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La riforma delle province. La legge Delrio e la sua applicazione

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza

Titolo

La Riforma delle Province. La Legge Delrio e la sua

applicazione.

Il Candidato Il Relatore

Enrico Lentini Prof. Alfredo Fioritto

(2)

Alla mia famiglia, in particolare ai miei genitori,

ai quali, devo ciò che sono e quello che ho fatto fin ora, ai quali dovrò, gran parte della realizzazione, dei miei, ambiziosi, progetti futuri,

nonostante creda che “Faber est suae quisque fortunae”,

saranno, infatti, loro ad averne posto le basi, insegnandomi a guardare lontano ed a volare alto.

(3)

1

SOMMARIO

Le Province

3

Introduzione

4

CAPITOLO I: LA STORIA DELLE PROVINCE

I.I Le origini delle province

6

I.II La travagliata strada dell’Unità d’Italia

8

I.III Le province dopo l’unificazione

13

I.IV Le province durante il Fascismo

15

I.V Aspetti peculiari delle province fasciste

22

I.VI L’Assemblea Costituente e

la Costituzione del 1948

25

I.VII Gli anni ’50 e ’60

34

I.VIII L’istituzione delle regioni

35

I.IX La Commissione Bozzi

37

I.X La legge n. 142 del 1990

39

I.XI La Commissione De Mita-Iotti

42

I.XII La legge n. 81 del 1993

43

I.XIII Il Comitato Speroni

45

I.XIV Il principio di sussidiarietà e le leggi Bassanini

45

I.XV La Commissione D’Alema

49

I.XVI Ulteriori proposte

51

I.XVII La riforma costituzionale del 2001

52

I.XVIII Il progetto di riforma costituzionale del 2005

55

I.XIX La Carta delle autonomie

56

I.XX I dibattiti degli ultimi anni

57

(4)

2

I.XXII Conclusioni

63

CAPITOLO II: LA LEGGE DELRIO

II.I La normativa

66

II.I.I Le province nella legge n. 56 del 2014 67

II.I.II Gli organi delle province 69

II.I.III Le funzioni delle nuove province 73 II.I.IV L‟Accordo Stato-Regioni del 2014 77 II.I.V Il DPCM del 26 settembre 2014 78 II.I.VI Le Città metropolitane nella legge n. 56 del 2014 79 II.I.VII Gli organi delle Città metropolitane 81 II.I.VIII Le funzioni delle Città metropolitane 89

II.II Commenti alla norma

93

II.III La sentenza della Corte Costituzionale

n.50 del 2015

107

II.III.I Commenti alla sentenza 114

II.III.II Punti criticati della sentenza 116

II.IV Tappe di avvicinamento alla

riforma costituzionale

123

II.V Cenni sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi

125 II.V.I Qualche breve commento, in attesa del referendum 128

CAPITOLO III: L’APPLICAZIONE REGIONALE

DELLA LEGGE DELRIO

III.I Due regioni: Lazio e Toscana

130

III.I.I L‟attuazione della legge Delrio in Toscana 130 III.I.II L‟attuazione della legge Delrio nel Lazio

144

III.II Conclusioni

150

Bibliografia

152

(5)

3

Le Province

“Il tardo sorgere della provincia, come circoscrizione territoriale, va ricercato nel fatto che essa presuppone una maggiore evoluzione dello spirito di sociabilità umana, un più progredito ordinamento della pubblica Amministrazione, una maggiore complessità di rapporti, specialmente di carattere economico, che non potevano esistere né durante il periodo romano, le cui esigenze principali nella provincia miravano all‟ordinamento militare e alla riscossione delle imposte, né nel medio-evo in cui il frazionamento della sovranità in piccole repubbliche, gelose l‟una dell‟altra, non avrebbe consentito il costituirsi di altri organismi, che per necessità di cose avrebbero assunto carattere politico e statuale.”

Così descriveva le ragioni della nascita degli enti provinciali, nel 1953, Arturo Lentini1.

1 A. LENTINI, L‟amministrazione locale, Como, Tipografia editrice Cesare Nani, 1953, 23-24

(6)

4

Introduzione

L’ente provincia ha, da moltissimi anni, contraddistinto l’amministrazione italiana, almeno dall’epoca romana.

La storia di queste circoscrizioni territoriali, densa di alterne vicende, sono, infatti, spesso state sbandierate, dai vari schieramenti politici, riforme epocali che, quasi sempre, hanno finito per lasciare spazio all’immobilismo più assoluto, merita di essere raccontata.

Un breve excursus storico cercherà di far comprendere le motivazioni che, hanno reso e forse rendono ancora, anche se la speranza è l’ultima a morire, le province l’ente più statico dell’amministrazione italiana, nonostante si proponga in continuazione di abolirle o di razionalizzarne le funzioni.

Infine, alcuni cenni comparativi della situazione degli enti analoghi alle province in altri Paesi europei, tenterà di spiegare come, forse, il dibattito potrebbe essere affrontato più compiutamente, rendendo più efficiente l’azione provinciale o prendendo, seriamente, in considerazione la soppressione di quelle province che risultano inutili e di tutti quegli enti intermedi (vagamente amministrativi), tra i vari livelli di governo, che sono, probabilmente, il vero cancro del nostro sistema.

Quindi, il proposito del seguente lavoro non è un semplice schieramento a favore o contro l’ente provincia, ma un tentativo di capirne le radici e le possibili utilità, che tale amministrazione può rendere in futuro ai cittadini italiani, se ve ne sono, tenendo sempre conto che, proprio il cittadino, ha il diritto di prendere parte al processo di determinazione delle regole che presiedono alla vita comune.2

2 U. LENTINI, Guida ai diritti dei cittadini, provincia di Viterbo, Difensore Civico.

Viterbo, ottobre 1994, 5. Continua: “Andare avanti su questa via è opera di lunga lena e anche accidentata. Richiede una mutazione di cultura, non solo politica, in chi detiene il potere, nei burocrati, nei cittadini (…) soprattutto perché noi abbiamo un debole senso della cittadinanza e scarsa dimestichezza con i concetti di bene comune, di interesse generale, di fiducia. Alcune leggi che tutelano al meglio il

(7)

5 Nella parte centrale del lavoro ci si sofferma sulla legge n. 56 del 2014, nota come legge Delrio, dal nome del promotore.

Tale legge rappresenta, se non un passo in avanti, almeno un tentativo articolato di sollevare la questione dell’architettura degli enti locali in modo specifico; non esente comunque da critiche e commenti, più o meno positivi, provenienti da numerosi autori, che troveranno spazio, almeno in parte, in questa sede.

Anche la Corte Costituzionale è intervenuta a riguardo, con la sentenza n. 50 del 2015, anch’essa oggetto di approfondimento all’interno del secondo capitolo.

La parte finale dello studio è dedicata all’applicazione regionale della normativa Delrio, soprattutto verrà messa in evidenza la differente attuazione, che questa ha ricevuto, da parte della regione Lazio e da parte della regione Toscana, scelte, per motivi personali, da chi scrive, come campione rispetto alla realtà nazionale.

Da sottolineare, comunque, che il referendum costituzionale confermativo, del prossimo 4 dicembre, acquista un’importanza fondamentale ai fini dello sviluppo del sistema degli enti locali, province in primis; in quanto la legge Renzi-Boschi, che vi verrà sottoposta, si pone come continuazione della normativa n. 56/2014 (approvata in attesa di una legge costituzionale di riforma del titolo V) e propone, tra le altre cose, la definitiva abrogazione delle circoscrizioni provinciali dalla Costituzione.

cittadino già ci sono: si tratta di farle conoscere e di bene applicarle; solo così al cittadino potrà tornare lo scettro, solo così egli può essere arbitro della vita comunitaria”.

(8)

6

CAPITOLO I: LA STORIA DELLE PROVINCE

I.I Le origini delle Province

Ogni centro abitato, dapprima è una semplice comunanza di beni e d’interessi economici, poco per volta esso diviene un piccolo stato, acquistando tutti i poteri e le attribuzioni della sovranità, come fare le leggi e battere moneta.

Nell’antichità classica è la città (civitas, polis) il perno della vita pubblica, mentre nel medioevo è il comune il centro di ogni libertà ed operosità civile.

La struttura economica e politica dei corpi locali rimane inalterata nelle vicende tempestose delle invasioni e delle conquiste, ed ha la forza di resistere agli attacchi di un potere, che, per quanto appaia grandioso, è realmente effimero e debole, quello degli imperi e delle grandi dinastie3.

La storia delle province ha origini antichissime, già in epoca romana si sviluppano come territori conquistati (“pro – victae”) amministrati da un magistrato (propretore, proconsole) inviato da Roma: avevano pertanto la natura giuridica di ripartizioni del territorio dell'Impero nelle quali gli abitanti non godevano degli stessi diritti di chi aveva la cittadinanza romana.

Con la fine dell'Impero romano l'ordinamento territoriale provinciale si modifica notevolmente.

Le invasioni barbariche portano alla nascita di nuove divisioni territoriali (ducati, contee, marchesati) che caratterizzeranno l'epoca feudale. In questo periodo i singoli feudi non sono sottoposti ad una

3 R. SALERNO - V. E. ORLANDO (a cura di), primo trattato completo di diritto

(9)

7 diretta autorità statale, ma si propongono essi stessi come signorie con una forte autonomia rispetto al potere di livello superiore (Impero o Chiesa)4.

La forte autonomia permane anche nel periodo comunale in cui sono le “città” che attraggono nella loro sfera di influenza politica ed economica il territorio circostante. Questo stretto rapporto tra la città ed il contado rappresenta uno dei tratti peculiari dell'attuale articolazione territoriale delle province italiane che, generalmente, sorgono intorno ad una città capoluogo, in quanto questa costituisce il punto di riferimento degli interessi che gravitano nel territorio provinciale.

Con la lenta ricomparsa dell'autorità statale (intorno alle signorie ed ai principati) le province si ripropongono come divisioni amministrative territoriali.

Tale tendenza si consolida con la nascita dei moderni stati nazionali, ragioni di origine economica come l’aumento della popolazione e l’esigenza di un’industria più efficace determinano questo mutamento.

In questo periodo le province si propongono come trait d’union tra i comuni e lo Stato, esercitando funzioni amministrative corrispondenti agli interessi particolari e alle condizioni di determinati territori.

Così la provincia trova il suo posto nell’ordinamento amministrativo degli stati moderni come consociazione pubblica, con proprie attribuzioni e come riunione di più comuni legati da interessi e tradizioni.

Il primo esempio compiuto di coordinamento delle funzioni amministrative fra organi centrali e locali lo troviamo in Inghilterra, con un’ampia sfera d’azione assegnata ai corpi locali.

4

L. GAMBI, l‟irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico amministrative.

(10)

8 Ben diversa è la situazione in Francia, dove le attività degli enti locali risultano limitate e soggette a restrizioni ed a molteplici sindacati.

Situazioni molto simili a quella francese sono quella belga e quella italiana.

L’Italia infatti, dopo il crollo dell’impero romano e fino alla metà del 1800, non è stata mai unita dal punto di vista politico.

I.II La travagliata strada dell’Unità d’Italia

La situazione di forte frammentazione che caratterizzava il nostro paese ha subito un’inversione di tendenza a partire dall’unità della nazione, quando il Regno unitario ha dato un nuovo assetto all’organizzazione amministrativa del territorio5

.

Nel processo di unificazione si sono confrontate visioni diverse dell’ordinamento territoriale.

Da una parte vi erano i “neoguelfi”, come Gioberti, che difendevano le autonomie per evitare la prevalenza dello Stato sulla Chiesa.

Dall’altra c’erano i federalisti, come Cattaneo, per i quali l’esigenza di unificare il Paese si incrociava con una forte volontà di evitare le derive assolutistiche, in quanto il federalismo era strettamente legato ad un’idea di libertà degli individui e delle comunità territoriali storicamente esistenti.

Infine, c’erano i sostenitori dello Stato unitario (monarchici o repubblicani come Cavour, Farini, Minghetti, Rattazzi, Mazzini, Garibaldi) che non volevano il federalismo ma solo il decentramento6.

5

P. ANTONELLI - G. PALOMBELLI, “Le Province: la storia, il territorio”, in Amministrazioni pubbliche e territorio, cit., pag. 69.

6

C. MALANDRINO - S. QUIRICO (a cura di), Garibaldi, Rattazzi e l‟Unità d‟Italia, Claudiana, Torino, 2011.

(11)

9 La storia ha decretato il prevalere della visione dello “Stato unitario”.

Questo ha facilitato la scelta dell’ordinamento territoriale provinciale, poiché consentiva meglio di omologare le suddivisioni territoriali precedenti, al modello di Stato di origine francese ereditato dalla monarchia sabauda.

L’unificazione amministrativa del Paese tra il 1851 e il 1870 è avvenuta attraverso il decentramento a favore della provincia dell’assetto dei poteri pubblici dello Stato (prefetti, intendenti, province, camere di commercio, opere pie) ereditando le suddivisioni territoriali in gran parte esistenti negli Stati preunitari, grazie allo studio compiuto da illustri studiosi di geografia7 e statistica8 che hanno contribuito a dare una lettura unitaria all’ordinamento territoriale della penisola.

Guardando le suddivisioni amministrative degli stati preunitari si può pertanto ricostruire la trama geografica delle circoscrizioni provinciali su cui sarà costruito l’ordinamento territoriale del Regno d’Italia, nel 1859 viene istituita la Direzione generale delle province italiane per coordinare le decisioni tra Torino e le province.

La monarchia sabauda cerca di ricostruire circoscrizioni omogenee a livello provinciale che tengano conto in gran parte delle mappe che storicamente nei diversi stati si erano costruite nel tempo, come era stato fatto per il Regno sabaudo che nel 1836 aveva riorganizzato le oltre 40 province in 6 nuove divisioni che diverranno le province sabaude del nuovo Stato unitario.

Nel Regno di Sardegna, in origine, la Provincia non esisteva come corpo morale, era solo una ripartizione territoriale del potere statale.

7

C. CERRETI, “La rappresentazione del territorio”, in L'unificazione italiana, Treccani, 2011.

8

D. MARUCCO, L'amministrazione della statistica nell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1996.

(12)

10 Intorno al 1840 nasce la Provincia come ente autonomo, perché vi è l’esigenza di organi composti da notabili locali, che possano contemperare la forza delle autorità statali nel territorio per controllare meglio l’autonomia dei municipi.

Tra il 1859 (seconda guerra di indipendenza) e il 1861 l'Italia raggiunse l'unità sotto le insegne del regno sabaudo.

Dopo l’armistizio di Villafranca, con la pace di Zurigo, gli Asburgo cedono la Lombardia alla Francia, che l'avrebbe assegnata ai Savoia, i quali possono quindi disporre delle province di: Milano, Cremona, Crema, Lodi, Pavia e Sondrio.

Nei mesi successivi il Piemonte annette anche i ducati di Parma e Modena, la Toscana (rimane la divisione nelle tre province di Pisa, Livorno e Siena) e parte dei territori dello Stato pontificio: l'Emilia e la Romagna. L’annessione dei territori delle Marche e dell’Umbria sarà invece conseguenza della spedizione dei Mille ed anche in questi territori rimarrà la divisione precedente, effettuata da Papa Pio VII nel 1816, in 18 province.

Sempre a seguito della spedizione guidata da Giuseppe Garibaldi nel 1860 si ha l’annessione del Regno delle due Sicilie alla monarchia sabauda ed, anche in questo caso, nella ripartizione territoriale, si tiene conto in gran parte della mappa delle circoscrizioni provinciali esistenti, che nel precedente regno borbonico erano 22.

Il 17 marzo 1861 il XXIV° re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, proclama la nascita del Regno d'Italia.

Il territorio del Regno è suddiviso in 58 amministrazioni provinciali. Nel contesto del primo stato unitario italiano, la Provincia si caratterizza subito come ente intermedio tra il Comune e lo Stato, ma soprattutto come sede di decentramento dell'amministrazione centrale,

(13)

11 dove la figura del Prefetto, rappresentante del Governo in sede locale, controlla la molteplicità delle istituzioni ereditate dagli stati preunitari9. La Provincia è pertanto una creazione del legislatore statale, si configura come un anello intermedio tra il Comune e lo Stato, che riunisce un insieme di comuni minori intorno alla città più importante (il capoluogo) in modo che dalla periferia della circoscrizione si possa comunque arrivare nel capoluogo e ritornare a casa in una giornata (a cavallo), per sbrigare le faccende che presuppongono il necessario intervento dell’autorità statale.

L’autonomia delle province era già stata proclamata dalla legge sarda del 1849.

Però dalla legge comunale e provinciale, 23 ottobre 1859 n. 3702, confluita nella legge 1865 n. 224810, emerge chiaramente che quello provinciale risulta di gran lunga il livello territoriale preferito dal potere politico centrale, in quanto più omogeneo dal punto di vista del territorio e degli interessi che ad esso fanno capo.

In base allo Statuto albertino "le istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei Comuni e delle Province sono regolate dalla legge".

Nella scelta del legislatore del tempo, la deputazione provinciale è presieduta dal Prefetto ed ha forti poteri di controllo sugli enti ed i livelli amministrativi inferiori (comuni, mandamenti, circondari).

Il proposito di Cavour è quello di trovare un compromesso tra il modello statale accentrato di origine francese e il modello autonomista di origine asburgica, attraverso un decentramento del potere statale in cui l’autonomia locale e l’autonomia funzionale (camere di

9

G. MELIS, Storia dell'amministrazione italiana (1861-1993), Il Mulino, Bologna, 1996.

10

G.B. CERESETO, il comune nel diritto tributario; commento sulle imposte comunali con un‟appendice sulle imposte provinciali. Torino 1889

(14)

12 commercio, opere pie) siano un aspetto della libertà di azione degli individui sul modello inglese11.

L'obiettivo vero è la legittimazione dell'ordinamento sabaudo per fornire una struttura amministrativa uniforme a tutto il Paese.

La Provincia diviene pertanto “una grande associazione di comuni destinata a provvedere alla tutela dei diritti di ciascuno di essi ed alla gestione degli interessi morali e materiali che hanno collettivamente tra loro”12

.

La maglia delle Province italiane del primo stato unitario obbedisce al “cube principle” ovvero “il principio della necessaria ricomprensione dell’intero territorio di un ente di livello inferiore in quello dell’ente superiore”13

, per cui le circoscrizioni provinciali comprendono un insieme di comuni.

Mentre la mappa delle circoscrizioni comunali è rimasta sostanzialmente stabile nel tempo, la mappa di quelle provinciali si è modificata negli anni e si è adeguata alle vicende politico-istituzionali del Paese.

Nel 1866, a seguito della terza guerra di indipendenza, vengono inglobate 8 province asburgiche (Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza, Udine).

Nel 1868 si aggiunge la provincia di Mantova e nel 1870 quella di Roma con la breccia di Porta Pia, così il totale delle province del Regno d’Italia arriva a 68.

La storica ambivalenza del termine “provincia” come circoscrizione amministrativa dello Stato (sede dei più importanti organi periferici:

11

A. PETRACCHI, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano : storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana, 1770-1861, Neri Pozza Editore, Venezia, 1962.

12

Relazione sul nuovo ordinamento comunale e provinciale fatta a S.M. dal Ministro dell‟Interno Rattazzi il 23 ottobre 1859.

13 F. MERLONI, “Risultati delle indagini e prospettive di studio”, in Amministrazioni pubbliche e territorio.

(15)

13 prefetti, intendenti di finanza, ecc.) e come ente pubblico territoriale (che ha il compito di curare gli interessi di un territorio che comprende più comuni) è all’origine della tensione tra il “potere locale” e il “potere centrale” ed è la fonte delle tante spinte che porteranno in futuro sia le diverse comunità locali, sia lo Stato, a richiedere o a decidere l’istituzione di nuove Province.

I.III Le Province dopo l’unificazione

E’ evidente che le Province del primo Regno d’Italia non sono le “province naturali” degli stati precedenti, ma rispondono piuttosto all’esigenza di accentramento e di uniformità nell’amministrazione che la monarchia sabauda eredita dal modello francese, dando centralità ai Prefetti nel rapporto fra potere centrale e potere locale.

Con il passare del tempo, la Province si consolidano come il livello territoriale intorno al quale si articola l'organizzazione sociale, politica, economica del paese e nasce l’esigenza di valorizzarle come corpi morali autonomi e non soltanto come sedi di decentramento del potere statale14.

Il governo provinciale diviene allora il luogo di snodo tra il potere locale e il potere statale anche dal punto di vista rappresentativo.

Quasi un terzo dei parlamentari è consigliere provinciale e la Provincia ha un sistema di rinnovo parziale che garantisce la continuità politico amministrativa.

Anche per questo motivo, i partiti politici, le associazioni sindacali e imprenditoriali, le diocesi, i vari gruppi di interesse, si daranno

14M. S. GIANNINI, “Il riassetto dei poteri locali”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1971, pp. 454.455: “Non vi è un solo caso i cui la creazione di una Provincia sia stata collegata al fatto che vi si ravvisava l‟esistenza di un gruppo unitario locale… Tuttavia, per una di quelle ultronee vicende della storia, è pur vero che le Province, create per interessi del governo centrale, hanno finito per assumere una propria fisionomia, anche come gruppi territoriali e sociali”.

(16)

14 un’organizzazione strutturata nel territorio, quasi sempre a livello provinciale.

Infine si può dire che sulle provincia si è costruita l’identità profonda del Paese: la cultura, la letteratura, il cinema, l’arte hanno spesso attinto ad essa per raccontare le diversità che unite rappresentano la ricchezza dell’Italia.

I tre Testi unici delle leggi comunali e provinciali del 10 febbraio 1889 n. 5981, del 21 maggio 1908 n. 269, del 4 febbraio 1915, n. 14815, delineano un’ evoluzione delle Province come enti dotati di una limitata autonomia: si espande lentamente l’autonomia locale e si rompe lo stretto collegamento tra la Provincia ed il Prefetto, poiché questo perde la presidenza della Deputazione provinciale, che diviene carica elettiva. Permane uno stretto legame tra i Comuni e le Province disciplinati da un ordinamento comune, che è evidente anche nella legge di municipalizzazione dei pubblici servizi del 1903, nella quale è previsto che i servizi municipalizzati possano essere gestiti anche dalle Province.

Questi cambiamenti non hanno un impatto diretto sulle circoscrizioni territoriali provinciali e la geografia amministrativa delle Province resta pertanto quella del 1870.

Il governo Crispi, nel 1891, propone una revisione delle circoscrizioni provinciali che avrebbe comportato la soppressione di 25 prefetture, ma questo progetto fallisce per l’opposizione dei Comuni.

Un altro tentativo di razionalizzazione della mappa provinciale avviene subito dopo, nel 1894, in base ai pieni poteri richiesti da Crispi, con la proposta di Bodio e Saredo di istituire 12-13 regioni e di

15

G. SAREDO, Commento alla nuova legge sull'amministrazione comunale e provinciale, UTET, Torino, 1889. Antonio Amorth, Le province: Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Neri Pozza, Venezia, 1968.

(17)

15 razionalizzare in questo nuovo contesto le circoscrizioni comunali e provinciali16.

L’idea di regione che è alla base di questo progetto non è quella dello Stato federale di origine tedesca su cui si era basato Cattaneo, ma piuttosto quella ipotizzata da Minghetti, in un progetto alternativo alla legge Rattazzi, che si inseriva sempre nella direzione del decentramento statale e non del federalismo, in cui le Regioni sono associazioni di province e rappresentano un punto di equilibrio superiore nel rapporto tra lo stato ed il territorio.

Un primo superamento del tessuto provinciale del 1870 avviene a seguito della prima guerra mondiale, conclusasi con l'annessione allo Stato italiano della Venezia Tridentina (fino al Brennero) e della Venezia Giulia (da Trieste a Zara, esclusa Fiume).

Nel 1920 viene istituita la provincia di Trento ma questa modifica risponde all’esigenza di organizzare i territori annessi dentro il modello di ordinamento amministrativo territoriale del Paese.

I.IV Le Province durante il Fascismo

La più importante modifica dell’impianto provinciale del primo Stato unitario avviene in seguito all’avvento del regime fascista.

Bisogna inquadrare il clima politico dell’epoca, le giunte provinciali erano infatti governate in gran parte da liberali, socialisti e popolari.

In questo contesto si inserisce, a tratti, la violenza squadrista, che si alterna all’utilizzo, da parte dei fascisti, di strumenti legalitari, usati per controllare i poteri locali. Si può infatti ricordare lo scioglimento di una ventina di consigli provinciali tra il 1923 ed il 1924, atteggiamento

16

F. BONINI - F. CRISPI e l'unità: da un progetto di governo un ambiguo mito politico, Bulzoni, Roma, 1997.

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16 che nel biennio successivo lascia il posto ad una maggiore democraticità, per volontà di Luigi Federzoni.

È un periodo di innovazioni giuridiche degne di nota, come ad esempio l’istituzione delle commissioni straordinarie sostitutive dei consigli in caso di impedimento a deliberare di questi ultimi, sempre però nell’ottica di consentire maggiore discrezionalità operativa alle autorità statali e di allungare i tempi per l’espletamento delle elezioni (vedi r.d. 30 Dicembre 1923 n. 2839 ed il r.d. 11 Settembre 1925 n. 1756).

Numerose sono le riforme istituzionali che coinvolgono tutto l’assetto dei poteri locali, vengono create figure nuove come il podestà, la consulta nei comuni e addirittura un ordinamento speciale per la città di Roma, il “Governatorato”.

Le province, in questo contesto, subiscono un forte indebolimento come enti autonomi rappresentativi delle comunità locali, in quanto vengono considerate circoscrizioni di decentramento statale.

In tale ottica sono potenziati i poteri dei prefetti, anche se studi recenti hanno messo in luce come questi funzionari statali fossero sotto il controllo dell’OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo), dei carabinieri e dei ras fascisti.

Va comunque ricordato che il regime ha sempre mantenuto un atteggiamento ambivalente nei confronti delle province, in bilico tra la secca abolizione ed una rassegnazione al mantenimento.

Già nel 1923 si pensa di abolirle, in sede di discussione sulle modifiche da apportare alla legge comunale e provinciale, nel 1928 il deputato Geremicca le definirà come “enti parassitari”, interpretando la volontà del regime di portare a termine una pregnante riforma amministrativa.

Ma sempre nel 1923 Mussolini si pronuncerà a favore del mantenimento delle province, definendole come “insostituibili organi

(19)

17 di decentramento istituzionale, di collegamento tra i comuni e di tutela dei loro interessi e bisogni”.

Il Duce, nel famoso discorso dell’Ascensione, tenuto il 26 maggio 1927, traccia con una certa organicità la sua concezione dello Stato e della politica e indica le direttrici per portare a compimento l’unità del Paese, realizzare la nazionalizzazione delle masse e la difesa della razza, attraverso la lotta ai mali del passato regime.

In questa strategia si colloca la politica di incremento demografico, base della potenza militare e della vitalità di un popolo, e l’esigenza di “meglio ripartire la popolazione” e di stabilire un più proficuo rapporto tra i “piccoli centri provinciali, abbandonati a sé stessi” e le “grandi città”17

.

17 F. FABRIZZI, “Le Province: storia istituzionale dell‟ente più discusso. Dalla riforma Crispi all‟Assemblea costituente”, in Federalismi.it, n. 13 del 2008. “Nei fatti, quando sempre nel 1927 si procedette al riordino delle circoscrizioni, il numero delle province salì da 76 a 92 e per la prima volta tale aumento non era dovuto all‟annessione di nuovi territori. La motivazione venne chiaramente illustrata in un discorso tenuto da Mussolini alla Camera dei Deputati il 26 maggio, noto come “discorso dell‟Ascensione”, che merita di essere riportato ampiamente: «Perché ho creato 17 nuove provincie? Per meglio ripartire la popolazione; perché questi centri provinciali, abbandonati a se stessi, producevano un'umanità che finiva per annoiarsi, e correva verso le grandi città, dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide che incantano coloro che appaiono nuovi alla vita. Abbiamo trovato, all'epoca della Marcia su Roma, 69 provincie del Regno. La popolazione era aumentata di 15 milioni, ma nessuno aveva mai osato di toccare questo problema, e di penetrare in questo terreno, perché nel vecchio regime l'idea, l'ipotesi di diminuire od aumentare una provincia, di togliere una frazione ad un comune o, putacaso, l'asilo infantile di una frazione comunale, era tale problema da determinare crisi ministeriali gravissime. Noi siamo più liberi in questa materia, e allora, fin dal nostro avvento, abbiamo modificato quelle che erano le più assurde incongruenze storiche e geografiche dell'assetto amministrativo dello Stato italiano. È allora che abbiamo creato la provincia di Taranto e quella della Spezia, che abbiamo restituito la Sabina a Roma, perché i Sabini questo desideravano, e il circondario di Rocca San Casciano alla provincia di Forlì, per ragioni evidenti di geografia. Ci sono state quattro provincie particolarmente mutilate, che hanno accettato queste mutilazioni con perfetta disciplina: Genova, Firenze, Perugia e Lecce. C'è stata una provincia soppressa, che ha dato spettacolo superbo di composta disciplina: Caserta. Caserta ha compreso che bisogna rassegnarsi ad essere un quartiere di Napoli. La creazione di queste provincie è stata senza pressioni degli interessati; è stato perfettamente logico che i segretari federali siano stati festeggiati, ma non ne sapevano nulla. Abbiamo creato delle provincie di

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18 Sulla scia di questi convincimenti sarà più agevole la strada di chi si era schierato per il mantenimento degli enti provinciali, come: la Federazione nazionale delle Province, l’Unione nazionale delle Province, l’amministrativista Romeo Vuoli e un’ampia rappresentanza interna al PNF, formata da chi vedeva nella soppressione delle province a favore della creazione di enti territorialmente più grandi, come le regioni, un pericolo per l’unità nazionale.

Scansate le teorie più massimaliste, ci si avvia verso una riforma delle province.

Il primo passo è rappresentato dal r.d. del 30 Dicembre 1923 n. 2839, con cui si tende ad assimilare l’organizzazione provinciale, per quanto possibile, a quella comunale, utilizzando anche proposte avanzate dai precedenti governi liberali.

Il fine perseguito è quello di depoliticizzare gli enti provinciali, facendone enti di natura tecnico-amministrativa.

confine. Le abbiamo create adesso perché sono scomparse le condizioni per cui noi non le creammo quattro anni fa. Provincie di confine che non sono comparabili l'una all'altra: Aosta, italianissima, fierissima di patriottismo, Aosta non ha niente a che fare con Bolzano o Bolgiano, e lo vedremo tra poco. Di tutte le provincie, delle quali non tesserò l'elogio per non mortificare la modestia dei deputati che le rappresentano qui, una particolarmente m'interessa: quella di Bolzano. [...] Non appena fu pubblicato sui giornali l'elenco delle nuove provincie, sorsero dei desideri. Alcune città, che si ritenevano degne di questo onore, lo sollecitarono. Ma io risposi con un telegramma ai notabili di Caltagirone, dicendo che fino al 1932 di ciò non si sarebbe parlato. Perché nel 1932? Perché nel 1932 sarà finito il censimento che noi stiamo preparando sin da questo istante. Mancano quattro anni, ma io ho deciso che entro sei mesi si devono conoscere i risultati del censimento del 1931. Ed allora molto probabilmente ci sarà una nuova sistemazione delle provincie italiane, ci saranno città che diventeranno provincie, se le popolazioni saranno laboriose, disciplinate, prolifiche.» Mussolini collegava dunque la creazione delle diciassette nuove province alla necessità di “meglio ripartire la popolazione” e di frenare l'esodo dalle campagne e dai piccoli centri verso le grandi città. L'accorpamento e la dotazione di nuovi strumenti decisionali, connessi alla promozione al rango di provincia, costituivano in primo luogo una gratificazione psicologica per l'abitante del piccolo centro, per il cittadino comune oltre che per i notabilati locali, modificandone anzitutto l'auto-percezione. E poi, doveva essere un segno tangibile della presenza dell‟autorità statale in provincia.

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19 Viene istituita la deputazione, organo collegiale con importanti competenze amministrative, il cui presidente sostituisce il presidente del consiglio provinciale che viene abolito, tale figura sarà poi ripristinata dalla legge Federzoni del 1925 n. 1094.

La legge n. 2125 del 1925, proposta da Acerbo, concede l’elettorato attivo e con alcune limitazioni anche quello passivo alle donne.

Riforma consistente è quella del 1928 (legge n. 2962), con cui vengono aboliti gli organi tradizionali di governo della provincia (consiglio, deputazione e presidente di questa) e sostituiti da un organo monocratico (il preside) e da un organo collegiale ( il rettorato).

Il preside, coadiuvato da un vice preside, assume le funzioni svolte in precedenza dal presidente della deputazione. Sono affidate al preside la rappresentanza esterna dell’ente, le attività esecutive, la competenza per le delibere d’urgenza e l’attività di guida dell’apparato burocratico.

Il rettorato, composto dal preside e da quattro, sei o otto membri a seconda che la popolazione provinciale arrivasse a 300 mila abitanti, 600 mila o superasse questa soglia, svolge le funzioni erediate dal consiglio.

Importanti, oltre a quelle deliberative, sono le funzioni consultive del rettorato, estese a tutti gli affari per i quali il parere sia prescritto dalla legge o richiesto dal prefetto.

Presidi e rettori vengono nominati con decreto reale su proposta del Ministro degli interni per un periodo di quattro anni, rinnovabili. Queste cariche sono gratuite, tranne il caso di compensi straordinari concessi in casi eccezionali.

L’assetto complessivo dell'ordinamento provinciale, così raggiunto, dopo non poche incertezze e molti tentennamenti; non solo non fu esente da critiche “interne” anche pesanti (si pensi all’accusa, dell’amministrativista Vuoli, di scarsa rappresentatività del rettorato, in quanto non proiezione dello stesso “mondo” corporativo locale), ma

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20 subì ulteriori aggiustamenti negli anni successivi e, comunque, non modificò tendenze già in atto, o coeve, miranti ad un depotenziamento sostanziale dell’ente Provincia.

Ciò appare evidente se si prendono in considerazione alcuni dei tradizionali ambiti ove il nesso centro- periferia si manifesta nei suoi tratti più sensibili e delicati e l'autonomia degli enti locali è sottoposta ai maggiori pericoli di compressione e svilimento: le competenze, i controlli, il personale, la finanza.

È ormai accertato ad esempio, che la riforma delle Province del 1928, non abbia interrotto quel processo di svuotamento, dall'interno, delle loro funzioni amministrative, di vera e propria “mortificazione” (come ha detto Rotelli) del loro ruolo, in conseguenza della creazione, e moltiplicazione, di enti concorrenziali e di strutture “parallele”, quali l’Azienda delle strade, l’Opera nazionale maternità e infanzia, l’Opera balilla, l'Opera nazionale orfani di guerra, aventi, per cosi dire, “giurisdizione” in comparti di naturale ed indiscussa competenza provinciale.

Ne può essere controbilanciata, tale tendenza, e spingere così ad un giudizio meno severo nei suoi confronti, dalla constatazione che si assiste pure all'emanazione di provvedimenti di segno opposto.

Nel 1925, la legge Giolitti del 1903 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi viene estesa anche alle Province, ma la sua applicazione concreta sarà ostacolata da una politica (anche legislativa) di disincentivazione di tale strumento, che troppo da vicino ricordava i principi ideologici dell'odiato socialismo municipale.

Inoltre, non può essere ovviamente valutato in modo positivo l’incremento di compiti derivante dal mero addossamento di oneri, finanziari ed organizzativi, per l'espletamento di funzioni di natura prettamente statale, come nel caso (1925) delle spese per le caserme dei regi carabinieri, per l'arredo delle prefetture e sottoprefetture o per gli alloggi dei prefetti e viceprefetti.

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21 Per quanto riguarda i controlli, di legittimità e di merito, la legge del 1928 non apporta, in effetti, nessuna modifica, né in peius né in melius rispetto all’ordinamento vigente. È da ricordare però che, con legge del 1928, la componente elettiva dell’organo principale per la tutela sugli enti locali (Giunta Provinciale Amministrativa), sarà eliminata e sostituita con elementi tratti direttamente dal PNF.

Va sottolineato che, in base alla stessa legge di riforma del 1928 (art. 129), il prefetto poteva intervenire, benché senza voto, alle sedute del rettorato, esercitando, in questa maniera una pressione politica sulle sue decisioni ed un chiaro condizionamento psicologico sui suoi membri.

Il testo unico del 1934 apporterà un’ulteriore revisione, in senso accentratore, al sistema complessivo dei controlli sulle autonomie territoriali, Provincia compresa.

Diversi sono poi i provvedimenti che, durante il Fascismo, vanno a diminuire l’autonomia provinciale in tema di gestione dell’apparato burocratico. Per citarne alcuni ci si può riferire all’estensione agli enti locali della dispensa dal servizio per “indegnità politica” del 1927, o alla statalizzazione della figura del segretario provinciale nel 1942, o ancora ai provvedimenti di revisione degli organici del personale di ruolo ed avventizio tra il 1923 ed il 1926.

Tuttavia il regime decide di non percorrere fino in fondo la via delle riforme degli enti provinciali, come parte delle elites giuridico-amministrative dell’epoca ma anche membri del partito richiedevano, non completando la pur prospettata integrazione tra le province e gli enti corporativi così da avere un intenso raccordo tra gli enti locali ed il mondo delle professioni. Tale passaggio risulta ancor meno comprensibile se si pensa alla sostituzione, avvenuta nel 1926 con la legge n. 731, delle Camere di commercio con i Consigli provinciali dell’economia, presieduti dal prefetto, con compiti di consulenza e di tutela dei ceti produttivi e lavorativi.

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22 Nel campo della finanza locale-provinciale, l’atteggiamento è ancora una volta accentratore ed autoritario, infatti con il testo unico del 1931 si ha la compressione delle spese facoltative, il blocco delle sovrimposte e viene teorizzato il necessario assenso ministeriale per l’attivazione di nuovi tributi.

Questa riduzione massiccia di autonomia di gestione a carico delle province, che investirà tanto il settore delle entrate quanto quello delle uscite, non riuscirà però nello scopo promesso di risanare i bilanci di questi enti.

Il Fascismo, in definitiva, non riesce ad esprimere una chiara linea di comportamento nel settore amministrativo, in particolar modo se ci si riferisce all’ambito delle riforme provinciali, nel corso degli anni assumerà diversi atteggiamenti, basandosi, a volte sull’idea prospettata da parte dei notabili del partito di sopprimere questi enti considerati inutili, ed altre volte sul convincimento che le province fossero necessarie ma da riformare.

La strada delle riforme, sposata non coerentemente e non in modo compatto dalla classe dirigente fascista, porterà inevitabilmente a non individuare con precisione quale dovesse essere il ruolo delle province nel nuovo ordinamento amministrativo.

I.V Aspetti peculiari delle Province fasciste

Un ulteriore profilo merita di essere preso in considerazione, che riguarda principalmente la geografia amministrativa; quello delle circoscrizioni territoriali delle Province.

Non attengono alle questioni strettamente funzionali (che tipo di ente deve essere quello sovracomunale e con quali competenze) o strutturali, ma due elementi, quello quantitativo (la creazione di nuove Province o la soppressione di quelle esistenti) e quello geometrico (il mutamento del perimetro dei confini,) meritano di essere presi in

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23 considerazione in quanto sono oggetto di puntuali ed estesi interventi normativi e di provvedimenti, settoriali, di riforma.

Indubbiamente comunque l’aspetto spaziale è rilevante, soprattutto per poter comprendere i motivi che hanno guidato la legislazione in materia di autonomie locali.

Sono da considerare due momenti significativi del ventennio a questo proposito, il 1923 ed il 1927, che corrispondono alla creazione di nuove Province, o ad una loro cancellazione.

Sulla base della legge delega del 3 dicembre 1922, tra il 1923 ed il 1924 vengono, infatti, istituite le Province di Trieste, Istria, Trento, lonio, La Spezia, Carnaro, nonché quelle di Fiume, Pola e Zara che però successivamente, durante la seconda guerra mondiale, verranno perse.

Quindi dopo queste riforme le province italiane sono 76.

Motivazione fondamentale della creazione di queste province è quella di dare una definitiva sistemazione territoriale alle zone “redente” ed annesse dopo la prima guerra mondiale, o nel caso delle Province “marittime”, di una prima manifestazione dell'appena avviata opera di “ricostruzione nazionale”.

Più consistente, sul piano quantitativo, è l’intervento che risale al 1927 (con r.d. 2 gennaio 1927 n. 1) e che porterà il numero complessivo delle nostre province a 92.

Vengono cosi create 17 nuove Province: Viterbo, Aosta, Bolzano, Brindisi, Castrogiovanni (oggi Enna), Frosinone, Vercelli, Varese, Savona, Gorizia, Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia, Ragusa, Rieti e Terni, mentre viene soppressa quella di Caserta18.

Si passa in questa maniera dalle 68 province del 1870 alle 92 province del 1931.

18

G. PALOMBELLI, L‟evoluzione delle circoscrizioni provinciali dall‟Unità d‟Italia ad oggi, 2012

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24 Nel corso degli anni trenta altri interventi di modifica hanno riguardato le province, con l’istituzione della provincia di Littoria (oggi Latina), nel 1934 e di Asti, nel 1935.

Inoltre, nel 1939, anche la colonia libica viene divisa in province: Bengasi, Misurata, Tripoli e Derna.

A questa rilevante modifica delle circoscrizioni provinciali si accompagna poi un riassetto degli stessi livelli di governo, attuato mediante l’abolizione (con il citato decreto del gennaio 1927) dei circondari e delle sottoprefetture (la cui riduzione era peraltro già iniziata nel 1923).

La revisione appena descritta è da ritenere molto interessante, specie se si considera l’atteggiamento sempre ambivalente del regime nei confronti dell’ente provinciale, che aveva portato a sottrarre rilevanti funzioni alle stesse province.

Le giustificazioni ufficiali sono dense di retorica, come pure le ragioni addotte da Mussolini come quelle già citate della “battaglia demografica” e del “Ruralismo”.

Le vere motivazioni sono certamente di carattere strumentale; un’esigenza molto sentita era quella di aumentare e migliorare il controllo statale, mediante quello dei prefetti, sulle periferie del paese, sempre nell’ottica della provincia come proiezione decentrata dell’amministrazione statale. Altra esigenza che si voleva soddisfare è legata a logiche locali, si volevano creare nuovi posti di lavoro per burocrati, forse anche in ottica clientelare, ed inoltre si tentava di compensare gli svantaggi subiti da alcune comunità locali con la soppressione delle circoscrizioni circondariali.

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25

I.VI L’Assemblea Costituente e la Costituzione del

1948

Dopo la fine della seconda guerra mondiale vengono apportate alcune modifiche alla denominazione ed alla mappa territoriale provinciale, in conseguenza del mutato regime politico dovuto alla fine del fascismo e delle ostilità belliche.

Nel 1945 la provincia di Aosta viene rinominata Valle d'Aosta, quella di Littoria cambia nome in Latina e viene ricostituita la provincia di Caserta, precedentemente soppressa.

Nel 1946 la provincia di Apuania viene rinominata provincia di Massa Carrara.

Nel 1947, con il Trattato di Parigi del 10 febbraio, l'Italia perde le province dell'Istria, del Carnaro e la Dalmazia, nonché parte del territorio di quelle di Trieste e Gorizia, mentre la stessa provincia di Trieste (formata dalla città di Trieste e da una stretta fascia di territorio nella parte settentrionale dell'Istria) viene occupata come Territorio Libero dalle forze statunitensi e britanniche e di fatto esclusa dall'Italia.

Nel 1948 la Provincia della Valle d'Aosta viene soppressa e ne vengono trasferite le competenze ad una nuova Regione Autonoma.

Nel 1951 la Provincia dello Ionio cambia la sua denominazione in Provincia di Taranto.

Infine nel 1954 la Provincia di Trieste torna a far parte del territorio italiano.

Fondamentale punto di snodo dal punto di vista istituzionale è il superamento del Regno d’Italia, con il referendum popolare del 1946, con cui viene proclamata la Repubblica italiana.

Nasce un nuovo ordinamento politico che trae fondamento dalla fine della guerra e dal referendum popolare e trova il suo consolidamento con la Costituzione del 1948 in cui si affermano i

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26 principi di democrazia, autonomia e pluralismo istituzionale; tutto ciò segna un’importante inversione di rotta rispetto all’impianto accentrato ed uniforme dell’ordinamento amministrativo dello Stato italiano.

Dal punto di vista dell’ordinamento territoriale l’approvazione della Costituzione sancisce la nascita delle Regioni.

Nella Costituzione del ’48 sono previste anche Regioni a Statuto speciale19.

Vi sarà, successivamente, nel 1963 una modifica apportata dalla legge costituzionale n.3 che porterà la divisione degli Abruzzi dal Molise ed alla nascita di due regioni separate. Fatta salva questa modifica, il tessuto regionale, delineato dalla Costituzione, rimane stabile fino al 1970, anno in cui le regioni saranno realmente istituite.

Dopo lunghe e travagliate fasi, Ambrosini, il presidente e relatore del Comitato di redazione per l’autonomia regionale, afferma: “solo dopo lunghissima discussione si decise di sopprimerla come ente autarchico e di mantenerla come circoscrizione amministrativa”, confermando le difficoltà incontrate dai costituenti nell’assegnare un ruolo alle province.

Si arriva, quindi, ad una sorta di compromesso, in tale cornice si inserisce la proposta dell’onorevole Uberti di istituire una Giunta in ogni circoscrizione provinciale. Tale organo doveva per alcuni essere eletto dai delegati dei comuni, per altri dall’Assemblea regionale, per altri ancora dai comuni su delega della Regione.

Comunque non praticabile si era dimostrata la via della soppressione, anche perché, come afferma Lusso, uno dei più convinti

19

«Art. 116. Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d‟Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali. Art. 131. Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d‟Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna.»

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27 sostenitori della necessità di una forte opera di semplificazione: “nell’opinione pubblica si considera la soppressione della Provincia quasi come una deminutio degli attuali capoluoghi”20

.

Altri autorevoli interventi, come un ordine del giorno del liberale Bozzi, sono tesi a ribadire la tradizionale autorità della provincia come “ente autarchico”.

L’ordine del giorno di Bozzi sarà respinto; a far chiarezza ci penserà un’affermazione di Ruini: “io parlo sempre di ente autonomo e non di ente autarchico. Quest’ultima è una categoria scientifica introdotta dal mio predecessore al Consiglio di Stato, professor Santi Romano; ed io potrei esprimere dubbi e riserve; ad ogni modo, nella Costituzione, non possiamo introdurre formule teoriche, discutibili e controverse, ma attenerci alla designazione classica, che ha le più chiare e continue tradizioni nelle leggi e nella vita pubblica italiana, di enti autonomi”21

.

Il 14 Novembre del 1946 si arriva a votare un emendamento “il territorio della Repubblica è ripartito in Regioni e Comuni, la Provincia è una circoscrizione amministrativa di decentramento regionale”, proposto da Ambrosini, formulato in modo tale da non chiudere ad ulteriori possibili evoluzioni.

Inizia ad emergere la volontà di attuare un “decentramento dall’alto” invece di “un decentramento che sale dal basso” nell’ottica del mantenimento dello status quo. Emerge così la possibilità di ripristinare il vecchio circondario, abolito nel 1927 che però era molto radicato ed apprezzato in molte zone dell’Italia centro-meridionale.

Il vicepresidente dell’Assemblea, il socialista Targetti, perorerà la causa della Provincia affermando “occorre tener presente che se la

20

Assemblea costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda sottocommissione, 14 novembre 1946.

21

Assemblea costituente, Commissione per la Costituzione, Seconda sottocommissione, 27 giugno 1947.

(30)

28 Regione nasce sulle ceneri della Provincia, nascerà in mezzo a dei malcontenti, a delle recriminazioni e forse a movimenti popolari che bisogna cercare di evitare e che potranno in ogni caso rendere l’affermarsi del nuovo ente più difficile”.

Luigi Einaudi risolverà questo grande equivoco sulle funzioni provinciali, rispondendo a Targetti, “le Province, come enti autarchici, non hanno niente da fare, hanno le strade e l’acqua, che passano ora alla Regione. Per i manicomi non so quale vantaggio vi sia di farli amministrare piuttosto dalla Provincia che dalla Regione. Del resto la Provincia non muore, in quanto che i servizi a cui sono particolarmente affezionati i provinciali, non sono i servizi dell’ente autarchico come le strade, l’acqua e i manicomi; sono altri servizi, che continueranno ad esistere. Non vedo nessuna ragione perché il Tribunale che è nel capoluogo della Provincia debba essere abolito, solo perché non esiste più la Provincia come ente autarchico; e così i servizi dell’agricoltura, delle foreste, ecc, apparterranno allo Stato o alla Regione ma continueranno ad aver sede nella Provincia. Quindi le Province continueranno ad esistere per quel che valgono, per i servizi che potranno essere accentrati nel capoluogo o distribuiti meglio nel territorio. A questo può servire bene l’istituzione di Giunte nominate dai corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica”.

Il dato che, sintetizzando, si ricava, testimonia che l’essenza delle province non va ricercato nelle competenze (abbastanza modeste) quanto piuttosto nel dato politico-identitario.

Si arriva poi a definire le Province come “circoscrizioni di decentramento regionale e statale”; in tal modo arriva anche l’avallo comunista, tramite Laconi che affermerà che i capoluoghi “così come si sono formati, continueranno a rimanere, anche se sarà soppresso l’ente autarchico”.

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29 Intanto si forma un fronte anti-autonomistico, composto da burocrati, prefetti, impiegati di province e camere di commercio.

Per altri, come Colitto del Fronte dell’Uomo Qualunque, è possibile creare la Regione solo a patto che si sopprima la Provincia, lo stesso Colitto comunque si schiera a favore del mantenimento delle province esprimendo l’avversione delle destre per le regioni.

Da ricordare che tutte queste contrapposizioni sono da leggere anche alla luce di una situazione politica alquanto intricata, contemporaneamente infatti si discute della rielezione di Enrico De Nicola alla Presidenza della Repubblica e della fiducia al IV governo De Gasperi.

In un momento così delicato, le dissertazioni sull’ente provincia sono certamente molto influenzate da ragioni di visibilità dei capoluoghi e di opportunismo da parte della classe dirigente locale.

La questione della “ripartizione della Repubblica” viene discussa nella seduta plenaria dell’Assemblea Costituente, il 22 Giugno 1947.

Tra le perplessità che serpeggiano sul nuovo ordinamento regionale, gli interessi provinciali invece hanno fatto sentire a gran voce le loro istanze, coordinate dalla Unione delle province.

Ruini sintetizzerà le ragioni della decisione della Costituente argomentando con un dato storico: il timore che abolendo le province si favorisse un nuovo decentramento, invasivo, come quello regionale; ma anche e soprattutto un dato di opportunità, far nascere le regioni in un clima di collaborazione e condivisione che non sarebbe possibile qualora si andassero a sopprimere le province, in quanto si susciterebbe un grande malcontento da parte di chi proviene dalla tradizione provinciale e nutre un sentimento verso tale ente.

Possiamo dunque notare che le ragioni della tutela degli interessi identitari, raccolti a difesa dello status quo, finiscono per prevalere senza particolari intralci, come già molte volte nella storia del nostro paese, seppur dopo un processo decisionale complesso.

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30 Vengono respinti gli emendamenti tesi a ripristinare i circondari, la cui rivendicazione viene interpretata dal cuneese Teodoro Bubbio22, nonostante fosse una questione sentita in special modo nel Mezzogiorno.

Successivamente si avrà una lunga discussione che tenendo conto di ragioni politiche, sociali e istituzionali, porterà all’ approvazione del testo dell’art. 114 della Costituzione, il quale è rimasto in vigore fino al 2001 e recita così: “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”.

Al netto di qualche discussione ancora in corso, come ad esempio quella riguardante il caso di Fermo (già capoluogo di delegazione sotto il governo pontificio ma poi accorpato alla meno importante Ascoli, che con l’unificazione era divenuta capoluogo dell’unica provincia); ciò che rimaneva da delineare erano i compiti da assegnare alle province nel nuovo assetto costituzionale.

In sede di discussione delle disposizioni transitorie, il Comitato di redazione propone che in attesa della nuova legge comunale e provinciale: “restino alla Provincia le funzioni amministrative ad essa attualmente attribuite e quelle di cui la Regione le deleghi l’esercizio”23

.

La questione si risolve con l’approvazione di un ordine del giorno, abbastanza generico, proposto da Targetti secondo cui: “l’Assemblea fa voti che entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione le province abbiano la loro amministrazione elettiva”.

La disciplina delle competenze entrerà nell’VIII disposizione transitoria.

22

“Non va dimenticato che molte città italiane avevano manifestato replicatamente le loro aspirazioni per la ricostruzione di questi circondari, a titolo unicamente di decentramento amministrativo, senza alcuna forma autonoma o autarchica”. Teodoro Bubbio, Assemblea costituente, 17 Luglio 1947.

23

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31 Viene inoltre inserito, tra i principi fondamentali della Costituzione, l’art. 5 che, accanto alla affermazione dell'unità e dell'indivisibilità della Repubblica, prevede il riconoscimento e la promozione dell'autonomia locale, come l'obiettivo del più ampio decentramento dell'amministrazione statale e dell'adeguamento della legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento24. Questo principio sancisce che le Province, come i Comuni, sono istituzioni territoriali autonome e democratiche, che la Repubblica riconosce e promuove in quanto enti esponenziali di comunità preesistenti allo Stato25.

La previsione dell’art. 5 tra i principi fondamentali della Costituzione e il suo forte legame con il principio democratico dell’art. 1, dovrebbero rappresentare dei limiti ad una revisione costituzionale che porti all’abolizione delle Province.

Si pongono i presupposti di un sistema delle autonomie non compresso dal potere centrale per cui le Province possono essere razionalizzate e riorganizzate ma non abolite tout court26.

24

“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”.

25G. BERTI, “Principi fondamentali, Commento all'art. 5 Cost.”, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Zanichelli, Bologna, 1975, 278. 26

Il primo limite espresso alla revisione costituzionale si rinviene nell'art. 139, che sottrae alla revisione costituzionale la "forma repubblicana". Accanto al limite imposto dall'art. 139, si rinvengono comunemente altri limiti alla revisione della Costituzione: alcuni espressi - ancorché meno chiaramente -, altri impliciti. Alla prima categoria possono ricondursi i diritti "inviolabili" dell'uomo (art. 2 e artt. 13-16) ed il principio di unità ed "indivisibilità" della Repubblica (art. 5)che oppone un ostacolo insormontabile ad ipotesi di secessione, quand'anche consacrate in leggi costituzionali. Tra i limiti impliciti si fanno in genere rientrare i principi supremi dell'ordinamento costituzionale, parzialmente coincidenti con i valori consacrati nei primi 12 articoli della Costituzione (compresi nella rubrica "Principi fondamentali"). Il limite dei "principi supremi" è stato ripetutamente richiamato dalla Corte Costituzionale. Cfr. Sentenza n. 1146 del 1988: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo

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32 Comunque nella Costituzione è evidente una distinta dignità costituzionale tra Regioni ed enti locali, poiché le Regioni sono enti disciplinati direttamente dalla Costituzione, mentre i Comuni e le Province sono disciplinati dal legislatore ordinario, in quanto enti autonomi "di rilevanza costituzionale" il cui ordinamento deriva, almeno nei principi, da leggi generali della Repubblica27.

Dal punto di vista dell’ordinamento territoriale, la Costituzione prevede alcune garanzie forti per la modifica delle circoscrizioni territoriali che delimitano gli spazi del legislatore statale e regionale28.

La modifica delle circoscrizioni provinciali o l’istituzione di nuove Province può avvenire soltanto nell’ambito di una regione, con legge della Repubblica, su iniziativa dei comuni e sentita la regione stessa.

Non è previsto dalla Costituzione che una parte del territorio statale non sia ripartita in province.

Le disposizioni transitorie della Costituzione prevedono che il legislatore proceda celermente alla revisione dell'ordinamento comunale e provinciale, alla luce dei nuovi principi costituzionali.

Nonostante ciò, l'ordinamento delle autonomie locali è restato per lungo tempo ancorato a quanto previsto dal T.U. del 1934 e si è data priorità all’attuazione dell’ordinamento regionale.

espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.»

27L‟art. 128 della Carta costituzionale del ‟48 afferma infatti che “Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi nell‟ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”.

28L‟art. 132 della Costituzione richiede una legge costituzionale e il referendum per l‟istituzione di nuove regioni e una legge ordinaria e il referendum per il passaggio di comuni o province da una regione all‟altra. L‟art. 133 della Costituzione per le modificare le circoscrizioni comunali e l‟istituzione di nuovi comuni richiede una legge regionale e la consultazione delle popolazioni interessate. Per le Province l‟art. 133, comma 1, recita “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell‟ambito d‟una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione.”

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33 Il citato Testo Unico, emendato dagli aspetti più autoritari tramite la legge n.530 del 9 Giugno 1947, richiama le norme del vecchio T.U. del 1915 per quanto riguarda attribuzioni e funzionamento degli organi.

Altri aggiustamenti vengono fatti con leggi speciali, riguardanti il sistema elettorale ed il suffragio femminile29.

La centralità viene riacquisita dal Consiglio, mentre la Giunta ed il vertice dell’esecutivo tornano ad essere scelti dall’organo elettivo, non più dall’alto come avveniva nel periodo fascista.

Si stabilisce che i consiglieri provinciali saranno 45 nelle province con più di 1,4 milioni di abitanti, 36 in quelle con più di 700 mila abitanti, 30 in quelle con più di 300 mila abitanti e 24 nelle province più piccole.

È qui tangibile un primo segnale della politicizzazione degli enti locali.

Le prime elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali rispettano la legge n. 122 dell’ 8 Marzo 1951 recante “Norme per l’elezione dei Consigli provinciali”; il sistema elettorale adottato è di tipo misto, uninominale per i 2/3 dei seggi e proporzionale per 1/3 degli stessi (corretto in senso maggiormente proporzionalistico nel 1960)30.

Inoltre il sistema dei controlli rimane sostanzialmente quello del periodo precedente, infatti, fino alla creazione dei Comitati regionali di controllo (CORECO), i controlli restano sostanzialmente quelli dell’epoca liberale e fascista, affidati ai prefetti ed alle GPA31

.

29

Tutte le norme vennero poi raccolte nel “Testo Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali” (DPR n. 570/1960) e nel successivo “Testo Unico delle leggi per la disciplina dell‟elettorato attivo e passivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali” (DPR n. 223/1967).

30 F. FABRIZZI, La Provincia: storia istituzionale dell‟ente locale più discusso. Dall‟Assemblea costituente ad oggi, cit, Federalismi, 3 Dicembre 2008.

31

Come riportato da una relazione svolta dal ministero per la Costituente nel 1946, esistevano in Italia 130 tipi diversi di controllo, praticamente tutti rimasti operanti anche dopo l‟entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

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34 Tornando alla politicizzazione degli enti locali, un fenomeno caratterizzante è sicuramente la partitocrazia, il sistema dei partiti infatti prende ben presto il controllo delle istituzioni locali sperimentandovi coalizioni ed alleanze da proporre poi a livello nazionale32.

Comuni e province sono anche il terreno utilizzato per la scoperta e la preparazione di nuovi leader politici da lanciare poi in Parlamento.

I.VII Gli anni ’50 e ‘60

Il dato politico, considerato insieme a quello istituzionale di mancato intervento legislativo, crea una situazione di stallo per quanto riguarda il funzionamento degli enti locali; tutto ciò va sicuramente a favorire la gestione del potere da parte dei principali partiti e leader politici ed una facile prevalenza anche a livello periferico dei partiti maggiori.

Quindi il dibattito sulle riforme degli enti locali si arena per lungo tempo, fatta eccezione per la dottrina; a livello politico le uniche proposte a giungere in Parlamento sono incentrate sull’istituzione di nuove province.

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R. ROMANELLI, Centralismo e autonomie, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato Italiano, Roma, 1995, p167 e ss. Romanelli, riferendosi ad esempio all‟operato del Partito comunista, afferma tra l‟altro che “nelle zone in cui aveva stabile controllo dei governi locali, il Partito comunista sviluppò dei programmi amministrativi a sfondo espressamente politico, nel senso che essi miravano a basarvi una partecipazione più estesa e consapevole e una battaglia per l‟attuazione dei principi autonomistici dettati dalla costituzione (inizialmente sostenuti dai cattolici, ma presto divenuti patrimonio dell‟opposizione) e allo stesso tempo a indicare – a partire dal governo degli enti territoriali – modelli alternativi di sviluppo economico. Riviveva allora qualcosa dell‟antico “impadroniamoci dei comuni”. Risuonava infatti nelle parole di alcuni esponenti locali la tentazione di riproporre nel nuovo contesto l‟idea che in se stessa la gestione dal basso potesse costituire una sfida agli assetti vigenti sul piano nazionale”.

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