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I «compagni» dell’organizzazione

Nel racconto delle vicissitudini del sequestro, Braghetti dedica ampio spazio anche alla presenza dei compagni delle BR che hanno svolto un ruolo attivo nell’operazione.

Il primo di cui Braghetti accenna è Bruno Seghetti, uomo di cui la terrorista si innamora e che le indica la strada per entrare nell’organizzazione:

Bruno era piccolo, asciutto, con lunghi capelli neri da indio, pelle liscia, un tipo speciale per procurare quello che mancava, avere in tasca proprio l’oggetto che serviva. Ci voleva un cacciavite, e lui aveva il cacciavite. Si era rotto il ciclostile, e lui ne faceva saltare fuori un altro. Avrebbe dovuto fare il trovarobe306.

La relazione fra i due va avanti per qualche mese, ma è costretta a interrompersi per le severe regole dell’organizzazione che non consentono certi tipi di rapporti. Bruno infatti appare come una persona molto determinata e di poche parole, tant’è che è proprio Seghetti a troncare la relazione con un laconico «Ci dobbiamo lasciare». Questo episodio ci aiuta a capire le limitazioni a cui i terroristi erano

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costretti. Il movimento aveva delle norme precise, e nessuno poteva sottrarsi. La vita di un brigatista era dunque influenzata profondamente da continue scelte nell’interesse dell’organizzazione: le BR venivano prima di tutto quanto, e anche le relazioni personali e la vita privata dovevano esser messe in secondo piano. I terroristi erano a conoscenza delle restrizioni a cui andavano incontro, ma nonostante questo, il fascino del terrorismo aveva avuto la meglio. Nel caso di Braghetti pare quasi che ci siano delle «forze che in qualche modo la trascendevano»307 per spiegare l’adesione alle BR, e la lotta armata viene vista

dunque come qualcosa di mitico e a cui è difficile sottrarsi.

Per quanto riguarda Moretti, fin dalle prime pagine è descritto come il capo carismatico delle BR. Braghetti sembra molto legata a lui: sa sempre usare le parole giuste, specialmente quando c’è da tranquillizzare qualcuno. Una delle immagini che ne viene fuori è quella di un uomo deciso ma molto pacato. È molto severo nel far rispettare le regole per salvaguardare l’associazione, e non si esime quando ci sono lavori manuali da svolgere:

Germano parve l’uomo giusto, essendo oltretutto il mio fidanzato ufficiale, agli occhi del mondo colui che doveva occuparsi del mio giardino. Quando Mario mise in mano a Germano un paio di cesoie, quello restò di stucco. […] Rifiutò. […] Quando fu chiaro che Germano non si sarebbe dedicato al giardinaggio, Mario sembrò tutt’altro che seccato. Non avrebbe certo chiamato un giardiniere, sogghignò. Mise un cappello di paglia, così dall’alto i vicini non lo avrebbero visto in faccia, e cominciò subito a darsi da fare. […] Giurerei di averlo sentito canticchiare308.

307 TABACCO 2010, p. 96

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Pacato e laborioso, così è descritto Moretti. Un leader naturale per le BR che quando era necessario non si tirava indietro neanche dai lavori manuali, cosa che solitamente non si addice al capo di un’organizzazione terroristica. Moretti inoltre aveva messo a punto una struttura logistica delle BR molto precisa, tanto che secondo Braghetti era impensabile che all’interno dell’organizzazione potessero

esserci delle talpe. Il concetto è ribadito più volte, specialmente in uno scorcio riferito alle ipotesi che i terroristi avevano fatto su Patrizio Peci:

Qualcuno ipotizzò che Patrizio Peci fosse fin dall’inizio un infiltrato, ma io non ci credo. Gli infiltrati nelle Brigate rosse di Moretti non avrebbero resistito più di un mese. Tutti noi sparavamo, uccidevamo, rapinavamo: un agente non avrebbe mai potuto farlo. Né avrebbe potuto sottrarsi alle azioni senza destare sospetti. Inoltre, date le regole della compartimentazione, avrebbe impiegato anni di addestramento per arrivare oltre il livello della brigata, e accedere all’ambiente più ampio dei fronti e della direzione di colonna. Le Br selezionavano accuratamente i militanti309.

Da questo passo emerge la prova della svolta militaristica delle Brigate rosse impartita da Moretti. Il leader dell’organizzazione non lasciava nulla al caso, specialmente quando c’era da «selezionare» i militanti. Anche nei momenti di maggiore difficoltà dell’organizzazione, specialmente dopo gli arresti e le retate delle forze dell’ordine, Moretti fa sempre scelte mirate, per essere sicuro di non essere tradito in futuro. È dunque visto come il capo naturale dell’organizzazione, un uomo che ha deciso di vivere al servizio di un progetto rivoluzionario, che lo

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porta ad occuparsi di tutto, dagli aspetti prettamente organizzativi, fino ai lavori manuali più impensabili. Braghetti nel testo non nasconde l’ammirazione e la stima nei confronti di Moretti. Attraverso questi aneddoti la terrorista prova a scagionare il leader delle BR dalle accuse di disumanità che gli erano state rivolte. C’è infatti la tendenza a rendere normale una situazione che non lo era affatto: la follia criminale dell’organizzazione viene messa da parte, e fa largo al racconto di un uomo comune, che aveva la passione e l’abilità per la realizzazione di piccoli lavoretti domestici. Emerge dunque l’immagine di un uomo completamente dedito alla causa, quasi un modello da seguire.

Alla figura di Prospero Gallinari è dedicato addirittura un intero capitolo. Tra lui e Braghetti inizia una relazione che porterà al matrimonio, tenutosi nel carcere di Palmi il 21 agosto 1981. Fin dalle prime pagine Braghetti esalta i modi di fare di Gallinari, finché non se ne innamora. Scrive la ex terrorista:

Era politicamente rigido e assolutista, privo di dubbi e ripensamenti, ma all’epoca quelle erano ai miei occhi, purtroppo, virtù. Era il prototipo del militante ligio, capace di anteporre le sorti della rivoluzione alla sua vita. Quello che ha saputo veramente dire addio a tutto. Ancora una volta un uomo di cui prendermi cura, come di mio padre, di mio fratello, di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita310.

Dopo il matrimonio Braghetti e Gallinari non si vedono per molto tempo. Poi nell’84 Prospero è colto da un infarto, ma nonostante sopravviva Braghetti non ne sopporta le conseguenze:

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La verità è che saperlo malato mi disamorò di lui. Prospero rappresentava ai miei occhi l’unico uomo incrollabile e tenero che mai avessi conosciuto e amato dopo mio padre. Saperlo debole, cambiato, mi fu insopportabile311.

Altre due figure importanti che compaiono nell’autobiografia sono Valerio Morucci e Adriana Faranda, ovvero i «postini» dell’organizzazione. Avevano infatti chiesto a Moretti di svolgere quel difficile ruolo, poiché volevano avere un parte attiva dell’azione. Membri della colonna romana, in passato erano entrati in

contrasto con alcuni esponenti milanesi, specialmente con Alberto Franceschini che li aveva definiti «faciloni e chiacchieroni»312. Nelle BR di Moretti non c’era però traccia di tutto ciò. Essi infatti seguivano fedelmente le dure regole del capo dell’organizzazione per evitare guai. Si resero comunque protagonisti di uno dei litigi che probabilmente delineò l’inizio del declino dell’organizzazione, riguardante la sorte di Moro. Non è ormai un mistero che Faranda e Morucci si opposero in maniera netta all’esecuzione del prigioniero, ma il direttivo decise di votare per la proposta risolutiva di Moretti. Nonostante la loro contrarietà comunque non si tirarono indietro, tanto che è stato proprio Valerio Morucci ad effettuare la chiamata che ha consentito il ritrovamento del cadavere di Moro. Braghetti li ricorda soprattutto perché furono gli intermediari di una vera e propria trattativa col PSI che mandò su tutte le furie Moretti.

Come abbiamo visto, sono diversi i personaggi che compaiono nello scritto di Braghetti. Ed è interessante notare il giudizio strettamente personale che viene dato dall’autrice su di essi: il Prigioniero risulta essere dunque un documento

311 Ivi, pp. 86-87. 312 Ivi, p. 93.

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unico nel suo genere, poiché permette di vedere e analizzare episodi e personaggi in chiave più intima e personale.

Questo tipo di racconto, utilizzato da molti ex reduci della sinistra rivoluzionaria, rappresenta il tentativo, più o meno esplicito, di giustificare a posteriori le proprie scelte e i propri comportamenti, chiamando in causa il contesto storico e lo scontro politico di quegli anni313. Braghetti rivendica continuamente

l’appartenenza alle BR, in alcuni casi sente il peso della «rivoluzione» sulle proprie spalle, quasi come una missione da portare a termine. In altre situazioni però formula delle riflessioni opposte, paragonando addirittura le lettere di Moro a quelle dei partigiani della Resistenza:

Lessi alcune di quelle lettere […] erano terribili. Mio malgrado mi richiamavano alla mente quelle dei condannati a morte durante la Resistenza, raccolte in un libro che mio padre teneva in casa e che avevo letto anche a scuola, versando lacrime di rabbia e domandandomi, talvolta, come mi sarei comportata in analoghe circostanze. Adesso il carceriere ero io. Non volevo pensarci. Non dovevo pensarci314.

Braghetti dunque si rende conto del suo ruolo di carceriere, ma preferisce allontanare certi pensieri per non lasciarsi impietosire da Moro. Richiama gli episodi di condanna a morte dei partigiani, ma si colloca nello schieramento opposto. Anche Moretti nell’intervista di Rossanda aveva usato un esempio

313 LAZAR-MATARD BONUCCI 2010, p. 218. 314 BRAGHETTI-TAVELLA 2012, p. 108.

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simile, interpretandolo però in maniera opposta: il partigiano era lui, i tedeschi erano i poliziotti315.

Emerge dunque una visione totalmente contrastante tra le esperienze di Moretti e Braghetti: entrambi probabilmente tendono a una giustificazione di fondo delle loro azioni, ma nelle parole della terrorista sembra che ci sia una riflessione più profonda sui fatti. Braghetti non rinnega le sue idee, ma fin dalla prima pagina del racconto percepiamo che la narrazione procede sul filo del pentimento quasi come a volerci dire che, a scapito dell’ideologia, il modus operandi dell’organizzazione era da condannare.

6.7. Conclusioni

Nel libro della Braghetti sembra non esserci alcuna intenzione di porre la propria vicenda in prima piano316. Ciò è dimostrato dalla presenza di altri personaggi che rappresentano i veri protagonisti della vicenda (lo stesso Moro, Moretti, i compagni sequestratori e perfino Paolo VI), e inoltre i capitoli riguardanti la vita della Braghetti sono minori rispetto allo spazio occupato dal sequestro. Siamo dunque in presenza di un testo unico che rivela i particolari più impensabili di una delle azioni più violente del nostro Paese, e che possiamo inserire all’interno della tradizione del memoir, poiché nel testo si rintracciano tutta una serie di elementi riconducibili a questo genere.

315 LAZAR-MATARD BONUCCI 2010, P.32. 316 TABACCO 2010, p. 93.

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Come nel caso dell’intervista a Moretti, è molto importante valutare l’effettiva attendibilità del racconto. Braghetti ha ricoperto nell’organizzazione un ruolo minore rispetto a quello di Moretti e non si sofferma quasi mai, nel testo, su episodi specifici dell’intera storia delle BR che hanno lasciato dubbi. E quando lo fa, come nel caso della scoperta del covo di via Gradoli, si limita a esprimere un giudizio personale che non ha lo scopo di divenire una verità assoluta.

In numerosi scorci del testo inoltre la terrorista si interroga sulla sua adesione all’organizzazione, sottolineando come i suoi comportamenti fossero lontani da quel tipo di vita. È probabilmente un tentativo di auto-assoluzione, un prendere le distanze da quanto successo; e non a caso infatti Braghetti parla di forze trascendentali per giustificare l’ingresso nelle Brigate rosse, che rappresenta un chiaro tentativo di evadere dalle proprie responsabilità. A conferma di ciò, la terrorista insiste sul suo ruolo di subordinazione all’interno dell’organizzazione, lasciando intendere che non fosse lei a prendere le decisioni importanti. L’immagine che dà di sé è quella di una donna pentita, ma che in fondo preferisce

scaricare le colpe maggiori sugli altri «compagni».

Il critico Marco Belpoliti ha definito il Prigioniero come una «lettura tragica, dove la tragedia starebbe ad indicare un «testo già scritto»317. In particolare

A partire dal momento del sequestro stesso, la condanna a morte del presidente della DC sembra già emessa. [Il periodo della prigionia] appare come un tempo sospeso, circolare, in cui i brigatisti-sequestratori, nel racconto della Braghetti, si aggirano come automi di rompere quella circolarità che li conduce all’inevitabile conclusione, attori di un dramma i cui ruoli sono già fissati in anticipo da un copione che a sua volta ripete un avvenimento mitico riattualizzandolo. […] L’idea del processo è basilare in tutta la lettura degli

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avvenimenti del caso Moro. […] Senza il processo-colloquio intrapreso da Mario Moretti nei confronti di Moro, il sequestro si ridurrebbe a un tempo vuoto318.

Per Belpoliti dunque tutto sembra già deciso fin dall’inizio, a giudicare dai comportamenti dei brigatisti. Resta comunque il fatto che ci troviamo di fronte al racconto di una protagonista dell’operazione di maggior rilievo delle Brigate

rosse, che nel suo libro riesce ai trasmettere ai lettori la tensione per un’azione senza dubbio pericolosa, e l’ansia di dover condurre una doppia vita tra famiglia, lavoro e un’organizzazione criminale.

Infine è necessaria una riflessione sul ruolo delle donne nelle organizzazione terroristiche italiane degli anni Settanta. La presenza femminile nella lotta armata è statisticamente inferiore a quella maschile, e questo rappresenta forse l’immagine di una situazione politico-sociale in cui le donne chiedevano maggiore uguaglianza. Anche dalle parole di Braghetti percepiamo questa difficoltà della donna, e in determinate occasioni addirittura tutto questo diventa un motivo in più per soffocare le proprie paure e per dimostrare che anche le donne potevano avere un ruolo primario nell’organizzazione:

Io non avevo dubbi morali o politici, avevo paura: è diverso. E la combattevo, quella paura, anche per una ragione un po’ patetica, e cioè la vergogna di fare la figura di una ragazzetta piccolo-borghese che se la fa addosso, mentre i compagni proletari, tanto più provati dalla vita e dalla storia, vanno avanti319.

318 BELPOLITI 1998.

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Nonostante questo, comunque, Braghetti racconta che il suo avvicinamento alle BR avviene grazie a una relazione sentimentale e non vi è traccia di considerazioni di natura ideologico-politica. Non ritroviamo, come nel caso di Moretti, le riflessioni sui valori responsabili dell’adesione alla lotta armata. E ciò attribuisce senza alcun dubbio un ruolo minore alle donne, che si ritrovavano ad essere subordinate alle decisioni prese principalmente dagli uomini.

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Conclusioni

Tanto si è detto e scritto riguardo al periodo degli anni di piombo in Italia, e nonostante questo ci sonoancora degli interrogativi senza una risposta su alcuni episodi. E non poteva essere altrimenti per un periodo storico che ha contribuito a cambiare nel profondo la società del nostro Paese.

Specialmente sul terrorismo molti sono stati gli studi che hanno permesso la formulazione di varie tesi volte a comprendere i motivi che stavano alla base del fenomeno. E su questo versante c’è ancora molto da fare, poiché abbiamo ricevuto in eredità, come detto, dei quesiti ancora irrisolti. Uno di questi riguarda, ad esempio, la ricostruzione dell’atteggiamento che la classe politica e istituzionale ha avuto nei confronti del terrorismo, e nello specifico in che modo le scelte e le strategie politiche del periodo sono legate al fenomeno in questione. Inoltre è da verificare, a supporto delle numerose ipotesi fatte, l’effettivo coinvolgimento dei servizi segreti internazionali di alcuni Paesi a sostegno delle organizzazioni terroristiche rosse320.

Anche la società italiana è uscita profondamente cambiata da quel periodo: la «centralità operaia», che era stata alla base del dibattito politico a partire dagli anni del postguerra, perde la sua importanza, anche perché nel frattempo la situazione economica globale era mutata. Non solo: veniva infatti a mancare la figura dell’antagonista contro cui «combattere», com’era stato per i decenni precedenti. Il terrorismo infatti aveva messo in secondo piano le questioni relative

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alle politiche del lavoro, con il solo risultato che vedeva gli operai continuare a essere una realtà importante del Paese, ma tuttavia perdere quel protagonismo politico che aveva dato la spinta per intraprendere innumerevoli battaglie.

Perfino il concetto di antifascismo, uno dei capisaldi dell’Italia del dopoguerra viene rivisto: a partire dall’inizio degli anni Ottanta infatti si assiste a una sorta di classificazione che mette sullo stesso livello i partigiani e i «repubblichini»321,

ovvero coloro che avevano difeso le istituzioni dai terroristi.

L’opinione pubblica si è profondamente divisa in quegli anni, riuscendosi probabilmente a compattare solo dopo l’omicidio di Moro. Gli studiosi infatti si sono soffermati sui comportamenti della massa, evidenziando in molti casi una certa simpatia per i terroristi e per loro azioni, almeno fino al ’77.

Gli anni di piombo però hanno toccato in particolar modo la classe politica del tempo. Le proteste per un sistema ritenuto troppo chiuso si sono manifestate in maniera violenta, e questo ci aiuta a capire anche la rilevanza che questo argomento ha avuto nel Paese. L’incapacità di far fronte all’emergenza poi è sembrata palese. Inoltre la riflessione che tutti si aspettavano sugli episodi che avevano contraddistinto quel periodo non c’è mai stata, al punto che i partiti, dopo aver perso una gran parte della loro credibilità in quegli anni, si sono ritrovati poco dopo a dover affrontare lo scandalo «Tangentopoli» che ha suscitato nel Paese tanto sdegno, a tal punto che si parla di fine della «Prima Repubblica» per indicare la chiusura di una fase politica durata più di quarant’anni. Una fase contraddistinta anche da numerosi casi di corruzione delle istituzioni, come testimoniato tra l’altro dall’Italia nichilista di Corrado Stajano.

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Abbiamo inoltre constatato le difficoltà degli intellettuali in quegli anni caotici e violenti. In un periodo caratterizzato da una produzione romanzesca non all’altezza degli anni passati, la letteratura si arricchisce di opere di stampo giornalistico che hanno permesso al pubblico di ricostruire i fatti che avevano contrassegnato quel momento storico. L’importanza di queste produzioni, e della

figura del giornalista, è inoltre confermata anche dagli attentati che la categoria ha subito negli anni di piombo, a causa della strategia di attacco al cuore dello Stato portata avanti dalle Brigate rosse. Ad ogni modo pare che questo modo di narrare i fatti, attraverso scritture non finzionali, abbia convinto il pubblico, che finalmente aveva l’opportunità di scoprire le cause e i retroscena che stavano alla

base del fenomeno della violenza terroristica. Anche la televisione in questo senso ha avuto un ruolo fondamentale, poiché è riuscita nell’intento di ampliare la diffusione del racconto di quei giorni.

Il giornalismo ha dunque ricoperto un ruolo primario in quella fase storica, anche se in realtà in pochi si resero conto fin da subito che il terrorismo non era semplicemente un fenomeno marginale. E la polemica sull’«album di famiglia» in cui fu coinvolta Rossana Rossanda ne è un esempio palese.

Gli anni di piombo sono stati tutto questo: violenza sociale, caos politico e difficoltà letteraria. Un decennio che ha attirato l’interesse di sociologi, politologi e studiosi che hanno rintracciato una serie di fenomeni responsabili di un cambiamento profondo della società italiana. Studi a parte, resta comunque il fatto che nel nostro Paese non ci sia stata una riflessione seria sulle cause e sugli effetti che quel momento storico ha portato con sé: il più delle volte è stato preferito il silenzio da parte delle istituzioni, che non sempre ha permesso di vedere chiaro

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uno dei momenti più delicati dell’Italia repubblicana. E proprio in questo il ruolo della letteratura è stato fondamentale: attraverso la produzione di testi sugli episodi di quel periodo, si percepisce la voglia degli intellettuali di dare una risposta ai tanti quesiti irrisolti. Con La notte della Repubblica, ad esempio, Zavoli ha dato per primo la parola ai terroristi, una cosa che non si era mai verificata in precedenza, e che permetteva al pubblico attraverso le testimonianze, di captare i retroscena delle azioni violente compiute. Stajano addirittura, nell’Italia nichilista, ricostruisce una vicenda di corruzione istituzionale che il Parlamento aveva di fatto occultato. E anche l’intervista a Moretti e