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Da Sofocle a Zambrano: la presa di coscienza di Antigone

L’opera di María Zambrano si apre con un monologo in cui l’eroina descrive la sua discesa nella tomba. Il suo procedere e l’avanzare del tempo sono simbolicamente rappresentati dal progressivo spegnersi dalla luce del Sole, resa inizialmente visibile da un raggio che filtra attraverso l’ingresso della tomba124. Già dalla presenza della luce, e quindi della vita e di un contatto con il mondo esterno, si nota un’importante differenza tra il valore della tomba per Sofocle e per María Zambrano: in Sofocle infatti Antigone comincia il suo lamento proprio menzionando il fatto che si appresta a vedere per l’ultima volta la luce del Sole. Ai vv. 806-810 leggiamo infatti: ὁρᾶτέ μ’, ὦ γᾶς πατρίας πολῖται / τὰν νεάταν ὁδὸν/ στείχουσαν, νέατον δὲ φέγ-/γος λεύσσουσαν ἀελίου,/

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Marìa Zambrano intitola “Antigone” due diversi capitoli, quello delle pp. 69-70 e 117-123. Per comodità saranno chiamati “Antigone 1” e “Antigone 2”

124 L’avanzare fisico del personaggio è segnalato da diverse frasi (pp. 69-70): «Eccomi qui, dei, sono qui, fratello. Non

mi aspettavi? Devo scendere ancora più in basso? Sì per incontrarti devo continuare a scendere. Qui siamo ancora sopra la terra [...]. Adesso però che riapro gli occhi che avevo chiuso per invocarti, Aurora, tu non ci sei più; e tu nemmeno, serpe del Sole calante [...]. Adesso sì, nella tenebra e senza più ombra, almeno. È in alto, però, sopra la terra, e non dentro di essa, che io mi trovo».

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κοὔποτ’ αὖθις125

. La fine della visione della luce significa quindi la fine del contatto con la comunità dei vivi, e del resto nella lingua greca «vedere la luce» è l’espressione antonomastica per «vivere» (cfr. O.T. 375, Eur. Alc. 691, Su. 78126). Il fatto che invece María Zambrano evidenzi come il sole continui a filtrare significa che il contatto non è stato del tutto interrotto, il che permetterà a quelli che, non ancora morti, vorranno farle visita, di insinuarsi nella tomba. La valenza della tomba, quindi, non è più quella di escludere del tutto Antigone da entrambe le comunità (sia quella dei vivi che quella dei morti), ma di rappresentare un luogo intermedio in cui è possibile l’incontro (come si vedrà a proposito del capitolo “La notte”). Antigone, come già nella parte finale dell’episodio della tragedia, si avvia risolutamente nel mondo dei morti, un luogo caratterizzato dalla tenebra, dall'assenza del Sole. Qui però lei distingue il «Sole della Terra», che sembra perseguitarla accompagnandone il cammino con un raggio che non la vuole abbandonare, dal «Sole dei morti127», evidentemente una forma diversa di luce e di vita, su cui s’interroga. Nel constatare la difficoltà di un distacco repentino e definitivo dai vivi, comprende la natura della sua condanna: «Perché ora conosco la mia condanna: “Tu, Antigone, sepolta viva, non morirai, ma andrai avanti così, né nella vita né nella morte, né nella vita né nella morte...”»128

. Viene fatto quindi esplicito riferimento ai versi in cui Creonte descrive la condanna di Antigone (S. Ant. 773-780: ἄγων ἐρῆμος ἔνθ’ ἂν ᾖ βροτῶν στίβος/ κρύψω πετρώδει ζῶσαν ἐν κατώρυχι,/ φορβῆς τοσοῦτον ὅσον ἄγος φεύγειν προθείς,/ὅπως μίασμα πᾶσ’ ὑπεκφύγῃ πόλις./κἀκεῖ τὸν Ἅιδην, ὃν μόνον σέβει θεῶν,/αἰτουμένη που τεύξεται τὸ μὴ θανεῖν,/ ἢ γνώσεται γοῦν ἀλλὰ τηνικαῦθ’ ὅτι/ πόνος περισσός ἐστι τἀν Ἅιδου σέβειν129

) e in cui Antigone immagina la situazione che la aspetta (sono ripresi quasi verbatim i vv. 848-852 del kommos). Antigone, come in Sofocle, rileva la sua condizione di solitudine, poiché non riesce a comunicare né con il fratello né con gli dei, invocati all’inizio del monologo. Come l’eroina greca desidera ardentemente la morte:

Non esiste, un Sole dei morti? Devi perseguitarmi tu fino a qui, Sole della Terra, devo saperlo da te se è notte, se è giorno; [...] E finché vedrò te, luce del Sole, continuerò a vedere anche me e saprò che io, Antigone, mi trovo ancora qui, come mi trovo, e mi ci trovo ancora sola, sì, sola nel silenzio, nella tenebra, ancora perseguitata da questo Sole dei vivi che non si decide a

125 «Guardatemi, cittadini della mia terra patria,/ all’ultimo cammino/ muovere, e vedere/ l’ultima luce del sole, / e non

più altra volta».

126Nell’ultima battuta del kommos, poi, Antigone ribadisce (vv. 879-80): «οὐκέτι μοι τόδε λαμπάδος ἱερὸν ὄμμα θέμις ὁρᾶν ταλαίνᾳ». Traduzione: « non più mi sarà concesso, infelice, di vedere il sacro occhio di questa luce».

127 Z

AMBRANO 1995, p. 69.

128

ZAMBRANO 1995, p. 70.

129

«La condurrò in un luogo deserto di orma mortale, e la nasconderò viva in un antro di pietra, ponendole vicino quanto cibo basti ad evitare il sacrilegio, perché non sia contaminata tutta la città. E là invocando Ade, che uno venera tra gli dèi, otterrà forse di non morire; o allora finalmente comprenderà che è vana fatica venerare Ade».

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lasciarmi. Sola e perseguitata da te, luce dei vivi, luce dei miei stessi occhi che non altri che te e me staranno vedendo.

Lo stato d’animo è quindi identico a quello descritto da Sofocle nel momento in cui l’eroina lascia la scena. Tuttavia già in questo primo capitolo Zambrano inserisce un primo elemento di lettura personale del ‘sentire’ dell’eroina. Il monologo è infatti incentrato sul tema del contrasto tra la luce aurorale e la luce piena del Sole. Antigone descrive la sua spasmodica attesa, finché era sulla terra, di una rivelazione da parte della luce dell’Aurora; di una rivelazione, cioè, che le indicasse la sua natura più profonda. Scrive infatti Zambrano:

E cos’è che mi dici, tu, luce del Sole? Sì, ora lo so, a ogni spuntar del giorno mi facevo incontro a te, luce pura del mattino, che diventavi rosa, rossa, a volte: eri l’Aurora. Io aspettavo da te la parola e tu mi davi soltanto il Sole, giorno dopo giorno, il Sole. [...] E ora, vieni a dirmi qualcosa, luce del Sole? Potessi io finalmente udirti, potessi tu dirmi quella parola, una sola, che arrivasse dritta fino in fondo al mio cuore, là dove, ora lo so, nessuna parola è mai giunta, né quella del mio giudice, né quella di mia sorella, né quella dell’amore; dove nessuna parola è entrata, né pianto, né gemito; dove non sono arrivati nemmeno i lamenti del fratello implorante la sepoltura, né alcuna voce di creatura vivente[...]130.

La filosofa introduce qui un punto nodale del suo pensiero. La metafora della luce aurorale e della luce del Sole è infatti ricorrente nelle sue opere per esemplificare uno dei temi fondamentali della sua riflessione, ossia il contrasto tra il pensiero maschile e quello femminile. Il Sole rappresenta infatti la ragione maschile, il pensiero sistematico che «si impone come divinità assoluta prendendo possesso delle cose, appiattendole e condannandole con la sua luce pesante131». Tale pensiero è connaturato all’essere maschile perché rappresenta «la risposta maschile all’inquietante esperienza della nascita, la rimozione della dipendenza dal corpo femminile e l’invenzione di un mondo ‘vero’ contrapposto a quello reale, su cui l’uomo può esercitare un controllo assoluto»132

. Al contrario la luce aurorale è una luce che si insinua tra le cose, le avvolge, e, senza imporsi, rende visibile il reale133. Il modo di conoscenza della realtà che questa luce simboleggia è la ‘ragione poetica’ di cui si è già parlato, un sapere cioè tipicamente femminile: «María individua nelle donne un vincolo più stretto con le ‘fonti della vita’, un attaccamento al proprio sentire profondo, una difesa dell’anima e

130 Z AMBRANO 1995, pp. 69-70 131 LAURENZI 1997, p. 34. 132 LAURENZI 1997, p. 27. 133 Così la descrive L

AURENZI 1997, p. 34: «L’immagine dell’aurora che ricorre spesso nelle sue pagine racchiude l’idea di una luce nascente, leggera, che sfuma i contorni delle cose, invitando alla metamorfosi, alla danza che trasforma, all’apparizione del nuovo. L’aurora è una promessa di luce che emerge dalle tenebre che l’hanno generata e con cui mantiene un intimo legame. È luce che illumina il sentire originale in cui convergono corpo e spirito, passione e ragione».

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un rifiuto dell’animus dello spirito intraprendente e creatore, che le ha tenute appartate dalla ‘aventura varonil’134». Il sapere poetico è infatti un sapere ‘vivo’, che tiene conto «dell’essere

umano nella sua interezza, esplorando ‘il logos che scorre nelle viscere’»135

. Come si è visto, poi, la caratteristica di Antigone che affascina María Zambrano è la sua capacità di mediare: trovandosi in una situazione di interregno e essendo dotata della capacità di amare, essa è capace di mettere in contatto i membri della sua famiglia, i diversi attori della sua vicenda. Nella metafora dell’Aurora è incluso anche questo aspetto della personalità di Antigone. Infatti nel suo saggio Dell’Aurora María Zambrano scrive136:

Per prima giunge l’alba: appena un chiarore silenzioso che cancella le tenebre più che disfarle. L’ora della libertà, l’interregno dove tutto è possibile, dove tutto è amore che obbedisce senza fatica, il regno interposto tra i due regni della luce e dell’oscurità. Il regno che non è regno, perché non ha altro imperativo che quello dell’amore inconsapevole, l’amore beato, ancor privo di ombra.

Antigone, quindi, secondo María Zambrano era una creatura aurorale, una di quelle donne che aspirano a questo tipo di conoscenza e che svolgono il particolare ruolo di mediatrici. Questa era la sensazione che la filosofa andalusa ricavava dalla lettura della tragedia sofoclea, in cui esiste in effetti un ‘contrasto’ tra la conoscenza universale di Creonte e quella ‘intuitiva’ di Antigone. Tale percezione la spinse a inserire (come si è già visto a proposito del ‘prologo’) la figura dell’eroina all’interno della sua teorizzazione sulla necessità di un nuovo sapere. La filosofa traduce quindi, in questo monologo, un discorso teorico di poetica in un’immagine potente e evocativa. In questa fase la distanza dalla presentazione sofoclea di Antigone non è molto accentuata: Antigone si sente ancora irrimediabilmente attratta dal mondo senza luce dei morti e, svanita la possibilità di ‘ricevere la parola nata nell’Aurora’, vorrebbe arrivare al cuore «dell’eterna madre terra», dove potrebbe bere «dell’acqua, dalla radice oscura dell’acqua»137

. Lo stretto legame di Antigone con il mondo dell’aldilà, con le divinità ctonie, emergeva in maniera evidente già nell’Antigone: l’eroina le invoca nella sua argomentazione contro Creonte (vv. 450-2 οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε, /

134

LAURENZI 1997, p. 30. Un’ultile definizione della razòn poetica in relazione alla figura di Antigone è data anche da BIGNOTTI 2013, p. 71: «una ragione materna, accogliente, una ragione adeguata alla profondità dell’anima e che custodisce l’ambiguità della vita e della morte. Una ragione della discesa agli inferi, che qui chiamiamo ragione

antigoniana: ragione poetica vuol dire soprattutto tragica, carica delle contraddizioni, e della mescolanza (non fusione)

fra gli opposti in cui consiste la nostra vita. Una ragione che ci conduce a decriptare il livello sotterraneo e infernale di Antigone come metafora dell’anima umana, e in cui si concentra la densità teoretica del suo pensiero. È una ragione custode di quel fondo infernale che risiede nelle entrañas, nelle sue viscere».

135 LAURENZI 1997, p. 19. 136 ZAMBRANO 2000, p. 64. 137 Z AMBRANO 1995, p. 70.

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οὐδ’ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη/ τοιούσδ’ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισεν νόμους138

), e nel momento di scendere nell’Ade (vv. 937-938 ὦ γῆς Θήβης ἄστυ πατρῷον/ καὶ θεοὶ προγενεῖς139

); in generale, poi, fa sempre riferimento agli abitanti del mondo ‘di sotto’ quando deve valutare le sue scelte (vv.74-76: ἐπεὶ πλείων χρόνος/ ὃν δεῖ μ’ ἀρέσκειν τοῖς κάτω τῶν ἐνθάδε./ἐκεῖ γὰρ αἰεὶ κείσομαι[...]; v. 519: ὅμως ὅ γ’ Ἅιδης τοὺς νόμους ἳσους ποθεῖ; v. 521 τίς οἶδεν εἰ κάτω ’στιν εὐαγῆ τάδε; vv. 542-3 ὧν τοὔργον Ἅιδης χοἰ κάτω ξυνίστορες·/ λόγοις δ’ ἐγὼ φιλοῦσαν οὐ στέργω φίλην; 559-560 θάρσει. σὺ μὲν ζῇς, ἡ δ’ ἐμὴ ψυχὴ πάλαι/ τέθνηκεν, ὥστε τοῖς θανοῦσιν ὠφελεῖν140

). Il suo legame con il mondo ctonio è dunque molto forte, e lei, naturalmente, aspira a tornarvi. A proposito della religione di Antigone, MacKay scrive141:

Antigone is not interested in heaven. As Creon unkindly but not unfairly remarks, it is the law of Hades that she feels bound to fulfil (777). She professes no allegiance to Zeus or any other Olympian; she mentions Zeus only twice: once as a persecutor of her family (2-6), and once to say she is not defying his decree in defying Creon’s (450). Justice she proceeds to identify as housemate of the gods below, and to Hades and those below she repeatedly and expressly professes allegiance. What troubles her is not so much that the decree of Creon does violence to family tradition. The gods whose approval she primarily seeks are the di manes; not the Olympians, but the spirits of her ancestors.

Anche in questo caso, però, María Zambrano rilegge una caratteristica sofoclea e la utilizza come simbolo di un tema più ampio della propria filosofia. In primo luogo l’oscurità delle viscere della terra richiama l’immagine delle viscere dell’essere umano (cioè il ‘sentire’), quindi la fedeltà all’oscurità sotterranea è, ancora una volta, la fedeltà a un nuovo tipo di conoscenza, che non sacrifichi alla luce della ragione gli aspetti meno evidenti della realtà. Tuttavia María Zambrano vede nel sentire religioso greco un importante filone che lega la vicinanza al mondo ctonio alla capacità generatrice: la discesa di una vergine nel cuore della Terra è l’atto fecondatore per eccellenza. Solo la purezza che attraversa gli inferi è in grado di dare origine alla vita.142 Allo stesso

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«Ma per me non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini».

139 «O terra di Tebe, città dei miei padri,/ e divinità progenitrici,/ sono condotta via, senza più indugi!» 140

Vv. 74-6: «A quelli di sotterra infatti io devo compiacere per più tempo che a quelli di qui: poiché là giacerò per sempre». V. 519: «Tuttavia l’Ade questi riti brama». V. 521: «Chi sa se sotterra è questa la pietà?». Vv. 542-3: «Di chi fu l’opera, lo sanno Ade e i morti laggiù; non ho caro chi ama solo a parole». Vv. 559-60: «Fatti coraggio: tu sei viva, ma la vita mia già da tempo è morta, così da giovare ai morti».

141

MACKAY 1962, p. 167.

142

María Zambrano affronta distesamente l’argomento a proposito di Persefone, cui Antigone viene esplicitamente accostata, nel capitolo “Eleusi” del saggio L’uomo e il divino. La capacità generatrice della terra viene vista come simile a quella della donna, e viene evidenziato lo stretto legame tra l’oscurità profonda della terra - il fatto che essa sia il regno dei morti- e la capacità di produrre il grano, simbolo di vitalità e luminosità. Scrive infatti Zambrano (p. 327): «Sarebbe spuntata la spiga se Persefone non avesse mangiato sotto terra i chicchi della melagrana, frutto degli inferi in cui regnava il suo oscuro sposo? Se non fosse stata rapita dal dio del sottosuolo, ci avrebbe dato la spiga d’oro? Non era

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modo, come si è già visto, sono la verginità di Antigone e la sua purezza che la rendono adatta a calarsi negli inferi e quindi a generare vita per la sua famiglia. Anche in questo caso quindi il legame viscerale di Antigone con il mondo dell’aldilà (che si risolverà nella μετοικία dell’eroina nella tragedia sofoclea) ha un significato sostanzialmente positivo: esso è principio generatore di vita ed è compreso dalla filosofa spagnola all’interno di un più ampio quadro che contempla le radici misteriose della generazione materna.

Nel primo monologo dunque María Zambrano non introduce significativi elementi di rottura con la lettura sofoclea della fine dell’eroina. Pur non rinunciando ad ampliare e rileggere gli spunti del tragediografo, essa restituisce un quadro in sostanziale continuità con quello del kommos. La scelta di riscrivere il finale implica però la necessità di un momento di rottura con quanto è stato delineato da Sofocle. Tale rottura viene giustificata da María Zambrano nel secondo monologo di Antigone, intitolato “La Notte”. A questo punto della sua riflessione, infatti, Antigone prende consapevolezza della natura materna, consolatrice della tomba in cui si trova; riconosce la vitalità della sua situazione e in virtù di tale vitalità sceglie di non porre fine alla sua vita. Scomparsi i raggi di sole che ancora la seguivano, si ritrova nell’oscurità totale, oscurità analoga a quella del ventre della terra: ma Antigone intuisce quanto di vitale si trova nell’oscurità, come ha sempre aderito anche sulla terra agli aspetti ‘notturni’ dell’esistenza, pur nell’attesa della rivelazione aurorale. Il capitolo infatti inizia così143:

Quanto rumore nel silenzio, notte, quanta vita nella mia morte, quanto sangue ancora nelle mie vene, quanto calore in queste pietre. E il mio cuore, come sempre, corre incontro all’ombra, come nella vita. Allora, durante il giorno, anelava la notte, respirava verso di essa. Solo la mattina era per me il presente, un presente ampio, grandioso, come il centro di un fiume [...].

Antigone quindi descrive la propria esistenza come caratterizzata da un continuo terrore, «che arriva ad essere come una tunica144», una seconda pelle che l’ha completamente consumata. Si descrive come «una larva senza corpo, con non più spessore di quello indispensabile per essere vista». Nell’Antigone non viene in realtà descritta l’esistenza dell’eroina prima della morte dei due fratelli: l’immagine del logoramento continuo è probabilmente derivata dall’Edipo a Colono, dove più volte

forse questo ciò che si celebrava? «la dea completamente bionda» - essa stessa sole - la grande madre Demetra, contrasse le nozze attraverso la figlia, non potendo arrivare fino al re del centro della terra. Ma non era anch’essa la terra? La terra luminosa quando il sole ha trovato modo di fissarsi in essa, e che nel suo interno è nera. E così Demetra, la Nera, quando porta il lutto per la figlia mostra la condizione stessa della madre che soltanto nell’oscurità concepisce il frutto che darà alla luce. Mentre Persefone, la fanciulla che si china a tagliare il fiore, essa stessa fiore, nell’essere divorata dalla terra soffre la passione della figlia. Quella passione della figlia vergine che la tragedia ci ha trasmesso soprattutto nella figura di Antigone. Anch’essa fu sotterrata viva, ma in una tomba costruita dagli uomini in forza di uno storico decreto; Antigone, figlia del Padre, della stirpe, quindi, della dea Atena».

143

ZAMBRANO 1995, p. 71.

144 Z

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lei e Edipo descrivono gli stenti in cui la giovane è vissuta per sostenere l’esilio del padre. Ai vv. 345-352, ad esempio, Edipo narra: ἣ μὲν ἐξ ὅτου νέας/τροφῆς ἔληξε καὶ κατίσχυσεν δέμας,/ἀεὶ μεθ’ ἡμῶν δύσμορος πλανωμένη,/γερονταγωγεῖ, πολλὰ μὲν κατ’ ἀγρίαν/ὕλην ἄσιτος νηλίπους τ’ ἀλωμένη,/πολλοῖσι δ’ ὄμβροις ἡλίου τε καύμασι/μοχθοῦσα τλήμων δεύτερ’ ἡγεῖται τὰ τῆς/ οἴκοι διαίτης, εἰ πατὴρ τροφὴν ἔχοι145

. Come vedremo, il ricordo delle due tragedie Edipo Re ed Edipo a Colono gioca un ruolo molto importante nella caratterizzazione dei personaggi e dei loro reciproci legami all’interno della Tumba, pertanto non è sorprendente che Antigone nel presentarsi rievochi l’intero corso della propria esistenza e non solo i fatti che hanno più immediatamente portato alla sua reclusione.

Proprio il logoramento che ne ha caratterizzato la vita è quello che permette all’Antigone di María Zambrano di riconoscere nella tomba un principio vitale, ed in questo si verifica la rottura tra la filosofa spagnola e Sofocle. Antigone infatti afferma esplicitamente:

No, tomba mia, non ti colpirò. Non mi spaccherò la testa contro di te. Non mi getterò su di te come se fossi tu la colpevole. Una culla, sei; un nido. La mia casa. E io so che ti aprirai. E nel frattempo, chissà che tu non mi lasci udire la tua musica, perché nelle pietre bianche c’è sempre una canzone146.

In questo punto l’immagine della tomba proposta da Sofocle viene completamente rovesciata: se già un primo elemento di novità era stato introdotto dal raggio di Sole che ancora si insinuava sotto terra, a questo punto il significato della sepoltura nella pietra viene definito chiaramente. L’esistenza ha infatti consumato Antigone fino a sfinirla, e lei può sentirsi a casa solamente in questo luogo lontano dalle sue miserie, un luogo che la protegge nel momento stesso in cui la separa dal mondo dei vivi. Antigone si accorge poi che la sua reclusione è solo momentanea: la tomba, in un modo o nell’altro, si aprirà. La sua situazione incompiuta troverà quindi un esito anche senza che lei decida di interrompere repentinamente il corso della propria vita, e si avvierà a una soluzione naturale. María Zambrano è consapevole dell’attaccamento di Antigone al mondo dei morti e del suo desiderio di raggiungerlo quanto prima: per spiegare dunque il ritardo della prevedibile scelta di suicidarsi, sfrutta proprio la contraddizione che Sofocle aveva posto alla base della sofferenza di Antigone, il rammarico di essere scesa ancora viva nella sua sepoltura. María Zambrano dipinge un personaggio che non fugge questa contraddizione accelerando la morte (che nella tragedia sarà causa di altre due morti, quelle di Emone e Euridice, e della disperazione di Creonte), ma anzi si

145

«L’una, da quando uscì dall’infanzia forte oramai nel corpo, sempre infelice errando con me, è guida a un vecchio; vagando sovente per selvagge foreste digiuna e scalza, e penando per piogge molte o per vampe di sole, la misera