati. Al contrario, le EPCs, sebbene in maniera non significativa, erano ridotte rispetto al basale.

A 12 mesi, si riscontrava un aumento significativo del livello delle cellule CD34+/KDR+ (281,4±70,5 vs 559,8±104,4 p=0,003) e CD34+/KDR+/CD133+ (125,4±35,5 vs 197,9±40,2

p=0,0348) soltanto tra i soggetti obesi non diabetici (Ob-DM−), mentre nei soggetti obesi

diabetici (Ob-DM+) non è stato osservato alcun cambiamento significativo dei livelli di EPCs, nonostante il miglioramento di tutti i parametri clinici. Il numero di cellule CD34+/KDR+ correlava con l'età (r =-0,061; p=0,022), durata del diabete (r=-0,272; p=0,06) e PAS (r=-0,061;

p=0,0266). Il numero di cellule CD34+/KDR+/CD133+ correlava con PAS (r=-0,268; p=0,0162).

Si osservava, come atteso, una diminuzione di insulina plasmatica (p\0,0001), HOMA-IR

(p=0,0004) e un aumento dei livelli di adiponectina (p=0,0001).

Conclusioni

I livelli di EPCs sono ridotti negli obesi sia diabetici che non diabetici. Dopo 1 anno dalla chi-rurgia bariatrica (BS), nei pazienti obesi non diabetici (Ob-DM−) le EPCs aumentavano signifi-cativamente, mentre nei pazienti obesi diabetici (Ob-DM+) l'aumento non risultava significativo. Questo studio conferma che i pazienti con diabete mellito (Ob-DM+) hanno una capacità di rigenerazione endoteliale alterata, anche dopo remissione o miglioramento della malattia

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diabetica, conservando una memoria metabolica alla esposizione della glucotossicità presente nel diabete.

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Introduzione

Obesità

L'obesità è una malattia cronica, ad elevata prevalenza e ad etiologia multifattoriale al cui svi-luppo concorrono sia fattori ambientali che genetici. È una condizione caratterizzata da ecces-sivo peso corporeo per accumulo di tessuto adiposo, in misura tale da influire negativamente sullo stato di salute. Il peso corporeo eccessivo si associa a diverse complicanze, in partico-lare, al diabete mellito di tipo 2, all’ipertensione, alla sindrome delle apnee ostruttive nel sonno, a malattie cardiovascolari, oltre che ad alcuni tipi di cancro, osteoartrosi, problemi a carico delle articolazioni, disturbi ginecologici, infertilità, predisposizione allo sviluppo di malattie dell'appa-rato digerente (ad esempio reflusso gastroesofageo, calcoli della colecisti) e disturbi dell'u-more.

Pertanto, l'obesità è causa di una compromissione della qualità della vita e riduzione dell'a-spettativa di vita ed ha un importante impatto economico dovuto all'aumento dei costi di assi-stenza sanitaria.

Rappresenta una minaccia in rapida crescita per la salute pubblica nel mondo e, da alcuni anni, vi è un allarme riguardante il mondo infantile.

Nel 1997, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha riconosciuto ufficialmente l'obesità come un'epidemia globale 1, in aumento in tutto il mondo, tanto nelle nazioni industrializzate quanto nei paesi in via di sviluppo; gli incrementi maggiori si sono registrati nei contesti urbani. Le cause fondamentali di tale epidemia non sono del tutto noti, ma il ruolo più importante é dovuto alle modifiche dello stile di vita sempre più sedentario e le diete ad alta densità energe-tica con alto contenuto di grassi e carboidrati raffinati. Questi profondi cambiamenti si sono verificati nella società e nei modelli comportamentali negli ultimi 150 anni come conseguenza di una maggiore urbanizzazione, industrializzazione e scomparsa degli stili di vita tradizionali. La prevalenza mondiale del sovrappeso e dell'obesità, attualmente, è molto elevata e sta au-mentando. L'OMS valuta che nel 2016 oltre 1,9 miliardi di adulti, di età uguale o superiore ai 18 anni, risultavano sovrappeso. Di questi oltre 650 milioni di adulti erano obesi. Nel com-plesso, circa il 13% della popolazione adulta nel mondo (11% degli uomini e il 15% delle donne) nel 2016 risultava obesa.

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La prevalenza mondiale dell’obesità è quasi triplicata tra il 1975 e il 2016 (figura 1).

Figura 1 – Tasso di prevalenza dell’Obesità nel mondo (WHO 2011).

L'America ha i tassi di prevalenza più elevati dell'obesità 2. Il 14° rapporto sull’obesità negli Usa, realizzato sulla base dei dati dei Centers for Disease Control and Prevention, contiene dati preoccupanti, se si tiene conto delle numerose campagne governative condotte negli ultimi anni per incoraggiare gli americani a mangiare in modo più sano e a fare più attività fisica. In totale gli americani con sovrappeso o obesi sono il 70% della popolazione.

In tutti e 52 gli Stati degli USA c’è una percentuale di obesi superiore al 20%. Si va dal 22,3% del Colorado al 37,7% del West Virginia. Il maggior tasso di obesità (32%) si ha al Sud, seguito dal Midwest con il 31,4%, dal Northeast con il 26,9% e dal West con il 26%, a fronte del 15,9% della media Europea. L’incremento nel tempo risulta marcato soprattutto nei paesi del Nord-Europa; in circa 20 anni è quasi raddoppiata la prevalenza dell’obesità in Finlandia (18,3% nel 2014), Estonia (20,4% nel 2014), ma anche in Francia e in Spagna, che nel 1994 presentavano stime pressoché simili a quelle italiane (9%), e che invece nel 2014 raggiungono percentuali di obesità superiori al 15%.

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Secondo l’OMS in America, regioni del Mediterraneo orientale ed Europa, le donne hanno maggiori probabilità di essere obese rispetto agli uomini, nelle Americhe, oltre il 50% delle donne è in sovrappeso. In tutte e tre queste regioni, circa la metà delle donne in sovrappeso è obesa (il 23% in Europa, il 24% nel Mediterraneo orientale, il 29% in America). Nelle regioni dell'Africa, nel Mediterraneo orientale e nel Sud-Est asiatico, la prevalenza dell'obesità femmi-nile è circa il doppio di quella maschile (figura 2).

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In Italia, secondo il rapporto Osserva salute 2016, che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana” emerge che nel 2015, più di un terzo della popolazione adulta (35,3%) risultava in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni ha un eccesso ponderale. Come negli anni precedenti, le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le Regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle Settentrionali (obesi: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%) (figura 3).

Figura 3 - Trend temporali nelle diverse aree geografiche ISTAT 2013.

La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in partico-lare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).

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Il numero di bambini e adolescenti obesi in tutto il mondo è aumentato di dieci volte negli ultimi 40 anni e l'aumento sta aumentando nei Paesi a basso e medio reddito, specialmente in Asia. I tassi di obesità infantile e adolescenziale negli Stati Uniti, nell'Europa NordOccidentale e in altri Paesi ricchi, negli ultimi anni, sono rimasti stabili, anche grazie alle campagne di preven-zione, ma rimangono "inaccettabilmente alti" (OMS 2017).

Lo stesso trend si osserva in Italia (figura 4).

Figura 4 - Prevalenza di sovrappeso e obesità nei bambini di 8-9 anni. OKkio SALUTE, Italia

2008-2014.

Diversi studi epidemiologici hanno confermato che l’associazione tra obesità e rischio aumen-tato di mortalità è ormai ben consolidata. I dati provenienti da tali studi, hanno dimostrato una relazione tra BMI e mortalità a forma di J.

Già negli anni ’90, due studi epidemiologici condotti dall’American Cancer Society, hanno messo in relazione l’indice di massa corporea (BMI) e il rischio di mortalità cardiovascolare in uomini e donne, negli Stati Uniti, che non avevano mai fumato e mai avuto malattie preesistenti 3. Si concludeva che il rischio di mortalità aumentava all’aumentare del BMI (figura 5).

I Records di assicurazione hanno mostrato, negli anni, che nei soggetti obesi, sia di sesso maschile che femminile, l'aspettativa di vita era diminuita.

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Figura 5 – Correlazione tra BMI e rischio di mortalità cardiovascolare in uomini e donne negli

USA.

In uno studio di Adams KF et al. del 2006, durato 10 anni, condotto in una popolazione di 527.265 soggetti degli USA (donne e uomini di età tra 51-71 anni) nella coorte del National Institutes of Health-AARP veniva dimostrato che il BMI durante la mezza età (50 anni) si asso-ciava con un rischio di morte aumentato dal 20 al 40% tra le persone sovrappeso e da due ad almeno tre volte tra le persone obese 4 (figura 6a e 6b).

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Figura 6a – Rischio relativo di mortalità tra gli uomini 4.

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Una metanalisi di Flegal e Colleagues 5 suggeriva che, sovrappeso e obesità di classe I erano associate a minore mortalità, mentre l’obesità di classe II e di classe III erano associate ad una mortalità significativamente più elevata, così che “l'obesità metabolicamente sana” non era esi-stente nelle classi maggiori di obesità.

Dunque, rispetto agli individui sani, le persone obese hanno un maggior rischio di sviluppare eventi avversi a lungo termine anche in assenza di anomalie metaboliche, suggerendo che non esiste un modello sano di aumento del peso “healty obesity” 6.

Di recente, anche le analisi di studi prospettici su vasta scala con follow-up prolungato, indicano generalmente che sia il sovrappeso che l'obesità sono associati ad una maggiore mortalità, così come anche il sottopeso (BMI <18,5 Kg/m²). Ampliando le analisi su più ampie popolazioni, la Global BMI Mortality Collaboration 7 fornisce un confronto standardizzato delle associazioni del BMI con la mortalità in diverse popolazioni. Essa include dati individuali per 10,6 milioni di adulti in 239 studi di coorte prospettici in 32 Paesi, situati principalmente in Asia, Australia e Nuova Zelanda, Europa e Nord America, di cui 4 milioni circa, non fumatori e senza malattie croniche riportate (principalmente malattie cardiovascolari, cancro o malattie respiratorie cro-niche). Questi soggetti venivano seguiti nei 5 anni successivi. Attraverso tale studio veniva riscontrata l’associazione sia del sovrappeso che dell’obesità con una maggiore mortalità, in maniera coerente nei quattro continenti, includendo quindi razze diverse (figura 7).

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Figura 7- Associazione del BMI con tutte le cause di mortalità, per gruppo di età 7.

Il forte aumento dell'obesità ha svolto un ruolo importante nell'aumento della incidenza e pre-valenza del Diabete Mellito tipo 2, che si è verificato negli Stati Uniti ed in tutto il mondo negli ultimi 25 anni.

In maniera parallela alla crescita dell’obesità si è assistito ad una crescita del diabete mellito tipo 2 tanto da applicare il termine di “epidemia” per le due patologie.

Il diabete mellito sta dilagando nel mondo. Una crescita inarrestabile ovunque: nei paesi luppati, in quelli emergenti e in quelli ancora in via di sviluppo. Nelle zone del mondo più svi-luppate (Europa, Nord America, Australia) cresce meno che in Africa, Asia e Sud America ma cresce comunque moltissimo. Gli individui affetti dalla malattia nel mondo sono ormai vicini ai 400 milioni e la stima è che raggiungano i 600 milioni entro il 2035.

Il numero di persone con diabete è passato da 108 milioni nel 1980 a 422 milioni nel 2014 (OMS). La prevalenza globale del diabete tra gli adulti oltre i 18 anni è aumentata dal 4,7% nel 1980 all'8,5% nel 2014 (OMS), nei Paesi sia Occidentali come gli Usa dove si calcola che

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oggi il 10% della popolazione fra i 20 e i 79 anni abbia il diabete di tipo 2 e in Asia dove la percentuale, trascurabile nel 2000, è passata al 7,6% della popolazione (stima 2010) e salirà a 9,1% nel 2030 secondo le stime della International Diabetes Federation.

Secondo i dati di NHANES III, due terzi degli uomini e delle donne negli Stati Uniti, con Diabete Mellito tipo 2 diagnosticato, hanno un BMI di 27,0 kg/m² o maggiore, e la prevalenza del Dia-bete contemporaneamente all’aumento dell’obesità, è aumentata del 2% in soggetti con un BMI da 25,0 a 29,9 kg/m², dell'8% in soggetti con un BMI da 30 a 34,9 kg/m², e del 13% in soggetti con un BMI superiore a 35 kg/m2.

CDC, nel 2015, riporta che in US l’incremento del Diabete è parallelo all’incremento dell’Obe-sità. Le indagini epidemiologiche, che partono dal 1994, mostrano un incremento dell’obesità che va da un massimo del 14% (nel 1994) in alcuni Stati, ad un valore > del 26% in un’area ancora più estesa (nel 2015), e nello stesso intervallo temporale, si osserva un passaggio dal 4,5% a più del 9% del Diabete Mellito tipo 2 (figura 8).

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In Italia i casi noti di diabete erano circa 1,5 milioni nel 1985 e si avvicinano ora ai 4 milioni, quindi sono più che raddoppiati in 30 anni. Si tratta di un caso ogni 16 residenti. E accanto ai casi noti non vanno dimenticati i casi non diagnosticati perché spesso, e talora per anni e anni, la malattia non dà segni di sé. Si stima che siano un milione gli italiani con la malattia misconosciuta. In totale, quindi, circa 5 milioni di persone in Italia ha il diabete, pari ad 1 caso ogni 12 residenti, e il numero degli individui affetti salirà probabilmente a 7 milioni fra 15-20 anni. I dati epidemiologici italiani suggeriscono circa 250.000 nuove diagnosi di diabete tipo 2 e circa 25.000 nuove diagnosi di diabete tipo 1 ogni anno. Il diabete ha una rilevanza sociale oltre che sanitaria e questo è stato sancito, in Italia prima ancora che negli altri Paesi del mondo, da una legge (n. 115 del 1987). Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è stato coniato il termine “diabesità”, entrambe sono delle vere e proprie epidemie, ma si prevede che tenderà a crescere maggiormente quella del diabete rispetto a quella dell’obesità, che è spesso sottostimata. Il diabete è una patologia cronica che può portare ad uno stato di invali-dità spesso drammatico sia da un punto di vista clinico, ma anche sociale ed economico, e nei casi più gravi fino alla morte del paziente. Il diabete infatti comporta un aumento della mortalità cardiovascolare di 2-4 volte, è la principale causa di insufficienza renale terminale, di cecità in età adulta e di amputazione non traumatica degli arti inferiori, tipiche complicanze di questa gravissima malattia.

Diversi studi hanno messo in evidenza la relazione intercorrente tra Diabete mellito di tipo 2 e indice di massa corporea (BMI). Il rischio di sviluppare Diabete di tipo 2 aumenta progressiva-mente da soggetti in sottopeso o magri a soggetti in sovrappeso o obesi, con un incremento maggiore nei soggetti di sesso femminile. Come si vede nel grafico sottostante, per valori di BMI maggiori di 25 Kg/m², la curva si innalza e per valori superiori a 30 Kg/m² la curva diventa sempre più ripida, ad indicare un incremento del rischio relativo di Diabete 89 (figura 9).

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Figura 9 – Relazione tra Diabete di tipo 2 e BMI in uomini e donne degli USA 89.

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Classificazione dell’Obesità

Il sistema di classificazione dell'obesità è basato sull'indice di massa corporea (body mass

index, BMI, kg/m²). Il BMI è l’indice per definire le condizioni di sovrappeso-obesità più

ampia-mente utilizzato, anche se dà un’informazione incompleta in quanto non dà informazioni sulla distribuzione del grasso nell’organismo e non distingue tra massa grassa e massa magra. Oltre al BMI un’altra misura dell’obesità recentemente introdotta, è la circonferenza vita (waist

circumference, WC). Essa è un indicatore di rischio cardiovascolare e di distribuzione viscerale

di grasso, infatti, è spesso utilizzata come marcatore surrogato per l'obesità addominale la quale rappresenta un rischio più elevato rispetto a quello riscontrabile in obesi il cui grasso è prevalentemente distribuito nella parte inferiore del corpo 10, categoria di soggetti protetta dalle complicanze metaboliche 111213 (figura 10).

La circonferenza vita è inoltre un importante predittore indipendente e migliore del diabete ri-spetto al BMI, in uomini e donne adulti di tutte le età ed etnie, compresi i caucasici, gli afroa-mericani, gli asiatici e gli ispanici 14.

Secondo le definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) uomini e donne con BMI tra 25,0 e 29,9 kg/m² sono considerati in sovrappeso e quelli con un BMI superiore a 30,0 kg/m² sono considerati obesi. La gravità dell'obesità è ulteriormente stratificata da sottoclassi-ficazioni, in Classe I, II e III, rispettivamente con BMI ≥30 fino a 34,9 Kg/m², BMI ≥35,0 fino a 39,9 Kg/m², BMI ≥40 fino a 49,9 Kg/m². Differenti etnie presentano valori diversi.

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Figura 10 – BMI e WC associati a Diabete Mellito tipo 2, ipertensione e CVD.

L’obesità è definita “patologica” quando sono presenti uno o più gravi complicazioni mediche correlate all'obesità stessa, come Diabete Mellito di tipo 2, ipertensione, insufficienza cardiaca, apnee notturne, o altre condizioni cliniche.

Ci si interroga invece sulla possibile esistenza di “un’obesità benigna” e di pazienti definibili come “obesi metabolicamente sani”.

Recenti osservazioni mettono in dubbio l'esistenza di fenotipi benigni di obesità “healty obesity” 6.

In letteratura sono stati identificati due sottotipi di obesità. Un sottotipo chiamato metabolico sano ma obeso (MHO), mostra un normale profilo metabolico nonostante abbia grandi quantità di massa grassa rispetto ai soggetti obesi, ciò potrebbe essere dovuto almeno in parte a livelli di grasso viscerali più bassi e all'inizio dell'obesità. Un secondo sottotipo definito obeso meta-bolico ma con peso normale (MONW), presenta un normale indice di massa corporea ma fattori di rischio significativi per il Diabete, la sindrome metabolica e le malattie cardiovascolari, ciò potrebbero essere dovuto a una maggiore massa di grassi e trigliceridi plasmatici così come il maggiore contenuto di grassi viscerali ed epatici 15 (figura 11).

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Figura 11 – Possibile esistenza di MHO e MONW 15.

Ma l’affermazione secondo cui possa esistere “un’obesità benigna” è solo parzialmente cor-retta: è possibile essere al contempo sovrappeso od obesi e sani, ma ciò costituisce solo una fase della vita che predispone successivamente all’insorgenza di patologie correlate all’ec-cesso di peso.

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Obesità e insulino-resistenza, disfunzione endoteliale ed eventi cardiovascolari

L'obesità, come precedentemente descritto, causa molte gravi complicazioni mediche, com-promette la qualità della vita e porta conseguenzialmente ad una maggiore morbilità e morte prematura (figura 12).

Figura 12 – Tasso di prevalenza delle comorbidità in relazione a diversi valori di BMI.

L'obesità è stata identificata come il fattore più potente per lo sviluppo del Diabete mellito tipo 2, nonostante il Diabete tipo 2 abbia molti altri fattori di rischio sottostanti.

I principali fattori di rischio per lo sviluppo del diabete di tipo 2, oltre all’obesità viscerale sopra citata, sono l’età, l’etnia, i fattori genetici e la familiarità di primo grado, lo stile di vita sedentario e l’alimentazione, l’ipertensione arteriosa, le dislipidemie, uno stato di prediabete o un pgresso diabete gestazionale, la Sindrome dell’ovaio policistico e altre condizioni di insulino re-sitenza. L’iperinsulinemia e l’insulinoresistenza si riscontrano costantemente nell’obesità, au-mentano con l’aumento del peso e diminuiscono con il dimagrimento. Nonostante l’insulinore-sistenza però, alcuni individui obesi non sviluppano il diabete, e questo fa supporre che l’insor-genza del diabete richieda l’interazione di altri fattori, compresa l’alterazione della secrezione insulinica.

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L’obesità, di per sé, non provoca alcuna alterazione nella dinamica secretoria dell’insulina, in-fatti, la risposta insulinemica al carico glucidico è elevata, ma proporzionale all’insulinemia a digiuno. Nell’obeso diabetico, invece, la dinamica secretoria è alterata, infatti, la secrezione dell’ormone, sebbene di notevoli proporzioni, avviene in ritardo 161718 (figura 13). Lo sviluppo del DM associato all’obesità può pertanto anche prevedere un’alterazione della β cellula pan-creatica (Insulino recettore e glucorecettore).

Figura 13 – Secrezione insulinica dopo carico orale di glucosio in Obesi con normale tolleranza

al glucosio (■----■) e in Obesi diabetici (●----●).

L’iperinsulinemia potrebbe derivare da una alterazione della regolazione dell’asse SNC-pan-creas (i nuclei ipotalamici ventro-laterale e ventro-mediale sono in connessione con il panSNC-pan-creas attraverso il vago) o da uno stato di iperfagia che provoca un’eccessiva stimolazione pancrea-tica, è stato però visto che vi sono degli animali obesi non iperfagici ma ugualmente iperinsuli-nemici. I livelli plasmatici di insulina sono inoltre più elevati dopo carico orale che dopo carico endovenoso di insulina, da cui si evince che vi sono anche fattori gastrointestinali che influen-zano la secrezione insulinica come il GIP (Gastric Inhibitory Polypeptyde). Il fatto che gli obesi siano iper- o normo- glicemici e contemporaneamente iperinsulinemici prevede che gli stessi siano insulinoresistenti. Rabinowitz e Zierler 19 hanno osservato che l’insulina negli obesi ha una minore capacità di incrementare il metabolismo del glucosio da parte degli adipociti e delle cellule muscolari.

Un ruolo importante è svolto dai recettori per l’insulina, la cui attivazione determina l’attivazione di sistemi di trasporto della membrana cellulare (il più noto è quello del glucosio) e di una serie di processi intracellulari (post-recettoriali). L’alterazione a livello intracellulare può determinare una deficitaria azione pur in presenza di livelli normali di insulina e di recettori, per cui la

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resistenza all’insulina può attribuirsi a cause post-recettoriali oltre che pre-recettoriali e recettoriali.

Inoltre l’incremento ponderale si associa ad una diminuzione della capacità delle cellule a legare specificatamente l’insulina, a causa della diminuzione del numero dei recettori presenti sulla membrana citoplasmatica 20 e questo fenomeno può essere dovuto ad alterazioni genetiche o acquisite del recettore o a causa di fattori quali citochine (come TNFα).

È ormai noto che l’insulina riesca ad influenzare il numero dei suoi recettori (down-regolation) tant’è che negli obesi si trova una relazione inversa fra l’insulinemia a digiuno e la capacità delle cellule di legare l’ormone.

Dal punto di vista molecolare si può affermare che una diminuzione del numero e/o dell’affinità dei recettori porta ad una diminuzione dell’effetto biologico; così come anche l’interferenza di fattori quali citochine e fattori di flogosi che possano interferire col segnale insulinico. Le alterazioni della via di trasduzione del recettore insulinico che causano insulino resistenza possono essere indotte anche da alcune molecole quali le adipochine secrete dal tessuto adiposo, che agiscono con un meccanismo di tipo endocrino, in particolare la resistina. L’IR può essere anche indotta dal TNFα la cui produzione è aumentata nel tessuto adiposo e muscolare di pazienti obesi ed insulino resistenti 21.

Ulteriori alterazioni in grado di scatenare IR sono state riscontrate nell’ambito del sistema effettore: una difettosa azione del sistema di trasporto del glucosio mediata dal trasportatore GLUT-4 che può essere riconducibile a diversi meccanismi, quali la riduzione del suo contenuto intracellulare, una sua difettosa traslocazione sulla membrana cellulare o la riduzione della sua attività funzionale 22.

Oltre alle patologie endocrino - metaboliche, l’obesità e strettamente associata alle malattie del sistema cardiovascolare. Vi sono, infatti, evidenze che l'obesità aumenti il rischio di sviluppare la maggior parte delle principali malattie cardiovascolari (CVD) come coronaropatie e atero-sclerosi, ma i meccanismi fisiopatologici che collegano l'obesità all'aterosclerosi non sono an-cora ben stabiliti.

I fattori di rischio convenzionali associati all’obesità spiegano solo in parte la maggiore inci-denza di eventi coronarici nei soggetti obesi, è stato visto che l'eccessivo accumulo di tessuto adiposo nel miocardio porta ad alterazioni strutturali e funzionali 23.

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La funzione endoteliale compromessa e l'infiammazione sub-clinica potrebbero essere coin-volti in questa associazione, ma il BMI stesso è legato a eventi cardiovascolari che suggeri-scono che vi sono altri percorsi ancora suggeri-sconosciuti o non del tutto considerati.

Ci sono molti meccanismi plausibili attraverso i quali l'aumento del tessuto adiposo potrebbe influire negativamente sulla parete del vaso. Questi includono: i cambiamenti della pressione sanguigna, il livello di glucosio, il metabolismo dei lipidi/lipoproteine e l'infiammazione siste-mica. Inoltre, i fattori secreti dal tessuto adiposo possono influenzare direttamente l'omeostasi della parete vascolare alterando la funzione delle cellule muscolari lisce delle arterie, dei ma-crofagi e delle cellule endoteliali. Numerosi sono quindi i meccanismi patogenetici che legano l'obesità alle malattie cardiovascolari e la disfunzione endoteliale è uno di questi 24.

Lo stresso ossidativo viene considerato uno dei meccanismi patogenetici principali della di-sfunzione, la quale rappresenta, insieme all’infiammazione della parete arteriosa, uno dei fe-nomeni più precoci dell’aterosclerosi coronarica, interessando sia i vasi dell’epicardio sia quelli di resistenza e tale fenomeno risulta essere amplificato nell’obesità addominale 25. L’obesità addominale si associa oltre che ad un’alterata funzione endoteliale 26 anche ad un ispessimento del complesso intima-media della carotide che correla notoriamente con quanto si verifica nelle coronarie.

L’obesità può indurre una disfunzione endoteliale sia con meccanismi indiretti attraverso le condizioni patologiche frequentemente associate ad essa, come l’ipertensione arteriosa, il dia-bete mellito e la dislipidemia, condizioni caratterizzate di per sé da una ridotta funzione endo-teliale, sia con meccanismi diretti che sono rappresentati da ormoni, citochine quali il TNF-α, l'IL1 e IL6, e prodotti del metabolismo lipidico 27 (figura 14).

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Figura 14 - Meccanismi diretti e indiretti di relazione tra obesità e insulino-resistenza,

disfun-zione endoteliale ed eventi cardiovascolari.

Le adipochine prodotte dagli adipociti potrebbero essere direttamente responsabili della disfun-zione endoteliale associata all’obesità. Le principali adipochine coinvolte sono la leptina, la resistina e l’adiponectina.

La leptina, ormone prodotto quasi esclusivamente dal tessuto adiposo e i cui livelli circolanti correlano con la quantità di tessuto adiposo rappresentato nell’organismo, è significativamente e indipendentemente associata con l’ispessimento del complesso intima-media della carotide, rappresentando un fattore di rischio diretto dell’accelerata aterosclerosi dei pazienti obesi. Altre proteine specifiche del tessuto adiposo sono la resistina e l’adiponectina ma, mentre la resi-stina risulta essere un fattore di rischio cardiovascolare nella maggioranza degli studi 28 29, l’adiponectina induce chiaramente un aumento della sensibilità insulinica ed è un fattore pro-tettivo sulle patologie cardiovascolari 30. Sfortunatamente, nei pazienti obesi, i livelli circolanti di resistina sono aumentati 29 e quelli di adiponectina sono ridotti 30.

Numerose evidenze sperimentali indicano che il tessuto adiposo, e in particolare il grasso vi-scerale, possa giocare un ruolo diretto nella regolazione dell’infiammazione, secernendo TNF-α e IL-6 31, citochine in grado, come già accennato precedentemente, di indurre disfunzione endoteliale.

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Un altro importante fattore che può contribuire alla disfunzione endoteliale associata all’obesità e all’insulino-resistenza è rappresentato dagli acidi grassi liberi (FFA). Studi sperimentali hanno dimostrato che l’aumentato turnover degli FFA che si riscontra nell’obesità stimola la produ-zione di stress ossidativo 32, riducendo anch’esso la biodisponibilità di NO.

Studi nell’uomo dimostrano che l’obesità si associa in modo indipendente a disfunzione endo-teliale nel circolo periferico, mentre altri dimostrano che l’alterazione della vasodilatazione en-dotelio-dipendente è stata confermata anche a livello del macrocircolo periferico.

Nello specifico, un’attenzione particolare va rivolta all'adiponectina, la più abbondante proteina secreta dagli adipociti bianchi maturi, isolata per la prima volta nel 1995. Essa controlla il me-tabolismo energetico di lipidi e carboidrati, una volta secreta in circolo, agisce su recettori espressi in organi bersaglio dell’insulina, negli adipociti, nel fegato e nel muscolo scheletrico, riduce l’introito alimentare e aumenta il dispendio energetico, ed ha attività anti-aterogena e anti-infiammatoria.

Diversi studi hanno messo in evidenza che le concentrazioni plasmatiche di adiponectina, a differenza di altri prodotti di secrezione degli adipociti, sono diminuite sia nell'obesità, che nell’insulino-resistenza, nella sindrome metabolica, nel diabete mellito di tipo 2 e nella malattia coronarica. Viceversa, l'espressione dell’adiponectina aumenta con una migliore sensibilità all'insulina e con la perdita di peso 33. Infatti, interventi che migliorano la sensibilità all'insulina, quali la perdita di peso o il trattamento con tiazolidinedioni, sono associati ad un aumento dell’espressione del gene adiponectin e delle concentrazioni plasmatiche 34 . Inoltre, la sommi-nistrazione di adiponectina ricombinante induce abbassamento del glucosio e migliora l'insu-lina resistenza nei modelli di topi di obesità o diabete 35.

Le evidenze emergenti, infatti, suggeriscono che l'adiponectina è protettiva contro la disfun-zione vascolare indotta dall'obesità e dal diabete mellito, attraverso i suoi molteplici effetti fa-vorevoli sul glucosio e sul metabolismo lipidico, nonché sulla funzione vascolare. Migliorando la sensibilità all'insulina e i profili metabolici, riduce infatti i fattori di rischio classici per la ma-lattia cardiovascolare, e protegge inoltre la vascolarizzazione attraverso azioni pleiotropiche sulle cellule endoteliali mature, sulle cellule progenitrici endoteliali (EPCs), sulle cellule musco-lari lisce e sui macrofagi.

Quindi, la riduzione della produzione e/o azione compromessa dell'adiponectina rappresenta un meccanismo chiave che collega l'obesità alle malattie cardiovascolari.

Si ipotizza che gli effetti positivi dell'adiponectina contro l'aterosclerosi siano in parte spiegabili dalla sua interazione con le cellule progenitrici endoteliali (EPC). Essa protegge alcune

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sottopopolazioni di EPC contro l'apoptosi e quindi potrebbe modulare la capacità delle EPC di indurre la riparazione dei danni vascolari 36.

Studi sperimentali, infatti, suggeriscono un potenziale collegamento tra ipoadiponectinemia ed esaurimento del livello delle EPC. Lo studio di Li, M., Ho, et al. ha esaminato le relazioni tra il livello di adiponectina e le EPC nei pazienti con DM di tipo 2, ma non è stata rilevata alcuna relazione tra la riduzione dei livelli di EPCs e i livelli di adiponectina totale nel sangue dei pa-zienti con diabete mellito tipo 2 37.

Alla luce del deficit dell’adiponectina (ipoadiponectinaemia) nella patogenesi della malattia va-scolare correlata all'obesità, interventi farmacologici finalizzati ad aumentare la produzione di adiponectina rappresentano una strategia attraente per il trattamento di queste malattie 38.

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Chirurgia bariatrica nel trattamento dell’Obesità

Nonostante il cambiamento dello stile di vita, incentrato sulla dieta e sull’attività fisica, le terapie cognitivo-comportamentali, la farmacoterapia, non si è riusciti a trattare efficacemente tutte le forme di obesità. In particolare, nell’obesità severa, patologica, associata a una o più compli-canze, trovano ormai largo impiego differenti tecniche di chirurgia bariatrica che consentono di raggiungere degli ottimi risultati a fronte dei trattamenti classici. Gli interventi sono molteplici. La scelta del trattamento, in pazienti sovrappeso od obesi, è condizionata dai valori del BMI (Kg/m²), dallo stadio di malattia, dalle patologie associate e dall’età del paziente (figura 15).

Figura 15 – Algoritmo dei possibili trattamenti di pazienti sovrappeso od Obesi.

Le indicazioni alla chirurgia bariatrica sono state istituite dalla NIH (National Institute of Health) Consensus Conference sin dal 1991 39.

Secondo tali indicazioni, i candidati ammissibili per la chirurgia bariatrica includono:

o BMI >40 kg/m² o BMI >35 kg/m² in presenza di comorbidità associata (diabete mellito tipo 2, sindrome delle apnee ostruttive moderata-severa, pseudotumor cerebri, grave steatoepatite)

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o età compresa tra 18 e 60 anni o obesità di durata superiore ai 5 anni

o dimostrato fallimento dei precedenti tentativi di perdere peso e/o di mantenere la perdita di peso con tecniche non chirurgiche

o piena disponibilità ad un prolungato follow-up post operatorio

In questa Consensus non viene fornita alcuna raccomandazione per gli adolescenti per l’as-senza di studi sufficienti. Nel corso di questi ultimi anni le linee guida sono sostanzialmente rimaste invariate, fatte salve le eccezioni relative all’età, sia in termini di riduzione, al di sotto dei canonici 18 anni, sia in termini di incremento, in linea di massima fino all’età di 60 anni.

Il paziente con età superiore a 60 anni, può essere candidato alla chirurgia bariatrica, solo dopo una attenta valutazione individuale dei rischi e benefici, del potenziale miglioramento della qua-lità della vita e del rischio di mortaqua-lità nel breve-medio termine.

Non vi sono al momento prove sufficienti a consigliare in termini generali l’applicazione della chirurgia bariatrica nel paziente con BMI inferiore rispetto a quello considerato come soglia di indicazione dalle linee guida correnti. Tuttavia, non sembra più ragionevole negare l’accesso alla chirurgia bariatrica semplicemente sulla base del valore di BMI ad un paziente con obesità moderata (BMI 30–35 kg/m2) in presenza di importanti comorbidità, con particolare riferimento al paziente con diabete mellito tipo 2, se il paziente non riesce a raggiungere un accettabile livello di calo ponderale dopo un adeguato periodo di terapia non chirurgica (ASBS nel 2004 e l’EAES, nel 2005).

Gli interventi di chirurgia bariatrica si distinguono in (figura 16):

o restrittivi, che riducono la capacità dello stomaco in modo da limitare la quantità di cibo ingeribile:

• palloncino intragastrico • bendaggio gastrico (LAGB) • sleeve gastrectomy

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• gastroplastica orizzontale

o malassorbitivi, che impediscono l’assorbimento dei nutrienti attraverso la riduzione di parti del tubo gastroenterico:

• diversione biliopancreatica (BPD)

• diversione biliopancreatica con switch duodenale (SD) • bypass digiuno ileale

o misti, ossia una combinazione delle due tecniche precedenti, restrittiva più malassorbi-tiva:

• bypass gastrico su ansa alla Roux (Roux-en-Y gastric bypass, RYGB)

Figura 16 – A) Bendaggio gastrico, C) Sleeve gastrectomy, C) Roux-en-Y gastric bypass, D)

Diversione biliopancreatica con Swich duodenale.

Attualmente, la letteratura ha pochi trial clinici randomizzati che confrontino l’effetto della tera-pia chirurgica sull’obesità e sul DMT2 con la teratera-pia medica convenzionale/intensiva, soprat-tutto con follow up a lungo termine.

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Il primo studio 40 con un follow-up a 20 anni fu quello svedese SOS che prendeva in considerazione una popolazione di 4047 pazienti obesi, dei quali 2010 sottoposti a chirurgia bariatrica e 2037 trattati con terapia medica convenzionale. In questo studio i pazienti sottoposti a trattamento chirurgico mostravano una massima perdita di peso dopo 1–2 anni dall’intervento, che rimaneva stabile fino a 10 anni. Il calo ponderale era del 32% del peso iniziale per i pazienti sottoposti a by-pass gastrico, del 25% per la gastroplastica verticale e del 20% per il bendaggio gastrico. Al contrario, i pazienti trattati con terapia medica manifestavano un calo ponderale non superiore al 2% durante tutto il periodo di follow-up (figura 17).

Figura 17 – Variazione del peso tra controlli e Obesi 40.

Sempre nello stesso studio si rilevava che, dopo 10 anni dalla chirurgia bariatrica, il tasso di incidenza e di remissione del diabete, sebbene sempre più alti rispetto a quelli ottenibili con la terapia tradizionale, erano la metà di quelli osservati a 2 anni (figura 18).

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Figura 18 – Incidenza e Remissione di Diabete a 2 e a 10 anni.

Durante i 10 anni la chirurgia bariatrica ha ridotto inoltre tutti i fattori di rischio cardiovascolare incluso anche il Diabete, fatta eccezione però per l’ipercolesterolemia 40 e si sono verificate 101 morti nel gruppo chirurgico rispetto ai 129 nel gruppo di controllo (figura 19).

Figura 19 – Confronto della mortalità dopo BS 40.

Successivamente nello stesso studio SOS 41, è stata osservata l’associazione della chirurgia bariatrica con la remissione a lungo termine del Diabete di tipo 2 e con le sue complicanze micro e macrovascolari e vi vedeva che, dopo 15 anni, la chirurgia bariatrica si associava ad una più frequente remissione del diabete e ad un minor numero di complicanze rispetto alle cure abituali (figura 20).

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Figura 20 – Associazione tra Chirurgia bariatrica e DM2 con le sue complicanze 41.

Secondo la meta-analisi di Buchwald and coll. Am J Med. del 2009 42, nei 621 studi presi in considerazione, la risoluzione/miglioramento del Diabete di tipo 2 si osservava nell’86,6% dei pazienti, una remissione nel 78,1% di essi e una assenza di malattia per più di 2 anni dopo la chirurgia nel 62%.

Vi era inoltre una progressiva relazione tra risoluzione del diabete e calo ponderale ottenuto anche in funzione della procedura chirurgica adottata. Pertanto, la risoluzione era maggiore nei pazienti sottoposti a diversione bilio-pancreatica (95,1%), seguita dal by-pass gastrico (80,3%), dalla gastroplastica (79,7%) e infine dal bendaggio gastrico (56,7%) 42 (figura 21).

Figura 21 - Risoluzione di DM2 parallela alla perdita di peso dipendente dal tipo di intervento

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Anche Courcoulas AP et al. nel 2013, dimostrò che l'efficacia della perdita di peso variava a seconda della procedura chirurgica 43, sottolineando che non tutti i pazienti perdevano molto peso e alcuni di essi che perdevano peso nel periodo iniziale, riconquistavano nel tempo la maggior parte o tutto il peso precedentemente perduto.

Le procedure di chirurgica bariatrica 44, come visto da Bradley et al., che allontanano i nu-trienti dal tratto gastrointestinale superiore hanno più successo nel determinare una perdita del peso e una remissione del DMT2, rispetto alle procedure che limitano semplicemente la capacità dello stomaco. Quindi, gli effetti della chirurgia bariatrica sul peso corporeo e sulla funzione metabolica, indicano che tale procedura chirurgica dovrebbe far parte della terapia standard per il Diabete di tipo 2 44.

Altro aspetto è che la perdita di peso mediante chirurgia bariatrica (BS) è legata ad una mi-gliore sopravvivenza. Gli adulti obesi, infatti, che si sottopongono a chirurgia bariatrica per la perdita di peso, hanno una probabilità più alta di sopravvivere nel prossimo decennio di quelli che non la fanno.

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Cellule progenitrici endoteliali (EPC)

Le cellule progenitrici endoteliali (endothelial progenitor cells, EPC) sono state identificate per la prima volta nel 1997 da Asahara et al. come un sottogruppo di cellule mononucleate del sangue periferico derivate dal midollo osseo ed esprimenti gli antigeni di superficie CD34 o KDR (anche noto come Flk-1 nel topo), in grado di proliferare e differenziarsi in cellule endote-liali mature in vitro e in vivo e di partecipare ai processi di neoangiogenesi in vivo45.

Le EPC deriverebbero da un precursore del sistema ematopoietico chiamato emangioblasto e condividono caratteristiche con le cellule staminali adulte, quali la proliferazione clonogenica, l’auto-rinnovamento e la resistenza allo stress ossidativo.

In passato si riteneva che la neovasculogenesi, cioè la formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da un tessuto avascolare, fosse limitata alle fasi di sviluppo dell’apparato cardiovascolare a opera del mesoderma extraembrionario del sacco vitellino 46.

Attualmente si ritiene che questo processo possa avvenire anche nell’organismo adulto ad opera delle EPCs che, migrate dal midollo osseo ai tessuti periferici, partecipano alla genesi di neovasi.

Mentre fino agli anni ’90 la ricerca cardiovascolare si era focalizzata soprattutto sui meccanismi di danno vascolare, la scoperta delle EPCs ha aperto un nuovo filone di studio basato sull’analisi dei meccanismi di riparazione vascolare.

Attualmente si ritiene che le EPC svolgano due ruoli fondamentali nella fisiologia e nella fisiopatologia dell’apparato cardiovascolare:

1. la riparazione dell’endotelio danneggiato, contribuendo così all’omeostasi endoteliale 2. la partecipazione alla genesi di nuovi vasi sanguigni guidata dal gradiente di ossigeno

e da mediatori pro-angiogenetici a livello dei tessuti ischemici 47.

In tal modo il rilascio delle EPC rappresenterebbe un meccanismo fisiologico omeostatico di regolazione a feedback negativo della vascolarizzazione dei tessuti e dell’integrità vascolare. L’endotelio è un organo anatomicamente e funzionalmente cruciale per la salute cardiovascolare, fornisce una barriera fisica alle cellule ematiche e al plasma e regola il tono vascolare, l’aggregazione piastrinica e l’adesione leucocitaria. Le cellule endoteliali mature vanno incontro a un turnover molto lento, ma sono in grado, entro un certo limite, di rinnovarsi. L’endotelio, per la sua tipica localizzazione anatomica, è esposto a numerose noxae patogene che vengono veicolate dal sangue (glucosio, colesterolo, acidi grassi, prodotti di ossidazione) ed è quindi bersaglio dei tipici fattori di rischio cardiovascolare che agiscono, tramite

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meccanismi molecolari noti, alterandone la funzione 47.

La disfunzione endoteliale si manifesta come un aumento del tono vascolare, dell’aggregabilità piastrinica e dell’adesività leucocitaria, tutti eventi che possono favorire la comparsa e la progressione delle lesioni aterosclerotiche 48. Le cellule endoteliali danneggiate possono andare incontro ad apoptosi, distaccandosi dalla parete vascolare e predisponendo così ad eventi trombotici.

Fisiologicamente, il ripristino anatomico e funzionale dell’endotelio, avviene soprattutto con il contributo delle EPC circolanti che, grazie a determinati segnali solubili (per es. chemochine quali SDF-1, stromal cell-derived factor-1), migrano selettivamente presso le sedi di danno endoteliale. In queste sedi, in accordo alla visione tradizionale del ruolo delle EPCs, le cellule immature aderiscono alla soluzione di continuo endoteliale andando a sostituire le cellule endoteliali danneggiate e differenziandosi in cellule endoteliali funzionalmente mature 49 (figura 22).

Figura 22 – Ruolo delle EPC nei processi di riparazione vascolare: un concetto in continua

evoluzione.

Per definire il fenotipo antigenico delle EPCs è necessario utilizzare almeno un marker di

Pearson JD., J Thromb Haemost 7: 255-262, 2008

New vessel formation in terms of migration of existing EC; perycites migrate and replicate as

the vessels mature; no contribution from blood-derived cells

Bone marrow-derived circulating EPCs home to

the site of angiogenesis, and differentiate building

the new vessel endothelial layer

The primary contribution of bone marrow derived cells is not as EPC, but as cells

emigrating to site of damage where they activate pericytes that, in

turn, stimulate migration and replication of local EC

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immaturità/staminalità ed almeno un marker di linea endoteliale.

Vengono utilizzati il marcatore CD34 delle cellule emopoietiche progenitrici, il marcatore CD133 delle cellule ematopoietiche progenitrici immature e il recettore delle cellule endoteliali mature VEGFR-2 (recettore-2 del fattore di crescita vasculo-endoteliale, noto anche come recettore contenente il dominio di inserzione chinasico, KDR/FlK1) (figura 19).

Durante il processo maturativo vi è, inoltre, l’acquisizione di altri markers fenotipici caratteristici della linea endoteliale matura quali: CD31 conosciuto come PECAM-1, il fattore di Von Wille-bran Factor (vWF), e-NOS sintetasi, caderina, E-selectina, e vi è anche l’incorporazione di ac-LDL (lipoproteine acetilate a basso peso molecolare) 50.

CD34 è l’antigene espresso dalle cellule staminali ematopoietiche e sull’endotelio attivato di alcuni microvasi, specialmente nello stroma tumorale, ma non sui vasi di grande calibro 51. Probabilmente agisce come molecola di adesione per l’interazione tra le cellule endoteliali e i precursori ematopoietici ed una sua mancata espressione, induce sia alterazioni vascolari che ematopoietiche 52.

CD133 è invece una glicoproteina legante il colesterolo ed è espressa selettivamente sulle cellule ematopoietiche staminali e sulle cellule progenitrici 53. La sua funzione non è ancora conosciuta, ma identifica più cellule progenitrici immature rispetto al solo CD34. È stato dimo-strato inoltre che le cellule CD133+ conservano la capacità di differenziarsi in fenotipi multipli, incluso quello endoteliale.

KDR è il principale recettore che trasmette i segnali del VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) nelle cellule endoteliali. Esso media la proliferazione, la crescita, la migrazione e la formazione di vasi. Tuttavia, KDR è espresso oltre che sulle cellule endoteliali anche su altri tipi cellulari. Questi tipi cellulari includono cellule staminali precoci non coinvolte nei processi di riparazione endoteliale o neoangiogenesi 5455.

È quindi evidente che sia CD34 che KDR sono espressi sia sulle cellule staminali che sulle cellule endoteliali.

Le cellule CD34+/KDR+ potrebbero essere cellule immature con “innesco” endoteliale, rappre-sentando, in questo modo, “EPCs putative”, ma potrebbero essere anche emangioblasti post-natali 56. Questa definizione antigenica è comunque la più conforme rispetto alla iniziale descri-zione di Asahara e coll. 45 secondo la quale le cellule di sangue periferico umano, identificate in base all’espressione di CD34 e di KDR, si differenziavano pienamente in cellule mature en-doteliali e formavano nuovi vasi in vivo.

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Al contrario, le cellule CD34+ dovrebbero essere considerate come cellule progenitrici generi-che, principalmente ematopoietigeneri-che, piuttosto che EPC, perché solo una minoranza di queste cellule circolanti esprime antigeni di linea endoteliale.

A differenza del CD34, il CD133 non è espresso sulle cellule endoteliali mature, quindi, le cel-lule CD133+/KDR+ possono corrispondere meglio alle EPCs. Sfortunatamente, il CD133 è espresso su cellule più immature di quelle che esprimono il CD34 e, per questa ragione, le cellule CD133+/KDR+ circolanti sono più rare delle cellule CD34+/KDR 57.

Nonostante questi limiti, sia le cellule CD34+/DKDR+ che le cellule CD133+/KDR+ possono essere incluse tra i fenotipi antigenici putativi delle EPCs. L’intersezione tra queste due espres-sioni antigeniche, CD34/+CD133+/KDR+, potrebbe essere utilizzata come fenotipo restrittivo di EPC, ma anche queste cellule in circolo possono essere rare e difficilmente identificabili. È stato inoltre riportato che le cellule CD34+/CD133+/KDR+, a causa della presenza del CD133, possono includere progenitori ematopoietici piuttosto che endoteliali 58 e che le vere EPCs non derivano dalle cellule CD133+ 59. Aggiungendo un quarto antigene ci si avvicinerebbe alla so-glia di rilevamento del metodo.

È stato studiato inoltre in parallelo la coespressione del comune antigene dei leucociti il CD45 60 ed è stato suggerito che le EPC presentano la frazione CD45 negativa 58.

Il punto fondamentale, nella scelta del fenotipo delle cellule progenitrici, è che, in condizioni normali, le EPC circolanti sono molto rare. L’identificazione con uno dei fenotipi sovra menzio-nati, attraverso la citofluorimetria a flusso, è un evento raro, come descritto dalla distribuzione di probabilità di Poisson. Questo è il motivo per il quale è necessario incrementare il numero totale di eventi acquisiti ad almeno 500.000.

Per incrementarli ulteriormente, si deve scegliere, tra i fenotipi delle EPC putative, quello che rende più alta la conta cellulare: esso è generalmente il CD34+/KDR+, mentre CD133+/KDR+ e CD34+/CD133+/KDR+ producono conte cellulari più basse. Un altro motivo per cui è prefe-ribile scegliere la combinazione CD34+/KDR+ è che questa rappresenta il solo fenotipo, delle EPC putative, predittore indipendente di eventi cardiovascolari. Schmidt-Luke et al. 61 hanno, infatti, dimostrato che il livello di cellule CD34+/KDR+ circolanti prediceva in maniera indipen-dente gli eventi cardiovascolari e la progressione dell’aterosclerosi in una popolazione mista di soggetti sani e soggetti con pregressa patologia cardiovascolare.

Tutti questi dati indicano che il fenotipo CD34+/KDR+ risulta essere il miglior, in termini di ac-curatezza, nell’individuazione delle cellule EPCs. Tuttavia, non è stato provato definitivamente

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che questo fenotipo sia in grado di identificare selettivamente le EPC funzionali. Alcuni autori hanno dimostrato che le cellule CD34+/KDR+ si comportano come EPC in vivo 62, mentre altri suggeriscono che queste cellule non si differenziano in vere cellule endoteliali.

Quindi, il dibattito circa il fenotipo antigenico che caratterizza le EPC è ancora aperto, tuttavia la letteratura internazionale risulta complessivamente concorde nell’attribuire il nome di EPC alle cellule mononucleate circolanti con fenotipo citofluorimetrico CD34+/KDR+ (figura 23).

Figura 23 – Identificazione e marcatura delle EPCs circolanti 63.

Molti fattori sono implicati nel processo di reclutamento delle EPC, tutti attualmente utilizzati come agenti mobilizzatori di cellule staminali capaci di migliorare anche la loro funzionalità. I più importanti sono: il VEGF (vascular endothelial growth factor), l’SDF1 (lo stromal derived factor-1, il più importante fattore chemiotattico conosciuto, che interagisce con le EPCs mediante il legame con il recettore di superficie CXCR4, ed è ritenuto il fattore che protegge le EPCs dall’apoptosi), il fattore di crescita fibroblastico (FGF), il fattore di crescita placentare (PFG) che ha vari ruoli nella cascata di attivazione delle cellule staminali, tra cui l’up-regolation dell’attività delle MMP-9 (matrix metalloproteinase) e ancora l’eritropoietina e la sintetasi costitutiva endoteliale dell’ossido nitrico (eNOS).

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Il rilascio in circolo di questi fattori, soprattutto del VEGF, è indotto da svariati stimoli, ma sicuramente il più potente è l'ischemia tissutale.

L’ipossia dei tessuti ischemici infatti rappresenta uno degli stimoli più potenti alla mobilizza-zione delle EPCs dal midollo osseo al circolo periferico, grazie al rilascio di fattori di crescita (VEGF) citochine (IL-8) e chemochine (SDF-1) indotto dalla bassa tensione di ossigeno via HIF-1 (hypoxia-inducible factor) 64-66 e anche da farmaci (statine, agonisti PPAR-γ, estrogeni, ACE-inibitori) (figura 24). Queste molecole, agendo nel microambiente midollare, indeboli-scono le interazioni tra cellule progenitrici e cellule stromali e permettono il rilascio in circolo delle EPC anche grazie all’attivazione di MMP che degrada la matrice extracellulare 67. Le EPC, una volta in circolo, raggiungono selettivamente i tessuti ischemici e/o danneggiati dove promuovono la riparazione endoteliale e/o l’angiogenesi compensatoria.

In dettaglio, le EPCs partecipano alla gemmazione di nuovi vasi a partire dalle arteriole preca-pillari preesistenti e contribuiscono alla formazione di nidi vascolari nei tessuti connettivali di neosintesi che poi maturano in strutture tubulari e quindi in vasi sanguigni che si mettono in comunicazione con la circolazione 66.

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Funzione e livelli circolanti di EPC sono quindi considerati determinanti importanti per la salute cardiovascolare, mentre la presenza di EPC alterate è associata ai tradizionali fattori di rischio cardiovascolare e alla malattia cardiovascolare polidistrettuale.

L’entità del ruolo svolto dalle EPC nei processi di neoangiogenesi è stata a lungo incerta. Alcuni lavori riportavano che il contributo fosse piuttosto basso, mentre altri dati supportavano un loro ruolo predominante, a seconda del modello sperimentale utilizzato 68.

Studi successivi dimostrarono che queste cellule si debbano considerate una componente integrante ed essenziale del sistema vascolare, coinvolte nel mantenimento dell’integrità endoteliale e dell’omeostasi vascolare 63.

Una loro riduzione numerica e/o disfunzione influenza negativamente la biologia e la funzione cardiovascolare, e sono considerati fattori capaci di contribuire in maniera significativa all’inizio e alla progressione di CVD in molte condizioni cliniche, incluso il Diabete mellito 49.

Questo scenario è stato poi messo in discussione da progressi tecnologici che hanno descritto meglio biologia e funzione delle EPC 63. Il contributo offerto nei processi di riparazione dalle cellule derivate dal midollo osseo è meno rilevante di quello originariamente ad esse attribuito. La maggior parte delle cellule progenitrici, infatti, che vanno ad abitare nella parete vascolare danneggiata o nei tessuti ischemici, sembrano essere localizzate nello spazio perivascolare piuttosto che integrarsi nella superficie endoteliale.

L’ipotesi attualmente più accreditata è che una patologica riduzione o disfunzione delle EPC potrebbe impedire i meccanismi di protezione dal danno e quindi favorire la comparsa e/o la progressione delle malattie cardiovascolari (CVD).

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Cellule progenitrici endoteliali (EPC) e Diabete Mellito

Il diabete rappresenta una condizione clinica caratterizzata da un aumento di 2 – 4 volte del rischio di malattia cardiovascolare (CVD). In media, all’età di 50 anni, un paziente diabetico ha una aspettativa di vita ridotta di circa 6 anni, rispetto ad un soggetto non diabetico di pari età. Generalmente ciò è attribuito agli effetti negativi dell'iperglicemia e allo stress ossidativo sulla biologia vascolare. Tuttavia, il diabete di tipo 2, è anche associato ad una costellazione di fattori di rischio, come l'obesità, la dislipidemia e l'ipertensione, che concorrono a promuovere la CVD. È stato anche dimostrato che i pazienti con condizioni di pre-diabete, come il glucosio alterato a digiuno (IFG) e la ridotta tolleranza al glucosio (IGT), presentano un rischio aumentato di CVD. Questo suggerisce che le anomalie nel metabolismo dei carboidrati formano un continuum che peggiora progressivamente la salute cardiovascolare.

Nell’ultimo decennio è stata esplorata l’ipotesi che l’integrità dell’apparato vascolare dipenda dal bilancio tra danno vascolare, conseguente alla disfunzione endoteliale, e capacità di manutenzione e riparazione.

La riparazione dell’endotelio danneggiato avviene ad opera delle cellule endoteliali residenti e grazie al contributo delle EPCs circolanti di origine midollare. Recentemente, infatti, l’attenzione si è concentrata sul ruolo delle EPCs in ambito cardiovascolare e, in particolare, sul ruolo dell’endotelio nella biologia cardiovascolare. L’insulto endoteliale è implicato nella genesi dell’aterosclerosi, nella trombosi e nell’ipertensione, e l’equilibrio tra il danno e la riparazione endoteliale è di preminente importanza per ridurre gli eventi cardiovascolari.

Il diabete è associato a multipli difetti nei meccanismi di controllo del danno vascolare 69 con compromissione dei processi riparativi che normalmente intervengono nella manutenzione della superficie endoteliale e nella “correzione” dell’ischemia.

Tradizionalmente, la neoangiogenesi dopo ischemia e riendotelizzazione dopo danno endoteliale, sono state considerate il risultato dell’attivazione, della proliferazione e della migrazione di cellule endoteliali residenti. Con la scoperta delle EPCs, tuttavia, la riendotelizzazione e la neoangiogenesi, alterate nel diabete, sono state anche attribuite alla biodisponibilità di EPCs con capacità rigenerativa alterata 7071, mettendo così le EPCs al centro di un nuovo modello fisiopatologico della malattia vascolare diabetica 7249.

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Il diabete è una delle condizioni cliniche in cui le alterazioni nelle EPCs sono state studiate in maggior dettaglio: numerosi studi hanno riportato che le EPCs sono ridotte in numero sia nel DM di tipo 1 che nel DM di tipo 2 73. In entrambe le forme di diabete, le EPCs presentano alterazioni funzionali con difetti della proliferazione, adesione e proprietà angiogenetiche, suggerendo un loro ruolo nelle complicanze macroangiopatiche e microangiopatiche della malattia 49.

La riduzione delle EPC è più marcata nei pazienti diabetici con complicanze vascolari quali l’arteriopatia obliterante degli arti inferiori o la cerebrovasculopatia. Si osserva infatti una correlazione positiva tra EPC e ABI (ankle brachial index, indice caviglia braccio), mentre i più bassi livelli di EPC circolanti si rilevano nei pazienti con ulcere ischemiche periferiche 74. Una riduzione ed una disfunzione precoce delle EPC sono state individuate in pazienti affetti da diabete di tipo 1, in maniera del tutto simile a quanto osservato per il diabete di tipo 2 75. Nel diabete mellito di tipo 1, le EPC CD34+/KDR+ circolanti sono ridotte in numero rispetto ai soggetti di controllo, particolarmente in quelli che hanno un controllo glicemico sub-ottimale 76, una maggiore durata del diabete, microangiopatia 7778 ed iniziali segni di macroangiopatia 79 80. In assenza di microangiopatia, i soggetti affetti da diabete di tipo 1 mostrano già una significativa deplezione di cellule progenitrici rispetto ai controlli, a parità di età e sesso 80. Quindi, le precoci alterazioni delle EPC suggeriscono un possibile coinvolgimento di queste cellule nella fisiopatologia della malattia e nelle sue complicanze.

Anche l’insulino-resistenza ha un impatto negativo sul bilancio tra riparazione e danno endoteliale in quanto lo spettro di anomalie biochimiche associate all’IR interferiscono negativamente con la riparazione vascolare EPC mediata.

In condizioni di IR esiste una ridotta immissione di EPCs in circolo ed una loro diminuita capacità funzionale: ciò potrebbe spiegare, in parte, la ridotta capacità rigenerativa dei vasi e l’aumentata propensione alla formazione di lesioni aterosclerotiche. L’effetto negativo dell’IR è suffragato dal fatto che i parametri di funzionalità delle EPCs migliorano, indipendentemente dal controllo glicemico, in seguito al trattamento con rosiglitazone, un farmaco che migliora l’insulino-resistenza.

In uno studio del 2005 81 fu documentato l’effetto negativo dell’iperglicemia sulle EPCs. È stato dimostrato come la coltura di cellule mononucleate periferiche provenienti da donatori sani in iperglicemia fosse associata ad una significativa riduzione nel numero delle EPC, ad una

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