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Nata per l'Amore, mi ha divorata la Pietà: L'Antigone di Maria Zambrano

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 2

1. Riflessioni su Antigone nelle opere che precedono La tumba de Antígona 5

1.1 Il Delirio di Antigone 5 1.2 Delirio e Destino 9 1.3 L’uomo e il divino 11 1.4 Il sogno creatore 15 2. La Tumba de Antígona 17 2.1 Il Prologo 17

2.2 Alcune linee di lettura 21

2.3 La Tumba di María Zambrano e il kommos di Sofocle 26

2.4 La lingua e il pensiero di Antigone: caratteristiche femminili? 36 2.5 Cogliere la natura del personaggio: Zambrano e Sofocle a confronto 40

3. I dialoghi de La Tumba 43

3.1 Da Sofocle a Zambrano: la presa di coscienza di Antigone 43 3.2 Antigone, Edipo, la stirpe: una lettura globale del dramma 53

3.2.1 Ismene, κοινὸν αὐτάδελφον κάρα 53

3.2.2 Edipo: un uomo, un dio, un padre. 64

3.3 I dialoghi con la Nutrice e l’Arpia. 78

3.3.1 Anna 78

3.3.2 L’incontro con la madre 84

3.3.3 L’Arpia 89

3.4 I dialoghi con gli uomini: incomprensione e superamento 94

3.4.1 Eteocle e Polinice 94

3.4.2 Arriva Emone 106

3.4.3 Creonte 107

3.5 La confessione di Antigone e i due sconosciuti 110

3.5.1 La memoria 110

3.5.2 La terra dell’Amore 120

3.5.3 Dioniso, Nietzsche e il tragico. 127

3.6 Conclusioni 136

Appendice: Elsa Morante e María Zambrano 143

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Introduzione

Il seguente lavoro è dedicato all’analisi de La Tumba de Antígona di María Zambrano: si tratta di un’opera letteraria in cui la filosofa riscrive il finale dell’Antigone di Sofocle, immaginando che l’eroina sofoclea non si suicidi nella tomba, ma disponga di un periodo di sospensione tra la vita e la morte in cui poter incontrare i personaggi che ne hanno condizionato l’esistenza, per sciogliere i nodi lasciati irrisolti da Sofocle. Per comprendere la portata filosofica di questa operazione è utile partire dall’ultimo dialogo, in cui Zambrano introduce il ‘Dio Sconosciuto’, il quale porta con sé l’eroina verso la terra dell’Amore. L’espressione fa riferimento al discorso dell’Areopago di Paolo, dove questi menziona l’altare che gli Ateniesi avevano innalzato all’agnostos theos:

Σταθεὶς δὲ [ὁ] Παῦλος ἐν μέσῳ τοῦ Ἀρείου Πάγου ἔφη, Ἄνδρες Ἀθηναῖοι, κατὰ πάντα ὡς δεισιδαιμονεστέρους ὑμᾶς θεωρῶ· διερχόμενος γὰρ καὶ ἀναθεωρῶν τὰ σεβάσματα ὑμῶν εὗρον καὶ βωμὸν ἐν ᾧ ἐπεγέγραπτο, Ἀγνώστῳ θεῷ. ὃ οὖν ἀγνοοῦντες εὐσεβεῖτε, τοῦτο ἐγὼ καταγγέλλω ὑμῖν. ὁ θεὸς ὁ ποιήσας τὸν κόσμον καὶ πάντα τὰ ἐν αὐτῷ, οὗτος οὐρανοῦ καὶ γῆς ὑπάρχων κύριος οὐκ ἐν χειροποιήτοις ναοῖς κατοικεῖ οὐδὲ ὑπὸ χειρῶν ἀνθρωπίνων θεραπεύεται προσδεόμενός τινος, αὐτὸς διδοὺς πᾶσι ζωὴν καὶ πνοὴν καὶ τὰ πάντα1 ·

María Zambrano nella sua Tumba de Antígona vuole portare Antigone e il lettore, dialogo dopo dialogo, a entrare nell’ombra di questo Dio, e a passare nel dominio della religiosità ‘nuova’ e ancorata agli aspetti più misteriosi della realtà, che è l’unica che la filosofa riconosce come vera. Zambrano cita il discorso di Paolo in apertura del capitolo de L’uomo e il divino intitolato “Il futuro, Dio sconosciuto”2, in cui spiega come l’uomo, oggi, aspiri a una completa realizzazione del suo

essere in una dimensione atemporale: dimensione alla quale i filosofi hanno il compito di condurre l’umanità, tramite un nuovo modo di interpretare il proprio ruolo, non più ignorando le ‘viscere’ dell’uomo, ma calandosi in esse e rischiarandole.

Questo lavoro prende in esame il modo in cui Zambrano, traendo spunto dalla tragedia sofoclea Antigone, traduce il senso della propria missione di filosofa in un’opera letteraria, e in che modo giunga così, da un lato, a cogliere aspetti generalmente trascurati dell’eroina tragica, dall’altro a rileggerli in una chiave del tutto originale, tale da riverberare la maggior parte dei temi che ne hanno caratterizzato il pensiero nelle varie fasi della sua produzione. Perciò, per comprendere appieno la portata filosofica de La Tumba (pubblicata nel 1967), è parso utile in primo luogo

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Acta apostolorum 17, 22-24, ed. E. Delebecque, Paris 1982. Traduzione (Bibbia CEI 2008): «Ateniesi, vedo che, in

tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l'iscrizione: ‘A un dio ignoto’. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa»

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ripercorrere la genesi della Antigone zambraniana, attraverso una rassegna degli scritti in cui emergono la sua figura e la vicenda mitica che la vede protagonista, e in cui già si riflette sul senso simbolico che le si può attribuire. Dalle pagine elaborate nel ventennio che ha preceduto la pubblicazione di questo testo è emerso come fossero già evidenti alcune caratteristiche peculiari che Zambrano distingue in Antigone, e che poi andranno a ricomporre un mosaico complesso e compiuto solo all’interno dell’ultima opera.

La Tumba è una correzione di Sofocle, una rivisitazione del finale assegnato all’eroina tragica, che, secondo Zambrano, non avrebbe potuto suicidarsi perché non abbastanza consapevole di se stessa. Zambrano costruisce quindi un percorso che porta un’Antigone dal sapore ancora sofocleo, disperata e abbandonata nella tomba, a trasformarsi in vittima sacrificale, ora consapevole della propria missione: redimere la storia e l’umanità tramite il proprio Amore che, nell’ottica religiosa di Zambrano, si trasforma in Pietà, in capacità, cioè, di accogliere l’altro, e di aiutarlo a ‘nascere’. La nascita avviene con lo svelamento della profondità del proprio essere e con lo sforzo di portarvi la luce dell’intelletto. L’analisi dei singoli capitoli dell’opera mostra come, inizialmente, Zambrano sia molto attenta all’eredità sofoclea e riprenda diverse tematiche lasciate aperte dal tragediografo, proponendone una soluzione tramite gli strumenti della propria filosofia. A questo proposito si è cercato di mostrare come Zambrano sembri tenere l’Edipo a Colono in maggiore considerazione che l’Antigone, e come la sua interpretazione del personaggio presupponga un’attenzione globale alle sventure della casa dei Labdacidi. Nel corso dell’opera invece la filosofa si distanzia sempre più dall’originale per introdurre i temi che le sono cari: l’importanza della storia e della sua dimensione trascendente, la forza generatrice della Terra e il principio femminile della divinità, il ruolo della memoria e della confessione, l’aspirazione a un amore inclusivo che sappia trasformarsi in pietà e, infine, la necessità dell’intervento di un Dio dagli echi cristiani che salvi l’umanità portandola verso il Regno della ‘nuova legge’.

Zambrano corregge dunque Sofocle, ma, al contempo, se ne serve come punto di partenza per procedere su un cammino filosofico, e si può affermare che questo atteggiamento la caratterizza in tutti gli aspetti del suo pensiero. La relazione con ciò che l’ha preceduta non è mai di esclusione o di netta contrapposizione: tenta sempre di dimostrare come ogni passaggio, tanto nella storia degli eventi quanto in quella del pensiero, sia un passaggio necessario. Ogni espressione culturale avvicina infatti l’umanità a una vita vissuta finalmente secondo l’‘essere’, e compito di ciò che segue è ‘superare’ in maniera ‘inclusiva’ quanto è avvenuto in precedenza. Allo stesso modo la storia deve riscattare il passato, non dimenticarlo o negarlo, ma dargli un senso nuovo per giungere infine a una società dominata dall’Amore. E proprio così Zambrano si comporta nei confronti del

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testo sofocleo: ne riprende alcuni elementi, ma dà loro una nuova prospettiva. Risolve i nodi delle vicende tragiche introducendo un elemento che è frutto della cultura cristiana, la trascendenza, ma riconoscendo tuttavia l’importanza spirituale di personaggi e divinità ereditati dalla Grecia antica (come Antigone e Dioniso). Tale atteggiamento la distingue da altri pensatori, con cui pure ha molti temi in comune: si cercherà qui di illustrare, ad esempio, come la riflessione sulla tragedia e sul ruolo di Dioniso prenda spunto da quella di Friedrich Nietzsche, ma come Zambrano legga altresì l’evoluzione della storia e il ruolo della modernità in modo completamente diverso. Anche il confronto con Elsa Morante, cui la pensatrice andalusa era legata per ragioni biografiche, rivela in che misura l’ideologia di Zambrano permetta di rileggere la tragedia greca in chiave positiva. Al contrario Morante, pur partendo da un’interpretazione del personaggio Antigone non molto distante da quella della pensatrice spagnola, giunge ad esiti radicalmente opposti. Il confronto con l’opera di questi due intellettuali permette quindi di mettere in luce da un lato i legami di Zambrano con la cultura precedente e contemporanea, dall’altro le sue caratteristiche peculiari e l'originalità di un esperimento letterario che non si iscrive facilmente nei generi tradizionali, e non esaurisce i propri toni né nel registro letterario, né in quello del discorso filosofico.

Dall'analisi e dalla comparazione con il modello sofocleo e con altri testi di riferimento spicca la qualità mistica de La tumba de Antìgona, con la sua tensione verso una nuova forma di religiosità. Come rivela il dialogo finale, la chiave della salvezza sta nel sentimento ispirato che ci porta verso la divinità, che Zambrano chiama, appunto, “Il Dio sconosciuto”. E come San Paolo sfrutta sapientemente uno spazio lasciato aperto dalla religiosità pagana per introdurre il nuovo dio di cui egli è il portavoce, e farlo apparire in continuità con le credenze dell’epoca3, così Zambrano si inserisce negli interstizi della religiosità pagana ma anche, in fondo, cristiana, per raccontare il ‘trionfo’ di un nuovo senso del sacro e di una nuova legge, in cui l’accoglienza e la comprensione dell’altro siano la chiave per risolvere i conflitti. Si è cercato di mostrare come María Zambrano guidi Antigone, e incoraggi così il lettore, ad accogliere il ‘dio sconosciuto’, nel tentativo di illustrare nel modo più dettagliato possibile la complessità, ma anche la coerenza, della sua ‘nuova filosofia’.

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Come spiega NORDEN 2002, pp. 161 ss., Paolo probabilmente modificò a partire dalla tradizione giudaica il dato offerto dalla realtà cultuale ateniese, poiché l’altare doveva essere dedicato non a un unico dio ignoto, ma ‘agli dei sconosciuti’. Così VERSNEL 2011, pp. 57-59, spiega che l’espressione veniva utilizzata nell’ambito della teologia pagana per risolvere le situazioni di dubbio o mancanza di chiarezza nella definizione delle divinità. Anche Zambrano, del resto, rilegge la vicenda di Antigone alla luce di elementi culturali di natura spiccatamente cristiana, e vede nell’esistenza di questa ‘divinità’ unica e sconosciuta la prova che in ogni religione è stato lasciato uno spazio agli aspetti più misteriosi del sentire mistico: una simile forzatura mostra notevole affinità con l’operazione di Paolo.

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Riflessioni su Antigone nelle opere che precedono La tumba de Antígona

María Zambrano pubblicò la Tumba de Antígona nel 1967 in Messico. Questa data si può considerare il momento conclusivo di una riflessione almeno ventennale sul personaggio di Antigone, cominciata nel 1948 con la pubblicazione dell’articolo Delirio de Antìgona sulla rivista cubana Origenes4. In diverse occasioni poi María Zambrano userà, all’interno della sua riflessione filosofica, la figura di Antigone come esemplificativa di determinate tematiche. In Delirio y Destino5 la figlia di Edipo compare nella rievocazione autobiografica del rapporto con Araceli Zambrano, sorella di María. Antigone viene poi citata a più riprese in El hombre y lo divino, saggio sull’evoluzione della religiosità dall’antichità classica al mondo contemporaneo, pubblicato in Messico nel 1955 e tradotto da G. Ferraro nel 2001 con il titolo L’uomo e il divino; la sorte dell’eroina trova spazio in questa trattazione in relazione al suo valore simbolico di momento di passaggio nella spiritualità greca. Infine ne El sueño creador (Messico 1965)6 troviamo un intero capitolo dedicato all’eroina sofoclea.

Sarà quindi utile un’analisi di questi passi per capire quali fossero i temi che la pensatrice andalusa associava alla vicenda della figlia di Edipo: in tal modo anche la lettura dell’opera conclusiva di questo percorso potrà avvalersi di una maggiore consapevolezza.

1.1 Il Delirio di Antigone

Il Delirio di Antigone, come poi sarà per la Tumba, si apre con un prologo in cui María Zambrano presenta la ‘sua’ Antigone. Il primo elemento che ne mette in luce è la verginità, o, come traduce Elena Laurenzi, una «verginità che non si è ancora accorta di sé7». La condizione di Antigone è caratterizzata, secondo Zambrano, da particolare perfezione, perché per entrare nella coscienza, cioè nella consapevolezza di sé, ed emergere dal sonno l’uomo ha bisogno di «un crimine, una trasgressione» e tale evento gli permetterebbe di percepire la separazione tra sé e la realtà. A questo punto però, spiega l’autrice, gli uomini proiettano esclusivamente su di sé la luce scaturita dalla coscienza, facendo sì che il loro essere, così ‘appesantito’, vada a interferire con la coscienza originaria, spegnendone la luce. Al contrario Antigone, scossa dal suo sonno dal crimine del padre, non ebbe il tempo di concentrare su di sé la propria coscienza e rappresenta pertanto il «mistero della verginità nella sua pienezza, e quindi della coscienza allo stato vergine8». Diversamente dalla

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Riedito e tradotto in LAURENZI 1997,pp. 81-91.

5

L’opera, pubblicata nel 1988, a distanza di molti anni ‒ come si vedrà ‒ dalla stesura, a Madrid, è stata tradotta da Rosella Prezzo e Samantha Marcelli nel 2000 con il titolo Delirio e Destino.

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Traduzione di V. Martinetto, Milano 2002.

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LAURENZI 1997, p. 81.

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coscienza che si concentra sull’‘io’ di chi la possiede, la coscienza vergine si rivolge all’altro da sé e lo rischiara. Data la particolare condizione di Antigone, dunque, il finale che Sofocle le riserva sembra a Zambrano del tutto inadeguato: «Antigone la pietosa nulla sapeva di sé, neppure che poteva uccidersi; questa azione repentina le era estranea, e prima di giungere ad essa, supponendo che quella fosse la sua fine appropriata, doveva inoltrarsi in una lunga galleria di gemiti, divenire preda di innumerevoli deliri; la sua anima doveva rivelarsi e, ancora, ribellarsi9». Antigone apparterrebbe perciò a quel genere di fanciulle destinate a compiere una discesa agli inferi. Sia perché gli inferi (o le profondità dell’animo umano) necessitano della loro purezza, sia perché esse possono raggiungere la libertà e l’immortalità solo dopo questa sorta di espiazione di un crimine compiuto da altri. La figlia di Edipo rappresenta dunque la purezza della coscienza umana, in quanto fanciulla che, senza aver conosciuto se stessa, è stata accecata dall’amore senza peccato, interamente rivolto verso la sua famiglia. Zambrano identifica tale amore con la Pietà. In Antigone, vergine perfetta, coscienza e Pietà coincidono del tutto. Pertanto prima di giungere al suicidio Antigone dovette scoprire se stessa, lasciare che erompesse in lei «l’urlo della vita non vissuta», in un delirio che durò un tempo indefinito, in una dimensione il cui il tempo «non si conta con i minuti delle clessidre10». Il cuore di tale delirio non fu però la sua vita, ma la vita degli altri, quella della sua famiglia: compito della discesa agli inferi di Antigone era sciogliere il nodo dell’incesto di Edipo e Giocasta. Il suo corpo, dice Zambrano «è il vaso presente in ogni sacrificio11»: ella sacrificò la sua vita individuale in funzione di una Storia più ampia. In virtù di questo suo particolare ruolo, Antigone riesce a smascherare gli dèi. Scrive Zambrano:

Faccia a faccia con loro, fiammeggiante, li insulta e li smaschera; smaschera, più che la loro fallacia, il loro limite terribile: quello di essere forme. Gli dei greci possedevano tutte le bellezze e tutti i limiti della forma; è fallacia la loro bellezza e soprattutto la loro superficialità di fronte alla profondità del destino e delle sofferenze che i mortali erano costretti ad affrontare da soli, senza il loro aiuto e senza la loro compassione. Loro infatti, forme gloriose, non trascendevano. Erano l’opposto dell’uomo, creatura trascendente, non chiusa nella sua forma anche se prigioniera di essa. Gli dei rimangono fissi nelle loro forme, e da quelle non possono uscire; e gli dei greci sono per loro essenza i meno capaci di trascendere.

Diventata spirito, Antigone passa dal regno degli dèi pagani a quello del Dio Sconosciuto, che però lei, appunto, non può arrivare a conoscere. Così muore in questa solitudine, fondando la specie delle «sante bambine o adolescenti», che, nella loro semplicità, uniscono «pietà e giustizia, coscienza e

9 LAURENZI 1997, p. 82. 10 LAURENZI 1997, p. 83. 11 L AURENZI 1997, p. 84.

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incoscienza». Tutte costoro, ma soprattutto Antigone, continuano a vivere nella coscienza ottenebrata di ciascuno di noi, e pertanto il loro delirio è eterno12.

Poste queste premesse sulle ragioni per cui è necessario far rivivere Antigone, María Zambrano scrive il ‘Delirio Primo’, in cui Antigone si rivolge a un interlocutore muto, che si delinea come il fratello Polinice. L’incipit del ‘Delirio primo’ è tutto incentrato sulla nascita tardiva di Antigone, che comincia ad essere consapevole di se stessa proprio quando avverte l’approssimarsi della fine della propria esistenza. Scrive infatti María Zambrano: «Nata per l’Amore, mi ha divorata la Pietà, e che farò con queste viscere che gemono e che sento per la prima volta, quando ormai non è più tempo?13». A questo punto Antigone comincia a rivolgersi a un interlocutore che avrebbe avuto la colpa di non risvegliare le sue viscere e di lasciarla in una condizione di verginità, di non farle cioè vivere l’esperienza della maternità, «perché non può affrontare la libertà chi non ha goduto l’amore, chi non ha sentito il proprio corpo crescere e divenire rotondo...»14. Il primo indizio che si tratti del fratello Polinice lo abbiamo nella sequenza:

Sei sempre passato per le cose senza macchiarle; lo ricordo bene: ti vedo sfiorare appena il vaso sacro nei sacrifici, spargere il sangue del montone lacerando la sua pelle tenendolo per le corna, nel rituale della virilità che eseguivi malgrado te; sentivo sulla mia pelle le tue dita quando coglievi la rosa per offrirmela, e non hai mai osato tagliare il ramo della adelfa perché nella sua dolcezza c’era un veleno denso e nel suo calice un segreto che mai hai osato, bionda ape maschio, deflorare.15

In nota Elena Laurenzi16 spiega, in riferimento all`adelfa: «Nome volgare castigliano del nerium oleander, detto anche hojaranzo o laurel rosa. Il termine italiano ‘oleandro’ perde l’ambiguità data in castigliano dalla prossimità con il greco adelphos, fratello». Più avanti l’autrice specifica:

Ma di che mi lamento? Eri tu, e non un altro, anche tu mio fratello, come me macchiato dall’ombra dell’incesto, come me tormentato...come me. Avresti forse dovuto essere un altro, figlio di un’altra stirpe, di un altro uccello ancestrale?17

Insiste molto poi sull’ambiguità del legame tra Antigone e Polinice, in particolare sul ‘mancato’ incesto che Antigone rimprovera al fratello:

12 LAURENZI 1997, p. 86. 13 LAURENZI 1997, p. 88. 14 L AURENZI 1997, p. 88. 15 LAURENZI 1997, pp. 88-89. 16 LAURENZI 1997, p. 91. 17 L AURENZI 1997, p. 90.

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Non ho mai saputo il colore dei tuoi occhi, non osavo guardarli; temevo che mi decifrassero, e ogni volta abbassavo i miei, mentre camminavamo nella sera tra gli ulivi e vedevo la terra rossa, rossa e livida, e nel silenzio, trattenendo il respiro, la farfalla del mio respiro, aspettavo offrendo la mia nuca, l’unico segreto che una fanciulla può offrire...solo una volta ho sentito nel suo centro il tuo sguardo come un coltello fino, come un coltellino d’oro che strisciava giù per il solco della mia schiena, ricordo che avanzai di due passi e la curva della mia nuca si fece bianca e prese tanta forma, sì, io l’ho vista, come quella di quelle donne delle statue. Il mio sangue scese, e fui anche un fiore, e un agnello come questi che vi consegnano coronati di rose, e una ghirlanda cominciò ad accarezzarmi il collo scivolando come un serpente d’acqua sul mio petto; mi curvai a terra e strappai dei fiori azzurri, di quel colore così dolce e violento, e quando mi alzai già i tuoi occhi avevano smesso di affondare nel segreto della mia nuca. E mi sembrò di non avere corpo, di perdermi in un freddo senza nome, e mi feci piccola. Come ero pallida, grigiastra e brutta! Sì, brutta dovevo essere in quel momento perché tu hai avuto paura...«stai male?»... e sarei fuggita se i miei piedi non fossero sprofondati nella terra...18

L’ambiguità di questa descrizione è ripresa più avanti, quando Antigone afferma: «E io, vittima non consumata, fiore senza frutto, ho voluto venire tra i morti perché loro si nutrissero di me, corpo sacro, mai toccato. A parte il coltello nella nuca...Forse non sono arrivata a loro vergine del tutto?»19. Sembra quindi che il rapporto mancato e solo sfiorato con il fratello la condanni a uno stato di incompletezza, che si rispecchia anche nella sua situazione indeterminata dopo la sepoltura. Se il suo desiderio era tornare ai morti, tornare alla sua famiglia, questo desiderio è frustrato dalla condizione di sospensione in cui si trova: «Perché sono ancora sola, vittima non accolta, non consumata, sepolta viva, con già i capelli grigi? Perché la morte cui mi ero consegnata non è sopraggiunta? [...] Neanche i morti mi ricevono, perché neanche un uomo, nessun uomo alza il braccio per difendermi...Uomo maschio, fratello, sposo sconosciuto, perché non sei apparso?»20. A questo punto, nel finale del suo delirio, Antigone introduce due elementi essenziali nella riflessione dell’autrice: il tempo e il ruolo di Edipo. La fanciulla si rende conto di essere entrata in uno stato in cui non può più avere il controllo sulla dimensione temporale: «Le mie vesti si sono lacerate, il tempo, quanto tempo è che sono qui, né nella vita, né nella morte, quanto, quanto tempo? Il tempo e solo il tempo ha disfatto il mio abito da sposa, di promessa alla morte, di sposa votata ai morti. Il tempo ha addobbato di ragnatele questo sepolcro, questa camera nuziale; si attorcigliano alle mie braccia, si appiccicano ai miei capelli. Sono loro ad essere grigi o è il tempo, solo il tempo e la tela

18 LAURENZI 1997, p. 89. 19 LAURENZI 1997, p. 90. 20 L AURENZI 1997, p. 90.

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tessuta dal ragno, mia unica compagna, pallida ed esangue come me?»21. Antigone comprende quindi che le normali regole dello scorrere temporale non valgono nella sua situazione, e questa è la rappresentazione simbolica di quanto María Zambrano preannunciava nell’introduzione. Il finale è invece tutto incentrato sul rapporto che lega Antigone a suo padre e quindi a tutta la sua famiglia. Il crimine di Edipo è il punto di partenza imprescindibile per comprendere la vicenda esistenziale della figlia, è la cifra caratterizzante tanto della vita che della morte della sua accompagnatrice. Così scrive infatti María Zambrano:

Padre...unico uomo che ho conosciuto! Perché tu, cieco, ti appoggiasti sulla mia spalla; sono stata il tuo bastone, ti ho fatto da guida e da sostegno, ho cantato per te rischiarando la tua notte, sono stata la tua allodola. Forse è arrivato fino a me il tuo tremendo destino? E tu mi hai chiamato per mezzo del cadavere di mio fratello? Padre, fratello, dove siete? Perché non venite a riscattare Antigone, da cui esigeste sempre la Pietà senza offrirle la protezione di cui godono tutte le donne? Sono la vostra vittima. Sola, sola. Qui c’è la vostra canna, la vostra allodola, una povera colomba perduta. Che fate?22

Nel “Delirio primo” ritroviamo quindi quanto anticipato nel “Prologo”: la condizione di verginità e mancata (o appena avvenuta) scoperta di sé di Antigone, la dimensione dell’atemporalità necessaria alla sua anima per risvegliarsi, il suo essere caratterizzata dalla Pietà tutta rivolta ai suoi familiari e, infine, il nodo inevitabile dell’incesto di Edipo.

1.2 Delirio e Destino

L’opera autobiografica Delirio y Destino fu scritta da María Zambrano all’inizio degli anni Cinquanta, in occasione del bando di un concorso letterario indetto dall’Institut européen universitaire de la culture de Genève. Date le difficoltà cui la pubblicazione dell’opera andò incontro, Zambrano vi rinunciò fino al 1988, quando la diede alle stampe premettendovi una Presentazione in cui ne spiegava la genesi23. Nella prima parte del libro si trova un capitolo intitolato “La sorella”24

, in cui Zambrano riflette sul suo rapporto con Araceli nel periodo che le due passarono insieme a Parigi tra il 1946 e il 1949. Durante la seconda guerra mondiale, infatti, mentre María Zambrano trascorreva l’esilio a Cuba, sua madre e sua sorella avevano vissuto insieme le vicende dell’occupazione nazista della Francia: María Zambrano aveva raggiunto la sorella solo alla morte della madre, quando ormai la seconda guerra mondiale si era conclusa. La filosofa andalusa

21 L AURENZI 1997, p. 90. 22 LAURENZI 1997, pp. 90-91. 23

Nell’edizione italiana alle pp. 11-12.

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soffre molto per la separazione dalla sorella, e percepisce come esse abbiano vissuto l’esperienza dell’esilio in modo completamente diverso. Il legame tra Araceli e la madre e la loro partecipazione comune agli eventi traumatici dell’occupazione nazista suggeriscono a María l’analogia tra la sorella e Antigone. L’incipit del capitolo è infatti:

E si trovò da sola con la sorella25; la madre era stata seppellita due giorni prima che l’aereo l’avesse depositata a Orly.

L’aveva chiamata Antigone, durante tutto quel tempo in cui il destino le aveva separate, tenendo lontana lei dal luogo della tragedia, mentre sua sorella - Antigone - la affrontava. Cominciò a chiamarla così nella sua angoscia, Antigone, perché, innocente, sopportava la storia; perché nata per l’amore, la stava divorando la pietà. Perché non aveva conosciuto altra azione che quella pietosa, puramente questa, e senza speranza. Sì, lei sentiva di aver vissuto e di vivere la storia nella speranza e senza ambizione; mentre la sorella aveva vissuto anche senza speranza, solo per la pietà26.

María Zambrano si rende conto che la sorella aveva vissuto, occupandosi della madre («La sentiva piangere abbracciata alla madre, ormai minore di lei, bisognosa di protezione»), vicende che a lei sarebbero rimaste per sempre ignote; Araceli era stata costretta a una ‘veglia’ nell’oscurità («una coscienza innocente che veglia mossa dalla pietà; sì, Antigone»), e questo era avvenuto non per una sua volontà, ma unicamente per la sua naturale disposizione verso ‘l’altro’ («...perché tutta quella storia Antigone l’aveva vissuta a causa della pietà, affratellando con amore e senza odio i vivi e i morti, senza precipitarsi a creare il nemico, ma dovendo arrendersi all’evidenza del fatto che il nemico c’era, che c’è inesplicabilmente»27

). Gli elementi che sembrano, ancora una volta, colpire maggiormente María Zambrano sono la totale dedizione di Antigone alla famiglia, in particoare al genitore ormai vecchio e debole, oggetto di cure premurose fino alla morte, e la sua innocenza, che nel mito è rappresentata dalla sua verginità e che la rende adatta ad attraversare la notte più buia della storia. Tale attraversamento non è privo di tormento: come Antigone, anche Araceli si affanna a cercare una spiegazione per quello che è successo, per l’orrore di cui è stata testimone, ma anch’essa trova solo il silenzio in risposta ai suoi interrogativi.

Si vede quindi come la riflessione di María Zambrano sull’eroina di Sofocle sia strettamente legata alla propria vicenda esistenziale e come l’interpretazione letteraria e filosofica del testo si intrecci con una dimensione molto più personale. Tale modo di procedere, come si vedrà, è in realtà

25 Marìa Zambrano parla di sé in terza persona. 26

ZAMBRANO 2000, p. 257.

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teorizzato dalla stessa María Zambrano come la ‘nuova via’ che il pensiero filosofico dovrebbe seguire, ed anche il personaggio Antigone diventerà un simbolo dell’impossibilità di scindere il ‘sentire’ dal ‘riflettere’.

1.3 L’uomo e il divino

Ne L’uomo e il divino Antigone viene menzionata a più riprese. In un primo momento, nel capitolo intitolato ‘Degli dèi greci’, Zambrano riflette sulla natura di diversi dèi olimpici, tra i quali Atena28. La caratteristica principale degli dèi olimpici, secondo Zambrano, è la metamorfosi, «la forma in cui tutto ciò che vive evita la sofferenza»29 . Dato che appunto «nella vita secondo metamorfosi non c’è posto per l’enigma»30

e che questi è legato a doppio filo con la sofferenza, i vari dèi evitano di incarnare gli aspetti più enigmatici della religione (la creazione del mondo, il tempo ecc.). Atena rappresenta una parziale eccezione a questa tendenza; scrive María Zambrano: «In una dea si concentra la più grande forza enigmatica che l’immaginazione poetica greca fu capace di riservare ai suoi dèi: si tratta di Atena, la vergine guardiana della città che appare carica di attributi, ma senza vivere nella metamorfosi e senza alcuna forma di storia, come si conviene a una vergine»31. Contrariamente agli altri dèi, immagine della molteplicità, Atena rappresenta l’unità: è l’uno che ha soggiogato il molteplice e che lo ha ridotto a suoi attributi (così Zambrano legge l’insieme dei simboli associati ad Atena: l’Egida decorata con la testa della Gorgone, il suo dominio su Erittonio ecc.). Al contrario degli altri dèi, quindi, Atena incarna l’essere. Tra tutte le divinità che ha assorbito in sé, secondo María Zambrano, la dea Aurora è quella che più la caratterizza: «Incolume e indecisa, deve mostrarsi inesorabile e portare a termine la fatica del giudizio [...]. Per questo, per il fatto di dover agire secondo la legge, si sente obbligata a meditare e soffre per l’incertezza; come l’aurora, sembra esitare per un attimo sopra la terra, prima di inondarla della sua luce»32

. La freddezza dell’Aurora caratterizza anche l’attività della meditazione, che pure, per María Zambrano, è quella più vicina allo ‘sforzo umano’:

28

ZAMBRANO 2001, pp. 45-48.

29

ZAMBRANO 2001, p. 42. Zambrano considera la metamorfosi, infatti, una forma di evasione, caratterizzata dalla

leggerezza, altra qualità degli dèi greci: «La vita spontanea delle creature figlie di questa luce [i. e. quella dell’alba] è la metamorfosi e non l’essere. Forma primitiva, originaria, dell’arte e della storia. Le storie degli dèi dell’Olimpo non si svolgono nell’identità di un personaggio di tragedia che è o aspira a essere uno - l’uomo - e patisce perciò la sofferenza più terribile: essere enigmatico. Poiché soltanto l’enigma caratterizza colui che, essendo o pretendendo di essere uno, è imprigionato nella molteplicità e soggetto a patire i suoi stati. Gli dèi non li patiscono; se ne liberano, non perché siano impassibili, nel caso non sarebbero soggetti all’amore, alle gelosie, alla vendetta...si liberano perché capaci di vivere le loro avventure senza solidarietà, creature non dell’essere ma della metamorfosi; figure che giocano nella luce e possono perfino svanire in essa. La metamorfosi è la forma in cui tutto ciò che vive evita la sofferenza. E tutti coloro che sono ebbri di vita, aspirando ad andare oltre o a essere diversi dagli uomini, hanno sognato di attraversare il mondo subendo la metamorfosi. Un desiderio che è la chiave di tutte le ansie di evasione, perfino di quella legittima che si chiama arte».

30 ZAMBRANO 2001, p. 42. 31 ZAMBRANO 2001, p. 45. 32 Z AMBRANO 2001, p. 47.

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[...] luce pura senza vibrazione di calore, vergine, lascerà senza protezione le eroine della coscienza e permetterà che Antigone, della sua stessa stirpe, scenda nel sepolcro. Fanciulla, come lei, oppressa dal destino che procede dal padre, continuatrice della sua passione tra gli uomini33.

Precedentemente, infatti, María Zambrano ha definito Atena una «fanciulla gravata dalle armi del padre, contratta in uno sforzo che confina col dolore». A partire dalla sua rappresentazione nel bassorilievo del Museo di Atene (Atena è senza scudo né egida e riposa appoggiando la fronte sulla lancia), la filosofa vede in Atena la fatica di una giovane ragazza costretta a «sostenere una lotta» in nome del padre. L’associazione con la sorte di Antigone, prima esiliata e poi condannata in virtù della pesante eredità di Edipo (almeno nella visione di María Zambrano), è evidente. Tra Antigone e Atena corre però un’importante differenza: Atena è una dea, e, per quanto essa sia quella che più si avvicina alle caratteristiche dell’uomo (nell’aspirazione ad essere uno), rimarrà sempre un passo più in là, al di fuori della sofferenza e della passione:

L’azione e il significato degli dèi si prolunga in alcuni protagonisti della tragedia e in alcuni eroi come Antigone, come Eracle. Poiché agli dèi era vietato svolgere la principale attività delle divinità, la misteriosa azione del divino, la passione. Atena, in qualità di figlia, fece appena in tempo, un altro passo e vi sarebbe sprofondata, ma, siccome ciò era impossibile (in questa religione poetica), rimase sulla soglia; soglia della vigilia dell’aurora, nella sua freddezza impassibile. E in una natura femminile l’impassibilità è quanto di più vicino ci sia al tormento di una vera passione. L’amore le era negato, come sempre avverrà alle giovani della sua stirpe: Antigone, Elettra e, nel mondo cristiano, Giovanna d’Arco. Come dea, Atena rimase dentro quella forma paradossale di passione, che è l’impassibilità.

Ma al di là del suo particolare legame con Atena, l’Antigone di Sofocle rappresenta, insieme al processo di Socrate, un punto di svolta nella religiosità greca. Zambrano vede infatti nella molteplicità degli dèi greci il farsi ‘immagine’ della natura, il rendersi visibile delle forze oscure che originariamente dominavano l’uomo e lo atterrivano. Questo era il primo passaggio necessario affinché l’uomo potesse giungere alla libertà finale34. Proprio però per il loro essere semplici immagini, simulacri, gli dèi lasciavano un vuoto, uno spazio in cui l’uomo poté porre la domanda sull’essere e l’unità delle cose. La mancanza di consistenza degli dèi è proprio quello che origina il conflitto e il distacco dell’uomo greco da quel tipo di religiosità e che lo fa approdare a un nuovo tipo di ricerca, che trova il suo modo di espressione nella tragedia:

33

ZAMBRANO 2001, p. 48.

34 Cfr. Z

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Poiché siamo in presenza di uno di quei cambiamenti nella storia più intima, in cui alcuni dèi, simbolo di credenze e di un modo di stare nel mondo, sono superati da credenze che non avrebbero potuto nascere spontaneamente, che in qualche modo ne sono le figlie, ma che devono lottare contro gli stessi dèi che le concepirono e le resero possibili. Come il figlio che si separa dal padre e lotta con lui e non sarebbe potuto esistere senza di lui. Così il pensiero filosofico e l’affermazione della persona umana contenuta nella tragedia denunciano l’insufficienza degli dèi, oltre che la necessità di entrare in conflitto con loro. È il conflitto specifico verificatosi nella pietà greca, che ha le sue vittime mitiche e reali, come Antigone e Socrate, senza alcun dubbio vittima del sacrificio che gli dèi pretendono per lasciar spazio alla nuova pietà, alla nascita della nuova coscienza35.

Antigone come Socrate è quindi ‘sacrificata’ sull’altare delle nuove esigenze. Del resto tale riflessione era già stata esposta da María Zambrano nel suo prologo al “Delirio Primo” di Antigone: il personaggio di Sofocle si ribella all’inconsistenza degli dèi greci, da cui si sente abbandonata, per entrare in un altro dominio, quello del ‘dio sconosciuto’, che però ancora non si è del tutto affermato e che quindi sembra lasciare Antigone in uno spazio vuoto. Gli dèi greci erano insufficienti perché, sempre secondo Zambrano, eludevano il mistero ultimo del divino, mentre la sofferenza umana chiedeva conto delle ingiustizie patite proprio a quel fondo inattingibile, origine di tutte le ragioni che governano l’esistenza. Quel fondo inattingibile è «il dio a cui Edipo sacrificherà la luce dei suoi occhi, e che accoglierà Antigone nella tomba; resistenza irriducibile che tutti gli dèi insieme lasciavano intatta, e di fronte alla quale, anch’essi, erano “ombre di sogno”». Se la molteplicità degli dèi greci spinge l’uomo alla ricerca dell’unità, l’oscurità di questo dio nascosto, la sua lontananza dalla luce, spinge l’autore tragico a cercare la «diafanità» proprio nel punto più oscuro dei suoi simili, «la caverna cieca che è il cuore dell’uomo»: la tragedia racconta infatti l’aspirazione dell’uomo alla luce, o, come dice l’autrice stessa, «il clamore dell’aspetto più umano della condizione umana: il conato dell’essere, aperto alla speranza».

Procedendo quindi nell’analisi del sentire religioso greco, la filosofa andalusa arriva a definire la pietà come «saper trattare con l’altro»36: nel sentire l’altro l’uomo tenta di stabilire un ordine, di

entrare in comunicazione con il mondo tramite i riti, le formule, un linguaggio prestabilito. Espressione matura di quest’esigenza nella cultura greca è, secondo María Zambrano, la tragedia37

.

35

ZAMBRANO 2001, p. 55.

36

Cfr. il capitolo II: “Il rapporto con il divino: la pietà”, in ZAMBRANO 2001, pp. 171-206. Per la definizione di pietà, in particolare, p. 188.

37

Così ZAMBRANO 2001, p. 202: «La tragedia greca è la maturità di questa forma di espressione: scongiuro, invocazione, detti, che si ripetono da tempo immemorabile, linguaggio della pietà; genere classico del mondo arcaico. Officio della pietà, del sentire che è fare e conoscere; espressione e determinazione di un ordine che dà senso agli eventi indicibili; una forma di liturgia».

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Essa aveva il suo cuore nelle «situazioni più estreme della vita umana», e in questo si distingueva dai riti tradizionali che invece celebravano occasioni ricorrenti (per esempio il ciclo naturale). Tramite il rito della tragedia si arriva a conoscere l’altro, cioè, in generale, l’uomo. Si arriva, secondo Zambrano, a reintegrare le situazioni più estreme nella generale condizione umana. Nella tragedia, nella pietà, non esiste giudizio o condanna: i personaggi vengono presentati in quanto partecipi della vicenda umana. Così, scrive la pensatrice spagnola, «...nessuno ha più colpa di altri. Creonte non risulta più peccatore di Antigone che è la purezza stessa sacrificata»38. Anche lo spettatore, tramite l’immedesimazione nei personaggi, impara a conoscere se stesso, e attraverso la pietà, raggiunge un nuovo equilibrio. La tragedia raggiunge questo nuovo equilibrio non con l’uso della ragione (nello specifico la ragione filosofica, che Zambrano contrappone all’espressione poetica), ma con il delirio. Nel delirio si manifestano e vengono scongiurati i daimones che abitano l’animo umano. Tale superamento non avviene però, secondo Zambrano, senza il pagamento di un pegno: «E pagare il pegno è la condizione per cui nel gioco di ognuno entra in gioco l’universo, il gioco di tutti. E anche facendo bene il proprio gioco bisogna pagare pegno. Perché il pegno pagato è l’inevitabile sacrificio che libera dal carico ereditato e da quello generico. Si paga perché si è figli e perché si è semplicemente uomini, e soltanto allora si apre il cammino della vita individuale; soltanto a partire da quel momento si può pretendere di essere se stessi. Partecipando al gioco totale, come Antigone, il processo tragico si chiude. Il giusto che paga apre il cammino della libertà39».

Vediamo quindi che Antigone è legata in diverse maniere all’evoluzione della pietà greca: emanazione “umana” di Atena, condivide con essa la sofferenza dovuta all’eredità paterna; la messa in scena di Sofocle rappresenta poi un punto di svolta nella sensibilità greca. Dal un lato il delirio di Antigone rappresenta il superamento delle vecchie divinità e la ricerca di una religiosità più profonda e legata ai misteri dell’esistenza umana; dall’altro il ‘sentire’ di Antigone è un esempio di quella che María Zambrano individua come la ‘pietà’ greca, cioè della relazione con l’altro. La vicenda di Antigone è la vicenda di un singolo personaggio che nel suo delirio e con il suo sacrificio ‘sconta’ le colpe di un’intera stirpe, e permette così il ritrovamento dell’equilibrio, in generale, dell’umanità che in essa si rispecchia.

38

ZAMBRANO 2001. p. 203.

39 Z

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1.4 Il sogno creatore

Ne Il sogno creatore viene dedicato ad Antigone un intero capitolo intitolato “Il personaggio autore: Antigone”40

. María Zambrano riflette sul “rapporto” che lega Sofocle al suo personaggio. Scrive la filosofa:

Esiste, dunque, una simbiosi tra l’autore e il protagonista della tragedia mediante il tempo: l’autore offre il tempo successivo dove la storia può svolgersi; quella storia originatasi dalla perdita di un istante, da un errore, da una semplice incertezza, dal non aver fatto, in sostanza, la mossa giusta [...]. La storia sorge da un errore iniziale. Ma per colui che la trova è un dono del tempo che permette di individuare l’errore e di riscattarlo.

Il discorso prosegue con un’illustrazione del compito dell’autore della tragedia: più immediatamente legato al nostro discorso è però il modo in cui Zambrano descrive il personaggio di Antigone nel dramma di Sofocle. Viene vista come una fanciulla che per portare a compimento il suo ‘essere’ rinuncia alla realizzazione compiuta della propria femminilità. La sua ‘missione’ era quella di riscattare un morto calpestando le leggi dei vivi, e per questo «come una spola di telaio, serviva a tessere vita e morte»41. Il motore della sua azione era stato puramente l’amore:

Era stato un sogno d’amore il suo, vale a dire: di conoscenza, di lucidità che vede la sua condanna inevitabile, la sua stessa morte e l’accetta, poiché è situata nel punto di tempo in cui vita e morte si coniugano [...]. Era stata la tessitrice che in un istante unisce i fili della vita e della morte, quelli della colpa e quelli dell’ignota giustizia, cosa che soltanto l’amore può fare.

Tramite questo atto d’amore Antigone riscatta la sua intera stirpe, afflitta dalla colpa dell’incesto: la vicenda di Edipo lascia che sia la figlia a divenire autrice del sacrificio, a risolvere il nodo della vita del padre. Questo sacrificio avviene necessariamente tramite la trasgressione di una legge, per permettere che si manifesti una nuova giustizia. Nell’immaginario di Zambrano Antigone è rappresentata come una fanciulla che porta dalla fonte una brocca d’acqua, simbolo di verginità, andando così a corrispondere alla vergine sacrificale che si ritrova in numerosissime culture, e che rappresenta per esse la possibilità di riscatto. Scrive però María Zambrano:

Ma per giungere a compiere il senso totale contenuto in questa figura simbolica, Antigone doveva conquistare la parola. Doveva parlare, farsi coscienza, pensiero. E per questo l’innocenza della sua perfetta verginità non le bastava. Doveva essere coscienza pura e non solo

40

ZAMBRANO 2002, pp. 105-115.

41 Z

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innocente. Doveva sapere. Arrivare a quel sapere che non si cerca, che si apre come il chiaro spazio che si trova al di là di certi sogni di soglia, simbolo della libertà42.

Questo è il compito dell’autore, che deve dare la parola al personaggio. Tramite il sacrificio, poi, si origina la coscienza che, come la pensatrice ha più volte ribadito, ha la capacità di illuminare e situare al proprio posto tutti i personaggi che circondano la protagonista. Dice María Zambrano: «In Antigone c’è il pianto della verginità che feconda senza essere fecondata. La verginità è associata all’alba; una metafora e una categoria dell’essere che solo passando attraverso il suo non-essere si manifesta»43. Viene poi stabilito un parallelo tra l’azione di Antigone (la discesa agli inferi come vittima sacrificale per illuminare e dare ‘una collocazione’ agli altri personaggi della sua storia) e quella dell’autore, che discende «agli inferi dell’anima umana», per dare spazio e voce al personaggio che «con il proprio conflitto gemeva imprigionato»44.

42 ZAMBRANO 2002, p. 109. 43 ZAMBRANO 2002, p. 114. 44 Z AMBRANO 2002, p. 115

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La Tumba de Antìgona

La Tumba de Antìgona, pubblicata in Messico nel 1967, è stata tradotta in italiano da Carlo Ferrucci per “La tartaruga edizioni” nel 1995. In questa edizione il testo è preceduto da una saggio di Rosella Prezzo (La scrittura del pensiero in María Zambrano) e da una “Introduzione” a cura di Ferrucci. Il testo è poi costituito da un “Prologo” (come già il Delirio di Antigone), da un capitolo intitolato “Antigone”, costituito da un monologo dell’eroina, e da altri undici capitoli in cui Antigone dialoga con personaggi del mito o di invenzione dell’autrice45. L’edizione include anche il testo Diotima di

Mantinea, pubblicato originariamente a Roma nel 1956. 2.1 Il Prologo

María Zambrano compendia in un ampio prologo46 l’insieme delle sue riflessioni sulla figura di Antigone, motivando in modo approfondito le ragioni della sua riscrittura dell’opera sofoclea. Il punto di partenza (poi ripreso ed ampliato nel corso della riflessione) è che Antigone non avrebbe potuto suicidarsi, perché non aveva coscienza di sé. Fu catturata dal conflitto tragico in questa speciale condizione, che poi le permise di dare ‘un senso’ al dramma della sua famiglia, di trasformarlo in una rinascita, un riscatto. Per arrivare ad assumere questo particolare ruolo, Antigone dovette passare attraverso molte fasi, ciascuna delle quali richiedeva tempo. Del resto Edipo dovette trasformarsi da autore di «un duplice delitto ‘sacro’»47 in pharmakos, e per questo ebbe ‘diritto’ a un lungo lasso di tempo, quello dell’esilio. La guerra civile intanto continuava a distruggerne la stirpe, mentre Creonte, credendo di sanare finalmente le ferite della città con il suo intervento, ne moltiplicava gli esiti di morte. La fine di Antigone invece lascia, nella tragedia di Sofocle, il tiranno Creonte senza possibilità di riscatto, e la contesa tra i fratelli risolta in maniera solo parziale (l’unico esito positivo è che, infine, vengono conferiti gli onori funebri dovuti al cadavere di Polinice). Senza soluzione rimangono anche l’ira di Edipo nei confronti dei figli, la tragedia di Giocasta, l’amore di Emone e la stessa esistenza di Antigone. Solo durante il lamento che aveva accompagnato la sua discesa verso la tomba, Antigone aveva preso consapevolezza di se stessa: per questo la sua sorte si era trasformata nel sacrificio, destinato a placare, secondo María Zambrano, il mondo degli inferi, quello terrestre e quello celeste. In particolare ella insiste sulla necessità che la vittima attraversi gli inferi, perché con il suo amore essa possa diventare creatrice di «vita, luce, coscienza»48. Antigone, con il suo sacrificio, doveva illuminare le coscienze verso una

45

I capitoli sono: La notte; Sogno della sorella; Edipo; Anna, la nutrice; L’ombra della madre; L’arpia; I fratelli; Arriva Emone; Creonte; Antigone; Gli sconosciuti.

46 ZAMBRANO 1995, pp. 43-67. 47 ZAMBRANO 1995, p. 44. 48 Z AMBRANO 1995, p. 46.

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Nuova Legge, la stessa per la quale, secondo l’autrice, anche Socrate aveva accettato la morte. La filosofa quindi afferma:

È a causa di tutto ciò che ella non poteva darsi la morte, e nemmeno morire come i comuni mortali. Nessuna vittima sacrificale muore con tanta semplicità. Vita e morte sono chiamate a vivere, unite, nel suo andare oltre. Un andare oltre che non si dà se non in questa unione, in queste nozze. E il supplizio al quale Antigone è stata condannata sembra inferto apposta perché ella disponga di tempo, un tempo indefinito, per vivere la sua morte, per consumarla consumando insieme la sua vita, la sua vita non vissuta, e con essa, insieme ad essa, la tragica vicenda della sua famiglia e della sua città.49

La discesa di Antigone avviene nel totale abbandono da parte degli dèi, compresa Atena: già Edipo, cui pure Apollo aveva predetto il suo destino, era stato abbandonato dalla divinità: ma egli aveva avuto il ‘tempo’ dell’esilio per prepararsi a passare ad una «vita superiore». Al contrario Sofocle non diede ad Antigone questo Tempo, che María Zambrano invece le restituisce. La passione di Antigone coincide con «una delle più felici scoperte della coscienza religiosa greca: la passione della figlia»50. Il fatto che si consumi senza l’intervento degli dèi dà in realtà ‘consistenza’ all’assenza di questi ultimi e lascia spazio al passaggio al Dio Sconosciuto, «quel Dio Sconosciuto al quale gli Ateniesi non trascurarono di erigere un’ara». La vicenda di Antigone, la sua particolare Passione, la designerebbero come appartenente alla classe dei Mediatori, dei Mediatori cioè tra il mondo del divino e quello dell’umano (il Mediatore per eccellenza è, secondo l’autrice, Gesù Cristo, e la Croce il simbolo più chiaro della mediazione tra l’asse verticale, il Cielo, e quello orizzontale, l’abbraccio della terra51

). La tragedia greca è, nella cultura ellenica, lo spazio in cui tale mediazione si esercita: il mediatore, con la sua Passione, si pone al di là della morale (rappresentata dal coro), e sono proprio la sua hybris e il suo delirio a far sì che si compiano «le azioni straordinarie, tra gli dei e gli uomini, tra il destino e la nascente libertà. Dei e uomini hanno bisogno di queste maschere sotto le quali l’umano e il divino si mescolano per poi separarsi secondo una misura giusta o quantomeno valida per le possibilità dell’umano»52

. Nel Mediatore, cioè, gli dèi vogliono che la loro passione trovi una continuazione: Zambrano riconosce in essi la spinta a non far nascere i loro figli, affinché essi «rimanessero sepolti nel seno della madre od occultati nel petto del padre». Per un impulso analogo essi desideravano che l’uomo non terminasse di nascere. Così si

49 Z AMBRANO 1995, p. 47. 50 ZAMBRANO 1995, p. 48. 51 ZAMBRANO 1995, pp. 50-51 52 Z AMBRANO 1995, pp. 51-52.

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spiega la vicenda di Edipo, e la pesante eredità che egli lascia sulla sua famiglia53: in particolare la filosofa distingue una ‘doppia natura’ della vicenda di Edipo e della sua colpa, quella di padre e quella di re. Sui figli maschi ricadde la colpa di re (la brama di potere, che lo spinse ad appropriarsi del trono senza indugi), e alla sola Antigone toccò invece l’eredità dell’Edipo-uomo, o Edipo-padre, «qualcosa di essenziale che non si può dividere e che pertanto non aveva ragione di cadere se non di striscio sull’altra figlia»54

. Colpa che poteva essere espiata solo tramite il sacrificio di qualcosa di puro, cioè Antigone. E il sacrificio di Antigone porta al superamento anche della colpa di Edipo-re, perché l’eroina istituisce una nuova legge che va oltre la lotta tra i fratelli e che quindi pone un termine alla catena di distruzione padre-figlio avviata dai ‘vecchi’ dèi. La Nuova Legge si basa su un elemento su cui Zambrano insiste molto, cioè la ‘fraternità’, il «necessario protagonista redentore». Tramite la relazione di fraternità, tramite il legame puro con l’altro, l’uomo arriva a conoscere se stesso: per la pensatrice spagnola, l’agnizione finale consiste nel riconoscere in se stessi il soggetto della propria colpa. L’essere soggetto di una colpa (artefice, cioè, del proprio destino, e non mero oggetto) provoca un eccesso nell’uomo che lo rende protagonista, ma anche estremamente solo, isolato rispetto ai suoi fratelli e agli dèi. Anche Antigone, dunque, vive un’agnizione, anche se lei si rivela ‘soggetto’ di una colpa in realtà non sua, di una colpa legata al padre, che eredita nella sua ‘passione di figlia’. Così si trova nella paradossale condizione di diventare soggetto, ma puro, perché privo di una propria colpa; in quanto soggetto è sola, abbandonata persino dall’Atena che con lei condivide la sorte di ‘essere figlia’. Tale purezza fa sì che Antigone diventi la legge ‘nuova’, che M. Zambrano definisce così:

...la legge sepolta cui tocca essere resuscitata ad opera di qualcuno umanamente senza colpa. È la legge lasciata indietro, caduta in oblio, sepolta a volte: il perenne principio che è al di là, al di sopra, non solo degli dei - di quegli dei- e degli uomini, ma anche dello stesso destino che sembrava invece planare - muto, inconoscibile- sopra di essi. La legge nella quale il destino acquista un contorno e per ciò stesso si riscatta. Perché l’impresa da compiere è questa: riscattare la fatalità55.

Per María Zambrano dunque il punto nodale della questione sembra questo: è necessario che l’uomo acquisti consapevolezza di se stesso per potersi imporre sul destino, per poter ‘dare una compiutezza’ ai fatti che esso riversa ciecamente sulle persone. Questo è il senso dell’azione dei Mediatori, e di Antigone in particolare: in generale di quelle anime che, per particolare purezza, sono portate a vivere e subire i più terribili fatti storici, ma ad illuminarli della loro stessa coscienza.

53 María Zambrano aveva insistito sulla mancata nascita di Edipo come personaggio nel saggio Il sogno creatore, in

particolare nel capitolo “L’origine della tragedia: Edipo”.

54

ZAMBRANO 1995, p. 53.

55 Z

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Dunque nel momento in cui Antigone si trova sola, sacrificata in nome della fraternità e agli inizi della presa di coscienza di se stessa, nel momento in cui cioè Antigone entra nella tomba, solo allora ci sono le condizioni per cui possa propriamente iniziare la tragedia di Antigone, la sua ‘nascita’ come persona compiuta. Ad attenderla non ci potevano essere, quindi, né la morte per inedia, cui Creonte l’aveva destinata, né il suicidio che Sofocle le attribuisce, bensì la consumazione dell’ultima «tappa della sua vita»56

, il suo sacrificio, che avviene «grazie alla parola poetica, verginale anch’essa». Secondo María Zambrano, quindi, il tempo è dato ad Antigone affinché essa possa esprimere la verità necessaria alla sua città, alla sua stirpe, e facendo questo fonda una stirpe, è cioè un archetipo, dei «murati non soltanto vivi, ma viventi [....]. Semplicità, purezza, nitidezza contrassegnano queste figure, rendendole riconoscibili [...]. Profetiche, dunque, queste anime, ma non solo e non tanto delle cose dell’avvenire, bensì dell’essere dell’uomo che in esse risplende come una profezia»57. Antigone ha la capacità di illuminare la coscienza dell’uomo, e la tragedia di Sofocle rappresenta per questo ancora una sintesi di filosofia e poesia, come dimostra il fatto che essa ha attratto tanto filosofi (Zambrano cita Hegel) quanto poeti (Hölderlin). La coscienza di Antigone è scissa, in un certo senso, dal suo Io: lei ha coscienza, consapevolezza dell’essere, senza però essere consapevole di se stessa. Questo la pone in una condizione privilegiata per illuminare il destino degli altri e per permettere loro di comprenderlo. Così María Zambrano esprime chiaramente nel finale:

Antigone, stando a Sofocle, entra nella sua tomba lamentando le nozze mancate. Entra delirando. E solo allora intuisce, benché il poeta non lo dichiari apertamente, che se non le hanno consentito di avere uno sposo ciò è stato perché in lei, attraverso il suo totale sacrificio, si sciogliesse il nodo delle sue vicende familiari e venisse in chiaro una volta per tutte la differenza tra la legge degli dei e la legge vera che si libra al di sopra di esse: la legge che è più in alto degli dei e degli uomini, di loro più antica e di cui essi sono soltanto diafana profezia, com’è il caso di Antigone, o immagine deformata, come ogni forma di potere che ad essa non si sottometta. Ella comprende, a quel punto, che nozze umane non le aveva potute avere perché divorata sin dalla nascita dall’abisso della famiglia, dagli inferi della città. Ed è allora che si sciolgono a un tempo il suo pianto e il suo delirio58.

Il delirio di Antigone e di quelle della ‘sua stirpe’ continua finché continua la Storia alla cui esigenza esse sono state sacrificate. Pertanto María Zambrano dichiara di voler trascrivere questo ‘eterno’ delirio. 56 ZAMBRANO 1995, p. 61. 57 ZAMBRANO 1995, pp. 62-63. 58 Z AMBRANO 1995, pp. 66-67.

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Da questo prologo, considerate anche le opere già analizzate, emergono alcuni punti fondamentali nella lettura che María Zambrano dà di Antigone. Si tenterà di enuclearli, prima di cercare un riscontro nel corpo della pièce, e prima di procedere a un confronto con la presentazione sofoclea dell’eroina.

2.2 Alcune linee di lettura - L’innocenza di Antigone

Emerge in primo luogo un dato molto importante: Zambrano poggia tutta la sua riscrittura del ‘finale’ di Sofocle su una considerazione di partenza, quella secondo la quale Antigone non era abbastanza consapevole di sé, cioè non aveva affermato se stessa in modo tale da poter prendere la decisione di suicidarsi. Tale inconsapevolezza implica necessariamente l’innocenza di Antigone, la sua connotazione di vittima sacrificale. Questa considerazione sulla mancata ‘nascita’ di Antigone, che ne causa la purezza, è il punto di partenza di qualsiasi altra riflessione, come si evince anche dal fatto che essa costituisse il nucleo del prologo del Delirio di Antigone.

- L’attenzione alla globalità della vicenda di Antigone

Il sacrificio cui Antigone è votata non deriva affatto, secondo Zambrano, dalla sua scelta di seppellire il fratello, che sembra essere soltanto un ‘dettaglio’ dell’intera vicenda: il fuoco narrativo è invece interamente centrato su Edipo e sul legame tra Edipo e la protagonista. Da Edipo deriva la ‘colpa’ che Antigone deve espiare e in relazione alla quale si consuma la sua tragedia. È evidente come Zambrano proponga una lettura ‘globale’ della vita di Antigone, all’interno della quale la morte improvvisa legata esclusivamente alla sepoltura del fratello risultava poco soddisfacente. Si può dire quindi che a María Zambrano non interessa in realtà concludere diversamente la tragedia di Sofocle, ma, tramite il personaggio Antigone, cercare un riscatto, una conclusione alla storia dell’intera stirpe dei Labdacidi.

- L’amore di Antigone

María Zambrano attribuisce questo peculiare ruolo ad Antigone a partire dalla sua natura pietosa, dalla sua capacità cioè di accogliere ed illuminare l’essenza, la coscienza degli altri senza giudicare. Lei può cioè comprendere la natura più profonda dell’uomo e accoglierla. In questo caso María Zambrano riprende e inserisce in un quadro più ampio considerazioni già sviluppate nel Delirio di Antigone e ne L’uomo e il divino.

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Un’altra tematica ripresa da L’uomo e il divino è l’importanza simbolica della tragedia sofoclea nell’evoluzione della concezione religiosa greca. Infatti se Edipo aveva ricevuto un oracolo relativo alla sua sorte (venendo poi comunque abbandonato), la fine di Antigone si consuma nel totale abbandono da parte degli dèi tradizionali: anche da parte di Atena, con cui, secondo María Zambrano, sussistono importanti analogie. Antigone, infatti, avendo a cuore l’essere e essendo portatrice di una legge che supera i rapporti distruttivi all’interno della famiglia, mostra chiaramente la “vacuità”, l’inconsistenza delle divinità greche. La filosofa vede il verificarsi di un passaggio necessario nella religiosità greca nel momento del sacrificio ‘reale’ di Socrate e di quello letterario di Antigone. Il filosofo e l’eroina ‘chiedevano’ alla divinità una nuova consistenza, un legame con gli aspetti più sostanziali dell’esistenza umana. La mancata risposta delle divinità tradizionali si concretizzò nell’accusa di empietà a Socrate e nell’abbandono di Antigone. Entrambi però erano portavoce di una nuova divinità, il Dio Sconosciuto, alla cui ombra avrebbero potuto trovare le risposte che cercavano. L’associazione con il ‘mediatore per eccellenza’ (Cristo) risulta poi particolarmente importante. Secondo Wanda Tommasi, María Zambrano istituisce due linee parallele di religiosità: una di natura maschile in cui esistono la morte e la resurrezione (rappresentata dalla vicenda di Cristo), un’altra di tipo femminile in cui la morte viene inglobata nella vita, rappresentata nella religiosità cristiana dalla figura della Vergine, che genera la vita all’interno della vicenda sacrificale di Cristo. Antigone, che scende agli inferi senza morire e che, tramite questa catabasi, porta un frutto positivo per la sua stirpe, rappresenterebbe un esempio pagano di questa genealogia religiosa femminile59.

- Antigone e il tempo

Nella poetica di María Zambrano il tempo assume una rilevanza fondamentale. Infatti, come spiega nel capitolo “Il tempo” de Il sogno creatore60

, esso è la strada che mette in contatto, sostanzialmente, l’essere assoluto e l’uomo: è quello cioè che permette all’uomo di partecipare dell’essere, cioè di «vivere umanamente», cosa che riesce a fare solamente attraverso la nascita, attraverso il risveglio, che, in quanto ‘processo’, richiede del tempo per svolgersi. Come è stato già detto, la tragedia è un atto di nascita, trattandosi della manifestazione dell’essere61

. L’autore quindi ha il compito di vedere dove il personaggio ha ‘mancato la nascita’, e di intervenire affinché essa

59

Cfr. TOMMASI 2013, pp. 111-113.

60

ZAMBRANO 2002, pp. 58-65

61 Una definizione di ‘nascita’ che ben si adegua al processo di Antigone si trova in Z

AMBRANO 2002, p. 99: «Poiché nascere significa dover attraversare un involucro, che contiene il soggetto, dentro al quale egli non può rimanere e non già a rischio della propria vita, ma del proprio essere. Significa dover abbandonare un luogo dove l’essere giace ripiegato su se stesso, immerso nell’oscurità. Nascere, nel senso originale e in tutti gli altri sensi possibili, è l’andare a costituirsi nell’autonomia del proprio essere».

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sia resa possibile. Edipo non è mai riuscito a nascere, nemmeno nelle tragedie di Sofocle, ed è sempre rimasto imprigionato nella sua maschera di Re, senza riuscire a trovare la sua identità di uomo. Al contrario Antigone, nella lettura che Zambrano dà della tragedia di Sofocle, è giunta a nascere proprio sul finire della tragedia, quando si avvia alla tomba, realizzando il senso del suo sacrificio. A questo punto però Zambrano si sente in dovere di permettere la nascita completa di Antigone, che avviene, come da lei stessa teorizzato, attraverso il Tempo: grazie al Tempo concesso nella tomba, Antigone permettere al suo essere di nascere. Essere che, in questo caso, è quello di Mediatore e di vittima sacrificale, destinato a sciogliere i nodi della storia della propria famiglia. Vediamo quindi che María Zambrano, con il personaggio di Antigone, mette in pratica un discorso di poetica che altrimenti sarebbe rimasto solo un’analisi teorica. La sua lettura della tragedia diventa in questo modo una lettura produttiva62.

- Antigone e la poesia

Nel saggio Filosofia e poesia (ZAMBRANO 1998, pp. 29-43) María Zambrano evidenzia come, a partire da Platone, filosofia e poesia abbiano preso due strade distinte nella concezione del sapere. Da un lato la filosofia che davanti alle apparenze (condizione simboleggiata dall’uomo nella caverna) sceglie di operare uno stacco violento e di rivolgersi verso la luce. Sceglie, cioè, di abbandonare il divenire, le sensazioni, per contemplare unicamente il vero essere attraverso il pensiero razionale. Al contrario la poesia desidera accogliere la verità delle apparenze, senza pretendere di possederla, ma accontentandosi di amarla e di tentare di esprimerla attraverso la particolare forma del delirio. La poesia, diversamente dalla filosofia, non fugge la caverna e le apparenze, ma vi si immerge. La discesa di Antigone nella tomba rappresenta quindi l’immergersi del poeta nelle viscere della sensazione, del sentimento63. Antigone è portatrice di un sapere poetico, che accoglie le anime delle persone che la circondano. Tuttavia è la stessa María Zambrano a dire che la tragedia Antigone è uno degli ultimi momenti in cui si compie la ‘fusione’ tra poesia e filosofia: e del resto la via auspicata da Zambrano è una filosofia che non si dimentichi degli aspetti viscerali dell’esistenza, ma che includa il ‘sentire’ umano nella ricerca della verità. L’Antigone

62 Così anche B

REZZI 2004, p. 171: «...la filosofa sottolinea la funzione dell’autore tragico che con ‘impassibile compassione’ consente ai personaggi di rivivere il proprio dramma e di uscire dal groviglio di passioni che li tiene prigionieri, offrendo loro, insieme, tempo e luce: tempo, per rifare la storia del loro dramma, del loro conflitto; luce, chiarezza, per poterne estrarre un significato in grado di trascenderlo, riscattando la colpa e placando il dolore».

63 Così anche in B

REZZI 2004, p. 171: «Antigone si collega alla rilettura del mito della caverna, e dell’ascesa dal mondo delle apparenze al regno della verità, ascesa che nei termini platonici sembra a Zambrano ‘uno strappo troppo brusco’, una violenza troppo lacerante, che dimentica con eccessiva facilità le ragioni delle “viscere”: la figlia di Edipo, nel suo voltare le spalle alla luce e nella sua discesa volontaria nella caverna, a differenza del prigioniero platonico, cerca nel labirinto oscuro della sua vita, un barlume di senso».

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