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3.3 I dialoghi con la Nutrice e l’Arpia.

3.3.2 L’incontro con la madre

Nelle tragedie di Sofocle Antigone e la madre non si incontrano mai: Giocasta infatti muore prima dell’entrata in scena delle figlie bambine nell’Edipo Re. Nell’Edipo a Colono, poi, Antigone fa un’allusione a Giocasta solo in quanto madre di Edipo (v. 1196); anche Edipo la rievoca con fatica. In un certo senso, quindi, María Zambrano ha avuto ampia autonomia nella ricostruzione del rapporto tra madre e figlia. Anche in questo caso si tratta di un monologo, in cui Antigone riflette sul tema della maternità e, in senso lato, della generazione della vita. L’essere madre, anche madre incestuosa, si giustifica per il semplice fatto di aver dato spazio alla vita. Nel dramma Giocasta, una volta compresa la verità, scompare e si suicida: non si rivolge ai figli, e non affronta la scoperta con

266

TOMMASI 2013, p. 116. Così anche PREZZO 1999, p. 28: «È invece Anna [e non Giocasta] a rappresentare la vera figura materna, la cui presenza non incombe come una divinità arcaica, una divinità minacciosa sulle sue creature, ma che le affianca nel cammino».

267

Zambrano esplicita la natura “precristiana” della vicenda e del sentimento religioso di Antigone nello scritto La

religione poetica di Unamuno, pp. 67-68: «Sotto la luce degli dei olimpici o all’ombra del dio sconosciuto che può non

esistere, o non esistere ancora, Edipo si strappò gli occhi vedendosi ingannato e Antigone entrò viva nel sepolcro ‘per aver servito la Pietà’. Antigone, più vicina al destarsi cristiano, avrebbe potuto, se fosse rimasta tra i vivi, raggiungere quel momento di pienezza del tragico, che Unamuno esprime in forma pura nel sonetto ‘La Oraciòn del Ateo’ (Rosario): Odi il mio prego, Dio che non esisti, - e nel tuo nulla raccogli i miei gemiti...Che grande che sei mio Dio! Sei

così grande - che sei soltando Idea...Soffro a tue spese, - Dio inesistente, ché se tu esistessi - esisterei veramente anch’io. Ma in verità questo Antigone non l’avrebbe potuto dire, poiché nella sua religione, nella pietà greca, mancava

la nozione del Dio esistente, e a lei in particolare la solitudine che nasce dalla volontà d’essere. È un lamento precristiano, ma già dentro il Cristianesimo: un lamento che solo la presenza, la conoscenza di Cristo può liberare».

268 Cfr. G

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Edipo: invece invoca Laio, e si dispera per aver generato un figlio che avrebbe ucciso il padre e da cui sarebbe nata una stirpe tanto sfortunata. Questo è infatti il racconto del messaggero (S. O.T. 1241-1250): ὅπως γὰρ ὀργῇ χρωμένη παρῆλθ’ ἔσω θυρῶνος, ἵετ’ εὐθὺ πρὸς τὰ νυμφικὰ λέχη, κόμην σπῶσ’ ἀμφιδεξίοις ἀκμαῖς· πύλας δ’, ὅπως εἰσῆλθ’, ἐπιρράξασ’ ἔσω, καλεῖ τὸν ἤδη Λάιον πάλαι νεκρόν, (1245) μνήμην παλαιῶν σπερμάτων ἔχουσ’, ὑφ’ ὧν θάνοι μὲν αὐτός, τὴν δὲ τίκτουσαν λίποι τοῖς οἷσιν αὐτοῦ δύστεκνον παιδουργίαν. γοᾶτο δ’ εὐνάς, ἔνθα δύστηνος διπλοῦς ἐξ ἀνδρὸς ἄνδρα καὶ τέκν’ ἐκ τέκνων τέκοι269 .

La scelta di impiccarsi rimane, secondo María Zambrano270, «non riscattata». Giocasta rifiuta senza mezzi termini la vita che ha dato, rifiuta quindi il suo essere madre, e proprio per questo, probabilmente, María Zambrano incentra l’intero monologo sulla natura e la giustificazione della maternità271. Ogni Madre è in realtà impura e solo tramite i figli, o, meglio, tramite l’immagine che il figlio ha della madre, lei si purifica. Come scrive Zambrano272:

Ma c’è forse qualche Madre del tutto pura, qualche donna del tutto pura che sia madre? Tu sai che non c’è. È il sogno del figlio, questa purezza della Madre. E il figlio, a forza di amare il suo oscuro mistero, la lava.

María Zambrano riprende quindi l’analogia tra il ventre della madre e le viscere della Terra. In entrambe è nascosto un segreto, la fonte della vita, e tuttavia in entrambe l’oscurità avvolge la purezza di questo segreto. Il tema della forza generatrice della Terra è ricorrente all’interno degli scritti di Zambrano, ma in particolare viene distesamente trattato in un capitolo de I Beati, intitolato “L’albero della vita. La serpe”. La vita viene paragonata, nel suo doppio movimento, alla serpe: essa si origina certamente dalla Terra, ma è spinta ad espandersi sulla sua superficie per occupare spazio, trovare un nuovo corpo: tuttavia una vita staccata dalle sue radici vive soltanto di una luce

269 «E quando, entrata nella camera, ebbe sprangato le porte, invocò Laio, ormai da tanto tempo scomparso, nel ricordo

degli antichi amplessi onde, da quel seme, sarebbe morto egli stesso, lasciando lei a generare per i suoi propri figli una miserabile figliolanza; e gemeva sul letto, dove infelice aveva generato dal marito un marito, a figli dal figlio, duplice prole»

270 Z

AMBRANO 1995, p. 44.

271

L’errore è menzionato esplicitamente (p. 95): «Se, una volta saputo tutto anche tu, ci avessi chiamati figli, figli miei, la viscida fune della morte non ti si sarebbe attorcigliata intorno al collo».

272 Z

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riflessa273. Una volta che si è espansa sulla superficie essa prova quindi il bisogno di compiere il percorso inverso, di tornare al cuore della terra. Scrive Zambrano274:

Ma la superficie, il piano, non le basta, alla vita già dotata di un corpo, per assimilato che questo sia alla pianura, alla desolazione della semplice superficie. Essa ritorna nella cavità della grotta iniziale protetta dalla luce e da qualsiasi elemento che non sia lei, torna alla terra, alla terra come tale, al viscere terrestre. In seguito, il corpo vivo otterrà di recare in sé queste viscere. [...] Viscere, ha la terra, in cui la luce è custodita scintillante, indelebile. La luce formata di acqua e di fuoco, di aria e di sale. Il sale della terra che assorbe e fissa la luce.

Tutto quello che viene generato, e, quindi, tutto quello che appare sulla superficie, porta su di sé il segno, la testimonianza, della natura materna della terra275:

La serpe, staccata dalla terra solo metaforicamente, afferma di provenire dalla Terra Madre, che la Terra è Madre. Da parte sua, la serpe vegetale e tutto ciò che è nato, per alto che vada e distinto che sia, senza rottura né separazione, afferma la condizione materna della terra, la ostenta e la corona, arrivano a glorificarla. Ballata dell’erba, canto di certi pergolati, inno degli accordati alberi.

D’altra parte la Terra sembra aver ‘sete’ e voler attirare a sé la vita da lei stessa generata; così Zambrano legge, per esempio, l’apparente morte della vita sulla superficie della terra nei mesi invernali276. Questa doppia tendenza (da un lato dare la vita, dall’altro riassorbirla restituendo ‘morte’ alla superficie) deriverebbe alla terra dalle sue origini cosmiche, dal mistero della nascita dell’universo277

:

[...] Come se il dare la vita fosse riservato alla terra, astro morto che alla fine ottiene di fabbricare vita grazie a un privilegio che è del pari un ‘sovrumano’ lavoro, opera di qualcosa di divino, scintilla di fuoco divino avido della luce perduta laggiù nel profondo. E che da lì a furia di sforzarsi l’ha scacciata un giorno torcendola su se stessa, curvandola, essa pure tendendo ad avvitarsi, a essere serpe, cercando di bere la luce, offrendole una cavità in cui custodirla, desiderando racchiudere luce dentro di sé per l’ansia di avere un dentro, delle viscere per la pioggia della luce primigenia [...]. Come un povero viscere della luce celeste, colore della povertà stessa, cenerentola degli astri, la terra beve la luce e si solleva e si rattorce, strisciando lungo l’orbita che alla fine le hanno dato senza che lei né lo sapesse né lo cercasse [...]. Creatura di passione, come corpo planetario è una condensata palpitazione del cosmo, che, se dovesse 273 ZAMBRANO 1992, pp. 15-20. 274 Z AMBRANO 1992, pp. 19-20. 275 ZAMBRANO 1992, p. 21. 276 ZAMBRANO 1992, pp. 21-22. 277 Z AMBRANO 1992, pp. 22-24.

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essere concepito in conformità con lei, dovrebbe essere un’immensa passione, un’ardente, plurinfuocata passione; fuoco sostenuto circondato dalle acque, dall’acqua primigenia, la creatura primigenia che non si separò, e dall’alito del fuoco, dal sibilo del fuoco preannuncio della parola. Tutto l’universo cadde infatti un giorno, separandosi, e la vita è la risposta che attesta l’origine, e che la riflette. [...] E la caduta iniziale si conserva come morte; la morte che conserva la vita, che va procurando materia, corpo, al soffio della vita che rinasce [...]. Un corpo che lei, la Madre, è tenuta a ritirare un giorno. Tra vita e morte media, intanto, il tempo.

La vita imprigionata e al contempo sprigionata dalle viscere della Terra è quindi uno dei misteri ultimi dell’esistenza dell’uomo e del cosmo: proprio questo mistero rappresenterà la soluzione della tragedia di Giocasta. Se infatti la sua personale maternità è stata una condanna e un fallimento, rifiutarla fu un errore: del resto anche a livello cosmico la maternità è legata a doppio filo alla morte e, pertanto, Giocasta poteva re-inserire la sua storia nell’ordine universale. Scrive infatti Zambrano278:

E lei [la madre], che della terra è e alla terra assomiglia, con terra si va purificando. E la Terra è nera e dentro di sé, nelle sue viscere, ha luce. Ha viscere di luce, la Terra. E allora, per nera che sia la macchia caduta su di lei, per caduta che sia lei stessa, nel momento in cui non può sprofondare più in basso, come te, che hai toccato il fondo della nerezza e della pesantezza, allora la Madre di vita, della nostra vita, si fende e si lascia vedere e dà, dà qualcosa alla luce. Non è come dicevo prima, la Madre non ha viscere di luce, anche se in qualche modo un giorno qualcuna dovrà averla279. Finora sono state tutte scure dentro anche loro, come te. Però danno qualcosa, qualcosa di vivo, alla luce. Danno vita alla luce. Ecco. E questo tu, madre nostra, lo hai fatto.

È quindi l’essere madre di Giocasta che la salva dall’orrore dei suoi amplessi con Edipo: se, accecata dalla furia, non lo capì in vita, è ora Antigone a restituirle questa dimensione. A metà tra il cuore della Terra e la sua superficie, è in una posizione privilegiata per vedere come il destino della madre sia compiere quel ritorno alle viscere che è lo scopo ultimo di tutte le forme di vita. Re-

278

ZAMBRANO 1995, pp. 91-2.

279 Probabile riferimento alla gravidanza della Vergine Maria, cfr. T

OMMASI 2013, p. 116: «C’è qui un’allusione alla Vergine Maria, la quale concepirà il Logos-luce. Zambrano sottolinea, in questo modo, la continuità fra le dee madri della mitologia precristiana e la figura cristiana della Vergine Maria: il volto del Dio sconosciuto che ad Antigone si rivela è quello della Grande Madre mediterranea, che, nella sua lettura, getta un ponte fra il mondo pagano e quello cristiano».

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inserendosi nel ciclo naturale, nel soffio di vita e di morte del pianeta, Giocasta potrà dimenticare la sua storia personale e trovare così finalmente pace280:

Va’ pure tranquilla, ora. Sprofonda nella terra, visto che te l’hanno data, va’ incontro alle Madri che ti aspettano, che ti accoglieranno, che laveranno la tua macchia e la tua disgrazia nell’immensità del loro Manto. Loro, le Madri, ti riceveranno. E Lei, la Madre-forza, la Madre degli Dei, ti aprirà il suo firmamento, quel suo abisso. E il mare e gli Inferni della maternità non avranno segreti per te, perché in essi tu troverai finalmente svelato il tuo segreto, la ragione senza nome della Vita.

La vicenda di Giocasta trova quindi una soluzione positiva grazie al suo inserimento in un tema ricorrente negli scritti zambraniani. La comparsa di Giocasta ha però una funzione anche nel percorso di Antigone all’interno de La Tumba: si è detto come Antigone, nel kommos, lamentasse le mancate nozze, che la rendevano incompleta e le impedivano di ‘morire’ del tutto. La sua verginità era un ostacolo al compimento della sua esistenza. Si è detto anche che Zambrano interpreta invece la verginità come l’innocenza indispensabile per svolgere il ruolo di vittima sacrificale. Tuttavia per arrivare al cuore della natura umana e del mistero dell’origine vita, Antigone deve, in qualche modo, essere partecipe della generazione. Come dunque Giocasta si è reintegrata nel ciclo naturale riconoscendo la propria qualità di figlia grazie alla saggezza di Antigone, così Antigone ‘vive’, tramite la madre, l’esperienza della maternità281

:

L’ombra di mia Madre è entrata dentro di me e io, vergine, ho provato il peso di essere madre. Mi toccherà andare di ombra in ombra, tutte percorrendole fino giungere a te, Luce intera. E ora, ora non so quello che mi attende. Purificata dall’ombra di mia Madre, attraversata dentro di me, rimango ancora qui.

Come commenta Francesca Brezzi282: «Il riconoscimento reciproco, in questo caso, avviene mediante l’umanizzazione della Madre nella figlia: se non c’è madre del tutto pura dice Antigone, né donna del tutto pura che sia madre, e la purezza è solo un sogno di figlio, Giocasta deve tornare bambina, prima della colpa, deve tornare a sentirsi figlia, creatura, e solo dopo assumere il ruolo di madre, cioè la figura che come la terra dà alla luce, dà vita alla luce. Solo così Antigone la potrà amare e a sua volta con grande pregnanza riconoscere in sé la forza liberante dell’essere madre».

280 Z

AMBRANO 1995, p. 92. La reintegrazione nel ciclo della terra è simboleggiato dal riconoscersi di Giocasta come figlia (p. 92): «Va’, Madre, nel tuo Regno, creatura, figlia anche tu. Ora che, sapendo tutto, ti ho chiamato non solo Madre ma anche figlia».

281

ZAMBRANO 1995, p. 93.

282 B

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3.3.3 L’Arpia

Zambrano introduce a questo punto il secondo personaggio estraneo alle tragedie, ma proveniente comunque dalla tradizione classica, cioè l’arpia. Il dialogo è teso e sostanzialmente ostile: negando l’interpretazione che l’arpia dà della sua vita, Antigone chiarisce ulteriormente quale sia lo scopo della sua esistenza. Prima di scendere nel dettaglio a proposito della portata filosofica del dialogo, è opportuno riflettere sulla presenza di questa creatura mitologica ne La Tumba. Nei poemi omerici le Arpie rappresentano le tempeste che rapiscono i mortali: in particolare il verso formulare νῦν δέ μιν ἀκλειῶς Ἅρπυιαι ἀνηρέψαντο283

di Od. I 241 e XIV 371 descrive la scomparsa inspiegabile di Odisseo. Per spiegare l’associazione con Antigone potrebbe essere utile l’episodio (senza altre attestazioni) raccontato da Penelope in Od. XX 66-78: le figlie di Pandareo, dopo la morte dei genitori, vennero accudite dagli dèi: Afrodite si apprestava quindi a chiedere per le fanciulle delle ‘nozze felici’, ma (vv. 77-8): τόφρα δὲ τὰς κούρας Ἅρπυιαι ἀνηρέψαντο καί ῥ’ ἔδοσαν στυγερῇσιν Ἐρινύσιν ἀμφιπολεύειν284

. Le figlie di Pandareo quindi continuano la loro esistenza come serve delle Eumenidi, private però delle nozze. Questo spiegherebbe il continuo riferimento dell’Arpia alle fanciulle che stanno per sposarsi285, e l’associazione con la vicenda di Antigone, dal momento che si tratta di creature ‘traghettatrici’ verso il mondo dei morti. L’episodio più celebre cui sono associate (quello della punizione di Fineo) non pare avere legami con questa rielaborazione. Infine, per spiegare la presenza dell’arpia nella tomba, può essere utile menzione il XIII canto dell’Inferno286

in cui le arpie si trovano nascoste tra i rami della selva dei suicidi ed emettono lamenti (vv. 10-15: «Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar de le Strofade i troiani / con tristo annunzio di futuro danno. / Ali hanno late, e colli e visi umani, / piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre; / fanno lamenti in su li alberi strani»287). L’idea di porre quindi un’arpia che ‘tormenta’ Antigone nella tomba potrebbe aver risentito di quest’eco: oltretutto il mostro insiste molto sulla volontarietà della decisione di Antigone e sul conseguente suicidio di Emone (è l’Arpia ad

283

«Adesso le arpie se lo sono preso senza gloria», trad. G. Paduano, Torino 2010.

284

«Allora le Arpie le portarono via e le diedero / in consegna alle Erinni odiose perché ne fossero serve».

285 Si veda per esempio Z

AMBRANO 1995, pp. 94-95: «Ma le ragazze non vogliono vedermi. Per questo mi avvicino tanto, attaccandomi alle loro orecchie o parlando loro da un angolo trascurato della loro anima [...]»; p. 95: «Non sono così cattiva, io, mi accosto alle ragazze quando è ancora tempo, quando sono in fiore, perché mi odano e, ancor di più, perché mi sentano e mi comprendano. Mi accosto per prevenirle»; p. 97: «Guarda che io so tutto, vi conosco a voi ragazze. So che vi fa paura il matrimonio, paura l’uomo, così, senza niente nel mezzo. Sì, non c’è bisogno che tu me lo ricordi: ti ho udito, quando ti lamentavi. A me però non mi inganni, né tu né nessun’altra».

286

María Zambrano era un’attenta lettrice di Dante e della Divina Commedia, come testimoniano i suoi scritti in proposito, editi in italiano in Dante specchio umano, a c. di Elena Laurenzi, Troina 2007.

90

informare Antigone della sorte del promesso sposo), un possibile richiamo alla collocazione dantesca288.

In ogni caso l’arpia svolge un ruolo molto importante sul piano filosofico nell’economia de La Tumba: cerca, in un certo senso, di ridurre tutta l’esperienza di Antigone alla dimensione umana. È infatti la storia apocrifa che soffoca lo slancio verso il cielo dei mediatori. Zambrano utilizza quindi questa polemica per sottolineare come intenda inserire la riscrittura di Antigone nell’ottica trascendente che caratterizza il proprio pensiero. In primo luogo l’arpia sostiene che la sorte di Antigone non sia stata una sorte subíta (come è invece quella delle fanciulle sacrificali). Leggiamo infatti289:

ARPIA: Be’, questo [se Antigone sia nella vita o nella morte] è che nessuno lo sa. Sei stata tu a venirtene qui, sei stata tu a inventarti questa storia, questa condanna...

ANTIGONE: Come ti sbagli, vecchia arpia. Io non ho mai inventato niente. Tutto mi è stato dato, mi è stato dato sin dal principio. Non sono venuta qui, né sono andata di terra in terra vagando per i sentieri, inventando storie. Sono andata con mio Padre: con lui, per lui. Per lui e per i suoi figli, miei fratelli. Odimi bene: sin dal principio.

ARPIA: E se sei così sicura di questo principio, come tu lo chiami - perché ce l’hai, tu, il tuo linguaggio - se non sei stata tu a venire qui, non hai fatto nulla però per non esservi portata, con tutto che ti sarebbe stato così facile: una tua parola, una sola, al tuo Giudice, ed era fatta. O avresti potuto ammutolire e metterti a piangere, come fanno sempre le donne. È quello che lui desiderava, perché alla fine sei sua nipote, e la fidanzata di suo figlio, e una ragazza, sai? E gli uomini sono sempre uomini.

Antigone rivendica di aver avuto consapevolezza di ciò che le accadeva, e, d’altra parte, ammette la sua passività nel subire la sorte. Tutto ciò perché la sua esistenza obbedisce a una legge che non è quella degli uomini290:

ANTIGONE: L’ho già detto: [l’ho fatto] perché c’è un’altra Legge, la Legge che è al di sopra degli uomini e di quella fanciulla che piange, che io, quando ho pianto, sono stata.

288

Cfr. p. 96 «E sei così sicura di questo principio [...], se non sei stata tu a venire qui, non hai mai fatto nulla però per non esservi portata, con tutto che ti sarebbe stato così facile: una tua parola, una sola, al tuo Giudice, ed era fatta. O avresti potuto ammutolire e metterti a piangere, come fanno sempre le donne»; p. 97: «Se tu avessi voluto nozze, le tue, le nozze, non avresti fatto quello che hai fatto, liberandoti così di quella storia»; p. 98: « Ah, non lo sai. Egli [Emone] ti è venuto dietro, ti ha seguito fin proprio alla porta: non ce lo hanno lasciato passare, e se lo sono portato via morto. È stato lui stesso a darsi la morte, per fartisi incontro in essa. [...] Perché non è stata la vita ciò che tu hai dato per la verità e la giustizia, è stato il tuo amore. E il suo, quello di un uomo, di questo ragazzo, così pallido perché tu ne avevi fatto la tua ombra e che come un’ombra ti seguiva senza trovarti mai: tu stavi sempre da un’altra parte. E ora egli ti cerca tra i morti e tu sei ancora qui, viva».

289

ZAMBRANO 1995, pp. 95-96.

290 Z

91

Il riferimento al lamento del kommos è molto interessante perché Zambrano esplicita l’importanza che ad esso si deve attribuire: non semplice pianto di fanciulla sul punto di morire, ma inizio della vera nascita291:

ARPIA: Hai pianto tardi, avresti dovuto farlo prima.

ANTIGONE: No, tu vedi tutto rovesciato; distorci tutto, tu. Ho pianto quando mi sono ricordata di me, quando mi sono vista, quando mi sono sentita.