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Scritture non finzionali sull'Italia degli anni di piombo

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Scritture non finzionali sull’Italia degli anni di piombo

CANDIDATO

RELATORE

Fabrizio Tomasi

Chiar.mo Prof. Raffaele Donnarumma

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Luca Curti

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«Partimmo alla conquista di un nuovo

mondo, ma non ci rendevamo conto che, in

realtà, aiutavamo a puntellare quello

vecchio»

[Alberto Franceschini]

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Indice

Introduzione………..6

Cap. I L’Italia degli anni di piombo: letteratura, politica e violenza………...10

1.1. La letteratura sugli anni di piombo………...11

1.2. La situazione politica………..16

1.3. Dal Sessantotto agli anni di piombo………23

Cap. II Un esempio di reportage: La notte della Repubblica di Sergio Zavoli……...30

2.1. Il reportage: cos’è e quali sono gli elementi che lo contraddistinguono…...31

2.2. Il lavoro di Zavoli: perché nasce e come si sviluppa………..40

2.3. I diversi stili dell’opera: la narrazione dei fatti e le interviste………...45

2.4. Dalla trasmissione televisiva al libro………..51

2.5. Conclusioni……….55

Cap. III Potere politico e terrorismo: la storia di Marco Donat Cattin nell’Italia nichilista di Corrado Stajano………..56

3.1. L’inchiesta giornalistica………..57

3.2. L’Italia nichilista………....63

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3.4. Da Lotta continua a Prima linea: le dinamiche che portarono la minoranza del

partito a diventare un gruppo terroristico………...75

3.5. Lo scandalo politico e il tentato occultamento dell’accaduto……….79

3.6. Conclusioni: l’Italia e il nichilismo……….82

Cap. IV La tragedia di Aldo Moro: i cinquantacinque giorni del sequestro…………84

4.1. Perché Moro?...85

4.2. 16 marzo 1978……….87

4.3. La trattativa per il rilascio e il «fronte della fermezza»………..93

4.4. Le lettere della prigionia……….96

4.5. Rapimento, prigionia e uccisione: cronaca di un evento mediale…………...99

4.6. Conclusioni………...104

Cap. V Dalla fabbrica alla lotta armata: le Brigate rosse raccontate da Mario Moretti………...106

5.1. Un genere testuale complesso: l’intervista………107

5.2. Brigate rosse: una storia italiana……….113

5.3. Ideologia e organizzazione delle Brigate rosse……….128

5.4. Il linguaggio delle BR………...132

5.5. Rapporti tra BR e altre organizzazioni………..135

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5 Cap. VI

Un’autobiografia «pilotata»: Il prigioniero di Anna Laura Braghetti……..142

6.1. Cenni sul genere autobiografico………143

6.2. Il prigioniero……….146

6.3. L’omicidio di Vittorio Bachelet………152

6.4. Moro e la «guerra con la DC»………...156

6.5. La «questione delle carceri»………..160

6.6. I «compagni» dell’organizzazione………163

6.7. Conclusioni………...169

Conclusioni………..174

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6

Introduzione

Dalla fine degli anni Sessanta del XX secolo, l’Italia ed altre nazioni europee sono scosse dalle agitazioni operaie e studentesche. Specialmente nel nostro Paese la protesta assume proporzioni rilevanti, non solo per la durata, ma anche per la radicalità degli scontri. Gli anni Settanta infatti sono ricordati come un decennio contrassegnato da profondi cambiamenti della società, a cominciare dalla politica in cui si registrano le maggiori tensioni, frutto di una strategia del terrore messa a punto dai movimenti della sinistra extra parlamentare. Tra queste organizzazioni si distinguono le Brigate rosse, responsabili di numerose azioni violente, su tutte il sequestro e l’uccisione di uno degli uomini politicamente più rilevanti dell’Italia del tempo: Aldo Moro.

Non a caso dunque, in riferimento a quel periodo storico si parla di anni di piombo, per sottolineare l’alto tasso di violenza che il nostro Paese aveva fatto registrare. L’espressione deriva dal film Die bleierne Zeit (letteralmente Il tempo

di piombo) diretto dalla regista tedesca Margarethe Von Trotta, vincitore del

Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1981, e accolto trionfalmente dalla critica italiana e internazionale1.

Non solo l’ambito politico comunque ha risentito degli episodi di quel tempo. Anche a livello sociale c’erano dei malcontenti, dovuti per lo più al mancato rinnovo dei contratti di alcune categorie di lavoratori, e alle proteste per una classe

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politica ritenuta inaffidabile. A causa di tutto ciò si afferma prepotentemente il fenomeno del terrorismo, una piaga sociale che accompagnerà il nostro Paese per più di un decennio, e che mieterà numerose vittime. Solo attraverso delle leggi speciali, e la collaborazioni dei «dissociati», lo Stato riuscirà ad avere la meglio su quelle organizzazioni che avevano intrapreso una vera e propria guerra alle istituzioni. Molte sono state le teorie riguardanti il sostegno a queste formazioni terroristiche: molti ipotizzano una collusione tra i servizi segreti stranieri e i movimenti clandestini di sinistra, mentre altri, più cauti, ritengono che la nascita di queste organizzazioni sia un tentativo di rivoluzione per sbloccare un sistema chiuso2. In ogni caso però, a partire del ’68, si sviluppa il desiderio comune di distruggere il sistema per proporne uno alternativo e opposto.

Anche gli intellettuali hanno vissuto un momento molto delicato in quegli anni. Si assiste infatti a una difficoltà della categoria nel riuscire a interpretare gli episodi che si stavano succedendo. In Italia, solo dopo l’attentato al giornalista Carlo Casalegno da parte delle BR del 1977, inizierà un dibattito serio che proverà a spiegare quali erano le cause che avevano portato a quella situazione di violenza. Fino a quel momento infatti si assiste a una confusione quasi drammatica nella classe intellettuale, che non riesce a rispondere agli interrogativi che la società si pone per affrontare quel periodo di caos generale. Si ha quasi l’impressione che gli studiosi siano stati colti di sorpresa dagli omicidi mirati e che cerchino soprattutto di sollevarsi da qualsiasi responsabilità, anche a costo di farla ricadere su di altri. C’è dunque la sensazione diffusa che debbano difendersi in anticipo da

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un’accusa, come se il fenomeno avesse una qualche radice all’interno della loro «famiglia»3.

In particolare ci sono due episodi che testimoniano questa difficoltà nell’affrontare il tema del terrorismo. Il primo riguarda il filosofo Luigi Pedrazzi, che nel 1978 ad un convegno organizzato dalla rivista «Il Mulino» termina il suo intervento dichiarando:

E le Brigate rosse? Si può parlare di politica senza parlare delle Brigate rosse? Sì, si può; Le Brigate rosse, nonostante tutto, sono un modo, per non affrontare la realtà, ma per evaderla. Vi prego proprio di non parlare delle Brigate rosse, ma di ciò che dobbiamo fare noi, perché questo è più importante4.

Il secondo invece fa riferimento alle parole del democristiano Beniamino Andreatta, che in polemica con la «tavola rotonda» di esperti sul tema dichiarò che si era convenuto di «ridurre il terrorismo a fenomeno marginale. […] per questi professori, che pure trattano temi cruciali per politica e le società italiane, la lotta armata, dopo tanta attenzione, merita il silenzio»5.

La produzione letteraria risente molto di questa confusione tanto che non si afferma nessun grande romanzo che abbia come tema gli episodi di quegli anni. A tal proposito, un’eccezione nel genere non romanzesco è rappresentata dall’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, pubblicato pochi mesi dopo l’omicidio del presidente della DC. A partire dal decennio successivo, l’Ottanta, qualcosa

3 Ivi, p. 122.

4AA.VV 1978, p. 187. 5 Ivi, p. 192.

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però muta da questo punto di vista: i letterati si rendono conto che è il caso di ricercare le verità che risultano nascoste, e i tempi sono ormai maturi per poterlo fare. Illustri giornalisti iniziano la stesura di opere, come reportage e inchieste, per far luce sui grandi interrogativi che gli anni di piombo avevano lasciato in eredità. Oltretutto il fenomeno del terrorismo è in netto calo rispetto agli anni passati, grazie anche all’intervento degli uomini generale Dalla Chiesa che hanno assicurato alla giustizia molti dei protagonisti di quella violenza. Proprio questi ex terroristi iniziano a sentire l’esigenza di raccontare la loro esperienza, dando vita a un filone di memoriali sulla loro esperienza nelle organizzazioni.

La nostra letteratura si arricchisce dunque di nuovi testi che prediligono più l’aspetto storiografico e mettono da parte l’elemento finzionale. Nei quattro libri di cui mi occuperò (La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, L’Italia nichilista di Corrado Stajano, Brigate rosse: una storia italiana, intervista di Rossana Rossanda e Carla Mosca a Mario Moretti, e Il prigioniero di Anna Laura Braghetti) proverò a far emergere questa nuova tendenza letteraria, molto più vicina alle forme di scrittura giornalistiche di quanto non fosse accaduto in passato. E sarà interessante soffermarsi anche sulle diverse tipologie di testo adottate dagli autori (in particolare reportage, inchiesta giornalistica, intervista e autobiografia) e analizzare le peculiarità che contraddistinguono questi diversi generi che hanno avuto l’onere di raccontare ai lettori i delicati episodi di quel

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Cap. I

L’Italia degli anni di piombo:

letteratura, politica e violenza

Il periodo storico compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta del Novecento in Italia è stato molto controverso. Poco più di un decennio caratterizzato dall’estremizzazione della lotta politica, che ha portato un’ondata di

violenza e avuto ripercussioni in diversi ambiti, da quello sociale a quello politico fino al letterario. Questo momento storico è stato segnato dalle proteste di studenti e operai, e dalla nascita di vari gruppi terroristici. Gli anni di piombo, così come sono stati ribattezzati, hanno causato un profondo cambiamento della società italiana.

In questo clima di incertezza anche gli intellettuali si sono trovati spaesati. Non è un caso infatti che non si sia affermato alcun romanzo come simbolo di quegli anni, e che il dibattito ideologico sul periodo si sia aperto solo a partire dagli anni Novanta.

È utile dunque soffermarsi più approfonditamente sulle cause e sulle dinamiche di un periodo storico che ha segnato la storia del nostro Paese.

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1.1. La letteratura sugli anni di piombo

Diversi storici e giornalisti si sono occupati del terrorismo degli anni di piombo nel corso degli anni. Sia la televisione che il cinema hanno prodotto un discreto numero di film sugli avvenimenti diquel periodo.

La letteratura paradossalmente invece ha subito una sorta di blocco rispetto alla produzione degli anni precedenti. Nonostante la presenza di grandi scrittori, basti pensare a Sciascia, Moravia, Pasolini, Volponi o Balestrini, si percepisce una grande difficoltà a raccontare e interpretare i fatti di quegli anni. Ma perché gli intellettuali non hanno saputo (o voluto) cogliere questa potenziale risorsa narrativa? La grande incertezza che era riscontrabile nell’intera società italiana probabilmente si è riversata anche nell’ambito letterario e ha stordito i suoi esponenti di spicco.

È un periodo in cui il Paese sente la necessità di una forte classe di intellettuali per aprire discussioni anche a livello ideologico, che però sembra tardare ad arrivare:

gli intellettuali sono colti di sorpresa dagli omicidi mirati: di fronte a un fenomeno nuovo, in apparenza sfuggente, sembrano incapaci di scegliere tra un abbozzo di spiegazione e un silenzio volontario. Si ha l’impressione che, quando parlano, cerchino soprattutto di sollevarsi da qualunque responsabilità, anche a costo di farla ricadere su altri. Quasi che debbano difendersi in anticipo da un’accusa, a volte formulata esplicitamente: il

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terrorismo fa parte dell’album di famiglia degli intellettuali, come direbbe l’editorialista del «manifesto» Rossana Rossanda6.

E sempre a tal proposito scrive Donnarumma:

Gli eventi degli Anni Settanta sono così drammatici che pochissimi scrittori […] riescono a fissare lo sguardo su di essi. Sia che abbiano spiegazioni già fatte, e inadeguate, sia che si interroghino su qualcosa che sfugge loro, e che non riescono ad afferrare, in genere non raccontano il terrorismo direttamente o alla lettera. […] Il dibattito pubblico sulle responsabilità ideologiche degli intellettuali è presto accesissimo: di fronte all’urgenza e al clamore del presente, la letteratura sembra messa all’angolo e poter giocare solo di rimessa. E così, piuttosto che aggradire per impossessarsene […] tende a scivolare in un regno di ombre7.

A partire dalla fine degli anni Ottanta la situazione però muta radicalmente. C’è un interesse diverso sugli episodi degli anni di piombo, soprattutto grazie ai numerosi terroristi che dopo aver deposto le armi iniziano a scrivere delle loro azioni passate8. Anche tra gli intellettuali si percepisce che i tempi sono cambiati, e inizia una produzione letteraria incentrata sul periodo che porta alla scrittura di numerose opere di stampo giornalistico e storiografico (come inchieste e reportage).

Per comprendere meglio tale produzione è giusto approfondire alcuni concetti, quali quello di immaginario e la differenza tra fiction e non-fiction

6 ATTAL 2010, p. 122. 7 DONNARUMMA 2013,p. 10. 8 Ivi, pp. 14-15.

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1.1.1. Immaginario, fiction e non-fiction

Molti episodi degli anni di piombo sono rimasti impressi nella memoria di chi li ha vissuti creando un immaginario ben preciso di quel periodo. Ma cosa si intende precisamente per immaginario? L’immaginario può essere tre cose diverse insieme: 1) un archivio di forme e temi sedimentati nella cultura, la cui storicità è chiara; 2) una facoltà che produce miti, racconti e interpretazioni della realtà. Il rapporto con quest’ultima tuttavia non è lineare; 3) qualcosa di inventato o

mistificato che nulla ha a che fare con la realtà9.

Non necessariamente dunque c’è un legame tra l’immaginario e la storicità degli eventi. È molto probabile anzi che quanto emerga dall’immaginario sia parziale e quindi poco attendibile. In un momento storico come gli anni di piombo, caratterizzato dal terrorismo e dalla violenza, è pertanto possibile che la società abbia percepito la situazione come un trauma, e che quindi nell’ immaginario abbia allontanato da sé le discussioni e i dibattiti a riguardo?

Spiega ancora Donnarumma:

l’analogia fra il terrorismo e il trauma è impropria: se il trauma è ciò che non accede alla coscienza e non può essere raccontato […] il terrorismo è invece una costellazione di eventi su cui da subito sono proliferati discorsi e letture simboliche. Solo che […] come il trauma genera i discorsi obliqui, frammentari e non comunicativi del sintomo, del sogno,

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del lapsus, così il terrorismo ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano: formazioni di compromesso, insomma, tra bisogno di raccontare, capire, giudicare e resistenza al racconto esteso, alla comprensione piena, al giudizio profondo10.

Il terrorismo dunque è stato vissuto e mistificato, e ciò aiuta anche a ripercorrere le vicende della narrativa italiana degli anni Settanta. La maggior parte degli autori non parla espressamente di quello che succede, ma preferisce celarlo dietro allegorie e allusioni (esempi sono i romanzi storici di Malerba o Il nome della

rosa di Umberto Eco)11. A partire dagli anni Novanta si inizia a produrre una narrativa differente, più indirizzata verso il realismo. Questo vuol dire che gli autori provano a dare un’impronta più storiografica alla produzione letteraria, e c’è inoltre la volontà di una rielaborazione di ciò che quegli anni avevano rappresentato nella cultura di massa12.

Proprio in relazione a questa svolta del ritorno al realismo è utile introdurre le nozioni di fiction e non-fiction. Non è facile come sembra riuscire a definire queste due espressioni, poiché la distinzione risulta

abusiva e, per certi versi, primitiva e rozza. Tuttavia, occorre riconoscerle un ruolo decisivo come sintomo del mutamento in atto: dove il postmoderno affermava che tutto è fiction, e operava per la trasformazione in essa tratti dalla cronaca e dalla storia, l’ipermoderno tenta una resistenza alla finzionalizzazione. […] La stessa dicitura ‘non fiction’, che non riesce a designare il proprio oggetto se non in negativo, rivela che questo

10 DONNARUMMA 2010, pp. 324-325. 11 DONNARUMMA 2013, pp. 16-17. 12 Ivi, p. 17

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15 va strappato appunto alla fiction13.

La fiction dunque predomina nel postmodernismo perché «a occhi postmoderni […] fuori della fiction nulla può essere narrato né, forse, esistere»14, mentre

nell’ipermoderno si afferma la non-fiction. Tuttavia questo dualismo finisce per

far

emergere due parzialità opposte: quella pagata sino in fondo dal postmoderno, che nel suo oltranzismo teorico riesce univoco, banalizzante e incapace di distinzioni (‘tutto è fiction’); e quella dell’ipermoderno, che nella sua ricerca di una realtà che resista alla finzionalizzazione rischia di erigerla a criterio elementare e a idolo regressivo15.

Questa distinzione ha causato diverse discussioni tra gli intellettuali e portato alla luce le tensioni della letteratura in quel periodo. Il risultato chiaro è però che «la vecchia letteratura è respinta ai margini del sistema»16. In conclusione possiamo

affermare che le credenze postmoderne producono «un’idea piatta e dispotica del concetto di fiction»17, ma allo stesso tempo la categoria di non fiction «può avere una qualche legittimità solo se ci rivela che ogni discorso sulla realtà è

13 DONNARUMMA 2014, p. 117. 14 Ivi, p. 174. 15 Ivi, p. 175. 16 Ibid. 17 Ibid.

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consapevole della propria natura artificiale senza per questo essere ridotto a finzione»18.

1.2 La situazione politica

Dal punto di vista politico gli anni di piombo hanno rappresentato per l’Italia un periodo molto caotico. Il partito di maggioranza, ovvero la DC, si trovava a dibattere al suo interno su quali dovessero essere le mosse politiche da effettuare: intraprendere un dialogo con il PSI, in funzione di un progetto di centro-sinistra forte, o se invece proseguire con la politica degasperiana del centrismo e coinvolgere nell’azione di governo partiti minori come ad esempio il PLI o i repubblicani.

Come se non bastasse, a creare una maggiore instabilità fu la presenza di un «doppio Stato»19. Con questa espressione

si intende indicare una struttura permanente, segnata dalla duplicazione degli apparati, per cui a uno palese se ne affianca un altro occulto, alle istituzioni “visibili” depositarie della legalità e soggette alle regole e ai controlli della democrazia se ne giustappongono altre “invisibili”, con lo scopo di commettere atti illegali. […] Si può parlare di una vasta zona d’ombra che gravava sul funzionamento degli organi dello Stato che agivano secondo

18 Ibid.

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modalità in cui gli aspetti visibili e legali erano strettamente intrecciati con quelli invisibili e illegali20.

In particolar modo si fa riferimento a quello che è stato soprannominato il «partito del golpe»21, ovvero una forza avversa all’opposizione crescente della sinistra che, impossibilitata a confrontarsi nell’ambito della legalità, sfruttava la strategia del ricatto e della violenza per affermare le proprie posizioni reazionarie22. Gli anni Settanta dunque sono stati influenzati da questa tendenza fino ad assumere una

dimensione patologica […] nel rapporto tra visibile e invisibile. Il dilatarsi della sfera dell’invisibile superò i limiti fisiologici del “segreto di Stato” e tutto questo alimentò un disagio diffuso rispetto al funzionamento complessivo delle istituzioni dello Stato democratico, pesantemente gravate dal peso di quell’opacità che le rendeva indecifrabili, inquietanti, ostili23.

Mi occuperò più avanti, nel capitolo II, dei tentativi di golpe avvenuti in Italia. È utile concentrarsi invece sulla parte “visibile” delle istituzioni, ovvero sui maggiori partiti su cui si reggeva la struttura democratica del nostro Paese.

20 Ibid.

21 FLAMINI 1981. 22 DE LUNA 2009, p. 33. 23 Ivi, pp. 38-39.

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1.2.1. Il PCI di Berlinguer

Già dalla fine della seconda guerra mondiale, il Partito comunista italiano si era distinto come un grande movimento di massa per l’attenzione rivolta verso la classe meno abbiente. Rappresentava fin dall’inizio della Repubblica la maggiore forza di opposizione, e sotto la guida di Enrico Berlinguer, segretario dal 1972, era arrivato a raggiungere percentuali di voto importanti, tanto da minacciare la maggioranza dei democristiani.

Ma il partito comunista era ricco di contraddizioni:

Nel PCI di Berlinguer ci fu un marcato ritardo nel cogliere le trasformazioni strutturali e culturali che squassarono in profondità l’Italia nel decennio 1971-1981. […] Più in generale, lungo l’intera vicenda dell’Italia repubblicana, il PCI si è dimostrato più bravo ad accompagnare le trasformazioni che a determinarle. Timido e impacciato nel promuovere innovazioni e rotture, insieme con la DC fu un grande mediatore collettivo, legittimandosi come partito di massa grazie soprattutto alla capacità di proteggere i ceti più deboli dagli effetti dirompenti del cambiamento economico, di attutirne l’impatto con le più vistose fratture sociali e culturali della nostra storia, in grado di risolvere il problema di una mediazione istituzionalizzata fra lo Stato e le classi subalterne, disciplinandole e organizzandole, ma a differenza del fascismo […] “per portarle dentro e non per lasciarle fuori24.

La forza del PCI era la grande presenza sul territorio: dal centro alla periferia il partito era riuscito ad allargare la sfera degli iscritti e ad ottenere una maggiore

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partecipazione della gente nella vita politica25. Si ricalcava così il modello gramsciano che prevedeva anche un intento pedagogico del partito. In tal senso:

l’immagine più calzante per definire i contorni generali del ruolo del PCI è quella legata all’oscillazione del pendolo, con un continuo andirivieni tra due posizioni entrambe connesse a questa sorta di autoinvestitura educativa: nei momenti alti della mobilitazione collettiva e nella fase acuta del conflitto sociale, il partito – per legittimare la propria funzione – doveva porsi come freno alla spontaneità dei movimenti sociali […] nelle pause del conflitto, ma soprattutto dopo le sconfitte, la sua funzione era quella di sostituirsi ai movimenti […] indicare una linea di continuità e di resistenza che permettesse di non smarrire il filo della speranza e dell’impegno politico-militare26.

Questo spiega in parte il comportamento tenuto dal partito negli anni di piombo, e in particolar modo durante il caso Moro quando il PCI «fu il più strenuo difensore dello Stato e della democrazia»27. Si è detto molto riguardo alle scelte intraprese dai comunisti all’epoca, anche se il giudizio definitivo non può prescindere dalla presenza all’interno della sinistra di un altro grande partito, che proprio durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro si era distinto nelle posizioni assunte: il PSI di Craxi.

25 Ivi, p. 98. 26 Ivi, p. 99. 27 Ivi, p. 96.

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1.2.2. Il PSI di Craxi

Nello scenario politico degli anni Settanta un ruolo fondamentale è stato ricoperto dal Partito socialista italiano. Sotto la guida di Bettino Craxi si assiste a una vera e propria sfida all’interno della sinistra per scalzare il PCI dal ruolo egemonico che si era guadagnato:

Craxi agì come se il problema del PSI non fosse più quello di difendere i valori della sinistra e della tradizione autonomista socialista (libertà, laicismo, giustizia sociale e modernità), ma di garantire la perpetuazione di uomini e apparati che quei valori tendevano ad annegare in una sorta di “pensiero unico neoliberista”28.

Craxi è stato il primo a capire, all’interno della sinistra, il mutare della scena politica: si pensi, ad esempio, al cambiamento del sistema economico nel Sud Italia, in cui la politica si sostituisce all’agricoltura diventando il più cospicuo serbatoio di risorse economiche. Negli anni Ottanta inoltre il PSI riesce ad allargare il suo elettorato combattendo la «falsa coscienza» democristiana, attirando a sé i voti dei vecchi notabili29:

I politici della stagione craxiana intrapresero con voluttà un percorso che li portò a incardinare “gli interessi nei valori”, fino a far coincidere le proprie strategie individuali con una mai ben definita “modernizzazione del Paese”. Nel combattere l’ipocrisia degli

28 Ivi, p. 101. 29 Ivi, p. 102.

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uomini dei partiti, Craxi chiese a ognuno non di essere se stesso ma di attingere senza riserve alle proprie doti di spregiudicatezza e di cinismo30.

Il PSI dunque si distacca dalla tradizione dei vecchi partiti di massa e si trasforma, secondo De Luna, in una sorta di «partito-ricatto»31: si abbandonava la linea politica dei valori e dell’ideologia in nome degli interessi e del potere. Non tutti sono gli studiosi comunque concordano su questa teoria. Tuttavia l’avvento del craxismo sembra aver contribuito alla frantumazione organizzativa del PSI, dalla quale è emerso un riformismo debole e una progettualità politica povera. Tutto questo ha portato a una mancanza di radicamento nel territorio del partito: i socialisti si apprestavano a diventare la forza politica che più avrebbe attinto all’artificialismo politico che fino a quegli anni era stato il marchio di fabbrica della DC32.

1.2.3. La DC

La democrazia cristiana fin dalla sua creazione è stato il partito di massa con il numero maggiore di consensi in Italia. Di natura centrista, la DC governava il Paese ininterrottamente dalla nascita della Repubblica. I momenti di crisi nel movimento sono stati però molteplici, dovuti soprattutto alla presenza di numerose correnti interne che facevano capo agli esponenti di maggiore spicco.

30 Ibid. 31 Ivi, p. 103. 32 Ivi, p. 104.

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Gli anni Settanta hanno segnato parecchio la storia della DC per diverse motivi. Tra questi, la sconfitta del gruppo dirigente al referendum sul divorzio rappresenta uno dei momenti di maggiore crisi del partito, che deve inoltre tener conto dell’ascesa del PCI, confermatosi sempre più il maggior partito di opposizione.

La crisi economica di quegli anni spinge inoltre il presidente del partito Aldo Moro ad intavolare un dialogo proprio col PCI per favorire l’ingresso nella maggioranza parlamentare (ma non in quella governativa) dei comunisti. Ma l’apertura al PCI non significava l’abbandono dell’egemonia democristiana, come dichiarava lo stesso Moro:

Non esiterei certamente a passare dalle elezioni, a passare all’opposizione se si rompesse nelle mani il meccanismo di ideali e di valori che abbiamo costruito insieme nel corso di questi anni […] ma credo che un po’ di aiuto di altri ci possa giovare nel cercare di riparare questa crisi della nostra società33.

C’era dunque l’esigenza di fronteggiare responsabilmente una pesante crisi economica, e Moro era disposto a concedere l’ingresso nella maggioranza al PCI senza tuttavia abbandonare l’egemonia che il partito aveva conquistato nel tempo.

Era dunque questo lo scenario politico degli anni Settanta: tre grandi forze politiche interpretavano la politica e il potere in modi differenti, e avevano un atteggiamento diverso anche nel fronteggiare il fenomeno del terrorismo che si stava diffondendo nel Paese.

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1.3 . Dal Sessantotto agli anni di piombo

Il ’68 […] fu l’intuizione che non bastava più rovesciare il potere, abbattere lo Stato, per conquistare la Felicità e la Giustizia; ma bisognava cambiare tutta intera la società […] Il ’68 credeva che il destino individuale dipendesse dal cambiamento sociale. La conquista fondamentale di allora fu il diritto alla politica, a sentirsi protagonisti34.

I disordini che hanno avuto luogo in Italia negli anni di piombo hanno origine nei movimenti operai e studenteschi di fine anni Sessanta.

In realtà la protesta che ha segnato un’epoca, il Sessantotto per l’appunto, nasce nel 1964 a Berkeley, sede di una delle più importanti università degli Stati Uniti. Gli studenti chiedono un cambiamento di immagine globale, un sovvertimento del modello culturale, uno stile di vita diverso35. La protesta si propaga nei Paesi più industrializzati del mondo e anche in Italia ha forti ripercussioni.

Non solo gli studenti protestano, anche i lavoratori chiedono con forza il rinnovo dei contratti collettivi: scoppia il cosiddetto «autunno caldo»36. La protesta è feroce: né i sindacati, né gli imprenditori si sarebbero aspettati qualcosa del genere. Gli scioperi si moltiplicano sempre più, c’è insoddisfazione anche sulle misure del governo sul tema del lavoro. Nel siracusano e nel salernitano si

34 MONICELLI 1978, p. 73. 35 ZAVOLI 2015, p. 27. 36 Ivi, p. 35.

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registrano le prime violenze che iniziano a diffondersi in tutta la penisola37. Anche la FIAT viene coinvolta: nel settembre del 1972 agli operai, di ritorno dalle ferie, viene imposto un aumento del carico di lavoro a causa della ristrutturazione delle linee produttive di alcuni tipi di vetture. Le proteste sono furiose, e la direzione risponde con le maniere dure: sospensioni dal lavoro, trasferimenti di reparto e licenziamenti38. È dunque in questo clima di tensione e di proteste che nasce il fenomeno del terrorismo che segnerà la storia del Paese per tutto il decennio.

1.3.1 Il terrorismo italiano

Molti sono stati anche gli studiosi che si sono interrogati nello specifico sulle dinamiche e sulle cause del fenomeno del terrorismo italiano. Nella maggior parte di questi studi il terrorismo non è stato visto né come ideologia, né tantomeno come una filosofia, bensì come una strategia insurrezionale «che passa tutte le linee che di solito separano le dottrine politiche»39.

Laqueur nella sua Storia del terrorismo facendo riferimento agli anni Sessanta e Settanta ha trattato il fenomeno del terrorismo a livello globale, classificando l’ondata terroristica postbellica in tre sottospecie: «il terrorismo nazionalistico separatista, come nell’Ulster o nel Medio Oriente, in Canada o in Spagna; il terrorismo latino americano; il terrorismo urbano nell’America del nord,

37 Ivi, p. 33.

38 VENTRONE 2012, p. 294. 39 CECI 2014, p. 49.

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nell’Europa occidentale e in Giappone»40. Il caso italiano era collocato nell’ultimo

filone. All’inizio il terrorismo del nostro Paese era stato trattato raramente perché considerato di scarsa rilevanza. Col passare dei mesi anche gli studiosi iniziano a rendersi conto della situazione drammatica in cui l’Italia versa, e l’esperienza italiana inizia ad essere considerata come uno dei casi esemplari del terrorismo urbano41. A tal punto che lo stesso Loqueur osserva che «se nella Germania occidentale il terrorismo non aveva mai rappresentato una minaccia seria, in Italia esso si era sviluppato su scala molto più ampia e in modo molto più pericoloso»42.

Inoltre tra gli studiosi c’era un’idea diffusa che i movimenti terroristici italiani avessero importanti appoggi da parte di potenze straniere e legami con altri gruppi all’estero. E a tal proposito sono state formulate due ipotesi che hanno avuto ampia circolazione nella discussione a riguardo43: 1) si riteneva che le potenze straniere volessero esclusivamente sfruttare il terrorismo italiano; 2) il terrorismo italiano è parte di una «cospirazione internazionale» come perno di una rete del terrore sostenuta da alcuni «Stati burattinai»44. In particolar modo il terrorismo rosso italiano è stato interpretato «come uno dei tasselli fondamentali della trama del terrore, come una componente cruciale della più ampia rete sostenuta e controllata dai sovietici»45.

40 LAQUEUR 1978, p. 231. 41 CECI 2014, p. 51. 42 LAQUEUR 1987, p. 287. 43 CECI 2014, pp. 55-56. 44 MOSS 1989, p. 23. 45 STERLING 1981, p. 321.

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Dunque dopo un primo momento di disinteresse, gli esperti iniziano a occuparsi del terrorismo in Italia, rapportandolo a un fenomeno di violenza globale. Sulla nascita dei movimenti terroristici in Italia però sono state fornite anche interpretazioni più specifiche.

1.3.1.1. Interpretazioni sul fenomeno del terrorismo italiano

Le interpretazioni sul perché si sia diffusa un’ondata di violenza di grande portata nel nostro Paese sono state varie46: 1) reazione al sistema politico bloccato e inefficiente; 2) espressione di minoranze in rivolta; 3) manifestazione di un conflitto generazionale; 4) tradizioni rivoluzionarie presenti nel nostro Paese. A sostegno delle prime due tesi si è schierato lo scienziato sociale Paul Furlong:

Sostengo che il terrorismo politico in Italia […] è legato essenzialmente all’integrazione incompleta di elementi potenzialmente centrifughi all’interno dell’area di legittimità e che l’emergere del terrorismo sia di destra che di sinistra, in presenza di una crisi economica e di un sistema politico immobile, è connesso alle minacce e alle opportunità percepite dagli elementi esclusi47.

A formulare la terza ipotesi, quella del conflitto generazionale, è stato invece lo statunitense Leonard Weinberg che ha interpretato il terrorismo italiano come «la manifestazione di un complesso conflitto generazionale. […] una reazione dei giovani alle principali organizzazioni […] che erano viste inadeguate»48.

46 CECI 2014, p. 75-77. 47 Ivi, p. 76.

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La quarta interpretazione, individuata dall’americano Drake ma su cui in molti erano d’accordo, lega indissolubilmente il fenomeno terroristico alla «tradizione politica italiana» e alla «crisi della società italiana contemporanea». Per spiegare il terrorismo, secondo Drake, è necessario prendere in considerazione non tanto la «crisi italiana», bensì le «reazioni degli italiani». L’eredità culturale degli italiani è dunque la chiave di lettura per spiegare il terrorismo49. Tradizione ideologica e carattere nazionale rappresentano due fattori importanti per capire il fenomeno:

In Italia […] tradizioni rivoluzionarie straordinariamente potenti esistono sia a destra che a sinistra, ciascuna con una sua storia affascinante […] e sono disponibili come serie opzioni ideologiche, ciascuna possedendo sia il potenziale per l’azione terroristica che una storia di azioni terroristiche50.

Sono state diffuse inoltre altre tre interpretazioni che nello specifico riguardano il terrorismo di sinistra: la prima, molto diffusa tra gli studiosi, è che il terrorismo fosse una risorsa del PCI. Si parla addirittura di legame fra partito e terroristi, in quanto questi avevano «solo in tre occasioni colpito membri del PCI»51 e non avevano «danneggiato, ma anzi aiutato politicamente il PCI»52. La seconda ipotesi sosteneva invece il contrario, ovvero che il terrorismo fosse una risposta al PCI. A formularla, fra i tanti, è stata la studiosa Suzanne Cowan che ha parlato di «opposizione morale e politica al sistema e agli organismi tradizionali della

49 Ivi, p. 79.

50 DRAKE 1984, p. 288. 51 CECI 2014, p. 77. 52 Ibid.

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sinistra […] incapaci di guidare le reali forze di opposizione in una lotta concordata per un cambiamento radicale»53. Una terza interpretazione, la più comune probabilmente, spiega come il terrorismo di sinistra sia una risposta a quello di destra. La strage di Piazza Fontana del 1969, di matrice nera, molto probabilmente rappresenta l’episodio decisivo che segna l’inizio del terrorismo

rosso in risposta proprio alle stragi fasciste.

1.3.1.2. La crisi italiana

Abbiamo visto che sono state molte le teorie su un fenomeno complesso come il terrorismo italiano. In merito si è espresso anche lo storico italiano Nicola Tranfaglia che ha rintracciato alcune cause che, secondo lui, avevano favorito la nascita e la propagazione dei movimenti terroristici. Per Tranfaglia la crisi economica degli anni Settanta, l’attuazione del «compromesso storico», il timore di una drastica svolta di destra sono elementi che possono aiutare a interpretare il fenomeno italiano54. La «causa centrale» però va ricercata nel nostro sistema

statale, essenzialmente bloccato. Si sente dunque il bisogno di un netto cambiamento che provoca nei giovani una «disperazione da immobilismo»55:

53 Ivi, p. 78. 54 Ivi, p. 122.

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Il bisogno di mutamento, il desiderio di soluzioni globali nella direzione opposta a quella vincente fa le sue vittime a destra come a sinistra; i giovani che entrano a far parte dei gruppi clandestini neofascisti non di rado credono di perseguire un ideale “rivoluzionario” non tropo dissimile da quello inseguito dalle Brigate rosse56.

Anche per questo motivo Tranfaglia è scettico riguardo alle ipotesi di influenze straniere. Aggiunge anzi che un ruolo importante hanno avuto i servizi segreti italiani che avrebbero «individuato nelle Brigate rosse un interlocutore privilegiato al quale fornire aiuti nella prospettiva comune di fermare la “marcia”

del PCI nelle istituzioni»57.

Dunque, gli anni di piombo hanno attirato l’attenzione di molti studiosi che si sono occupati delle dinamiche di quel momento storico. Ed è grazie a questi studi possiamo guardare quel periodo da una prospettiva diversa, ovvero interpretando le cause che hanno portato ad un decennio di proteste e violenze.

Specialmente sul fenomeno del terrorismo molte sono state le tesi prodotte. Questo interesse ci aiuta a capire l’interesse che quegli anni hanno provocato, e la

voglia degli intellettuali di trovare le risposte ad un periodo che ha lasciato in eredità parecchi interrogativi, tuttora irrisolti.

56 Ivi, pp. 499-500. 57 Ivi, p. 522.

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Cap. II

Un esempio di reportage:

La notte della Repubblica di Sergio Zavoli

Come già detto in precedenza, gli anni di piombosono una delle pagine più oscure del nostro Paese. Molti cronisti si sono interessati ai funesti episodi che colpirono l’Italia in quel periodo, ed alcuni di essi rimasero vittime dei terroristi (Carlo

Casalegno fu ucciso nel 1977, Walter Tobagi tre anni dopo). Vedremo l’importanza che l’informazione ebbe in determinate situazioni, a testimonianza del fatto che anche i brigatisti avevano capito il potere che i giornalisti detenevano, ovvero quello di essere da tramite tra loro ed il resto della Nazione.

I diversi episodi avvenuti sono stati successivamente narrati in libri, giornali, trasmissioni, e in particolar modo in un reportage televisivo che ha avuto grande successo: La notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Il programma analizzava i fatti più importanti attraverso ricostruzioni storiche accompagnate da immagini, voci dei protagonisti e opinioni di politici e giornalisti.

Il grande successo della trasmissione (andata in onda nell’inverno a cavallo fra il

1989 e il 1990) spinse Zavoli, qualche anno dopo, alla stesura del libro che mantenne nel complesso la stessa struttura del programma televisivo.

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Sono dunque molti gli aspetti da analizzare, dagli schemi del libro e della trasmissione, al perché nasce l’esigenza di raccontare questo scorcio di storia del nostro Paese.

2.1. Il reportage: cos’è e quali sono gli elementi che lo

contraddistinguono

Per il fatto di privilegiare l’esperienza diretta e di analizzare in maniera ampia e concreta una situazione, il reportage è uno dei generi della scrittura giornalistica più apprezzati dai lettori. La chiarezza e nello stesso tempo la semplicità della scrittura sono i punti forti di questo genere, ma non solo. Procediamo con ordine.

2.1.1. Cenni storici sul reportage

La struttura del reportage ha una grande tradizione che per diverso tempo è stata molto affascinante per i lettori, che in esso hanno trovato quell’intreccio tra azione e scrittura che nessun altro genere offriva. Il genere è strettamente legato al viaggio e all’esperienza diretta che il reporter si trova a vivere e a raccontare. La

mediazione letteraria, che apparentemente poco aveva a che vedere con i fatti in questione, col passare del tempo è divenuta una componente non trascurabile e che alla fine valorizza la narrazione. Questo modo di vedere il reportage come qualcosa di prettamente giornalistico-letterario si afferma a partire dall’Ottocento,

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un secolo che ha visto numerosi autori cimentarsi in questo genere e produrre degli ottimi lavori.

Prima del diciannovesimo secolo il reportage era comunque conosciuto, ma aveva delle funzioni diverse rispetto a quelle che acquisì col passare del tempo. Pensiamo per esempio alle opere di carattere storiografico del passato, come ad esempio il De bello gallico di Giulio Cesare o al Milione di Marco Polo: ci troviamo in presenza di due grandi capolavori del passato che possono essere considerati, per certi versi, gli antenati del reportage. In queste opere troviamo i resoconti del viaggio compiuto, dettagli preziosi di carattere geografico, appunti sul comportamento culturale degli abitanti dei luoghi in questione. Tuttavia, nonostante vi siano elementi comuni, non possiamo inserire questo tipo di scritti all’interno del filone del reportage moderno. Solo dopo qualche secolo infatti il genere assumerà la forma che conosciamo oggi.

Uno degli innovatori della struttura può senz’altro essere considerato Henry Morton Stanley, giornalista che nel 1871 ritrovò in Africa l’esploratore David Livingstone, procurando molto scalpore nell’opinione pubblica58; la narrazione

riscosse molti apprezzamenti tra i lettori: sembrava si fosse trovato il giusto equilibrio tra l’azione compiuta e il modo in cui l’autore la raccontava.

Una delle più grandi figure che ha segnato la storia del reportage è Ernest Hemingway, inviato di diverse testate e corrispondente anche durante il conflitto civile spagnolo e la seconda guerra mondiale59. I suoi lavori risultano essere molto

apprezzati dalla critica per la puntualità e la vivacità stilistica. Tra i suoi scritti più

58BERTONI 2015, p. 23. 59 Ivi, p.24.

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riusciti ricordiamo Mussolini, il più grande bluff d’Europa del 1923, che profetizzava la caduta della dittatura in Italia (cosa che in realtà si verifico qualche lustro dopo) e Verdi colline d’Africa del 1935, reportage realizzato in Kenya e giocato sulla contraddizione tra l’avventura del safari e i rischi che questo comportava60.

Un altro importante esponente del reportage moderno è stato Goffredo Parise, autore nel 1976 di Guerre politiche, un insieme di articoli riguardanti la guerra in Vietnam, e di altri servizi riguardanti la lotta partigiana in Laos e la repressione militare in Cile.

Questi esempi ci aiutano a comprendere meglio cos’è un reportage e di cosa si

occupa nello specifico. Come tutti i grandi eventi che abbiamo citato (cadute di dittatori, guerre, repressioni), anche gli anni di piombo rappresentano un periodo buio e ricco di interrogativi che meritavano risposte.

2.1.2. Reperire il materiale e raccontarlo

Nel paragrafo precedente si faceva riferimento al genere del reportage nella sua forma originaria, ovvero quella scritta. Con le invenzioni di fotografia e televisione anche la struttura del genere si evolve, dando spazio alle nuove tecnologie per favorire la comprensione del pubblico.

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Che si tratti poi di un reportage scritto o televisivo bisogna comunque procedere con ordine, compiendo determinati passaggi. Il primo passo è quello del reperimento del materiale e della documentazione da trattare; questo perché è molto importante rimanere fedeli alla realtà dei fatti, e quindi più informazioni si avranno e più sarà facile riuscire a ricostruire dettagliatamente il fatto. Nulla deve essere lasciato al caso e i particolari risultano fondamentali per la buona riuscita del testo nonché per la scorrevolezza della ricostruzione. Molto importante è l’utilizzo dei tempi verbali appropriati e degli elementi linguistici in generale che, all’interno di una narrazione più intrecciata, sono necessari per la buona riuscita del testo; la scelta non ponderata di questi elementi potrebbe infatti creare confusione nel racconto della vicenda.61

È dunque importante la documentazione che il reporter ha a disposizione, ma la chiave per comprendere il genere è il modo in cui il materiale viene ordinato e quindi trattato. Chi scrive un reportage non si limita a esporre una serie episodi con prove a supporto, ma deve coinvolgere e testimoniare al lettore le emozioni che il fatto ha provocato aggiungendo quel pizzico di soggettività che possa far procedere un’intrecciata narrazione nel modo più scorrevole possibile. Non bisogna però dimenticare l’impronta oggettiva del racconto giornalistico, che sta alla base del reportage; pertanto quando si parla di soggettività si fa riferimento a particolari situazioni in cui l’autore sente l’esigenza di mostrare qualcosa, abbandonando ogni pretesa di onniscienza62. In questo caso l’incertezza della visione o del racconto lascia la normale prassi del documentario e si trasforma in

61CARDINALE 2011, pp. 62-63. 62 DONNARUMMA 2014, p. 212.

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esperienza che trasmette al lettore la sensazione del reale. Tutto questo, comunque, non compromette la visione veritiera e persuasiva del reportage, che in ogni caso nasce proprio per raccontare con chiarezza dei fatti storici. Anche Zavoli, all’interno del suo lavoro sugli anni di piombo, ricorre a commenti e opinioni soggettive che sono fondamentali per far luce su delle circostanze non del tutto chiarite. La forma e il modo di narrare gli episodi sono indispensabili per rendere persuasivo un fatto, addirittura più dei documenti stessi, e sta all’autore presentare un testo che possa colpire sia nell’esposizione che nello stile adottato.

Un altro importante elemento che caratterizza abitualmente la stesura di un reportage è l’utilizzo della prima persona plurale. Non si tratta in realtà di un’innovazione vera e propria, in quanto il «noi» era molto usato nella scrittura giornalistica anche in precedenza; cambia però il significato: se nei semplici articoli e in alcune inchieste la prima persona plurale stava a indicare non solo il giornalista scrittore, ma la redazione del giornale nel suo insieme, nel reportage, che ha il compito di fare chiarezza su importanti questioni che riguardano tutti (e quindi anche il lettore), il «noi» assume un altro ruolo, in cui chi legge si sente partecipe e si avvicina inevitabilmente a chi scrive.

2.1.3. Le fonti e il lead

La sostanza del reportage rimane comunque la notizia o l’episodio di cronaca, e per esser presentato e spiegato al lettore necessita di una cospicua documentazione che testimoni il fatto; è utile in tal senso accennare un discorso riguardante le

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fonti. Queste si dividono in dirette e indirette: le prime sono essenzialmente frutto di un lavoro sul campo del cronista, il quale esce dalla redazione in cerca di informazioni che possano risultare utili nella stesura del lavoro. Questo sistema implica chiaramente la presenza di informatori, con i quali il cronista intrattiene rapporti di fiducia, in quanto rivelatori di notizie riservate, indiscrezioni e scoop di varia natura. Per quanto riguarda le fonti indirette, invece, si tratta di informazioni recuperate tramite materiali d’archivio, per cui vengono chiamate «fonti istituzionali»63. In genere queste si dividono in primarie e secondarie: delle prime

fanno parte tutti i documenti d’archivio, le epigrafi e i manufatti; delle seconde le scritture sui fatti, ad esempio le opere degli storici o le successive ricostruzioni. È chiaro che per la realizzazione di un buon reportage è meglio fare affidamento più sulle fonti dirette, che offrono certamente notizie uniche e non alla portata di tutti.

I reportages sono molto apprezzati dai lettori, vuoi per l’interesse che suscitano nel trattare un determinato fatto di cronaca, vuoi per lo schema narrativo che il genere utilizza di solito. Tale struttura è molto interessante, soprattutto nella parte iniziale, dove è presente quello che nel gergo giornalistico è chiamato lead (ovvero “condurre”), che rappresenta il cappello al testo in cui l’autore introduce il suo lavoro e il modo con cui procederà nella narrazione. Troviamo il lead non solo nei reportage, ma in un qualsiasi articolo di un quotidiano. Fino a qualche tempo fa la prerogativa era quella di rispondere alle regola delle “5W”64: questa

norma, figlia del giornalismo anglosassone e adottata anche in altri Paesi, riprende le iniziali delle cinque domande («who?», «when?», «what?», «where?», «why?»)

63 CARDINALE 2011, pp.64-65. 64 Ivi, p. 73.

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che il lettore solitamente si pone per avere una buona comprensione del pezzo di cui si interessa. Col passare degli anni la regola sta perdendo la sua importanza: si punta infatti più su frasi a effetto e su una riduzione sostanziale delle parole utilizzate65. Anche in Italia, da qualche decennio, c’è stata una sostanziale innovazione del lead: a partire dagli anni Sessanta, infatti, la schematicità delle “5W” è abbandonata per dare maggior spazio ad un solo ambito, accompagnato però da maggiori dettagli che creano nel lettore la curiosità che lo avrebbe portato a leggere la storia66. Il lead, tuttavia, continua ad essere molto importante:

nonostante l’evoluzione subita nel corso del tempo, che lo ha visto ridursi sempre più, siamo pur sempre di fronte al biglietto da visita di un testo che ha l’ambizione di raccontare un fatto storico. All’interno del cappello possiamo trovare di tutto, dalle citazioni agli aneddoti, fino ad elementi che saranno fondamentali all’interno del racconto. Sia che si esponga un fatto, sia che si privilegi un particolare, i punti di partenza del lead possono essere: 1) l’enunciazione, in cui solitamente l’autore si concentra su un dettaglio della vicenda; 2) la situazione, dove ci ritroviamo proiettati in medias res nella vicenda che il cronista vuole raccontare; 3) la dichiarazione, che riprende direttamente le parole di un protagonista, e anche in questo caso il lettore si ritrova al centro della scena; 4) l’interrogativo, che consiste nel porre un quesito di natura generale che solitamente viene percepito come problema collettivo e che provoca nel lettore una riflessione67. Da quanto detto, si evince l’importanza del lead: è attraverso l’incipit che possiamo iniziare a

65 Ivi, pp. 72-73.

66 PAPUZZI 2010, pp. 184-185. 67 Ivi, pp. 185-188.

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comprendere realmente la notizia, anzi è fondamentale capirlo per evitare di perdere parte della narrazione.

È inutile dire che oltre all’introduzione è fondamentale lo svolgimento vero e proprio del testo. Se attraverso l’incipit ci catapultiamo subito all’interno della trama del reportage, i successivi passaggi sono altrettanto importanti per la buona riuscita della narrazione. Un altro importante passo è la presentazione del protagonista, specialmente se questo non è noto al lettore. In tal caso è molto utile procedere con degli esempi per giungere a una caratterizzazione che possa sembrare credibile in relazione ai fatti narrati. Nel momento in cui invece ci troviamo in presenza di una personalità famosa il tutto risulterà più semplice, in quanto il protagonista non ha bisogno di presentazioni.68

Nel momento in cui parte il vero e proprio svolgimento del racconto bisogna essere quanto più chiari possibili per facilitare la comprensione del pubblico. È infatti molto importante inserire anche i particolari più banali per andare offrire al lettore una corretta informazione69.

68 CARDINALE 2011, pp.77-78.

69 Particolarmente rilevante in questo caso, è l’esempio del De bello gallico di Giulio Cesare. Ivi,

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2.1.4. Evoluzione del genere: foto e televisione

Da quanto detto fin qui, ci rendiamo conto delle evoluzioni che il genere del reportage ha subito nel corso del tempo. Inizialmente furono le fotografie ad aprire un vero e proprio filone: alla fine dell’Ottocento, con l’invenzione della lastra a mezzatinta che consentiva di stampare le fotografie con la stessa macchina usata per i caratteri tipografici, fu molto più semplice per i reporter dare avvio a un processo di innovazione del loro lavoro.70Il vero banco di prova del genere fu la prima guerra mondiale, che rappresentò la verifica dal punto di vista pratico delle nuove tecniche di fare giornalismo, con ottimi risultati. Se la Grande Guerra risultò essere la prova generale di un nuovo modo di produrre reportage, la seconda guerra mondiale ne confermò il successo. Illustri reporter, tra i quali spicca il nome del fotografo ungherese Robert Capa, furono la prova che il genere era riuscito ad evolversi grazie ai nuovi mezzi tecnologici di cui disponeva. Con i suoi scatti, Capa riuscì a raccontare le sofferenze e la fatica che la guerra aveva provocato sfruttando al massimo la potenza delle immagini.

In Italia il reportage fotografico ebbe grande successo grazie al prezioso contributo dell’istituto Luce, ma inevitabilmente fu segnato dalla censura del regime fascista. Pertanto il fotogiornalismo italiano risulta essere circoscritto ad episodi isolati.

Con la diffusione della televisione, il genere compie ulteriori passi avanti dal punto di vista tecnologico. Le foto vengono sostituite dai video e i reporter furono

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maggiormente incoraggiati nel produrre dei lavori, anche per confrontarsi con i nuovi attrezzi di cui potevano disporre. Nel nostro Paese fu la RAI a dare slancio a inchieste e reportages realizzati da diversi cronisti (oltre a La notte della

Repubblica, lo stesso Zavoli si era cimentato in un altro lavoro, chiamato Nascita

di una dittatura).

Abbiamo dunque elencato le caratteristiche e il modo di procedere che sono propri di questo genere: dal solo testo, all’ausilio tecnologico di foto e video ci rendiamo conto di aver a che fare con un modo di fare giornalismo che per la sua completezza ha sempre trovato all’interno del pubblico un gran numero di interessati.

2.2. Il lavoro di Zavoli: perché nasce e come si sviluppa

La notte della Repubblica andò in onda in diciotto puntate. Qualche anno dopo,

Zavoli, insieme al gruppo di autori che lo aveva coadiuvato nella scrittura del programma televisivo, decise di trascrivere l’imponente lavoro svolto per fornire ai lettori anche il formato cartaceo del materiale prodotto. Il motivo di tale scelta fu da attribuire proprio al grande successo che il reportage aveva avuto. E in tal senso Zavoli e la sua squadra spinsero il loro pubblico ad un confronto su episodi che avrebbero avuto ripercussioni sul futuro politico e sociale del Paese.

La suddivisione in capitoli del libro riprende il numero di puntate andate in onda sulla RAI. Ad ogni capitolo corrisponde una puntata. Convenzionalmente

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possiamo suddividere il libro in quattro parti, che in realtà rappresentano quattro diversi momenti dei fatti narrati: 1) il primo (capp. I-II) è quello in cui l’autore ci descrive la situazione dell’Italia degli anni Sessanta, un periodo di grande instabilità politico-sociale della Nazione, segnato dai movimenti studenteschi che anche in Italia, come nel resto d’Europa, avevano trovato terreno fertile. È in questi anni che vengono poste le basi per ciò che accadrà in seguito; 2) la seconda parte (capp. III-X) è caratterizzata dall’inizio degli attentati: i movimenti di estrema destra (non riuniti sotto un’unica sigla) si rendono protagonisti di diverse azioni, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, passando anche per un tentato golpe ribattezzato “Borghese” in onore del suo organizzatore Juan Valerio

Borghese. Nello stesso periodo anche nella sinistra extra-parlamentare inizia a muoversi qualcosa. Nascono le Brigate rosse e altri gruppi minori tra cui Lotta continua. Il processo di lotta armata inizia a prendere forma anche a sinistra con rapimenti e uccisioni, soprattutto da parte delle BR; 3) il terzo importante momento della narrazione (capp. XI-XIII) è la vicenda Moro. Zavoli occupa tre capitoli per analizzare i fatti e le conseguenze che il rapimento dell’esponente della DC ebbe in quel clima. L’attentato di via Fani e l’uccisione dell’ex Presidente del Consiglio rappresentano una cesura di rilievo all’interno del reportage. In pochi si sarebbero aspettati che le BR potessero spingersi a tanto; 4) il quarto e ultimo spezzone (capp. XIV-XVIII) riguarda gli anni successivi alla morte di Moro. Sono anni difficili per i brigatisti, che oramai si sentono accerchiati grazie anche alle confessioni dei primi pentiti. Le rigide misure imposte dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa71 permetteranno l’arresto dei

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capi maggiori dell’associazione ancora in libertà, i quali ammetteranno presto il fallimento del loro progetto. Infine c’è il ritorno del terrorismo di matrice nera, con l’attentato compiuto alla stazione di Bologna. Sarà l’ultima strage di grandi proporzioni (ma anche quella che mieterà più vittime).

2.2.1. Il terrorismo nero

Nella prima parte del libro abbiamo una panoramica sulla situazione socio-politica italiana di fine anni Sessanta che portò ad un periodo di grande instabilità. Ad approfittare di questa tensione istituzionale furono inizialmente dei gruppi di matrice neo-fascista, con l’intento di compiere un colpo di Stato in funzione anticomunista. Il primo grande segnale fu l’attentato di Piazza Fontana del dicembre 1969, interpretato fin da subito come un episodio riconducibile all’estrema destra, che innescò momenti di violenza che ebbero come maggiore risultato la diffusione del terrore. Le stragi compiute dai fascisti da quel momento furono sempre più frequenti: nel 1970, approfittando di una rivolta popolare dovuta allo spostamento della sede dell’Assemblea regionale da Reggio Calabria a Catanzaro, deragliarono un Freccia del Sud nei pressi di Gioia Tauro, provocando sei morti72. Nel maggio 1974 è la volta di Brescia: a Piazza della Loggia si stava svolgendo una manifestazione sindacale contro gli attentati che da qualche tempo colpivano il Paese. Durante il comizio una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti esplode: il bilancio sarà di otto morti e novantaquattro feriti. Qualche mese dopo, i

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movimenti di estrema destra si rendono protagonisti di un altro agguato: una bomba sul treno Italicus, in viaggio da Roma a Monaco di Baviera, provoca dodici morti e centocinque feriti. Sei anni dopo, nell’agosto 1980, la stazione di Bologna è scossa da un altro grave episodio: un ordigno provoca ottantacinque vittime. Nessun strage prima aveva raggiunto un numero così alto di morti.

Fu però qualche anno prima, nel 1970, che le organizzazioni di estrema destra andarono vicine al colpo di Stato: nella notte tra il sette e l’otto dicembre, gli uomini di Juan Valerio Borghese (tra cui dei forestali, ecco perché viene chiamato “golpe dei forestali”) si introdussero nell’armeria del Viminale impossessandosi di duecento mitra. Subito dopo arrivò il contrordine. I motivi risultano tutt’ora sconosciuti.

Molte, come abbiamo visto, furono le azioni intraprese dalle organizzazioni neo-fasciste. Episodi di violenza che avevano lo scopo di caricare di tensione un clima di per sé già instabile, e compiere quel golpe anticomunista di cui si parlava da qualche tempo.

2.2.2. Le Brigate Rosse e il terrorismo di sinistra

Nello stesso momento, altre organizzazioni appartenenti al mondo della sinistra extra-parlamentare teorizzavano la lotta armata su basi anticapitaliste e antiamericane. Molto probabilmente la strage di Piazza Fontana accelerò la svolta armata e favorì gli episodi di violenza che ne seguirono. All’interno dei gruppi

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comunisti uno si distinse particolarmente tra tutti: le Brigate rosse. Rispetto ai gruppi neo-fascisti, i terroristi rossi ebbero un modo diverso di agire: non miravano a compiere della stragi che avrebbero coinvolto anche i civili, ma a colpire delle importanti personalità che rappresentavano il potere capitalista che si stava frapponendo tra l’Italia e la “rivoluzione”. «Colpirne uno, per educarne

cento»73, questo era il motto a cui si ispiravano i brigatisti e che portò a gravi episodi, tra cui il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi (che fu successivamente rilasciato), gli omicidi del maresciallo Rosario Berardi e del commissario Antonio Esposito, e ancora alle uccisioni del giudice Francesco Coco e del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet. Tra i tanti attentati delle BR, però, quello che fece più scalpore fu quello compiuto ai danni del presidente della DC Aldo Moro. Questi fu sequestrato a Roma la mattina del 16 marzo 1978 (nell’attentato di via Fani morirono tutti gli agenti della scorta) e ritrovato morto il 9 maggio seguente, sempre nella capitale, in via Caetani. Con il rapimento di Moro le BR avevano raggiunto il punto più violento della loro breve storia. Ma questo episodio ne segnò anche l’inizio del declino. I poteri straordinari conferiti dal governo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa diedero inizio alla controffensiva dello Stato, che nel giro di qualche anno riuscì ad arginare la strategia del terrore che da destra a sinistra stava minando la stabilità del Paese.

Significativa è anche la meteora violenta di Prima linea74, un altro movimento di estrema sinistra che contava su gran parte dei fuoriusciti di Lotta continua (che si

73 Ivi, pp. 71-97. 74 Ivi, pp. 365-388.

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era definitivamente sciolta nel 1976). PL compie tra il ’77 e l’80 una serie di azioni per autofinanziarsi, poi cominciano gli omicidi: il magistrato Emilio Alessandrini, l’ingegner Carlo Ghiglieno, il giudice Guido Galli. Ma a procurare dei sussulti di coscienza tra i membri dell’organizzazione fu l’assassinio di William Vaccher, ex affiliato di PL, accusato di essere un collaboratore della polizia.

La grande ondata di pentimenti che stava mettendo in ginocchio le Brigate rosse colpì presto anche Prima linea e l’organizzazione ben presto fu sgominata.

2.3. I diversi stili dell’opera: la narrazione dei fatti e le interviste

La versione scritta della Notte della Repubblica, al suo interno, raccoglie una grandissima quantità di documenti. Zavoli sottolinea nella presentazione del testo, dopo aver ringraziato i suoi colleghi redattori, il grande lavoro che era stato compiuto proprio nella ricerca dei documenti, e l’attenzione che ci volle nel controllarli attentamente per offrire al lettore un testo (e un programma televisivo) che fosse quanto più chiaro possibile. Siamo dunque in presenza di una situazione molto delicata, in cui le parole di «chi c’era»75 dovevano essere accompagnate da

prove vere e proprie; e infatti, da questo punto di vista, l’autore è molto preciso e pignolo nella trascrizione di atti giudiziari, sentenze e capi d’accusa che interessarono i protagonisti di quegli anni. L’obiettivo era quello di fornire una ricostruzione quanto più possibile fedele dei fatti. Nonostante questo, Zavoli,

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