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L'onere della prova e l'idoneità dei modelli: sospetti di illegittimità costituzionale all'interno del processo 'de societate'

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(1)

D

IPARTIMENTO DI

G

IURISPRUDENZA

Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza

L’

ONERE DELLA PROVA E L

IDONEITÀ DEI MODELLI

:

SOSPETTI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

ALL

INTERNO DEL PROCESSO DE SOCIETATE

I

L

R

ELATORE

Chiar.mo Prof. Luca Bresciani

I

L

C

ANDIDATO

Guglielmo Sacco

(2)

1

A Carlo,

grazie per averci

regalato il tuo sorriso…

(3)

2

INDICE

CAPITOLO PRIMO

Introduzione alla responsabilità degli enti

1. Societas delinquere potest aut non potest? p. 4 2. Dagli white collar crimes ai disastri recenti 13

2.1 L’incidente ferroviario di Viareggio 21

3. Le soluzioni adottate all’estero 23

4. La regolazione in Italia 32

4.1. Le fonti del diritto internazionale e comunitario 32

4.2. La legge delega n. 300\2000 ed il decreto legislativo 231\2001 38

CAPITOLO SECONDO

Natura della responsabilità e onus probandi

1. L’annosa questione sulla natura della responsabilità degli enti 43 2. L’onere della prova in ambito civilistico ed amministrativo 50 3. La presunzione di innocenza come regola di giudizio nel processo penale 57

4. Prime conclusioni iniziali 66

CAPITOLO TERZO

L’onere della prova nel processo agli enti

1. Verso una “problematica” inversione dell’onere della prova: l’art. 6 68 1.1 La recentissima decisione del Tribunale di Lucca 79 2. Questioni preliminari sull’adozione del modello di organizzazione e

gestione 83

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3

3.1. Il ruolo (funzionalmente) trasversale dell’organismo di vigilanza 92 3.2. Il modello eluso “fraudolentemente” dagli apici 96 3.3. L’adozione del modello post factum 99 4. La “normalizzazione” dell’onere della prova per i soggetti sottoposti

all’altrui direzione 100

CAPITOLO QUARTO

La prova dell’idoneità del modello di organizzazione e gestione

1. Introduzione 104

2. L’evanescenza del concetto di “idoneità” del modello di organizzazione e

gestione 112

3. L’idoneità del “documento di valutazione dei rischi”: ancora sull’incidente

ferroviario di Viareggio 116

4. Il caso “Impregilo” e la nuova definizione di vulnus accettabile 120

5. L’”adeguato” modello post factum 125

6. L’”efficace attuazione” del modello: tra ruolo dell’organismo di vigilanza

e idoneità del sistema disciplinare 129

7. La certificazione e la perizia sul modello 134

Bibliografia 141

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4

CAPITOLO PRIMO

Introduzione alla responsabilità degli enti

SOMMARIO: 1. Societas delinquere potest aut non potest? – 2. Dagli white collar crimes ai disastri recenti – 2.1 L’incidente ferroviario di Viareggio – 3. Le soluzioni adottate all’estero – 4. La regolazione in Italia – 4.1. Le fonti del diritto internazionale e comunitario – 4.2. La legge delega n. 300\2000 ed il decreto legislativo 231\2001

1. SOCIETAS DELINQUERE POTEST AUT NON POTEST?

Risulta molto difficile, alla luce dei recenti sviluppi normativi, giurisprudenziali ed accademici, capire se le società, enti contemporaneamente collettivi ed impersonali, siano “punibili” o meno, intendendo con “punibile” la possibilità di poter applicare a questi una sanzione di natura prettamente penale.

Sicuramente, l’antico brocardo latino “societas delinquere non potest” è stato messo a dura prova (se non addirittura invertito in societas delinquere potest) da tutti quegli istituti ed atti legislativi che, all’interno dei vari ordinamenti nazionali (In Italia domina la scena il d. lgs. 231\2001), hanno posto in capo alla società una responsabilità sanzionata per fatti propri degli organi di comando dell’ente, o di singoli soggetti aderenti al contesto sociale. Per poter apprezzare appieno la reale portata di questa rivoluzione copernicana1 del diritto penale, è necessario capire da quali idee sorga il sistema tradizionale della non punibilità dell’ente collettivo, e successivamente quali idee

1A. MANNA, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un

primo sguardo di insieme, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2002, n. 3, pag. 501

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5

lo hanno messo in crisi, per provare infine a rispondere alla cruciale domanda: societas delinquere potest aut non potest?

Prima di tale rivoluzione, le societates non sfuggivano alle maglie della legge, la quale riusciva a disegnare su di esse un qualche profilo di responsabilità e conseguentemente di punizione: in particolare, l’ordinamento italiano approntava forme di responsabilità indiretta e sussidiaria per l’ente, di carattere prettamente civilistico-solidale; a titolo di esempio, si veda l’art. 197 c.p.2, la c.d.

“obbligazione civile delle persone giuridiche” per il pagamento di multe e ammende, attraverso la quale si applicava all’ente una sanzione amministrativa corrispondente alla pena pecuniaria, in caso di insolvibilità del dipendente la cui condanna derivava dalla violazione degli obblighi scaturenti dalla carica che rivestiva, o da atti commessi nell’interesse della persona giuridica. Insomma: una responsabilità sussidiaria per l’ente, derivante da reati commessi da soggetti individuali.

Tale tipo di responsabilità tuttavia ha manifestato i propri punti deboli sul piano dell’efficacia: in particolare, queste forme di sanzione non riuscivano né a reprimere i reati né tanto meno a prevenirli.

Principalmente per i suoi risvolti pratici, si doveva dare ragione rebus sic stantibus a quel filone di pensiero sviluppatosi durante il periodo illuminista, sfociato nell’elaborazione della teoria finzionistica (Fiktionstheorie), che vede gli enti come delle mere fictiones iuris, finzioni giuridiche create dagli uomini per soddisfare interessi ed

2 Art. 197 c.p.: «Gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le regioni,

le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l'amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell'interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta. Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato le disposizioni dell'articolo 136».

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6

aspirazioni di natura economica, strumenti che presentano un deficit assoluto di qualità volitive, e quindi caratterizzati da una intrinseca ed oggettiva impossibilità di configurare, a carico di questi, una responsabilità sanzionata da una norma di natura penale3: da questa idea sorgerà il principio dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche, principio che non ha visto crisi e che è stato assunto come vero e proprio dogma, almeno fino a tempi recenti.

Al centro del sistema penale tradizionale dunque non compariva affatto la società: la scena era dominata esclusivamente dal singolo individuo, in quanto unico soggetto in grado di poter fare proprie le qualità di innocente o colpevole; su di esso si incentrava storicamente l’intera architettura generale del reato, nonché l’elemento psicologico, ed ovviamente la sanzione. In particolare, il dolo e la colpa in tutte le loro accezioni sono stati da sempre concetti riferiti ad un “uomo” propriamente detto, in quanto essere dotato di capacità intellettive, che si esplicavano sul piano ontologico nel volere (o non volere) il realizzarsi del reato; allo stesso modo la sanzione, definibile come il “braccio armato” della norma affiancato al precetto, colpiva (e colpisce ancora oggi) con le pene dell’ergastolo, della reclusione e dell’arresto la libertà del singolo, specificamente la libertà di movimento e la libertà di azione, libertà che attengono alla dimensione strettamente corporale.

Tornando agli enti collettivi invece, si ricordi l’espressione, propria della dottrina inglese: «no soul to be damned, no body to be

kicked»4: concetti come “dolo”, “colpa”, “reclusione” storicamente

intesi mal si adattano all’ente collettivo, proprio perché non dotato “né di un corpo né di un’anima”. E’ chiara l’incompatibilità di tali caratteristiche con quelle delle societates, così come sono chiare le

3F.C.SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (Sistema del diritto romano

attuale), Berlino, 1840 - 1849

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7

forzature del sistema penale, commesse nel voler estendere quest’ultimo alle società stesse.

A confermare il brocardo societas delinquere non potest, facendolo assurgere al livello di vero e proprio dogma, influirà definitivamente l’art. 27 della nostra Costituzione, che al primo comma recita: “La responsabilità penale è personale”.

Tale formula lapidaria ha concorso a far sì che le società fossero definitivamente escluse dal sistema penale: una sorta di “incapacità di essere colpevole”, “incapacità di azione” e “insensibilità alla pena”. Mancando i caratteri psicofisici propri ed esclusivi dell’uomo inteso come essere umano, non si potrebbe dunque parlare di “persona” propriamente intesa nel fare riferimento alla societas.

Seppur corrette nell’analisi del dato reale ed ontologico, descrivendo la società come ente la cui volontà sia in realtà volontà di più soggetti individuali o, al più, di un organismo impersonale non meglio individuato, e quindi di fatto un ente privo di una volontà che abbia il carattere della suitas, tali letture dell’art. 27 comma I risultano contestabili.

L’argomento della non estendibilità di tale norma alle societates si incentra sulla lettura dell’aggettivo “personale” e dunque sul concetto di “persona” utilizzando un’interpretazione che richiama il significato proprio delle parole ex art 12 delle disposizioni sulla legge in generale (cc.dd. Preleggi), tuttavia in modo non completo; simile concetto risulta composto, secondo quelle che sono state le intenzioni del legislatore del 1942, da due sub-concetti particolari e differenti, entrambe sussumibili nel concetto generale di “persona”, ossia la persona fisica e la persona giuridica. Il fatto che un ente collettivo sia sussumibile nel genus persona giuridica non lo esclude affatto dall’essere anche ed in primis “persona”, anzi: è esattamente il contrario. Proprio perché lo stesso ente collettivo è persona giuridica, egli è prima di tutto “persona”, e solo in secundis anche giuridica. In sintesi, una lettura del I° comma dell’art. 27 Cost. che escludesse le

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società dal concetto di persona, non coglie la fondamentale distinzione che il nostro ordinamento appronta all’interno del codice civile, rubricando il Titolo I ed il Titolo II del libro primo rispettivamente “Delle persone fisiche” e “Delle persone giuridiche”; al contrario, una interpretazione letterale più precisa, che guardi a come la legge inserisca nel genus persona entrambe le species di persona fisica e giuridica indicate del codice civile, risulta senza dubbio più corretta, senza tuttavia apparire come una costrizione per l’impianto costituzionale, ma riconoscendo una dicotomia essenziale stabilita a livello legislativo.

Oltre a questo punto, l’art. 27 è stato utilizzato dagli interpreti per escludere l’applicabilità delle norme penali alle società in riferimento al suo terzo comma: “le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”. La funzione rieducativa della pena risulta essere un argomento assai più convincente se confrontato con quello basato sul carattere personale della responsabilità penale, così come sopra descritto.

Può dunque una società essere rieducata? Se con il termine “rieducazione” si intende quel processo psicologico proprio dell’essere umano che conduca alla conversione di valori acquisiti in un dato contesto sociale, i quali si pongono in un rapporto di causalità rispetto ad un qualsiasi reato commesso, la risposta non può che essere negativa; de plano tale concetto di rieducazione, proprio del diritto penale tradizionale orientato al personalismo, non può che essere collegato con reati commessi da una persona fisica (o più persone fisiche in concorso tra loro), unica categoria di soggetti in grado di acquisire a livello psicologico dei “valori” propriamente intesi. Tale lettura è quindi incompatibile con un soggetto persona giuridica.

Tuttavia il concetto di rieducazione può essere visto come un vero e proprio inserimento (laddove mancanti in concreto fin dall’inizio) o reinserimento (laddove presenti all’avvio dell’attività d’impresa, e successivamente perduti o abbandonati) di diritti e valori

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tutelati dall’ordinamento, sia a livello costituzionale sia a livello legislativo, direttamente all’interno dello statuto e del contesto propriamente aziendale. Può essere fatto a tal proposito l’esempio paradigmatico del diritto alla salute: laddove la società si renda in qualunque modo responsabile di una lesione di tale diritto, si può considerare rieducativa una sanzione in grado non soltanto di eliminare la stessa lesione, ma soprattutto in grado di prevenire altre lesioni simili a questa per il futuro.

Proprio una tale rinnovazione della società conduce al traguardo special-preventivo consistente nella “risocializzazione del reo”, pensato appositamente per le persone fisiche, ma a ben vedere applicabile senza troppi disturbi anche alle persone giuridiche: se per le prime il contesto sociale in cui si auspica il reinserimento è la vita di tutti i giorni senza alcuna limitazione nella libertà di movimento, per le seconde lo stesso contesto sociale in cui debbono essere inserite attraverso la pena non sarebbe altro che il mercato, un contesto stavolta non sociale in senso stretto, ma più propriamente socio-economico ed imprenditoriale, in cui gli enti collettivi possono e debbono operare senza alcuna limitazione o gravame, ma rispettando quei diritti fondamentali che sia la costituzione sia la legge riconoscono alla base dell’ordinamento5.

Queste prime riflessioni cercano di chiarire da un punto di vista prettamente teorico la questione; ma le ragioni senza dubbio più pregnanti che hanno portato ad una revisione del dogma dell’impunità degli enti collettivi si rinvengono espressamente sul piano pratico: i grandi cambiamenti socio-economici dell’età moderna e contemporanea hanno fatto emergere peculiari reati, posti in essere in forma organizzata all’interno delle stesse società, orientate al massimo profitto, che si sono rivelati a ben vedere assai più nocivi e più dannosi

5 per tutti, M. SILANO, I presupposti costituzionali della responsabilità degli enti

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di quelli indagati dalle scienze giuridiche in tutti i secoli precedenti; reati che de facto sono espressione dell’interesse degli apici dell’ente, e dei loro più vicini subordinati, ma che sono stati altresì adottati come diffusa politica aziendale, tanto da porre l’illiceità e l’illegalità all’origine ed al fondamento della stessa attività d’impresa6.

Da un punto di vista criminologico, il reato commesso all’interno dell’organizzazione tende a diminuire la resistenza opponibile dal singolo all’impulso criminoso, far assopire le inibizioni ed aumentare l’aggressività dell’individuo; tutto ciò grazie all’attività di “schermo” che la società opera nei confronti di coloro che operano in essa. All’interno della realtà dell’impresa, comportamenti criminosi sono indotti dalla segretezza dei processi di decisione posti a base delle scelte sociali, derivanti da una ricerca della massimizzazione del profitto sfrenata: la stessa persona fisica è resa bersaglio di condizionamenti, pressioni ed incentivi da parte degli organi superiori, che la invogliano alla commissione del reato e che le impediscono altresì di fuggire la condotta criminosa, traducendosi l’eventuale scelta di non delinquere o addirittura di denunciare l’attività illecita in corso di compimento (i cc.dd. “whistleblowers”7, suonatori di fischietto), in una possibile perdita di lavoro o altri fenomeni di mobbing, che comportano poche conseguenze per chi li commette, ma pesanti conseguenze per chi li riceve.

6G. GARUTI, Premessa a AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi

dipendenti da reato, Milano, 2002: «l’introduzione nel nostro ordinamento della diretta responsabilità sanzionatoria degli enti (…) tende a reprimere quella che ormai è una delle principali e più pericolose manifestazioni di reato, vale a dire l’illegalità d’impresa».

7AA.VV., Il whistleblowing. Nuovo strumento di lotta alla corruzione, Roma, 2011;

importante è anche la filmografia sul fenomeno del whistleblowing, di cui si ricordano The informant!, film del 2009 di S. SODERBERGH, e The Whistleblower, film del 2010 di L. KONDRACKI

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Importante è stato anche il fenomeno della decentralizzazione delle imprese e, con esse, dei centri decisionali degli organismi societari: l’effetto di un tale processo è stato senza dubbio una perdita della lineare distinzione delle funzioni organizzative interne, ed una distribuzione precisa e puntuale delle competenze di vertice. Alla fine, la polverizzazione delle responsabilità dei singoli soggetti, la loro flessibilità nelle posizioni assunte all’interno dell’organigramma societario e la “colpevolezza diffusa” che si riscontra, porta anche alla inconsapevolezza, da parte del singolo soggetto, di aver preso parte ad un disegno criminoso; senza poi considerare che, in una tale situazione paradossale, viene meno addirittura l’elemento della colpevolezza anche per il reo persona fisica: uno stravolgimento totale del diritto penale.

Questi fenomeni non avvengono per pura casualità: a colui che opera in un contesto sociale, infatti, viene richiesto un sempre più alto livello di specializzazione in un singolo settore, e questo fatto non gli permette di avere cognizione su che cosa fa (e soprattutto come, e con quali intenti) il suo collega, il quale, seppur operando nel medesimo processo produttivo ma in un differente settore dello stesso, potrebbe compiere un illecito che rischia di ripercuotersi sul collega innocente. Ancor di più tutto questo avviene laddove vi è un vuoto di comunicazione tra fasi di lavoro: ogni fase avviene separata, scissa, in totale autonomia dalle altre, e ciò rende ancora più frammentata la consapevolezza dei singoli sui processi aziendali. Anche per questo punire il singolo in luogo della società risulta essere un palese aggiramento dei principi costituzionali, vista inoltre la facilità con cui l’ente collettivo può cambiare le componenti soggettive espresse dal personale, sostituibile senza alcuna difficoltà e meramente strumentale al raggiungimento degli scopi economici.

Alla luce di queste e di altre considerazioni, negli anni ’70 un nuovo indirizzo all’interno della dottrina cominciò a prendere piede, andando contro tutte quelle che erano le idee precedenti e cercando di

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dimostrare la fallacia sottostante al dogma dell’impunibilità delle società. L’autore che più di tutti è andato in tale direzione è senz’altro Franco Bricola, il quale rintracciava i problemi che tale principio dà soprattutto da un punto di vista economico e pratico8.

Egli riconosceva un’autonomia soggettiva alle persone giuridiche anche in materia penale, autonomia che non può in alcun modo violare il principio di responsabilità per fatto proprio anche se permane una distinzione non solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale, tra esecutore materiale della condotta ed ente giuridico rappresentato.

A fronte di tale inquadramento d’insieme in merito alla vexata quaestio della punibilità delle societates, occorre allora tentare di dare una risposta alla domanda postasi all’inizio della trattazione: societas delinquere potest aut non potest?

La difficoltà riscontrabile nell’impostazione della questione deriva non tanto dalla inapplicabilità di concetti propri del diritto penale esclusivo della persona ad enti collettivi, quanto piuttosto dalla formulazione della questione stessa e dei termini entro cui viene posta: più che domandarsi se una società possa commettere reati, è assai più utile e fruttuoso interrogarsi sulla possibilità dell’ordinamento di approntare un sistema sanzionatorio idoneo allo scopo. Affinchè ciò avvenga, tale ipotetico apparato dovrebbe presentare tre caratteri fondamentali, ossia:

8 F. BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest”, in Rivista

italiana di diritto e procedura penale, 1970, p. 1031: «La società nel sistema capitalistico sfuggiva alla possibilità di sanzioni attraverso motivazioni dogmatiche, ossia la tendenza esclusiva a tutelare il buon funzionamento e la prosperità economica delle società (…).

La morale è semplice e ovvia: il potere economico è guidato da leggi che coincidono solo in parte e fin dove ad esso conviene con il diritto. E ancora: il principio societas delinquere non potest non ha un valore ontologico ma è espressione della forza delle leggi del potere economico: ove questa non viene in gioco, il principio si sfalda, come dimostrano i vari tentativi di incriminare gruppi associativi a sfondo politico».

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1) la conformità delle sanzioni alle caratteristiche di una persona giuridica, intesa come ente autonomo rispetto alle persone fisiche che la compongono;

2) la conformità rispetto alle norme ed ai principi costituzionali;

3) l’efficacia ed efficienza delle possibili sanzioni approntate, sia sul versante preventivo generale e speciale sia sul versante repressivo.

Riformulata in tal senso, la questione correttamente posta potrebbe apparire questa: societas puniri aut non puniri potest?

Una cosa è certa: è apparso negli ultimi anni (ed appare ancora oggi) senz’altro opportuno, alla luce dei fenomeni dell’economia mondiale, dar vita ad un sistema in grado di frenare gli impulsi criminali derivanti dalla dirompente legge del mercato, per cui è d’obbligo massimizzare il profitto con il minimo costo o impiego di risorse, anche se ciò comporta aggirare le norme positive a discapito della legalità9.

La seguente domanda potrebbe allora essere: ci siamo finora riusciti?

2. DAGLI WHITE COLLAR CRIMES AI DISASTRI RECENTI

Come si è osservato nel paragrafo precedente, l’esigenza di punire le società viene avvertita soprattutto a partire dai grandi cambiamenti economici dell’epoca moderna: le innovazioni tecnologiche hanno portato un notevole aumento di incidenti non soltanto di dimensioni mai viste finora, ma soprattutto in grado di

9 A. ALESSANDRI, Premessa a Diritto penale e attività economiche, Bologna, 2010:

«Di fronte a noi si erge il sicuro e robusto protagonista del capitalismo moderno, la creatura generata dall’ingegno economico e organizzativo dell’uomo. Egli non produce più per consumare, subito e per sé, ma per scambiare e arricchirsi: creatura a tal punto cresciuta, in estensione e potenza, da sconvolgere e pregiudicare niente meno che gli equilibri biologici del pianeta, mettendo in discussione il suo futuro, producendo immani ricchezze a fianco di voragini di povertà»

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colpire ogni persona in qualsiasi momento. Emblematico è l’esempio della nascita del treno e della ferrovia, la cui ideazione fece sì che i pericoli si disseminassero ovunque e si ingigantissero enormemente10.

Per descrivere tale stato di cose si introdusse la nozione di “rischio”11, fino a quel momento propria degli studi economici, e

raramente applicata al diritto penale se non in merito al concetto di colpa, intesa come “rischio consentito”; in particolare, i disastri moderni risultavano (e risultano ancora oggi) assai poco prevedibili, essendo i fattori causali talmente complessi da sfuggire molto spesso al controllo dell’uomo: questa imprevedibilità distingue il concetto di rischio da quello di “pericolo”12.

10 A.ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 70: «l’avvento dei

mezzi di trazione a vapore e, prima di tutti, della ferrovia avrebbero plasticamente dimostrato il cambiamento di passo e di ordine di grandezza che caratterizzavano le possibili ricadute degli incidenti. Si vedrà, per esempio, che proprio la ferrovia fu, davvero non casualmente, all’origine di un nuovo tipo di responsabilità penale, esteso anche a soggetti che non avevano nulla di umano, ossia le persone giuridiche». Ancora in tal senso N. LUHMANN, Sociologia del rischio, Milano, 1996, p. 98: «(…) si sono raggiunti ordini di grandezza quantitativi inediti, per quanto riguarda tanto i possibili danni che i possibili benefici».

11 U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, 2000 12 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., pp. 74,75: : «La

differenza tra rischio e pericolo si staglia, a questo punto, in termini concettualmente distinti, anche se sovente mescolati nel linguaggio comune e frequentemente in quello legislativo recente.

Il pericolo rimanda ad una cultura che presuppone la calcolabilità, anche probabilistica, degli effetti (negativi) che si possono attendere da una determinata situazione, statica o dinamica. (…) Il concetto di pericolo si presenta sostanzialmente impermeabile ad una valutazione soggettiva, non è considerato nelle sue declinazioni percettive (salvo ovviamente il risalto sulla colpevolezza): anzi, lo sforzo è di ricondurre la valutazione del pericolo a criteri generali e oggettivi, che ne consentano l’inserimento in fattispecie incriminatrici senza distruggerne la precisione e tassatività. La nozione tradizionale di pericolo si alimenta di un sapere nomologico, che possa cioè mettere in campo leggi generali sulle quali basarsi, nel segno di una rassicurante razionalità epistemologica e di una capacità di spiegazione degli eventi.

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Insomma: la presenza della tecnologia nella vita quotidiana e la moltiplicazione delle fonti potenziali di danno rendono sempre più impellente la necessità di risolvere il problema della mancanza di una regolamentazione tesa a prevenire tali eventi, e punirne in maniera opportuna i responsabili. Proprio questi ultimi, tuttavia, sono difficili da individuare: le singole persone fisiche, intranee al contesto societario, non risultano mai colpevoli in toto; paiono invece partecipare inconsapevolmente a quella catena di atti e di scelte che conduce infine alla realizzazione di un reato dai contorni e perimetri giganteschi. E’ necessario allora cercare un altro tipo di soggetto imputabile, il cui collegamento con l’evento possa apparire fin da subito chiaro e diretto; e tale soggetto non può che essere la persona giuridica.

Oltre a tutto ciò, si registra nella prima metà del Novecento un incremento degli studi aventi ad oggetto la criminalità d’impresa e dei soggetti che operano all’interno di questa, i cc.dd. white collar

crimes13, i crimini dei “colletti bianchi”: così venivano comunemente

definite le persone appartenenti agli alti ceti sociali che lavoravano nel mondo della grande imprenditoria e della finanza, i quali indossavano camicie bianche; si differenziavano da questi le persone di ceto sociale più basso, le quali indossavano invece camicie colorate14.

Il primo a parlare di questo genere di criminalità è stato Edwin Sutherland, il cui lavoro venne pubblicato nel 1939; ampliato poi nel 1949, si arriverà alla pubblicazione integrale del testo soltanto nel 1983, poiché fino ad allora gli editori si rifiutarono di pubblicare il

Al contrario il rischio (…) può essere vagamente definito come la probabilità di un evento, combinata però con la grandezza delle perdite stimate o temute: si badi oggettivamente stimate (…). E’ la magnitudo, combinata con la temibilità che costituisce l’elemento indefettibile del concetto di rischio»

13 E. H. SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale, Milano,

1987

14 G. PONTI I. MERZAGORA BETSOS, Compendio di criminologia, V° edizione,

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16

testo, che indicava i vari nomi delle società che erano state al centro dell’indagine15.

Al di là dei risultati cui è pervenuto, interessante è senza dubbio il metodo di ricerca del criminologo americano. Egli infatti ha avuto una doppia intuizione: la prima è stata quella per cui i reati dei colletti bianchi, seppur meno stigmatizzati dall’opinione pubblica (la cui morale viene peraltro guidata da coloro che hanno il controllo dei mass media e diffondono i valori propri dell’upper class) e meno colpiti anche nelle aule dei tribunali (poiché chi ricopre le cariche della magistratura condivide gli stessi ideali economici di chi commette tali crimini), producono conseguenze assai più nefaste e devastanti di quelle prodotte dalla criminalità comune, data la portata e l’ampio spettro di persone sulle quali ricadono gli effetti.

La seconda intuizione, invece, è quella che ha condotto Sutherland ad analizzare questi fenomeni esclusivamente all’interno di contesti societari16: la criminalità che si va ad analizzare è una criminalità che fa dell’organizzazione la sua principale forza; essa

15 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 57: «Singolari

vicissitudini di un libro, che ci riporta indietro di due secoli, alle edizioni clandestine degli illuministi (per esempio, Beccaria). Esse dimostrano quanto l’indagine del sociologo americano toccasse un nervo scoperto, la cui irritazione si dimostrava capace di paralizzare, almeno in parte e per lungo tempo, il contributo originale».

16 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 58: «con

certosina pazienza, S. prese come oggetto d’indagine le vicende di settanta società americane tra quelle incluse negli elenchi delle duecento maggiori società non finanziarie degli Stati Uniti (…). L’arco temporale tenuto in considerazione nell’analisi fu di circa quarantacinque anni, che costituiva mediamente la vita di queste società. Rispetto a questo campione, Sutherland considerò non soltanto i reati, i procedimenti penali e le condanne, ma anche altri comportamenti illeciti che erano sanzionati, per esempio, in sede amministrativa: spaziando dalla violazione della normativa antitrust, alla pubblicità ingannevole, agli illeciti in materia di lavoro, alle usurpazioni delle privative industriali.»

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entra a far parte del contesto plurisoggettivo tanto da risultarne elemento caratterizzante tutta la sua vita17.

Proprio per questo, la ricerca di Sutherland costituisce un vero e proprio spartiacque nella criminologia e nel diritto penale in genere: da quel momento non si guarderà più alle società come ad enti impersonali, costituiti da persone fisiche appartenenti alle classi sociali più elevate, e per questo esenti dal commettere crimini in senso comune; al contrario, si guarderanno i colletti bianchi come persone assolutamente in grado di porre in essere reati di natura economica, e le società come contesti collettivi in cui si perseguono crimini, giustificati dal privilegio degli affari (c.d. double standard18), assai più dannosi della delinquenza comune per la collettività.

Vi sono molti esempi di eventi che hanno preso origine in un contesto societario o comunque di gruppo, e che hanno prodotto effetti talmente sconvolgenti da cambiare gli equilibri dell’intero pianeta, siano essi economici, siano addirittura biologici: per fare solo alcuni esempi di tali “scandali” o “disastri” (così chiamati in gergo giornalistico), si possono citare quello facente capo alla società statunitense Enron operante nel campo dell’energia, il cui crollo finanziario, dovuto a frodi ed occultamenti di vario genere, avrebbe dato origine ad una vera e propria crisi di settore, portando alla caduta in parallelo di molte altre società legate ad essa19; o ancora l’incidente di Bhopal avvenuto nell’omonima cittadina indiana il 3 dicembre 1984, ed i disastri nucleari di Chernobyl e di Fukushima Dai-ichi, avvenuti rispettivamente in URSS il 26 aprile 1986, e l’11 marzo 2011 in Giappone, i quali hanno causato non soltanto un numero elevatissimo di vittime (sia poco dopo gli incidenti sia dopo molti anni

17 E. H. SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale, op. cit., p.

292: «quelli dei colletti bianchi non sono soltanto crimini premeditati, ma anche crimini organizzati».

18 E. H. SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale, op. cit., p.

157

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da essi, a causa dei fumi tossici emanati o delle radiazioni), ma soprattutto dei danni ambientali la cui enormità li rende ancora difficilmente calcolabili.

L’Italia, dal canto suo, non è un paese esente né da scandali finanziari né da disastri devastanti. Tra questi ultimi, l’evento tragicamente più rilevante è forse la strage avvenuta il 9 ottobre del 1963 a Longarone, noto come “disastro del Vajont”, che cagionò ben 1909 vittime20. Tale incidente fu causato dalla frana che si staccò dal

Monte Toc e finì direttamente nel lago artificiale creato a seguito della costruzione della diga lungo il corso del fiume Vajont, da cui la stessa prende il nome21.

Il fatto, che richiamò l’attenzione di tutta la nazione e di molti paesi esteri, fu seguito dall’apertura di una Commissione parlamentare d’inchiesta per accertare le cause prossime e remote della catastrofe22.

20 in www.vajont.net, Elenco delle vittime, consultato il 3 giugno 2017

21 in www.vajont.net, consultato il 3 giugno 2017: «La frana che si staccò alle ore

22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini.

(…) Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. (…) Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale. Si era consumata una tragedia tra le più grandi che l'umanità potrà mai ricordare»

22 Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont,

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Soltanto dopo numerosi dibattiti, processi penali e civili, opere di letteratura, le cause sono state attribuite alla negligenza degli ingegneri della Società Adriatica di Elettricità (SADE), ente gestore dell’opera idraulica fino alla nazionalizzazione, i quali occultarono e coprirono la non idoneità dei versanti del bacino, data la struttura del terreno; dopo la costruzione della diga si scoprì, infatti, che i suddetti versanti avevano caratteristiche morfologiche (incoerenza e fragilità) tali da non renderli adatti ad essere lambiti da un serbatoio idroelettrico23. Nel

corso degli anni l'ente gestore e i loro dirigenti, pur a conoscenza della pericolosità, peraltro supposta inferiore a quella effettivamente rivelatasi, coprirono con dolosità i dati a loro conoscenza, con beneplacito di vari enti a carattere locale e nazionale, dai piccoli comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici24.

Più recente, il disastro della Val di Stava: il 19 luglio 1985 i bacini di decantazione della miniera di Prestavel ruppero gli argini, scaricando enormi quantità di fango sulla piccola frazione di Stava, e provocando la morte di 268 persone25. La Commissione ministeriale d'inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di Trento accertarono che: « tutto l'impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L'impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l'esistenza di intere comunità umane. L'argine superiore in particolare non poteva che crollare alla minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio»26.

23Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, cit. 24 per tutti T. MERLIN, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del

Vajont, Verona, 1993

25 in www.stava1985.it, consultato il 5 giugno 2017

26Relazione della commissione ministeriale tecnico-amministrativa d’inchiesta sul

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Le parole più significative, tuttavia, furono pronunciate dal giudice istruttore del Tribunale di Trento: « se a suo tempo fosse stata spesa una somma di denaro e una fatica pari anche soltanto ad un decimo di quanto si è profuso negli accertamenti peritali successivi al fatto, probabilmente [...] il crollo di quasi 170 mila metri cubi di fanghi semifluidi non si sarebbe mai avverato»27.

Anche in tal caso, la responsabilità è da attribuire28 alle società

che gestivano a quel tempo il distretto minerario (Montedison Spa, Industria marmi e graniti Imeg Spa per conto della Fluormine Spa, Snam Spa per conto della Solmine Spa, Prealpi Mineraria Spa).

Questi eventi, che hanno lasciato dietro di sé lunghe scie di vittime, e che hanno visto al centro delle questioni sulla responsabilità proprio enti giuridici collettivi, possono essere affiancati ad altri due casi tutti italiani in cui le società sono coinvolte in prima battuta in vicende criminali: il riferimento è ovviamente ai casi Parmalat e Cirio, due grandi gruppi in cui si sono perpetrati numerosi reati di stampo prettamente economico.

In merito al primo, il crac della societas parmense può essere definito come il più grande scandalo di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio perpetrato da una società privata in Europa, che ha provocato un buco (mascherato dal falso in bilancio) di circa quattordici miliardi di euro 29 : tale grave ammanco ha colpito soprattutto i risparmiatori, i quali, avendo investito il loro denaro in titoli Parmalat, si sono ritrovati a mani vuote nel giro di pochissimo tempo. Passando al secondo, il caso Cirio ha costituito un chiaro esempio di come lo strumento societario poteva (e può) essere usato per nascondere crimini economici giganteschi non soltanto in forma

27Sentenza-ordinanza in data 25 maggio 1987 del giudice istruttore del Tribunale di

Trento, dott. Carlo Ancona

28 Cass. 22 giugno 1992 n. 5487

29P.BIONDANI, Associazione per delinquere nel crac Parmalat, in Corriere della

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singola da un’unica società, ma, in maniera ancora più dispersiva, evasiva e distruttiva, nella forma del gruppo di società, in cui la

holding indirizza le altre, cc. dd. “società figlie”30, verso una politica

societaria che promuove l’illegalità.

La conclusione scaturente dalla disamina di questi scandali, è che essi trovano la loro ragion d’essere nel sistema capitalistico e nella sfrenata ricerca di profitto; e se tale sfrenatezza conduce alla delinquenza, la delinquenza non può che produrre l’instabilità del sistema economico e soprattutto sociale31.

Un sistema in grado di prevenire e reprimere reati societari, intendendo la società sia come soggetto sia come contesto criminale, appare dunque un’esigenza improcrastinabile degli ordinamenti giuridici moderni: come dimostrano gli esempi, una sua eventuale mancanza viene pagata dalla collettività con un prezzo altissimo, sovente espresso in vite umane.

2.1 L’INCIDENTE FERROVIARIO DI VIAREGGIO

Come già affermato in precedenza, la responsabilità degli enti è un ambito di studio e di indagine che ha preso piede dal verificarsi di numerosi fatti disastrosi, causati dall’impiego della tecnologia su larga scala in vari ambiti della vita quotidiana; disastri che, nonostante i miglioramenti apportati anche per quel che riguarda la sicurezza, continuano tragicamente ad accadere.

30 M. ONADO, I risparmiatori e la Cirio, ovvero: pelati alla meta (…), in Mercato

Concorrenza Regole, fascicolo 3, dicembre 2003, pp. 510, 511

31 F. TARGETTI, Crac finanziari e norme sul risparmio, in Il Mulino, fascicolo

2\2004, p. 246: «Questi crimini sono l’esasperazione patologica di un sistema che ha a suo fondamento l’arricchimento personale, ne minano la legittimità sociale e ne compromettono il funzionamento stesso. Il sistema capitalistico per sua natura è instabile e soggetto a crisi».

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Uno tra i più gravi eventi degli ultimi anni, accaduto in Italia e definito come “il più grande incidente ferroviario in Italia e in Europa degli ultimi 30 anni”32, è sicuramente l’incidente ferroviario di

Viareggio.

Alle 23:48 del 29 giugno 2009, il treno merci 50325 Trecate-Gricignano deragliò assieme al suo convoglio di quattordici carri cisterna contenenti GPL, per cause da collegare probabilmente al cedimento del carrello del primo carro cisterna. Fu dal primo carro, infatti, che, a seguito dell’urto con una infrastruttura circostante, fuoriuscì il GPL che dette immediatamente vita ad un incendio, ed in seguito ad un vero e proprio innesco.

I danni che vennero registrati furono subito enormi: ben 11 persone persero la vita in pochi minuti, a causa delle fiamme o del crollo degli edifici, altre persone furono uccisi da infarto immediato e decine di esse rimasero ferite; tra queste, i molti furono gravemente ustionati, e persero la vita anche a diverse settimane dall’incidente. I macchinisti riuscirono a ripararsi dietro ad un muro nelle vicinanze, che li riparò dalla fiammata generata dal gas.

Il convoglio deragliò in corrispondenza del sovrappasso pedonale che attraversava trasversalmente il fascio binari sud della stazione ferroviaria di Viareggio; numerosi edifici della zona furono in seguito abbattuti su ordinanza delle autorità comunali perché non più agibili a causa del forte stress termico subìto. In totale furono registrati ben 33 morti e 25 feriti.

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Al tragico episodio ha fatto seguito una lunga vicenda processuale, iniziata nel novembre 2011 e conclusasi in primo grado il 31 gennaio 2017, data in cui il Tribunale di Lucca ha emesso la sentenza, che condanna, tra gli imputati, a 7 anni e 6 mesi di carcere Michele Mario Elia (nel 2009 amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana), a 7 anni di carcere Mauro Moretti (nel 2009 amministratore delegato di Ferrovie dello Stato) e a 7 anni e 6 mesi Vincenzo Soprano, ex amministratore delegato di Trenitalia e di FS Logistica. Tutti e 33 gli imputati sono accusati, a vario titolo, di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali.

3. LE SOLUZIONI ADOTTATE ALL’ESTERO

Stando ai dati storici e fattuali, l’Italia non è stata tra i primi paesi a dare avvio a quei processi di sviluppo tecnologico, di industrializzazione e di grande produzione di massa che avrebbero portato, nei secoli diciannovesimo e ventesimo, ai cambiamenti dell’economia mondiale, posti all’origine dei reati societari: prima di passare in rassegna gli strumenti adottati in tale materia nel nostro ordinamento, è dunque necessario vedere come i paesi che hanno affrontato per primi tali problemi, abbiano cercato poi di risolverli.

I precursori degli istituti che oggi fungono da capisaldi nella materia che qui interessa sono sine umbra dubii i paesi di common law, i quali hanno compiuto il fondamentale passaggio che, essendo un soggetto individuale ed un ente collettivo collegati tra di loro mediante un rapporto organico, ha condotto all’elaborazione di una nuova colpevolezza d’impresa, attuale elemento basilare degli illeciti penali costruiti sui caratteri fondamentali della persona giuridica.

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Da un punto di vista strettamente storico, grazie a James Watt e alle invenzioni che sfruttavano la forza propulsiva del vapore33, la Gran Bretagna divenne a pieno titolo la culla della prima rivoluzione industriale; da qui l’esigenza di attrezzarsi di fronte ai possibili danni che da questa potevano scaturire. L’ordinamento inglese aveva elaborato ad hoc una serie di offences (di natura penale) cui era estraneo ogni problema inerente all’elemento soggettivo del reato: per giungere ad una imputazione, era sufficiente la c.d. strict liability, simile alla responsabilità oggettiva ed ancora presente nel sistema oltre Manica; connesso a questa, la law of torts aveva forgiato il principio del respondeat superior, tradottosi poi nell’espressione anglosassone vicarious liability34: concetti che si sostanziano in un modello teorico di fondo per cui il titolare dell’impresa o chi si avvale della cooperazione di soggetti sottoposti o subordinati, risponde del fatto illecito commesso da questi, nell’esercizio delle proprie attribuzioni; la responsabilità dell’autore materiale si cumula con la responsabilità del superiore. E’ grazie a queste teorizzazioni che nel 1842 si giunse alla prima condanna di una società, con la sentenza R. vs. Birmingham and Gloucester Railway Co35.

C’è da riscontrare tuttavia che il principio della vicarious liability, insieme allo schema della delegation principle, trovò una grande applicazione nella giurisprudenza, la quale riscontrava in esso l’unico mezzo di deterrenza nei confronti di tali crimini: «was not a legal theory, but pragmatism»36: non vi

33 egli definiva il vapore come “il primo esempio di Dio che si sottomette

all'uomo”. Si veda a tal proposito H. W. DICKINSON, James Watt: Craftsman and Engineer, Cambridge, 1935

34 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 202 35 C.H. HEWISON. Locomotive Boiler Explosions. Newton Abbot, 1983 36 A. ASHWORTH, Principles of criminal law, V° ed., Oxford, 2006, p. 114

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erano altri mezzi effettivi di deterrenza se non quelli applicati nei confronti della società37.

Solamente nei primi decenni del ventesimo secolo cominceranno ad emergere discussioni sull’elemento soggettivo; la “stretta responsabilità”, così come concepita dalla giurisprudenza inglese, non poteva più essere sufficiente, in quanto deficitaria di un elemento fondamentale del reato. Proprio per questo un altro principio si sostituì al precedente, ovvero il principio dell’immedesimazione (identification theory): di fronte a un crimine che richiedeva una particolare declinazione del dolo, si decise che gli stati mentali dei funzionari che avevano agito per la società potevano essere attribuiti alla società medesima, la quale si identificava con quei funzionari (di vertice) che per essa avevano agito, parlato o pensato38.

Come può ben vedersi, questa teoria appare diametralmente opposta a quella della responsabilità vicaria elaborata nel diciannovesimo secolo, ma non del tutto nuova alla scienza giuridica: infatti, nell’esperienza civilistica, tanto nei paesi di common law quanto in quelli di civil law, non trovava freni la riferibilità all’ente di quanto commesso dai suoi funzionari: simile meccanismo d’imputazione era anzi «alla base dell’attività ordinaria della persona giuridica, essenziale per lo svolgimento dei suoi affari»39; e l’applicazione in concreto di tale principio si avrà nel 1944, con le sentenze D.P.P. vs. Kent and Sussex Contractors, R. vs. ICR Haulage, Moore vs. I. Bresler.

Il punto della questione stava tuttavia nell’individuazione di quale tipo di funzionari potevano far sorgere in capo alla società una responsabilità di tipo penale: erano infatti questi che

37 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 202 38 A. ASHWORTH, Principles of criminal law, op. cit., p. 117

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26

davano alla società “body and soul”, un corpo e un’anima, una condotta ed una colpevolezza, che non potevano realisticamente essere propri di un ente collettivo: proprio in questo sta l’immedesimazione.

Dal caso sopra richiamato in poi (D.P.P. vs. Kent and Sussex Contractors), la giurisprudenza individuò nei vertici societari il gruppo che realizzava l’immedesimazione, in quanto - si diceva - la società agiva attraverso i suoi organi di vertice.

Tale linea di pensiero, la quale si proponeva come una sorta di “rasoio occamiano”40 della questione, non apparve poi

così risolutiva come avrebbe voluto essere: il principio di immedesimazione, posto in questi termini, trovò i propri limiti applicativi nella celeberrima sentenza Tesco Supermarkets Ltd vs. Nattrass del 1971, quando la camera dei Lord annullò la sentenza di condanna per la società, sostenendo che «l’autore del fatto – direttore di una succursale – non era in una posizione gerarchica sufficientemente elevata per rappresentare la mente e la volontà della società»41; ed allo stesso modo avvenne in due casi riguardanti due disastri navali importanti, quelli di Zeebrugge (1987) e di Southwall (1997)42: anche in tali casi mancarono le prove del coinvolgimento del gruppo manageriale più elevato, e, insieme a queste, elementi di negligenza.

Da tali punti deboli, cominceranno a prendere piede le cc.dd. “holistic theories”, le quali tenteranno di dare una risposta al problema mediante l’elaborazione di una autonoma “riprovevolezza” e “colpa d’impresa” 43 (corporate blameworthiness): tali teorie cercano di svincolare i criteri d’imputazione dagli elementi personalistici, per riconnetterli

40 G. DI OCKHAM, Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Firenze, 1991 41 A. ASHWORTH, Principles of criminal law, op. cit., p. 117

42 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 205 43 C. DE MAGLIE, Societas delinquere potest, Milano, 2002, p. 157

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direttamente con la società; per farlo tuttavia, occorrono dei parametri certi di colpevolezza (esattamente il contrario della colpevolezza del diritto penale dell’individuo), verificabili e numerabili, che possano ritenersi violati o non violati in maniera netta.

Oltre Oceano, le questioni che si pongono sono più o meno le stesse e, in tale prospettiva, lo sono state anche (in parte) le soluzioni: il criterio del respondeat superior e la vicarious liabilty furono infatti riconosciute anche negli Stati Uniti dalla celebre sentenza New York Central and Hudson River Railroad vs. United States, ma, come già visto in precedenza per i casi inglesi, il principio funzionava soltanto laddove l’illecito che si contestava all’ente fosse stato privo di una connotazione psicologica44.

Tratto caratteristico del panorama statunitense, poi ripreso anche nel nostro ordinamento, è stato quello dell’introduzione dei cc. dd. compliance programs, introdotti con la riforma delle Guidelines del 199145, e definibili come protocolli interni predisposti dall’impresa, i quali prevedono misure e procedure atte a neutralizzare le fonti di reato. Negli U.S.A. tali protocolli hanno un’efficacia duplice: da un lato attenuano la colpevolezza (vera e propria ottica di compliance), dall’altra possono indurre il prosecutor a non esercitare l’azione penale. E’ infatti questo organo del processo penale, definibile come il principale rappresentante legale dell’accusa in paesi di common law, che può disporre degli strumenti di compliance, in

44 A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, op. cit., p. 203:«Il ché

avveniva di frequente negli ordinamenti di common law (di allora, in specie), ma la regola della necessaria colpevolezza, soprattutto per gli illeciti di maggior gravità e di carattere meno spiccatamente regolamentare, avrebbe posto il problema del criterio d’imputazione soggettivo»

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un’ottica di ravvedimento operoso o di “colpa proattiva”46: l’ente

diverrebbe rimproverabile in tal caso solo dopo la commissione del reato, laddove non applichi i rimedi richiesti dall’accusa.

Le Guidelines del 1991 dettavano anche alcuni requisiti minimi per poter poi, in seconda battuta, applicare ed elaborare i compliance programs; essi erano

1) la capacità di ridurre la probabile commissione di nuovi reati 2) supervisori scelti per attuare il programma

3) la valutazione della propensione al reato nella scelta dei dipendenti

4) la previsione di una sorta di “comunicazione pedagogica” all’interno dell’azienda

5) l’instaurazione dei meccanismi di controllo e di canali di informazione interna

6) un apparato disciplinare

7) misure volte ad evitare, in caso sia stata accertata la commissione di un reato, una probabile reiterazione dello stesso.

Il sistema dei compliance programs si pone in un’ottica ben precisa: essi cercano da una parte di dettare criteri di “educazione alla legalità” per l’ente collettivo, mentre dall’altra mirano ad approntare un sistema sanzionatorio che interviene non tanto in un’ottica preventiva, quanto invece in un’ottica riparativa del danno prodotto dal reato; essi sono dunque uno strumento utilizzato non principalmente per far quadrare i problemi di imputazione soggettiva nei confronti delle società, quanto piuttosto per scongiurare i possibili danni che le stesse possono portare: ancora una volta, “not theorism, but pragmatism”. Questo dato appare ancor più rilevante se si tiene a mente che, soprattutto nei sistemi di common law, lo strumento penale non è affatto l’arma con cui vengono punite le società che

46 B. FISSE E J. BRAITHWAITE, Corporations, crime and accountability,

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29

si rendono responsabili di crimini vari; al contrario, sono le sanzioni satisfattive ed i risarcimenti civili (negli Stati Uniti utilizzati anche come punitive damages; da poco tempo vi è uno strumento simile anche nell’ordinamento italiano47) che offrono una miglior tutela, soprattutto in un’ottica repressiva48.

Dopo aver visto quali sono i parametri con cui è stata affrontata la questione negli ordinamenti di common law, si deve adesso vedere quali sono state le risposte date invece negli ordinamenti continentali europei di civil law.

Tra i primi paesi che hanno visto sorgere una responsabilità a carico delle persone giuridiche, compare la Francia: le “personnes morales”, termine perfettamente traducibile ed equiparabile con “persone giuridiche”, vedono riconosciuta una forma di responsabilità penale solamente nel 1994, all’art. 121-2 del nuovo codice penale49. E’ importante

notare subito una peculiarità di questa norma: essa assoggetta alle sanzioni previste non soltanto enti collettivi di diritto privato, ma anche enti collettivi di diritto pubblico, come i sindacati o i

47 il riferimento è ai dd. lgss. 7 e 8 2016, Disposizioni in materia di

abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67

48 per tutti, si veda il caso Engle vs RJ Reynolds

49Art. 121-2 code pénal: «Les personnes morales, à l'exclusion de l'Etat, sont

responsables pénalement, selon les distinctions des articles 121-4 à 121-7, des infractions commises, pour leur compte, par leurs organes ou représentants. Toutefois, les collectivités territoriales et leurs groupements ne sont responsables pénalement que des infractions commises dans l'exercice d'activités susceptibles de faire l'objet de conventions de délégation de service public.

La responsabilité pénale des personnes morales n'exclut pas celle des personnes physiques auteurs ou complices des mêmes faits, sous réserve des dispositions du quatrième alinéa de l'article 121-3» in www.legifrance.gouv.fr, visitato il 9 giugno 2017

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partiti, escludendo da esse soltanto lo Stato. Gli enti pubblici territoriali, regolati dal secondo comma del medesimo articolo, presentano una regolamentazione particolare: la loro responsabilità si forma soltanto in merito a reati commessi in merito ad attività di “servizio pubblico”, escludendo quindi dalla soggezione a tale responsabilità atti commessi nell’esercizio di funzioni di potestà pubblica in senso stretto.

Passando a vedere ciò che integra la responsabilità dell’ente, occorre fare riferimento a due elementi, esplicitamente indicati dal primo comma, ovvero:

1) il reato deve essere commesso da organi o rappresentanti dell’ente stesso (“par leurs organes ou représentants”)

2) per conto dell’ente stesso (“pour leur compte”)

Per poter apprezzare in toto i principi che la norma enuclea, occorre riferirsi anche al terzo comma, che rivolge lo sguardo alle “persone fisiche autrici o complici dei medesimi fatti”; la loro responsabilità infatti non viene per niente esclusa, ma al contrario viene cumulata con quella della persona giuridica (c.d. principio del cumulo di responsabilità).

L’ordinamento francese, in sintesi, pare optare per una responsabilità vicaria ed oggettiva, che si trasmette “per rimbalzo”, par ricochet, alla persona giuridica. Così come per l’ordinamento inglese, anche quello francese ha ideato una responsabilità che presenta la sua ragion d’essere nell’esigenza pragmatica e concreta di punire le società50, stavolta non soltanto

50 S. GIAVAZZI, Alcune riflessioni sulla responsabilità penale delle persone

giuridiche in Francia, in www.rivista231.it, visitato il 10 giugno 2017: «Passato ormai al vaglio di una esperienza giurisprudenziale decennale, il modello punitivo francese appare, suo malgrado, terreno ideale per una "verifica sul campo", proprio perché i confini e i contenuti della responsabilità penale delle persone giuridiche, anche nei fondamenti teorici, hanno preso forma alla luce delle esigenze emerse dalla prassi applicativa e, in definitiva, della giustizia sostanziale. Un grande "cantiere", in cui si stanno sviluppando

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private, ma anche pubbliche. Emblematico è il caso della catastrophe du Drac, avvenuto il 4 dicembre del 1995, quando una classe di bambini, venuti a vedere l'habitat dei castori della zona, si trovò intrappolata dalla crescita improvvisa di acqua causata da un rilascio proveniente dalla diga a monte; sei bambini e una accompagnatrice annegarono51.

Spostandosi di poco ad oriente e guardando adesso al sistema tedesco, si può dire che in questo ordinamento persiste ancora oggi un principio di “personalità” della responsabilità penale, che guarda esclusivamente alla persona fisica. L’unico riferimento che si può riscontrare nello Strafgesetzbuch (il codice penale tedesco), il § 14, è una norma che disciplina non una responsabilità “dell’impresa”, ma una responsabilità “nell’impresa”: di eventuali illeciti commessi in forma attiva od omissiva rispondono “coloro che ricoprono posizioni apicali o di responsabilità per quel determinato fatto”, sempre se il fatto sia loro rimproverabile almeno per colpa. La conseguenza di una tale disciplina è che, laddove non sia individuabile un solo soggetto responsabile, non si può che giungere alla “impunità totale” del reato commesso52.

Occorre allora volgere lo sguardo alla

Ordnungswidrigkeitengesetz, la legge sulle violazioni

nuove teorie, nel tentativo di modulare l'intervento penale alla luce delle peculiari caratteristiche della persona morale e, si aggiunge, di dare risposte punitive concrete a fatti illeciti connotati da grande disvalore sociale, ma caratterizzati da modalità di aggressione ai beni giuridici complesse e perciò privi di una immediata riferibilità a comportamenti individuali dolosi o colposi.».

51 M.F. STEINLÉ-FEUERBACH, Catastrophe du Drac : une décision très

attendue, in www.jac-cerdacc.fr , visitato il 9 giugno 2017

52 K. VOLK, La responsabilità penale di enti collettivi nell'ordinamento

tedesco, in Societas Puniri Potest, La responsabilità da reato degli enti collettivi. Atti del Convegno (15-16 marzo 2002), Padova, p. 189 ss

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amministrative, la quale, al § 30, prevede una responsabilità amministrativa della persona giuridica per l’illecito penale o amministrativo posto in essere da “organi di rappresentanza, consigli, collegi, o da loro membri singolarmente”, al fine di trarne un utile, per loro o per l’ente: solo soggetti “qualificati” a rappresentare la volontà della persona giuridica. Dal § 130, invece, si trae come, per poter attribuire una responsabilità all'impresa, occorra che vi sia stata una carenza, dolosa o colposa, della sorveglianza necessaria ad impedire la materiale commissione del comportamento costituente l'illecito, ossia una sorta di culpa in vigilando. Per ciò che attiene ai profili sanzionatori, sempre il § 30 prevede esclusivamente sanzioni pecuniarie, che vanno da un milione di euro per i reati dolosi, a cinquecentomila euro per quelli colposi53.

Come si può notare, l’ordinamento tedesco rappresenta un emblematico esempio di tutti quegli ordinamenti che ancora considerano il principio societas delinquere et puniri non potest come un vero e proprio dogma; seppure questa concezione trovi spiegazione in quelle che sono state le passate elaborazioni dottrinali (si veda la già nominata teoria finzionistica), sembra difficile poter continuare a sostenere una tale tesi, soprattutto in un contesto europeo e globale nel quale il principio dell’impunità delle persone giuridiche scricchiola rumorosamente.

4. LA REGOLAZIONE IN ITALIA

4.1. LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE E COMUNITARIO

53 F. GANDINI, Brevi cenni sulla responsabilità delle persona giuridiche in

Germania, in La Responsabilita amministrativa delle societa e degli enti, n. 4, 2008, p. 31 ss

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L’introduzione di una responsabilità per le persone giuridiche in Italia si è fatta attendere a lungo, dimostrandosi il nostro ordinamento uno dei più restii ad inserire una forma di sanzione che andasse a colpire la criminalità d’impresa, introdotta in un certo qual modo soltanto con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”54.

Senza tornare sugli aspetti teorici e sostanzialistici già affrontati, occorre a questo punto vedere quali sono stati gli impulsi (anche normativi) che hanno portato all’elaborazione del testo di legge qui oggetto di trattazione, vero e proprio “microcodice”55 sulla

responsabilità degli enti.

Oltre agli aspetti connessi all’esperienza comparatistica ed alla politica criminale d’impresa, si pongono in rilievo le spinte provenienti dalla comunità internazionale, e soprattutto dal contesto comunitario; con la legge 29 settembre 2000, n. 300, il Parlamento ha delegato al Governo il compito di recepire vari atti internazionali che l’Italia si era obbligata a seguire; si fa riferimento a

1) Convenzione sulla tutela finanziaria delle comunità europee (meglio nota come Convenzione P.I.F.) siglata a Bruxelles il 26 luglio 1995

2) Primo protocollo riguardante l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, della Convenzione P.I.F. (siglato a Dublino il 29 novembre 1996)

3) Convenzione sulla lotta contro la corruzione dove siano coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli stati membri dell’Unione Europea (Bruxelles 26 maggio 1997)

54 AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato,

Padova, 2002, p. 410

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