• Non ci sono risultati.

Gli effetti dell'allenamento contro resistenza e dell'allenamento aerobico sull'attività antiossidante plasmatica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Gli effetti dell'allenamento contro resistenza e dell'allenamento aerobico sull'attività antiossidante plasmatica"

Copied!
65
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA

Gli effetti dell’allenamento contro resistenza e dell’allenamento aerobico

sull’attività antiossidante plasmatica

RELATORE

Prof. Fabio Galetta

CANDIDATO

Vanessa Regoli

(2)

SOMMARIO

• RIASSUNTO Pag.3 • INTRODUZIONE Pag.5

1. Le specie chimiche e lo stress ossidativo Pag.5

1.1 Meccanismi di generazione delle specie chimiche reattive Pag.6 1.2 Lo stress ossidativo Pag.9

1.3 Stress ossidativo ed esercizio fisico Pag.10 2. Gli antiossidanti Pag.12

3. L’attività fisica: benefici e rischi Pag.15 3.1 I benefici dell’attività fisica Pag.15 3.2 I rischi dell’attività fisica Pag.22

3.3 livelli raccomandati di attività fisica Pag.28 4. Esercizio fisico e produzione di ROS Pag.29

4.1 Esercizio fisico aerobico e produzione di ROS/RNS Pag.29 4.2 Esercizio fisico anaerobico e produzione di ROS/RNS Pag.32

5. Allenamento resistance training Pag.39 5.1 Tipi di resistance training Pag.40

6. Allenamento interval training Pag.44 6.1 Differenze con l’HIIT Pag.45

• SCOPO DELLA TESI Pag.47 • MATERIALI E METODI Pag.47 1. Soggetti Pag.47

2. Plicometria e circonferenze Pag.48

3. Valutazione dell’attività antiossidante plasmatica (TOSC-ASSAY) Pag.49 • RISULTATI Pag.51

• DISCUSSIONE Pag.54 • COCLUSIONI Pag.56 • BIBLIOGRAFIA Pag.57 • RINGRAZIAMENTI Pag.64

(3)

RIASSUNTO

Lo studio ha preso in esame un gruppo di soggetti di sesso femminile e maschile e di età compresa tra i 20 e i 40 anni, sani e con diversi stili di vita: un gruppo appartenente ad uno stile di vita sedentario e gli altri due gruppi, praticanti attività fisica di:

-HIIT (in italiano: allenamento con intervallo ad alta intensità): una tipologia di esercizio fisico discontinuo, caratterizzato da una successione di esercizi ad alta (85-90% VO2max) e moderata intensità (50-65% VO2max) intervallati tra loro, in cui i tempi di recupero sono costituiti da completo riposo oppure piccola attività di minor intensità.

-RESISTANCE TRAINING (in italiano: allenamento contro resistenza): una grande categoria di allenamenti fisici in cui i muscoli esercitano la propria attività contro un carico esterno e che consente di sviluppare in generale, la forza muscolare.

Tutti in buone condizioni di salute e non presentati fattori di rischio quali, ad esempio, malattie cardiovascolari o polmonari.

Tutti i soggetti sono stati sottoposti a questionario riguardante stile di vita, abitudini nutrizionali, patologie pregresse o in atto e attività fisica; Inoltre sono stati sottoposti a valutazione fisica completa, comprendente valutazioni antropometriche e della composizione corporea. In aggiunta, tutti i soggetti sono stati sottoposti a valutazione della capacità antiossidante plasmatica.

Lo scopo dello studio è stato quello di valutare le differenze indotte dalla sedentarietà e dalle tipologie di attività fisica a carico dell’attività antiossidante plasmatica, valutata mediante la tecnica gascromatografica Total Oxyradycal Scavenging Capacity Assay (TOSCA).

(4)

I risultati ottenuti hanno evidenziato che i soggetti allenati, presentavano una ricomposizione corporea in termini di massa magra e grassa migliore rispetto alla popolazione sedentaria; stessa condizione che è stata osservata in merito alla capacità antiossidante plasmatica, sottolineando ancora una volta la capacità dell’attività fisica di indurre degli adattamenti positivi in termini di prevenzione del danno da radicale libero. Analizzando i dati nello specifico, si riscontra che il gruppo dei soggetti praticanti resistance training, presentano una composizione corporea in termini di massa magra,

superiore rispetto al gruppo praticante HIIT. Conclusione questa invece che risulta essere ribaltata dall’analisi dell’attività antiossidante plasmatica. Infatti il gruppo praticante HIIT evidenzia una capacità antiossidante plasmatica nei confronti dei radicali perossilici e idrossilici superiore rispetto al gruppo praticante resistance training.

In conclusione, dal nostro studio si evince come, in generale, una regolare attività fisica determina sia una migliore ricomposizione corporea che una attività antiossidante plasmatica superiore rispetto alla condizione di sedentarietà. In aggiunta, così come abbiamo evidenziato una migliore ricomposizione corporea a carico della popolazione praticante resistance training, dobbiamo sottolineare come l’allenamento HIIT sia in grado di determinare una più alta risposta antiossidante rispetto al resistance training.

(5)

INTRODUZIONE

1. LE SPECIE CHIMICHE REATTIVE E LO STRESS OSSIDATIVO:

Le specie chimiche reattive (SCR) sono ioni, semplici o complessi, che hanno la tendenza a reagire, a seconda della loro natura e del mezzo in cui si trovano, con altre specie chimiche con cui vengono in contatto. In genere agiscono da agenti ossidanti e questa caratteristica conferisce loro la capacità di indurre danno ossidativo se vengono prodotte in eccesso (Iorio, 2007)[1]. A seconda dell’atomo responsabile della loro reattività, le SCR possono essere classificate in: specie reattive dell’ossigeno (ROS), specie reattive dell’azoto (RNS) e specie reattive del carbonio (RCS). Queste, a loro volta, possono essere distinte in forme radicaliche e non radicaliche a seconda che abbiano o meno almeno un elettrone spaiato in uno degli orbitali più esterni.

Tra le forme radicaliche, i radicali liberi sono definiti come specie chimiche reattive aventi un singolo elettrone spaiato nell’orbitale esterno (Rahman, 2007)[2]. Questa caratteristica conferisce loro una configurazione instabile tale da renderle capaci di reagire con diverse molecole quali proteine, lipidi, carboidrati e acidi nucleici e dalle quali sottraggono un elettrone, ossidandole, nel tentativo di acquisire stabilità. In tal modo, vengono prodotti altri radicali liberi secondo reazioni che si propagano a catena (Iorio, 2007).

I radicali liberi dell’ossigeno sono i principali sottoprodotti formati nelle cellule degli organismi aerobi (Rahman, 2007). I ROS rappresentano la maggior parte dei radicali che, se prodotti in eccesso, danneggiano i sistemi biologici; più precisamente, possono dare il via a reazioni autocatalitiche in modo tale che le molecole con le quali

(6)

reagiscono siano esse stesse convertite in radicali liberi che, a loro volta, sono in grado di propagare il danno (Rahman, 2007).

Tra i ROS prodotti a livello cellulare, i più comuni sono il radicale idrossile (•OH), l’anione superossido (•O2) e l’ossido nitrico (•NO) (Uttara et al., 2009)[3].

In tutti i meccanismi di generazione dei ROS, la prima tappa è l’attivazione dell’ossigeno molecolare (O2) da parte dei sistemi cellulari che hanno evoluto una serie di metallo-enzimi, in grado di facilitare la produzione delle specie radicaliche, a seguito delle interazioni dei metalli ridotti con l’ossigeno. Poiché i radicali liberi sono tossici, le cellule hanno un efficiente sistema di regolazione che regola, appunto, la produzione di ROS e di radicali liberi (Uttara et al., 2009). Lo ione superossido (•O2) può ridurre lo ione ferrico (Fe3+) a ferroso (Fe2+); quest’ultimo, a sua volta, può decomporre il perossido di idrogeno (H2O2) secondo la reazione di Fenton:

-step I Fe2+ + H2O2Fe3+ + •OH + OH- -step II Fe3+ + H2O2Fe2+ + •OOH + H+

In cui lo ione Fe2+, ossidandosi a ione Fe3+, cede il suo elettrone ad una molecola di H2O2 scindendone uno dei legami covalenti, generando un radicale idrossile (•OH) ed un anione, lo ione idrossile (OH-) (Iorio, 2007).

Combinando gli step I e II otteniamo la reazione di Harber-Weiss, secondo la quale l’•O2 può reagire con il H2O2 e indurre la formazione del •OH e dello ione OH:

•O2 + H2O2  •OH + OH- + O2

1.1 meccanismi di generazione delle specie chimiche reattive:

La quantità totale delle SCR che vengono generate nelle cellule, è determinata da diversi fattori. In generale, si possono distinguere le due fonti di produzione delle SCR

(7)

in endogene ed esogene (Valko et al., 2006[4]; Rahamn, 2007). I mitocondri sono responsabili della produzione di ATP, attraverso la fosforilazione ossidativa, che fornisce l’energia necessaria per le funzioni cellulari (Iorio, 2007). In condizioni fisiologiche, l’1-2% di O2 molecolare consumato dalle cellule animali, è convertito a ROS attraverso la perdita di elettroni della catena di trasporto mitocondriale (ETC: mithocondrial electron transport chain). Per tale motivo, i mitocondri rappresentano una fonte primaria di ROS endogene (McCord, 2000[5]; Mancuso et al., 2006[6]; Liu et al., 2009[7]). Diverse evidenze in letteratura dimostrano che la produzione e l’accumulo di ROS, aumenta quando la catena respiratoria mitocondriale è danneggiata da componenti chimiche (inibitori respiratori) o mutazioni in geni mitocondriali implicati nella biosintesi di polipeptidi che costituiscono gli enzimi respiratori (Liu et al., 2009). Sono stati identificati almeno due siti nella ETC dove si registra una sostanziale perdita di elettroni: a livello del gruppo flavinico del complesso I e a livello del sito dell’ubichinone del complesso III; da quigli elettroni possono sfuggire e reagire con l’O2 molecolare, portando ad una attiva produzione di radicali liberi (McCord, 2000; Maiese et al., 2008[8]) e H2O2 che, anche se non è una specie radicalica, può comunque essere prodotta a livello mitocondriale (Rahman, 2007).

La produzione eccessiva di ROS dovuta a disfunzione mitocondriale, può causare direttamente danno ossidativo a livello di macromolecole cellulari e condurre a instabilità della membrana, accumulo di proteine modificate e mutazioni del DNA (Liu et al., 2009).

Fonti endogene di ROS sono rappresentate anche dalle cellule infiammatorie come neutrofili, eosinofili e macrofagi. Questi ultimi, una volta attivati, danno il via ad un incremento dell’assunzione di ossigeno; tale aumento, a sua volta, dà origine alla

(8)

produzione di una varietà di ROS incluso l’anione superossido, l’ossido nitrico e il perossido di idrogeno (Rahman, 2007).

Anche il Citocromo p450 è un importante fonte di radicali liberi; la famiglia del citocromo p450 (CYP 450) è una superfamiglia enzimatica di emoproteine, appartenente alla sottoclasse enzimatica delle monossigenasi. Spesso prendono parte a complessi con funzione di catena di trasporto di elettroni, noti come “sistemi contenenti p450” (Danielson, 2002)[9]. I CYP, P450 sono i maggiori attori coinvolti nella detossificazione dell’organismo, essendo in grado di agire su un gran numero di substrati, sia esogeni (farmaci e tossine di origine esterna), che endogeni (prodotti di scarto dell’organismo) (Danielson, 2002). In particolare, consentono l’incorporazione di un atomo di O2 in un substrato organico (RH) e la riduzione del secondo ad H2O. Tuttavia, il mancato funzionamento del ciclo catalitico del citocromo P450 incrementa la possibilità di generare ROS, in particolare •OH e H2O2 (Valko et al., 2006).

Altre sorgenti di ROS sono i microsomi e i perossisomi: i microsomi sono responsabili dell’80% dell’H2O2 prodotta in vivo a livello dei siti di iperossia; i perossisomi, in condizioni fisiologiche, sono importanti per la produzione di H2O2 ma non di •O2. Anche se il fegato è l’organo primario dove il contributo dei perossisomi, per la produzione complessiva di H2O2, è significativa, anche altri organi che contengono perossisomi, come il rene, sono implicati in questo meccanismo di generazione di H2O2 (Valko et al, 2006).

Recentemente, anche l’ossidazione perossisomiale degli acidi grassi è stata riconosciuta come una potenziale importante fonte di produzione di ROS (Valko et al, 2006).

I ROS possono essere prodotti anche attraverso un gran numero di processi esogeni: gli agenti ambientali possono generare direttamente o indirettamente i ROS; infatti è stata osservata una induzione di stress e danno ossidativo dopo esposizione a diversi tipi di

(9)

xenobiotici: metalli (ridotti e non ridotti), ioni, radiazioni (UV, raggi gamma, raggi X), farmaci (barbiturici), contaminanti ambientali e agenti cancerogeni (Iorio et al., 2007).

1.2 Lo stress ossidativo:

Lo stress ossidativo è una condizione patologica causata dall’eccessiva produzione di radicali liberi da parte dell’organismo nonché dalla rottura dell’equilibrio fisiologico dell’organismo stesso.

Si definisce radicale, una specie chimica reattiva con vita media molto breve, costituita da un atomo o molecola formata da più atomi, che presentano un elettrone spaiato e proprio tale elettrone, rende il radicale, una particella reattiva. (T. W. Graham Solomons[10]).

Lo stress ossidativo può essere quindi definito come la condizione in cui il bilancio esistente tra la produzione di radicali liberi e la loro disattivazione attraverso il sistema di difesa antiossidante, viene ad inclinarsi in favore dell’espressione dei radicali liberi (Fisher-Wellman et al., Ahmadvand et al)[11]. Fisher-Wellman K, Bloomer RJ. Acute exercise and oxidative stress: a 30-year history. Dyn. Med. 2009; 8:1

Lo stress ossidativo, è coinvolto nella genesi e nella progressione di numerose patologie tra cui ipertensione, aterosclerosi, diabete, osteoporosi, cancro, demenza (Adachi et al, 2012.)[12], oltre ad essere noto causare ed accelerare i processi di invecchiamento (Finkel et Al., 2000)[13] .

Tra tutti i processi sopra descritti, il danno a livello del DNA è quello più pericoloso per la salute a causa del suo ruolo nella patogenesi in buona parte dei processi patologici menzionati. I ROS, con particolare riferimento al radicale ossidrile •OH, possono causare cambiamenti a carico delle basi azotate, rottura dei filamenti del DNA, lesioni o down-regulation a carico di geni tumor-suppressor oltre ad una amplificata espressione

(10)

di proto-oncogeni (proteine che regolano il ciclo cellulare e la differenziazione, molte delle quali modulate da mTOR). (De Bont R et al., 2004)[14].

1.3 stress ossidativo ed esercizio fisico:

Vi è un ampio consenso rispetto al dato che una singola sessione di attività fisica induca stress ossidativo (Nikolaidis MG et al., 2011)[15]. Ed è anche dimostrato che i radicali liberi prodotti durante l’esercizio sono importanti modulatori degli adattamenti che avvengono a livello muscolare e sistemico, in risposta all’attività fisica (Fittipaldi S et al; Gliemann L et al; Powers SK et al)[16].

Infatti, da un lato, l’esercizio fisico è un importante fattore in grado di influenzare lo stress ossidativo e il danno ossidativo a carico del DNA mediante un brusco incremento nel consumo di ossigeno, tuttavia l’effetto del danno ossidativo esercizio-indotto è variabile, dipendendo da molteplici fattori quali: tipo di esercizio, modalità di esecuzione, durata ed intensità (Bloomer RJ, 2004)[17].

É stato osservato che una prestazione motoria isolata ad intensità medio-alta, induce un elevato stress ossidativo e significative lesioni a carico del DNA, mentre un esercizio fisico eseguito regolarmente a moderata intensità, è in grado di esplicare una inibizione sullo stress ossidativo e danni correlati (Radak et al). Lo stato redox è dunque caratterizzato da risposte opposte a seconda del grado di stimolazione; così siamo in grado di dire con certezza che la generazione di specie reattive dell’ossigeno a livelli medio-bassi indotta da una attività fisica moderata effettuata con regolarità, ha sicuramente effetti benefici poiché è in grado di ottenere una up-regulation degli enzimi chiave antiossidanti (Gomez Cabrera MC et al., 2008)[18].

In verità qua per la prima volta si inizio a parlare di radicali liberi, fu facile incolparli di invecchiamento precoce e di patologie varie. Sono passati un po' di anni da quando

(11)

Harman D, nel 1956, pubblicò il suo lavoro sullo stress ossidativo e invecchiamento precoce. Ma, contrariamente a quanto credevano i ricercatori negli anni ’50, oggi sappiamo che lo stress ossidativo, in piccole quantità è in realtà un beneficio infatti nuove ricerche hanno dimostrato che lo stress ossidativo spinge le cellule a diventare sempre più forti, incrementando la produzione di antiossidanti (Radak et al). In altre parole, il corpo attraverso lo stress ossidativo si indebolisce leggermente, per diventare più resistente nel workout successivo (Majerczak et al.)[19]. Le evidenze attuali concordano che una moderna quantità di esercizio sia in grado di produrre una “quota salutare di stress ossidativo”, tale da poter essere così considerata allo stesso modo di un antiossidante (Gomez-Cabrera et al., 2008).

In aggiunta, alcuni studi a lungo termine, in opposto a studi a breve termine, sembrano supportare l’ipotesi che un training ad alta intensità possa incrementare i livelli sistemici di antiossidanti in grado di fronteggiare un eventuale danno ossidativo (Wagner KH et al., 2010)[20].

Secondo Wagner infatti, “durante l’esercizio fisico, la formazione di radicali liberi dell’ossigeno, è in grado di stimolare meccanismi adattivi che conducono alla riduzione del danno ossidativo”.

Un’attività motoria troppo intensa e troppo sostenuta, genererà ampie quantità di ROS che supereranno di gran lunga la capacità di contenimento, lasciando l’individuo totalmente in balia dello stress ossidativo e dei radicali liberi, in virtù di questo, per molto tempo si è ritenuto che l’allenamento di resistenza (endurance sport) potesse essere la causa principale di stress ossidativo; infatti è opinione comune che i mitocondri siano i principali produttori di radicali liberi e, poiché l’allenamento di resistenza richiede ossigeno, ciò potrebbe causare un notevole flusso di energia attraverso la fosforilazione ossidativa e quindi sarebbe maggiore il numero di RL

(12)

prodotti a livello mitocondriale (Radak Z et al., 1999)[21].

Ci sono stati altri studi che hanno invece chiarito che i radicali liberi possono essere prodotti anche attraverso altri pathways che non sono necessariamente correlati alla richiesta di ossigeno (Ji LL et al.)[22] .

Studi ancora diversi, hanno evidenziato che, a dispetto di quanto ossigeno è richiesto nello svolgimento di una attività aerobica, anche l’esercizio anaerobico, può produrre livelli similari di stress ossidativi (Alessio et al.)[23].

2. GLI ANTIOSSIDANTI:

Il termine antiossidante indica tutte le molecole capaci di stabilizzare o disattivare i radicali liberi prima che essi danneggino le cellule.

L’organismo umano ha evoluto sistemi altamente complessi di difesa antiossidante, enzimatici e non enzimatici, i quali lavorano sinergicamente e in combinazione con altri sistemi di protezione cellulare contro il danno ossidativo.

Un antiossidante ideale dovrebbe essere caratterizzato da: rapido assorbimento, alta efficienza nell’eliminazione dei radicali liberi e nel chelare i metalli ridotti, capacità di svolgere la sua azione in domini acquatici e/o di membrana (Rahman, 2007).

Gli antiossidanti sono classificati in base alla loro natura tra endogeni ed esogeni. Gli antiossidanti ENDOGENI, sono enzimi in grado di tamponare superossidi e idroperossidi.

Il vantaggio che deriva dalla loro azione è che la concentrazione di perossidi allo stato stazionario può essere adattata ai requisiti della cellula: molti enzimi possono essere indotti, inibiti o attivati da effettori endogeni (Harris et al. 1992)[24].

(13)

La superossido dismutasi (SOD) è un enzima appartenente alla famiglia delle metalloproteine la cui funzione è quella di convertire l’ •O2 in O2 e H2O2 (Rahaman, 2007) secondo la seguente reazione di dismutazione o di disproporzione:

•O2 + •O2 + 2H+ - H2O2+ O2

In questa reazione, una molecola di •O2 si ossida diventando ossigeno e l’atra molecola si riduce e si protona diventando H2O2.

La SOD è presente in diverse isoforme, identificabili in base agli ioni presenti nel sito attivo (rame, ferro o manganese), alla composizione amminoacidica e alla distribuzione negli organismi. I geni che codificano per le SOD derivano da due geni ancestrali; da uno dei due geni deriva il gruppo delle Mn-SOD e delle Fe-SOD ampiamente diffuso tra tutti gli organismi aerobi, dai batteri alle piante fino all’uomo, dall’altro discende la famiglia delle Cu/Zn-SOD, distribuito esclusivamente tra gli organismi eucaristici (Rahaman, 2007).

Nell’uomo sono presenti tre isoforme di SOD: la SOD1 è distribuita nel citoplasma, la SOD2 nei mitocondri, mentre la SOD3 è localizzata a livello extracellulare. La prima è un dimero di peso molecolare di 32 kDa, mentre le altre due sono tetrametri con peso molecolare di 96 kDa. La SOD1 e la SOD3 contengono rame e zinco, mentre la SOD2 contiene il manganese nel suo centro di reazione (rispettivamente Cu/Zn-SOD e Mn-SOD) (Rahaman, 2007).

Negli organismi aerobi, sono presenti due famiglie di enzimi, le catalasi e la glutatione perossidasi, capaci di degradare l’ H2O2(Izawa et al., 1996)[25].

Le catalasi (CAT) sono metalloproteine, localizzate a livello dei perossisomi delle cellule eucariotiche, il cui gruppo prostetico, la parte non proteica dell’enzima, è rappresentato dal ferro (Izawa et al., 1996). Questi enzimi hanno la capacità di proteggere i tessuti dai perossidi; la reazione catalizzata dalle catalasi è la

(14)

decomposizione del H2O2 ad H2O ed O2 molecolare secondo la seguente reazione (Valko et al., 2006):

H2O2+H2O2  2 H2O+ O2

Le CAT hanno un’alta velocità di tourn-over: una molecola può convertire, ogni minuto, approssimativamente 6 milioni di molecole di H2O2 ad H2Oe O2 (Rahaman, 2007).

Quando i livelli di perossido di idrogeno sono troppo bassi per attivare le catalasi, la decomposizione di tale SRC avviene per attivazione della glutatione perossidasi (Iorio, 2007), un enzima presente in due diverse forme, una selenio-dipendente (GPx), l’altra selenio indipendente (glutatione-S-tranferasi, GST). Le differenze sono dovute al numero di subunità, ai meccanismi catalitici e al legame del selenio nel centro attivo (Valko et al., 2006; Rahaman, 2007).

Nell’organismo umano sono presenti quattro tipi differenti di GPx, le quali hanno la funzione di ridurre i perossidi. La GPx agisce in associazione con il glutatione, una molecola presente ad alte concentrazioni nelle cellule che rappresenta uno dei più importanti meccanismi endogeni di difesa dai radicali liberi. La GPx utilizza come substrato il H2O2 o un perossido organico (ROOH) e catalizza la conversione dei perossidi ad acqua o alcol e, simultaneamente, reagendo con il H2O2, ossida il glutatione (Valko et al., 2006; Rahaman, 2007):

2GSH + H2O2  GSSG + 2H2O

2GSH + ROOH  GSSG + ROH + H2O

In queste reazioni, la GPx catalizza la riduzione del H2O2 ad H2O e quella dei perossidi organici ai corrispondenti alcoli stabili (ROH), utilizzando il glutatione come fonte di equivalenti riducenti.

(15)

Negli organismi maggiormente evoluti, la GPx sembra aver largamente soppiantato il bisogno delle catalasi nella difesa contro lo stress ossidativo. Inoltre, è un enzima molto importante nel prevenire la perossidazione lipidica per mantenere la struttura e la funzione delle membrane biologiche (McCord, 2000).

Gli antiossidanti ESOGENI hanno, invece, la funzione di implementare le difese antiossidanti ripristinando, per esempio, il pool dei tioli oltre ad agire di per sé come scavenger dei radicali liberi, fra questi ricordiamo: le vitamine A ed E, la vitamina C, il coenzima Q, e i polifenoli.

3. L’ATTIVITA’ FISICA: BENEFICI E RISCHI

Le persone fisicamente attive, rispetto a quelle fisicamente inattive, oltre ad una forma fisica migliore presentano anche un miglior profilo del rischio di condizioni disabilitanti e più bassi tassi di malattie croniche.

3.1 I benefici dell’attività fisica:

I principali effetti positivi dell’attività fisica, soprattutto quella di tipo aerobico, possono essere riassunti come segue:

-A livello cardiovascolare: si ha un miglioramento generale della funzionalità cardiaca,

in quanto aumentano le cavità del cuore, le pareti diventano più spesse e forti e il cuore è in grado di pompare più sangue ad ogni contrazione determinando una migliore ossigenazione del cuore stesso e della muscolatura. Questo modificazione ipertrofica del cuore è fisiologica ed è un adattamento che si attua in risposta all’attività fisica e al tipo di sport praticato: per le attività di fondo come corsa, camminata, ciclismo etc..) il suore si adatta progressivamente aumentando il volume delle proprie cavità, consentendo quindi al cuore di produrre una maggiore gittata sistolica e aumentando la quantità di

(16)

sangue disponibile ai tessuti; nel caso invece di sport statici come il sollevamento pesi o il bodybuilding, il cuore si adatta aumentando lo spessore delle pareti a discapito però della dimensione delle cavità cardiache. Durante questi sporti infatti, la contrazione massiva di grandi masse muscolari, causa l’occlusione parziale dei vasi sanguigni, generando un aumento di pressione e un maggior lavoro da parte del cuore; questo brusco innalzamento di pressione è potenzialmente molto pericoloso, soprattutto per i soggetti cardiopatici, ipertesi e diabetici[26].

Tornando alle modificazioni indotte dall’attività fisica, notiamo un aumento sia della gittata sistolica (quantità di sangue espulsa ad ogni contrazione) e un aumento della portata cardiaca (quantità di sangue messa in circolo in un minuto); oltre a questo si ha un aumento della frequenza cardiaca durante lo sforzo (anche se, a parità di lavoro, il soggetto allenato ha un numero di pulsazioni minore rispetto al meno allenato, grazie alla capacità del suo cuore di pompare una maggiore quantità di sangue) e una riduzione della stessa a riposo (bradicardia), che si ottiene solo grazie ad un costante e prolungato allenamento. Altro aspetto importante è legato all’aumento della produzione di ossido nitrico da parte del tessuto endoteliale di rivestimento dei lumi dei vasi arteriosi; l’ossido nitrico viene definito come un “salvavita fisiologico” per diversi motivi: in primis agisce sulle fibre muscolari delle arteriole favorendo la vasodilatazione delle stesse, migliorando quindi l’afflusso di sangue ai vari organi, è utile anche nella prevenzione dell’aggregazione piastrinica (diminuzione del rischio trombotico), e ha un’azione antiossidante e antinfiammatoria, in quanto riduce lo stress ossidativo reagendo chimicamente con i radicali dell’ossigeno e porta ad una riduzione dei geni che promuovono lo stress ossidativo. L’attività fisica induce anche ad un aumento del numero di capillari, soprattutto a livello muscolare, che assicura al muscolo stesso in attività, un maggior apporto di nutrienti e ossigeno e contribuisce a diminuire la

(17)

resistenze periferiche, con miglioramenti importanti sulla pressione diastolica e sistolica[27].

-A livello pressorio: l’attività fisica regolare è in grado di indurre una diminuzione

pressoria di 6-10 mmHg (sia per quanto riguarda la pressione sistolica che per quella diastolica), questo perché si ha gradualmente una riduzione del tono simpatico a favore di un aumento del tono vagale che va a modulare il sistema autonomico, riducendo sia la pressione arteriosa che la frequenza cardiaca[28]. Con la riduzione della pressione arteriosa si riduce anche la produzione di angiotensina che, a sua volta, porta ad una diminuzione del rischio di sviluppare una ipertrofia patologica a vantaggio di quella fisiologica vista in precedenza. L’effetto dell’attività fisica sulla modulazione della pressione arteriosa non è diretto, ma dipende dall’aumento del numero di capillari a livello muscolare e cardiaco, che porta alla diminuzione delle resistenze periferiche (situazione facilitata anche dalla riduzione dell’attività di alcuni ormoni e dei loro recettori – catecolamine –); dal conseguente aumento dell’apporto di sangue e ossigeno a tutti i tessuti, in particolare al muscolo cardiaco; dalla riduzione sia dello stress transitorio, che dello stress a lungo termine, grazie al rilascio di sostanze euforizzanti che intervengono nella regolazione dell’umore (endorfine). Oltre a questo bisogna considerare l’effetto positivo che l’attività fisica svolge sugli altri fattori di rischio relativi ad alcune patologie che spesso si associano o causano l’ipertensione, quali ad esempio il diabete, le dislipidemie e l’obesità[29].

-A livello respiratorio: questo apparato con i suoi meccanismi, permette il continuo

rifornimento di ossigeno all’organismo e l’eliminazione dell’anidride carbonica, e dal momento che durante l’esercizio fisico il fabbisogno di ossigeno aumenta

(18)

notevolmente, questo apparato viene messo sotto sforzo. Per questo motivo, durante l’attività fisica, si ha un aumento del ritmo respiratorio, seguito dal sintomo della fatica, che si manifesta con la comparsa dell’affanno (dispnea). Per ovviare a ciò sono necessari degli adattamenti, primo tra tutti il miglioramento della capacità di assumere ossigeno a livello degli alveoli polmonari e un aumento di efficacia nel lavoro dei muscoli respiratori (nonché un incremento nel trasporto di ossigeno, favorito dalla capillarizzazione). Nell’analisi degli effetti su questo apparato da parte della pratica di un attività fisica, una parentesi importante spetta agli effetti dell’allenamento sul VO2

max: infatti, non vi è dubbio che esso aumenti per effetto dell’allenamento, ma l’entità del suo incremento varia notevolmente e dipende da un certo numero di fattori. Innanzitutto si assiste ad un aumento dell’estrazione di ossigeno dal sangue in conseguenza alle modificazioni, sia enzimatiche che di altra natura biochimica, che si verificano nei muscoli per effetto dell’allenamento. I dati di cui oggi disponiamo indicano che le modificazioni della gettata cardiaca e dell’estrazione di ossigeno dal sangue contribuiscono in misura all’incirca pari all’aumento del VO2 max. La massima

ventilazione al minuto aumenta per effetto dell’allenamento[30]. Dal momento che la ventilazione non è un fattore limitante per il VO2 max, l’incremento del suo valore

massimale dovrebbe essere considerato secondario. Comunque, questo incremento è determinato da aumenti sia del volume corrente che della frequenza respiratoria. Gli atleti hanno, tendenzialmente, maggiori capacità di diffusione polmonare, sia a riposo che durante esercizio, rispetto agli individui sedentari e ciò è particolarmente vero per gli atleti di resistenza. Si ritiene che, di per sé, la capacità di diffusione non sia direttamente influenzata dall’allenamento, ma che sia piuttosto dovuta all’incremento dei volumi polmonari che si verifica negli atleti, e che rende disponibile una superficie alveolo-capillare più estesa. Facendo un riassunto delle modifiche a cui questo apparato

(19)

va incontro con l’abitudine ad una pratica di attività fisica, rileviamo un aumento della capacità vitale, cioè della quantità di aria che si riesce ad espirare dopo una massima inspirazione, un aumento del tempo di apnea, che è la sospensione volontaria della respirazione, una riduzione della frequenza respiratoria, perché ad ogni atto respiratorio si riesce ad immettere una maggiore quantità di aria, una maggiore capacità di recupero, un potenziamento della meccanica respiratoria, in particolar modo a carico del diaframma.

-A livello muscoloscheletrico: ogni muscolo ha funzioni ben precise da svolgere e il

movimento abitua e da la possibilità all’apparato di funzionare in maniera più economica e redditizia possibile in relazione al lavoro che deve svolgere. Con un allenamento mirato al lavoro intenso e al superamento delle resistenze, si pensi per esempio al sollevamento pesi, il muscolo aumenta il suo volume (ipertrofia) e la sua forza; se invece viene poco utilizzato o rimane inattivo, il muscolo riduce il suo volume (ipotrofia) e lascia spazio alla componente adiposa, perdendo così la sua forza. Oltre a questo, il muscolo è in grado di variare la sua lunghezza e la sua forma come risposta al lavoro abituale cui viene sottoposto: se lavora accorciandosi e allungandosi al massimo manterrà la sua lunghezza naturale, ma il suo “ventre” si allungherà, realizzando una forma affusolata; se invece allungamento e accorciamento saranno incompleti nel loro svolgimento, il muscolo tenderà a diventare gradualmente più corto. Come già visto prima, uno dei cambiamenti importante relativi al sistema cardiocircolatorio, riguarda l’aumento della capillarizzazione; questo adattamento si riflette in larga parte anche sul muscolo, in quanto i capillari sono utili per il trasporto di ossigeno a vari organi e apparati, tra cui anche l’apparato muscolare, poiché i capillari arrivano sino alle fibre del muscolo. Questo aumento di capillarizzazione consente quindi una migliorata

(20)

capacità di rifornire il muscolo di ossigeno e quindi gli permette di resistere più a lungo nel lavoro. Affinché l’efficienza muscolare sia aumentata, non è sufficiente solo l’ossigeno, ma il muscolo necessita di energia da convertire per utilizzarla durante il lavoro: proprio per ovviare a questo, grazie all’allenamento, il deposito di sostanze energetiche (glicogeno) necessarie per la contrazione muscolare, viene nettamente aumentato.

Per quanto riguarda le capacità condizionali come la flessibilità, la resistenza, la velocità e l’equilibrio, si ha un netto miglioramento che porta ad un miglioramento anche dell’assetto posturale, miglioramento reso possibile anche da un aumento in velocità e precisione della trasmissione degli stimoli nervosi dal cervello ai muscoli, che porta ad una migliore coordinazione, più efficace e più rapida. Tutte le modificazioni relative ad un miglioramento del muscolo si riflettono anche sulle ossa: il potenziamento equilibrato dei muscoli del tronco e dei muscoli addominali, previene eventuali modificazioni degenerative a carico della colonna vertebrale ed una potenziale insorgenza di patologie discali e lombosciatalgiche acute e croniche. L’attività fisica, soprattutto quella contro-gravitaria, porta ad un aumento della densità minerale ossea, aspetto importante nel prevenire le forme di osteoporosi sia primaria che secondaria. Oltre a questo la pratica motoria attiva e migliora la circolazione sanguigna della membrana che avvolge le ossa (periostio) e questo permette una migliore nutrizione del tessuto osseo che può diventare più forte e resistente. Infine, gli effetti si ripercuotono anche sulle articolazioni che devono mantenersi in perfetta efficienza, dal momento che rappresentano un punto di collegamento importante. Il movimento ha diversi benefici in questo campo, infatti stimola la secrezione di liquido sinoviale, che ha il compito di lubrificare in modo continuo le giunture articolari, rende flessibile e resistente la membrana fibrosa che avvolge il manicotto articolare, permette ai legamenti di

(21)

mantenere la massima elasticità e agisce sulle superfici articolari, sulle capsule e sui legamenti, mantenendoli in continuo rodaggio[31].

-A livello di metabolismo e composizione corporea: a livello metabolico il

miglioramento riguarda il metabolismo lipidico, glucidico e la sensibilità insulinica. L’attività fisica regolare porta infatti ad un profilo lipidico meno aterogeno con livelli ridotti di trigliceridi e di colesterolo LDL, e aumentati di colesterolo HDL e dispendio energetico; oltre a questo, con un’attività costante e regolare, il tessuto muscolare riesce a captare il glucosio ematico in modo più efficiente grazie anche all’aumento della sensibilità insulinica del muscolo: tra le modificazioni più rilevanti, si ha infatti un miglioramento della qualità dei recettori insulinici presenti sugli organi bersaglio, fatto che porta ad una riduzione della resistenza e ad un aumento del flusso ematico. Potendo utilizzare al meglio le scorte, si hanno cambiamenti significativi anche a livello di dispendio energetico e di rimodellamento della composizione corporea. Unita ad una alimentazione corretta, unita ad un programma specifico di attività fisica, aiuta il soggetto a perdere peso e a “rimodellare” la sua struttura corporea[32].

-A livello psichico-comportamentale: l’attività fisica ha benefici sulla psiche umana, in

quanto contribuisce a migliorare il benessere generale e la qualità della vita, favorendo l’attenuazione dei sintomi di depressione, stress, solitudine e ansia. L’ipotesi più nota e diffusa, circa la spiegazione dei benefici che l’esercizio fisico può avere sull’umore e sull’ansia, è di tipo biologico ed è basata sui naturali meccanismi fisiologici che accompagnano lo sforzo fisico. Secondo alcuni studi infatti, questi effetti sono legati al rilascio di β-endorfine[33], sia a livello del sistema nervoso centrale che a livello del sistema nervoso periferico, sostanze presenti nel nostro organismo e che svolgono una

(22)

funzione di antidolorifici naturali e che portano all’induzione di uno stato euforico e di una riduzione del dolore. In letteratura però esistono anche argomentazioni e teorie focalizzate maggiormente sugli aspetti psicologici e sociali. Secondo queste teorie l’attività fisica può alleviare i sintomi depressivi incrementando nelle persone i sentimenti di competenza, autonomia e vicinanza agli altri, migliorando la loro autostima e la percezione dell’immagine corporea che hanno di sé stessi. Oltre a questo, i programmi di attività fisica instaurati sia da strutture pubbliche che da quelle private, si basano per la maggior parte sulla creazione di un gruppo e a questo aspetto di socializzazione si aggiungono ulteriori vantaggi psicologici come l’incremento dell’autostima e della qualità della vita. Secondo alcuni studi condotti su soggetti depressi, migliorando gli aspetti di benessere generale del soggetto, si ha un incremento significativo anche sulla fitness cardiorespiratoria[34].

3.2 I rischi dell’attività fisica:

Come per tutte le cose, anche la pratica di attività fisica può portare a correre dei rischi, soprattutto se non svolta correttamente o se non adattata alle esigenze e alle necessità di ogni singolo individuo. La presenza di una patologia, sia essa pregressa o in atto, o di una condizione per cui la persona è stata o meno in cura da un medico, è determinante nella scelta di tipologia, durata e intensità dell’attività fisica, per evitare di incorrere in quelli che sono i rischi ad essa connessi. I principali e più frequenti rischi associati alla pratica di attività fisica possono essere riassunti come segue:

-Rischio cardiovascolare: l’attività fisica induce effetti positivi a carico del sistema

cardiovascolare; tuttavia la relazione grafica tra la quantità di sport e di benessere cardiovascolare non appare lineare, bensì forma una curva «a campana»: i benefici

(23)

dell’attività fisica a livello cardiaco crescono fino a una determinata soglia oltre la quale si mantengono stabili o addirittura decrescono, a seconda delle persone. L’attività fisica di tipo intenso e prolungato induce diversi e profondi cambiamenti nella struttura e nella fisiologia cardiaca che favoriscono il miglioramento della performance[35].

Sebbene queste modificazioni siano del tutto normali, possono tuttavia rappresentare un serio pericolo in alcune classi di soggetti, come per chi soffre di aterosclerosi o di disturbi cardiaci congeniti. Nel caso dell’aterosclerosi, questa rappresenta un disturbo di natura ereditaria caratterizzato dall’accumulo di placche lipidiche all’interno delle pareti arteriose e può manifestarsi nei sedentari così come nei maratoneti. La formazione di una placca arteriosclerotica a livello di uno o più vasi arteriosi coronarici, causa il progressivo restringimento del lume coronarico stesso. Se il restringimento limita il flusso di sangue interferendo con l’apporto di ossigeno al cuore, si può andare incontro a cardiopatia ischemica silente, che si manifesta con angina pectoris e infarto del miocardio. La formazione della placca è un processo degenerativo a carico della parete interna dei vasi arteriosi, caratterizzato dall’accumulo di materiale di tipo lipidico, tessuto fibroso e cellule muscolari lisce della parete del vaso e cellule infiammatorie. L’accumulo di queste sostanze, crescendo, da vita ad un ateroma (o placca ateromatosa) che va ad ostruire progressivamente il lume. Gli sforzi molto intensi possono inoltre favorire il distacco delle placche lipidiche, con conseguente formazione di un trombo. In maniera simile, un elevato livello di attenzione deve essere mantenuto da chi soffre

di disturbi cardiaci congeniti, come le cardiomiopatie o la sindrome del QT lungo, caratterizzata da un’anomalia elettrica del cuore. La difficoltà è spesso quella di sapere o meno se si è affetti da questi disturbi, per questo è importante che chi svolge attività fisica ad alto livello si sottoponga alle opportune visite di controllo, tenendo l’orecchio ben teso verso eventuali segnali di allarme come dolori al petto, fiato corto o sensazione

(24)

di stanchezza eccessiva. Per queste e per altre motivazioni, è necessario svolgere un’attenta valutazione preliminare prima di approcciarsi ad una qualsiasi attività fisica[36].

-Rischi connessi a patologie: oltre a quelle cardiache, ci sono alcune patologie che

hanno bisogno di una attenzione speciale, come ad esempio l’ipertensione arteriosa e il diabete.

L’ipertensione arteriosa è una condizione caratterizzata da un aumento stabile, non occasionale, della pressione arteriosa, rispetto a standard considerati fisiologici, nei soli valori massimi (sistolici) o minimi (diastolici) o di entrambi; si considera generalmente come iperteso, un soggetto con una pressione con valori superiori o uguali a 140/90 mmHg, condizione cui si associa un aumentato rischio cardiovascolare. L’esercizio fisico di moderata intensità e prolungato nel tempo, come visto in precedenza, è in grado di diminuire i valori pressori, ma un’attività acuta produce un effetto contrario, in quanto genera stress sull’organismo e porta ad una diminuzione di produzione di catecolamine, determinando vasocostrizione periferica e quindi un aumento ulteriore della pressione e un aumento del lavoro cardiaco. Nel soggetto iperteso è inoltre sconsigliata la pratica di esercizi di tipo isometrico e di tipo statico, in quanto portano ad un aumento marcato della pressione arteriosa[37] (la sistolica ha un incremento fino a circa 350 mmHg, mentre la diastolica ha un aumento fino a circa 240 mmHg) e ad una situazione di vasocostrizione accentuata che ostacola il ritorno venoso al cuore e che aumenta il consumo miocardico di ossigeno, in quanto il cuore cerca di pompare maggiori quantità di sangue, ma la gittata e la portata cardiaca risultano comunque inadeguate. Nei soggetti ipertesi si sconsigliano quindi attività con impegno

(25)

cardiocircolatorio e di pressione elevato come il body building, il sollevamento pesi, l’alpinismo[38].

Il diabete è un disordine cronico del metabolismo caratterizzato in generale da elevati livelli di glucosio plasmatici a digiuno (iperglicemia), da diuresi abnorme e frequente (poliuria) e dalla presenza di glucosio nelle urine (glicosuria). Tutto questo è dovuto ad un deficit che è da ricercarsi a carico del pancreas e delle cellule pancreatiche o a causa dell’utilizzo dell’ormone prodotto dal pancreas, cioè l’insulina. Nel soggetto diabetico infatti si ha una carenza o un mancato utilizzo di questo ormone, la cui funzione principale è quella di stimolare la fase sintetica del metabolismo, promuovendo l’assunzione di glucosio e stimolando la sintesi di glicogeno soprattutto a livello muscolare. A cose normali l’attività fisica influisce sul trasporto del glucosio insulino-indotto, aumentando la captazione muscolare del glucosio grazie all’aumento del flusso sanguigno ai muscoli in attività, all’aumento dei capillari e al reclutamento di trasportatori del glucosio (GLUT-4), ma a seconda della tipologia di diabete, l’attività fisica può portare a dei problemi. Nel caso del diabete tipo 1 il rischio maggiore che corre un soggetto affetto è l’ipoglicemia: il diabete tipo 1 infatti è di tipo insulino-dipendente, per cui si origina a causa di una assenza/carenza di insulina, che porta ad avere livelli di glicemia molto bassi. Per questo motivo il soggetto con diabete tipo 1 deve necessariamente approcciarsi all’attività facendo un adeguato controllo metabolico nel prima – durante – dopo l’attività, utilizzando supplementazioni di carboidrati e/o aggiustando le dosi di insulina iniettate. E’ quindi fondamentale conoscere la risposta glicemica ai vari tipi di esercizio. Nel diabete tipo 2 invece, non insulino-dipendente, i rischi non sono legati al controllo glicemico, bensì alle principali conseguenze di questa patologia, ovvero il sovrappeso, l’ipertensione arteriosa e i rischi cardiovascolari. L’esercizio fisico, ad oggi, è l’unico “farmaco” in grado di agire contemporaneamente

(26)

su tutti e tre questi fattori di rischio, ma allo stesso tempo presenta i rischi visti in precedenza relativamente a ipertensione e patologie cardiache[39].

-Possibili danni a carico delle strutture muscolo-scheletriche e articolari: un eccesso

di carico unito ad un’errata postura durante l’attività fisica, può generare sovraccarichi strutturali, con possibili alterazioni degenerative a carico della colonna vertebrale e delle articolazioni, determinando un invecchiamento precoce dell’individuo. Oltre a questo, la pratica di attività fisica in soggetti con particolari condizioni, deve essere strettamente monitorata ed adeguata. Si pensi ad esempio ai soggetti con osteoporosi o obesi: nel primo caso, essendo questa una patologia multifattoriale progressiva dello scheletro, si ha una diminuzione della massa ossea che di per sé non causa sintomi, ma che ha una stretta correlazione con il verificarsi di fratture e di una situazione generale di fragilità, per cui l’esercizio fisico deve essere adeguato e mirato a determinare uno stress contenuto che porti a stimolare la formazione di nuovo osso (effetto strain) e ad incrementare l’afflusso di sangue, senza però andare oltre e creare danno; discorso simile vale per i soggetti obesi, in quanto, dovendo questi “sportare e muovere” una massa maggiore rispetto ad un soggetto normale, un’attività con carichi troppo elevati porterebbe al rischio sia di traumi muscolo-scheletrici che cardiaci acuti, in quanto il cuore viene messo maggiormente sotto sforzo. I traumi però possono verificarsi anche senza una condizione patologica di partenza, in quanto ogni sport può avere un rischio di incidente acuto come una lussazione o una distorsione di ginocchio o di caviglia. Inoltre sono sempre più diffusi i disturbi dovuti a microtraumi ripetuti, soprattutto a carico di tendini e legamenti spesso poco pronti all’attività, e i disturbi occupazionali o malattie professionali, causati dalla costante ripetizione di un determinato movimento che provoca una sollecitazione ripetuta a carico di una struttura che spesso può

(27)

tramutarsi in lesione o in uno stato infiammatorio acuto che impedisce l’esecuzione di quel particolare movimento (es. sindrome del tunnel carpale). Un’adeguata preparazione all’attività, la strutturazione di programmi personalizzati e la conoscenza del corretto svolgimento di determinati movimenti, fanno sì che incorrere in questi rischi sopra descritti sia abbastanza difficile[40].

-Rischio di morte cardiaca improvvisa: è un evento non frequentissimo, ma che

comunque non si può escludere; si tratta di una morte naturale di origine cardiaca preceduta da un’improvvisa perdita di conoscenza in soggetti con o senza una cardiopatia nota preesistente. In linea di massima spingere l'organismo ai suoi limiti, soprattutto senza gradualità, può scatenare un’ischemia e un conseguente infarto che possono essere fatali per il soggetto e può rendere manifeste delle piccole anomalie che in condizioni normali non si sarebbero mai rivelate. La morte improvvisa si presenta infatti in persone che non hanno i chiari segni di una cardiopatia o di una patologia sottostante e la diagnosi quindi non è semplice e scontata come per le patologie precedentemente affrontate; bisogna infatti ricostruire il proprio albero genealogico per individuare eventuali famigliari. La sua asintomaticità è causa di tanti decessi, in quanto l’improvvisa cessazione della funzione di pompa del cuore per arresto cardiaco o arresto cardio-circolatorio che si manifesta, porta inesorabilmente alla morte se non si interviene tempestivamente con opportune manovre rianimatorie. La sopravvivenza in questo caso è determinata dal tempo di intervento in quanto per la persona colpita da arresto cardiaco, ogni minuto che passa è di vitale importanza: in soli sessanta secondi, infatti, si abbassano del 10% le sue possibilità di restare in vita. Per questo motivo, oltre il 70% delle vittime di arresto cardiaco muore prima di raggiungere l’ospedale. La fibrillazione ventricolare e la tachicardia ventricolare senza polso sono le aritmie

(28)

riscontrabili in circa l’85% dei casi di arresto cardio circolatorio. Durante la fibrillazione ventricolare (FV) i segnali elettrici che controllano l’attività di pompa del cuore diventano rapidi e caotici, con la conseguenza che il sangue non viene più pompato al resto del corpo, tra cui anche al cervello. Per far sì che non sopraggiunga la morte cardiaca improvvisa o che il paziente non riporti gravi danni cerebrali permanenti, l’unica terapia efficace in questi casi è la defibrillazione precoce[41].

3.3 I livelli raccomandati di attività fisica:

È stato evidenziato che non esiste una precisa soglia al di sotto la quale l’attività fisica non produce effetti positivi per la salute. Risulta quindi molto importante il passaggio dalla sedentarietà a un livello di attività anche inferiore ai livelli indicati dalle linee guida.

Le linee guida internazionali e nazionali, raccomandano:

- bambini e ragazzi (5–17 anni): almeno 60 minuti al giorno di attività moderata-vigorosa, includendo almeno 3 volte alla settimana esercizi per la forza che possono consistere in giochi di movimento o attività sportive

-adulti (18–64 anni): almeno 150 minuti alla settimana di attività moderata o 75 di attività vigorosa, con esercizi di rafforzamento dei maggiori gruppi muscolari da svolgere almeno 2 volte alla settimana

-anziani (dai 65 anni in poi): le indicazioni sono le stesse degli adulti, con l’avvertenza di svolgere anche attività orientate all’equilibrio per prevenire le cadute. Chi fosse impossibilitato a seguire in pieno le raccomandazioni, dovrebbe fare attività fisica almeno 3 volte alla settimana e adottare uno stile di vita attivo adeguato alle proprie condizioni.

(29)

Importante anche impegnarsi personalmente per modificare il contesto in cui si vive al fine di sostenere i cambiamenti necessari per rendere più facile l’adozione di uno stile di vita sano e attivo nella propria città, nei luoghi di lavoro e di studio. [42]

4. ESERCIZIO FISICO E PRODUZIONE DI ROS/RNS:

4.1 Esercizio fisico aerobico e produzione di ROS/RNS:

• definizione di metabolismo aerobico:

Il metabolismo aerobico sfrutta l'ossigeno per la produzione di ATP. Durante l'esercizio fisico, il sistema aerobico inizia ad intervenire sovrapponendosi all’ anaerobico alattacido e “shifta” in anaerobico lattacido in seguito all'esaurimento dei fosfageni muscolari e in seguito anche all’accumulo di acido lattico a partire dal primo minuto di attività. Le fonti energetiche a lungo termine prevedono la produzione di ATP a partire dai vari combustibili, ma questo sistema richiede l'utilizzo di ossigeno (O2), quindi prende il nome di sistema aerobico.

I combustibili principali includono il glicogeno muscolare, il glucosio ematico, gli acidi grassi liberi (Free Fat Acid (FFA o NEFA)) nel plasma ed i trigliceridi intramuscolari e depositati nel tessuto adiposo. Queste molecole vengono scisse in maniera tale che possano trasferire l'energia dei loro legami chimici in un sito delle cellule in cui avviene la sintesi dell'ATP. La maggior parte di queste reazioni avviene nei mitocondri, dove viene utilizzato l'ossigeno.

(30)

carboidrati (CHO) + lipidi + ossigeno (O2) = ATP (ciclo di Krebs)

La riconversione da ADP ad ATP è strettamente collegata al consumo di ossigeno, il quale aumenta proporzionalmente all'intensità dello sforzo fino a raggiungere il massimo consumo di ossigeno (VO2max) [43].

La produzione di ATP attraverso i meccanismi aerobici è più lenta rispetto a quella derivante dalle fonti di energia anaerobiche immediatamente disponibili e, durante un lavoro massimale o sub-massimale, potrebbero essere necessari 2 o 3 minuti prima che il fabbisogno di ATP della cellula venga coperto completamente dal processo energetico aerobico. Un motivo di tale rallentamento, è il periodo di tempo necessario al cuore per aumentare il rifornimento di sangue arricchito di ossigeno ai muscoli, alla velocità richiesta per soddisfare le richieste di ATP degli stessi. In un lavoro muscolare che va dai 2 ai 3 minuti: circa il 50% proviene da fonti anaerobiche ed il restante 50% da fonti aerobiche; mentre in uno sforzo della durata di 10 minuti, la componente anaerobica scende bruscamente al 15%[44].

(31)

Da un punto di vista biochimico l’aumentata produzione di ROS durante l’esercizio fisico aerobico è dovuta principalmente al fatto che l’ossigeno, riducendosi ad acqua, risulta essere l’accettore finale degli elettroni durante la respirazione mitocondriale permettendo all’organismo di utilizzare l’energia immagazzinata sotto forma di carboidrati, lipidi e proteine. Durante l’esercizio aerobico, la richiesta di energia da parte dei tessuti è tale da richiedere la mobilizzazione di grandi quantità di nutrienti da ossidare nei vari processi metabolici preposti alla produzione di energia.

Aumentando, quindi, l’attività di tali vie metaboliche, si rende necessario ridurre ad acqua una maggior quantità di ossigeno. Alcuni studiosi hanno infatti individuato una correlazione positiva tra il livello di VO2, raggiunto durante l’esercizio, e lo stress ossidativo generato (Ashton et al. 1998)[45].

A livello mitocondriale gli elettroni vengono trasferiti dal NADH fino all’ossigeno attraverso tre complessi enzimatici. La NADH ubichinone reduttasi e la citocromo-c reduttasi, sono noti per essere due siti di formazione di radicali superossido (O2.-) e perossido di idrogeno (H2O2) (Adam-Vizi et al. 2006)[46].

Ciò è dovuto al passaggio degli elettroni da coenzimi che trasportano due elettroni contemporaneamente, NADH e FADH2, a coenzimi che ne trasportano solo uno, semi-ubichinone (QH). A questo livello della catena il legame di un elettrone ad una molecola di ossigeno genera O2.-, che è prontamente ridotto a H2O2ad opera della manganese superossido dismutasi (MnSOD) mitocondriale.

Durante un esercizio massimale, la richiesta di ossigeno dell’intero organismo può aumentare fino a 20 volte, mentre la quantità che raggiunge le fibre muscolari è ancora più elevata. È stato dimostrato che la percentuale di ossigeno che si converte in superossido rimane la stessa indipendentemente dalla quantità di ossigeno consumata, in altre parole l’efficienza della catena di trasporto mitocondriale rimane costante. In

(32)

condizioni fisiologiche normali è stato stimato che quotidianamente una cellula produce una quantità totale di 3,3 . 10-11 mmol di ROS (Ames et al. 1995)[47].

Tuttavia questo è parte integrante della vita cellulare, tanto che l’organismo è in grado di contrastare la presenza di tali ROS attraverso i sistemi antiossidanti, sia endogeni sia esogeni. In condizioni di stress, quale ad esempio lo svolgimento di un’attività fisica, la quantità di ossigeno consumata, e quindi la quantità di ROS prodotta è molto maggiore che in condizioni normali, pertanto il pool di antiossidanti potrebbe non essere in grado di mantenere il corretto rapporto tra fattori pro-ossidanti e antiossidanti. Questo è tanto più vero quanto più si parla di attività fisiche intense, dove spesso l’organismo non ha a disposizione le riserve antiossidanti necessarie.

4.2 L’esercizio fisico anaerobico e la produzione di ROS/RNS:

• definizione di metabolismo anaerobico:

Il metabolismo anaerobico può definirsi alattacido o lattacido.

Il metabolismo anaerobico alattacido o dei fosfati è uno dei metabolismi energetici adoperati dal muscolo scheletrico per la produzione di ATP.

L'anaerobico alattacido è il sistema energetico che viene utilizzato nelle attività richiedenti grande velocità e potenza per brevissima durata (circa 8-10 s) come lanci, salti, scatti e sollevamento pesi. La definizione è dovuta alla mancata richiesta di Ossigeno per ossidare alcun substrato energetico (da qui “anaerobico”) e alla mancata produzione di acido lattico (da qui “alattacido”). I substrati utilizzati in questo sistema sono i cosiddetti fosfati o fosfageni muscolari, ovvero FOSFOCREATINA (PC) e ADENOSIN TRI FOSFATO (ATP)[48].

(33)

Nel caso in cui siano richieste grandi quantità di energia per uno sforzo continuato fino a 10-15 secondi, per provvedere alla richiesta di una molecola di fosfato che viene persa durante la reazione in cui l'ATP viene scisso in adenosina difosfato (ADP), questo meccanismo sfrutta la presenza di un altro composto contenente fosfato, la fosfocreatina o creatinfosfato (PC; PCr),situato nel citosol, la cui concentrazione è superiore all'ATP dalle 3/4 alle 6/8 volte.(L. Luzi).

Questa si forma nel muscolo scheletrico a riposo dall'associazione di una molecola di creatina ad una di fosfato inorganico, e viene immagazzinata in quantità di circa 350/550 grammi al suo interno. La fosfocreatina è simile all'ATP in quanto contiene una componente data dal gruppo fosfato ad alta energia. Nella molecola di PC il gruppo fosfato è legato alla molecola di creatina. Questo contribuisce a mantenere costanti i livelli di ATP. La fosfocreatina, cede la sua molecola di fosfato per ricostituire l'ATP a partire dall'ADP, permettendo quindi al muscolo di continuare a sviluppare la contrazione su azione della creatin chinasi, nota come Reazione di Lohman:

PC = C + P + ADP = ATP

Dalla scissione del PC, derivano molecole che verranno ad essere impiegate per ricostituire l'ATP solo nei primi secondi del lavoro muscolare. Questo meccanismo è di brevissima durata ma sufficiente a ritrasformare l'ADP in ATP. La quantità di energia liberata dall'idrolisi di CP è maggiore di quella richiesta per il legame P+ADP. Per questo motivo gran parte dell'energia viene conservata nel legame del fosfato con l'ADP, pronta per essere liberata per le esigenze energetiche. Quando l'ATP viene scisso in adenosina difosfato (ADP) e fosfato (P), l'energia viene liberata, e viene sfruttata per produrre le contrazioni muscolari. Tuttavia, quando il PC viene scisso in creatina e fosfato, l'energia derivante viene impiegata per ricombinare l'ADP con P in ATP. L'ATP ricostituita può essere nuovamente scissa in ADP e P e l'energia derivata viene

(34)

usata per continuare l'attività muscolare. L'energia prodotta dalla scissione della fosfocreatina non può essere usata per produrre la contrazione muscolare perché essa non ha accesso ai ponti trasversali (crossbridge).[49]

Questa reazione avviene con la stessa velocità con cui il muscolo scinde l'ATP in ADP. Tuttavia la riserva di creatinfosfato nel muscolo, in caso di sforzi massimali è limitata e dura solo dai 3 ai 5 secondi. ATP e fosfocreatina, immagazzinate nei muscoli, vengono usate contemporaneamente nel corso di sforzi brevi ed intensi e danno complessivamente una autonomia energetica di 4-8 secondi. Tali riserve sono tuttavia limitate, e questo limita la quantità di energia che queste molecole possono produrre. Infatti è stato rilevato che con un esercizio fisico eseguito alla massima intensità, le riserve di fosfati si esauriscono in meno di 30 secondi[50].

Un vantaggio di questo sistema energetico è quello di fornire energia in tempi rapidissimi. altro vantaggio: il sistema dei fosfati ha una grande capacità di potenza, cioè fornire al muscolo una grande quantità di energia per secondo. Per queste caratteristiche, il sistema anaerobico alattacido o dei fosfati è impiegato principalmente in attività di breve durata e dalla grande richiesta di potenza. Uno dei motivi dell'aumento della respirazione subito dopo un'attività breve e intensa è dovuto al fatto che le riserve muscolari di fosfati (ATP-CP) devono essere ricostituite per via aerobica, se verranno riutilizzate in un secondo momento. (Fleck SJ, Kraemer WJ.)

Il metabolismo anaerobico lattacido o anaerobico glicolitico, è l’altro sistema energetico adoperato dal muscolo scheletrico per la produzione di ATP.

L'anaerobico lattacido è il sistema energetico utilizzato nelle attività che richiedono forza e resistenza per un tempo attorno al minuto (l’apice è raggiunto mediamente tra i 40-45 s). Anche in questo caso c’è una mancata richiesta di ossigeno per ossidare alcun substrato energetico (anaerobico), ma c’è invece produzione acido lattico (lattacido). I

(35)

substrati utilizzati in questo sistema sono i depositi di carboidrati endogeni, ovvero: il glicogeno stoccato nel muscolo scheletrico e nel fegato, che viene idrolizzato

a glucosio. (L. Luzi.)

Come il sistema anaerobico alattacido, anche quello lattacido non richiede la presenza di ossigeno per la produzione di energia. Quando uno sforzo si protrae oltre circa i 10 secondi, le riserve di creatinfosfato (PC) si esauriscono e l'anaerobico alattacido non basta più a produrre energia e a riformare l'ATP, ecco che si innesca questo secondo meccanismo.

Per ottenere l'energia necessaria, questo sistema non utilizza ancora l'ossigeno, ma va ad usufruire dei depositi di glicogeno presenti nei miociti e negli epatociti, utilizzando quindi la glicogenolisi (l'idrolisi del glicogeno a glucosio) che permetterà al muscolo di svolgere un'attività intensa anche se solo per un periodo limitato di tempo. Poiché il processo di ricarica dell'ATP avviene in assenza di ossigeno, insieme alla produzione di energia all'interno del muscolo si ha formazione di piruvato, che nel momento in cui risulta essere in eccesso rispetto alla sua ossidazione in acqua e anidride carbonica, viene trasformato in acido lattico (lattato) attraverso una serie di processi biochimici in parziale assenza di ossigeno. Tale processo, avviato nel citoplasma dei miociti, viene chiamato GLICOLISI ANAEROBICA e riesce a fornire 2 moli di ATP per mole di glucosio:

Glicogeno muscolare = 2 lattato + 3 ATP

ADP + P + Glucosio = ATP + lattato (L. Luzi.)

Quando lo sforzo è continuato, l'acido lattico si accumula nei miociti e nel sangue a causa di una situazione impari fra il piruvato prodotto e la capacità ossidativa dei

(36)

muscoli per il suo smaltimento: il graduale aumento della concentrazione dell'acido lattico è dovuto al fatto che la sua velocità di produzione è superiore alla sua capacità di smaltimento.[51]

È solo in presenza di ossigeno infatti che il mitocondrio riesce a internalizzare il piruvato, ossidandolo ulteriormente per ottenere anidride carbonica e acqua. La mancata capacità di completa ossidazione del piruvato causa di conseguenza l'accumularsi di acido lattico nel muscolo e rallenta la velocità di scissione del glicogeno interferendo con il meccanismo coinvolto nella contrazione muscolare; questa può diventare dolorosa e subentra il fenomeno della fatica. L'acidità muscolare causata dall'acido lattico, per valori di pH 6.5, impedisce infatti la contrazione, inibisce il rilascio degli ioni calcio (Ca++) essenziali per la contrazione muscolare, e rende inefficace l'azione della 1 -fosfofruttochinasi (PFK), enzima glicolitico.

Per quanto riguarda l’attività fisica intensa, nel caso di sforzi protratti col sistema lattacido mediante glicolisi anaerobica, la durata media dell'attività è di 30-40 s in modalità massimale (inclusa l'iniziale attività alattacida), e il soggetto in questione,

dovrà poi scegliere se ridurre notevolmente l'intensità per continuare lo sforzo facendo subentrare progressivamente il meccanismo aerobico, o interrompere l'attività muscolare. Infatti il lattato deve essere metabolizzato e smaltito o riducendo l'intensità dello sforzo, oppure interrompendola. Esso si scompone in due ioni, lo ione lattato (La-) e lo ione idrogeno (H+). L'efficienza di questo processo dipende dalla quantità di acido lattico che il muscolo riesce a tollerare e che può essere aumentata con l'allenamento. Piccole quantità di acido lattico possono essere ossidate per fini energetici, specie nel sistema aerobico (glicolisi aerobica), ma grandi quantitativi non riescono a essere smaltiti efficacemente.

(37)

Modalità tramite il quale l’acido lattico viene smaltito:

• escreto tramite l'urina e il sudore;

• riconvertito a glicogeno: essendo un prodotto di demolizione dei carboidrati, può essere

convertito in glicogeno e glucosio nel fegato, nei reni, e in glicogeno puro nei muscoli.

• convertito in proteina: solo una minima parte può essere convertita dopo l'esercizio.

• ossidato in anidride carbonica (CO2) e acqua (H2O): in presenza di ossigeno, lo ione idrogeno viene rimosso dalla molecola del lattato che viene trasformato in piruvato, il quale entra nel ciclo di Krebs all'interno dei mitocondri e alla fine viene convertito in acqua (H2O). (L.Luzi.)

Allenamenti in anaerobico lattacido ottimizzano l'azione degli enzimi glicolitici, e aumentano la soglia di tolleranza dell'acido lattico, e la resistenza muscolare. Questa fonte di energia a breve termine è di primaria importanza nelle attività competitive che comportano un carico alla massima intensità di circa 2 o 3 minuti al massimo; il lattacido è maggiormente attivato nelle attività sportive di resistenza lattacida, come gli esercizi di una certa intensità la cui durata supera i 30/40 secondi.[52]

Nell’esercizio anaerobico, l’aumentata produzione di RONS può avvenire tramite l’attivazione della xantina ossidasi, fenomeni di ischemia e riperfusione muscolare, fenomeni di carattere infiammatorio[53] (Sahlin et al. 1992). Tra questi meccanismi quello che sembra maggiormente coinvolto è quello dell’ischemia-riperfusione.

Durante l’attività anaerobica, alcuni distretti circolatori possono risultare scarsamente irrorati a causa della ridistribuzione del flusso ematico verso i tessuti maggiormente attivi.

Inoltre, a causa delle forti contrazioni muscolari alcuni vasi posso subire una forte riduzione della sezione, il che riduce notevolmente la loro capacità di trasportare ossigeno e nutrimenti ai tessuti circostanti. Al termine dell’attività i tessuti vengono poi

Riferimenti

Documenti correlati

Il corso affronterà il tema della forza in fisioterapia illustrandone l’anatomo-fisiologia e i fattori maggiormente determinanti, l’importanza della forza muscolare

Questo si capisce meglio attraverso il concetto di allenamento della forza con carichi progressivi: ovvero il semplice concetto per il quale per crescere e adattare a nuovi pesi

Acquisizione di conoscenze riguardo gli stili di vita e personalità degli atleti e alle migliori e più attuali strategie psicologiche da utilizzare nel..

Per iniziare prediligiamo suoni forti e prolungati; in seguito, quando sarà ben allenato, si potrà rendere il compito più difficile, riducendo il volume, accorciando la durata

I balzi hanno diversi ruoli: nella parte iniziale dell’allenamento della forza come riscaldamento e mantenimento della stifness (con i volumi raggiunti nel periodo precedente);

Dipende sempre dalla persona che abbiamo davanti; la mamma “fit” che si è sempre allenata e non manifesta problemi può tranquillamente continuare a svolgere il

Ci sono innumerevoli tecniche che l’addestratore può utilizzare, anche in loro combinazioni, per insegnare nuovi.. comportamenti, perfezionare o modificare quelli già

• Le situazioni ricreate attraverso l’utilizzo dei mezzi di allenamento devono rappresentare spaccati di gioco reali, e non un gioco snaturato dai propri principi