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Dioniso, Nietzsche e il tragico.

3.5 La confessione di Antigone e i due sconosciut

3.5.3 Dioniso, Nietzsche e il tragico.

La probabile identificazione del ‘primo sconosciuto’ con Dioniso spinge a fare alcune riflessioni sull’influenza del pensiero di Nietzsche e dell’opera La nascita della tragedia su María Zambrano403. Sarà utile partire da un breve ragguaglio sulla concezione di apollineo e dionisiaco nella tragedia secondo il filosofo tedesco: i due principi che, opposti e complementari tra loro, governano l’anima umana e l’evoluzione della storia sono, come è noto, il principio della luminosità, della razionalità e dell’ordine rappresentato nella cultura greca da ‘Febo’ Apollo, e quello degli aspetti più oscuri e passionali simboleggiati da Dioniso. Il miracolo della tragedia attica di Eschilo e Sofocle consiste nella conciliazione di questi due aspetti. Questi autori sarebbero stati in grado di conciliare una conoscenza dionisiaca, ossia un sentimento degli aspetti dolorosi dell’esistenza, con i simboli apollinei, cioè con l’aspirazione alla luminosità dell’eroe404

. Nietzsche utilizza proprio la metafora della luce per chiarire questo concetto (la metafora va letta come un ‘esempio inverso’, come chiarisce anche l’autore)405

:

Quando noi, dopo un fermo tentativo di fissare il sole, ci rivolgiamo abbagliati, abbiamo allora davanti agli occhi, quasi come un rimedio, scure macchie colorate; inversamente quelle proiezioni luminose dell’eroe sofocleo, insomma l’apollineo della maschera, sono prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte.

Un esempio di tale sintesi è proprio l’Edipo a Colono di Sofocle, in cui, grazie all’intervento dell’autore sul mito, la vicenda del re di Tebe si conclude positivamente dopo che il protagonista ha sondato gli abissi della propria anima. Scrive il filosofo406:

Nell’Edipo a Colono incontriamo questa stessa serenità, ma elevata sino a una infinita trasfigurazione; contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo colpisce - sta la serenità ultraterrena che s’irradia dalla sfera divina e ci accenna come l’eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l’avevano condotto solo alla passività.

403

Zambrano era una attenta lettrice di Nietzsche, che considerava uno degli esseri aurorali. L’insieme degli scritti dedicati al filosofo sono stati editi da Elena Laurenzi in Sotto il segno dell’aurora. Studi su María Zambrano e

Friedrich Nietzsche, Pisa 2012. Si tratta dell’autore maggiormente citato dalla filosofa dopo il maestro Ortega y Gasset,

e l’analisi dei libri da lei posseduti rivela una lettura meticolosa dei suoi testi.

404

Cfr. RIES 2001, pp. 78-88. A questo tema Nietzsche dedica il nono capitolo de La Nascita della Tragedia.

405

NIETZSCHE 1972, p. 64.

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La conoscenza che deriva dalla sofferenza è una conoscenza dionisiaca. Con questo l’autore intende che il patire di tutti gli eroi della tragedia attica (fino ad Euripide) è in realtà il patire di Dioniso che si riveste di diverse maschere. Edipo è cioè maschera di Dioniso. Da questa considerazione di partenza deriva la proposta di una dottrina misterica della tragedia, alla cui spiegazione è dedicato il capitolo X de La nascita della tragedia407. Scrive infatti408:

[...] l’unico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà individuale. Quanto alle parole e alle azioni del dio che appare, egli rassomiglia a un individuo che sbaglia, che lotta e che soffre; e che egli appaia in generale con questa epica determinatezza e chiarezza, è effetto dell’interprete di sogni Apollo, che con quella simbolica apparenza chiarisce al coro il suo stato dionisiaco.

A questo punto Nietzsche fa riferimento proprio a Dioniso Zagreo e ai misteri in cui egli era coinvolto: la tragedia è una replica simbolica di tali misteri, che viene tratteggiata in questo modo (pp. 72-73):

Ma in verità quell’eroe [cioè l’eroe della tragedia, il brano segue direttamente il precedente] è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che sperimenta in sé i dolori dell’individuazione, e di cui i mirabili miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò significa che questo sbranamento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile [...]. Ma la speranza degli epopti si appuntava su una rinascita di Dioniso, che noi dobbiamo ora presentire come la fine dell’individuazione: per la venuta di questo terzo Dioniso risuonava il fremente canto di giubilo degli epopti.

Ries409 spiega che qui Nietzsche fa riferimento a «una nascosta ‘interpretatio dionysiaca’ (B. von Reibnitz) del Vangelo di Giovanni». In questa sede interessa però notare che la resurrezione di Dioniso simboleggia l’aspirazione all’unità rispetto alla individuazione dello smembramento (Apollo invece, che con la sua luce distingue e pone confini tra le cose, corrisponde a quest’ultima tendenza). Allo stesso modo la tragedia rappresenta una aspirazione all’unità, cioè il superamento della sofferenza dell’individuazione tramite la creazione artistica. Così infatti scrive Nietzsche (pp. 72-3): 407 Cfr. RIES 2001, pp. 88-94. 408 N IETZSCHE 1972, pp. 71-2. 409 Cfr. RIES 2001, p. 92.

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Nelle considerazioni già citate abbiamo infatti riuniti tutti gli elementi di una visione del mondo profonda e pessimistica, e insieme con essi una dottrina misterica della tragedia: la conoscenza fondamentale dell’unità di tutto ciò che esiste, la concezione dell’individuazione come causa prima del male, l’arte come lieta speranza che il dominio dell’individuazione possa essere spezzato, come presentimento di una ripristinata unità.

Tanto nel mito quanto nella tragedia quindi si esprimono le conoscenze dionisiache, conoscenze legate alla sofferenza, ma anche frutto dell’affermazione della vitalità, della fecondità della vita e della natura. Tale vitalità si esprime pienamente nella musica, manifestazione che Nietzsche associa allo spirito Dionisiaco sin dalle sue origini: nei brani corali della tragedia questa ebbe la sua ultima, ‘sfolgorante’ espressione, portando l’artista e lo spettatore alla percezione dell’unità. Questa unità (il tema ci interessa ai fini del confronto con Marìa Zambrano), non è un’unità che stia oltre l’essere, ma è la riconciliazione con il caos originario, la ridiscesa all’indistinto primigenio, la fusione con la natura. È il filosofo stesso a spiegarlo (pp. 111-112):

Anche l’arte dionisiaca vuole convincerci dell’eterna gioia dell’esistenza: senonché dobbiamo cercare questa gioia non nelle apparenze, ma dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto a una fine dolorosa, siamo costretti a guardare in faccia gli orrori dell’esistenza individuale - e tuttavia non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente al congegno delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo veramente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomabile brama di esistere e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci sembrano ora necessari, data la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si incalzano alla vita, data la strabocchevole fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso attimo in cui siamo per così dire divenuti una cosa con l’incommensurabile gioia originaria dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità ed eternità di questo piacere. Malgrado il timore e la compassione, noi viviamo in modo felice, non come individui, in quanto siamo quell’unico vivente, con la cui gioia generativa siamo fusi.

Nella produzione successiva, Nietzsche spiega come questo vitalismo, del quale la tragedia di Eschilo e Sofocle è massima espressione, si contrapponga allo spirito del crocifisso e della religione cristiana. Il frammento più celebre in cui vengono contrapposte le due visioni del mondo data della primavera del 1888410:

I due tipi: Dioniso e il Crocifisso. Stabilire: il tipico uomo religioso è una forma di decadenza? I grandi innovatori sono tutti quanti malati ed epilettici; ma non lasciamo da parte un tipo

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dell'uomo religioso, quello pagano? Non è il culto pagano una forma di ringraziamento e di affermazione della vita? Non dovrebbe essere il suo più alto rappresentante un'apologia e una divinizzazione della vita? Tipo di uno spirito ben riuscito e traboccante nel suo entusiasmo … Tipo di un tipo che accolga in sé e REDIMA le contraddizioni e le problematicità dell’esistenza? Qui faccio intervenire il Dioniso dei Greci; l'affermazione religiosa della vita, della vita intera, non della vita rinnegata e dimezzata; tipico: che l'atto sessuale risvegli profondità, mistero, riverenza. Dioniso contro il «crocifisso»: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio: piuttosto - solo esso ha un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento… Nell'altro caso, il dolore, il «crocifisso in quanto innocente», valgono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna. Si indovina che il problema è quello del senso del dolore: del senso cristiano o del senso tragico. Nel primo caso sarebbe la via che porta ad un essere beato, nel secondo l'essere è considerato abbastanza beato da giustificare anche un’immensità di dolore. L'uomo tragico afferma anche il dolore più aspro: è abbastanza forte, ricco, divinizzatore per ciò; il cristiano nega anche il destino più felice in terra: è tanto debole, povero, diseredato da soffrire di ogni forma di vita … «Il Dio in croce» è una maledizione della vita, un’esortazione a liberarsene- Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita; essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione.

Si tratta di una riflessione sviluppata in modo molto complesso e disteso all’interno della produzione nietzscheana. Quello che ci interessa notare è che però vengono contrapposti due diversi modi di vivere la religiosità: lo spirito dionisiaco e il martirio del dio multiforme, vera sorgente vitale della tragedia greca, e lo spirito cristiano e la morte in croce, che sono la negazione della vita e l’affermazione del dominio della sofferenza.

Risulta evidente come questo discorso abbia moltissimi punti di contatto con quanto si è visto finora a proposito di María Zambrano: in primo luogo la contrapposizione tra apollineo e dionisiaco ricorda il confronto tra la conoscenza razionale (simboleggiata appunto dal sole) e quella viscerale e intuitiva. Per Nietzsche le due conoscenze dipendono l’una dall’altra (se si toglie Dioniso dalla tragedia, si perde anche Apollo), ma in ultima analisi è la conoscenza dionisiaca a svelarci la vera natura del mondo. Zambrano mette invece maggiormente l’accento sulla necessità di fondere i due saperi: di utilizzare cioè la luce del pensiero per far emergere le viscere. Solo una conoscenza che tenga conto della parte più oscura del sentire, ma che al contempo si preoccupi di dare ‘luce’ ad essa è una conoscenza completa. Concentrando poi il discorso sul dionisiaco, è interessante notare come entrambi pongano l’accento sull’aspetto ctonio del dio, sul suo essere legato alla vita e alla morte, e come entrambi partano da questo per proporre un discorso di poetica (se è giusto leggere nel ‘primo sconosciuto’ un riferimento cifrato a Dioniso). In entrambi gli autori è possibile poi

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vedere come il discorso di poetica si leghi a una riflessione più ampia sulla spiritualità pagana e cristiana, anche se con esiti molto diversi. Per poter svolgere in maniera più distesa questo confronto è utile vedere quanto dice Zambrano stessa a proposito della lettura di Nietzsche della tragedia classica. L’argomento viene affrontato nel capitolo “Il delirio del superuomo” de L’uomo e il divino. Qui la filosofa parte dal presupposto per cui l’uomo tende naturalmente alla deificazione, e illustra come tale anelito sia stato espresso, in tempi moderni, da Nietzsche. Egli risultò una vittima sacrificale della storia del pensiero umano, perché espresse chiaramente questo delirio411:

Non fu un pensiero, fu il delirio di un protagonista della tragedia che nessun poeta ha potuto trascrivere. Nietzsche fu l’autore e allo stesso tempo il protagonista della sua tragedia. Come se Edipo avesse scritto la sua favola invece di andare a insinuarsi nella coscienza impassibile di Sofocle.

Tale aspirazione violenta alla deificazione era stata in passato placata dalla filosofia e dalla religione cristiana, che avevano dato all’uomo la certezza di possedere un proprio ‘essere’, una propria natura che, eventualmente, poteva essere riscattata da Cristo. La coscienza, dice Zambrano, acquietata da questa certezza aveva smesso di ‘sognare’ se stessa, cosa che ha ripreso a fare solo nel Rinascimento con le aspirazioni proprie delle utopie. Zambrano si chiede però da quale esigenza nascano il delirio, il sogno, soprattutto il sogno di deificazione, «il più irrinunciabile di tutti412». L’origine del delirio, dell’aspirazione dell’uomo all’altro, risiede nella sua natura di mendicante, natura che lo distingue dagli altri animali. Così scrive Zambrano413:

L’uomo avverte la sua servitù e il suo bisogno; la sua doppia e unitaria condizione di essere vivente. E nel chiedere riunisce indigenza e sottomissione, dato che chiede perché è servo e ha bisogno; ma nel chiedere c’è già un conato di pretesa. L’uomo avverte la propria servitù in primo luogo chiedendo. Soltanto l’uomo è mendico e continuerà ad esserlo sempre; è una delle sue possibilità essenziali [...]. È già una prima forma di coscienza [...].

L’esigenza e la mancata soddisfazione di tale esigenza fanno nascere il pensiero: il pensiero rende la supplica più consapevole, ma non la appaga.

Infatti la mendicità deriva dal fatto che l’uomo sente dentro di sé il non essere, giacché la sua vita elementare è avidità, conato. [...] La povertà, l’indigenza umana è stata avvertita dall’uomo. Ma non riconosciuta, poiché la condizione umana sembra agire dapprima attraverso il suo

411 ZAMBRANO 2001, p. 138. 412 ZAMBRANO 2001, p. 140. 413 Z AMBRANO 2001, pp. 140-1.

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contrario, talché non scopre il suo sentire bensì fa qualcosa per cercarne la compensazione. Così, quel sentire originario è stato e sarà sempre, prima di tutto, fonte di azione414.

L’uomo tenta quindi da un lato di rivestirsi, di coprirsi, e dall’altro di ascendere, di diventare cioè Re. A questo punto è particolarmente interessante il fatto che Zambrano prenda come esempio di tale condizione proprio l’Edipo Re di Sofocle, del quale scrive:

Si tratta del primo superuomo, di colui che ingenuamente vuole incoronarsi. Edipo sapeva ogni cosa, tranne chi fosse. La tragedia ce lo mostra mentre chiede chi sia, cioè, di chi sia figlio. La tragedia sorge dal riconoscimento. Riconoscimento che è abbattimento. Era un uomo errante dotato di chiaroveggenza e di autorità naturale; essere re significava semplicemente occupare il posto a cui era destinato. Il suo impeto era simile a quello dell’edera, come lui figlia di Dioniso, che cresce verso l’alto sfuggendo alla sua condizione strisciante, alla sua debolezza essenziale. È stato segnalato il paradosso dell’errore, dell’ignoranza di Edipo, il quale conobbe ogni cosa ma non sospettò ciò che per lui era più importante: il suo destino. Ma questo errore inspiegabile deve avere una spiegazione in quell’impulso che lo accecò, privandolo non solo della conoscenza divinatoria, ma della semplice capacità di sospetto.

L’interesse aveva spinto Edipo a non accorgersi che quella era la madre, pur di arrivare all’agognata posizione, in cui non solo l’ex mendicante non deve chiedere niente, ma in cui appare come «colui che autorizza e concede». Zambrano spiega che Edipo e il re-mendico in generale sono l’immagine del primo superuomo.

È la prima fase della crescita umana. In cui dal mendico iniziale, e senza cessare di essere tale, appaiono, come sviluppo del suo essere ingenuamente divino, quelle istanze in cui l’uomo è re, è creatore, ed è, lui stesso, principio che genera. Ma questa fase, «naturale e spontanea», resterà sempre come sostrato ultimo; qualcosa che fa le veci della sostanza nell’essere umano e va sotto il nome di viscere. Ed essendo viscere sono alquanto nascoste, e quanto più sono nascoste, tanto più sono infernali. Poiché l’inferno, quello umano, non è altro che l’inferno delle viscere condannate a non vivere. E non cesseranno mai del tutto di vivere. Saranno quello che è ogni vita seminascosta: ispirazione. Ispirazione anche nei progetti che sembrano i più lontani da esse, i progetti più grandiosi dell’essere umano, come lo stesso superuomo415

.

Dopo una fase storica (da Cartesio all’idealismo) in cui fu messa al centro della riflessione la coscienza e in cui la mendicità e la conseguente aspirazione alla deificazione erano state messe da parte, fase che Zambrano identifica come la ‘fase umana’, con il pensiero di Nietzsche si tornò al recupero di quel divino che la filosofia aveva relegato nell’oscurità. Zambrano interpreta la

414

ZAMBRANO 2001, p. 142.

415 Z

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ribellione di Nietzsche non tanto come rivolta contro il cristianesimo, ma piuttosto contro la filosofia e soltanto di conseguenza contro la religione del crocifisso416. Come scrive Zambrano, Nietzsche «arretrò fino al punto esatto dove sorge la tragedia in cui l’uomo, il mendico-re, cade avvolto nella propria ignoranza, sconfitto dagli dèi. Replicando anche agli stessi dèi greci. Poiché il superuomo è il dio nato dalle umane viscere. Per questo la solitudine dell’uomo di Nietzsche non è la solitudine della coscienza, ma quella dell’uomo nel suo inferno intimo che invoca un dio inesistente - il vuoto di Dio - e volendo smettere definitivamente di essere il mendicante, nella sua solitudine genera un dio417». Anche l’idealismo aveva generato una sorta di super-uomo, astraendo l’immagine dell’uomo e divinizzandola: Nietzsche compie invece il percorso inverso, inabissandosi nelle viscere, sradicando quanto era stato costruito fino a quel momento. A questo punto Zambrano fa aperto riferimento a La nascita della tragedia (menzionando il re-mendico «accecato dalla luce di Apollo» e Socrate) e al ruolo di Dioniso: la battaglia di Nietzsche viene letta nei termini della contrapposizione tra la ‘filosofia’ e la ‘pietà’, tra i due modi fondamentali, cioè, di relazionarsi con la realtà418:

Si trattava della vecchia controversia avvenuta tra la filosofia e la pietà, nella quale era in gioco non solo la relazione con gli dèi dell’Olimpo greco, ma qualcosa di più terribile: lo sradicamento dell’uomo dal sacro. E il sacro fu sentito da Nietzsche come il caos primitivo. Ritornò fino al caos in cerca di un altare dove offrire il suo sacrificio; sacerdote dissidente di ogni religione più o meno umanizzata e nemico sospettoso di quella più umana del Dio-Uomo. Scoprì Dioniso, dio primario della vita, la stessa vita nascente che si dispiega nella metamorfosi. Poiché la metamorfosi è il primo passo dal caos all’ordine. Occorreva arretrare fino al caos, fino alla vita senza forma, per correggere il destino dell’uomo, perché l’uomo non fosse quell’essere diverso: dotato di stabilità, di coscienza, inchiodato tra il bene e il male. Fondere l’umana creatura del caos primario della vita nell’ardore di Dioniso, perché fosse qualcosa che includesse tutto: tutto ciò che in seguito fu chiamato «bene» e «male» in virtù di un’«idea».

L’errore di Edipo era stato la sua risposta alla sfinge, ‘l’uomo’, la soluzione dell’enigma, interpretata come tentativo di costringere l’uomo al suo essere ‘umano’. Al contrario419

:

Dioniso, dio della vita, la vita stessa non sottomessa a forma, passando di forma in forma, avrebbe liberato la creatura chiamata uomo dal destino «umano» che si era scelto, errore fatale. Nietzsche avrebbe potuto scrivere un racconto, in accordo con la Genesi, sulla perdita dell’innocenza originaria per aver mangiato il frutto proibito, ma nel senso opposto. Poiché quel 416 Z AMBRANO 2001, p. 150. 417 ZAMBRANO 2001, pp. 150-1. 418 ZAMBRANO 2001, p. 153. 419 Z AMBRANO 2001, pp. 153-4.

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«sarete come dèi» fu l’inganno del serpente - avrebbe detto Nietzsche - in quanto il destino di essere dèi si sarebbe compiuto qualora non fosse mai stato assaggiato quel frutto della cenere che converte la vita in spettro.

Relazionarsi col divino a questo punto significa tornare al cuore della fiera420:

Mediante l’accettazione infinita della sofferenza, e del rischio che è l’ascesa dell’essere