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3.4 I dialoghi con gli uomini: incomprensione e superamento

3.4.1 Eteocle e Polinice

I due fratelli rendono visita contemporaneamente alla sorella. Risulta evidente come non riescano del tutto a risolvere due nodi fondamentali della loro esistenza: la maledizione del padre e la contesa per il potere. I due problemi in realtà sono, secondo María Zambrano, strettamente connessi: infatti, come si è già visto nell’analisi del prologo, sui figli maschi è ricaduta la colpa di Edipo come Re, ossia il suo eccessivo attaccamento al potere. Da un lato, quindi, essi patiscono il distacco che il padre ha imposto loro con la maledizione, dall’altro però non si sono affatto liberati della sua eredità. Antigone tenta una mediazione tra i due e rispetto al padre Edipo: in questo María Zambrano è molto attenta al ruolo che anche Sofocle conferisce all’eroina tanto nell’Edipo a Colono, quanto, in parte, nell’Antigone. Nell’Edipo a Colono, infatti, si consuma la rottura tra Edipo e i figli: tuttavia Antigone cerca di impedire che questo accada. Nell’Antigone è l’unica a concepire la famiglia come un’unità e a considerare i due fratelli degni dello stesso trattamento. Nell’Edipo a Colono il ruolo di unificatrice risulta particolarmente evidente quando sopraggiunge Polinice in cerca di un confronto con il padre. Si è già visto come Edipo contrapponesse l’incuria dei figli maschi all’attenzione delle figlie: è quindi naturale che la sua reazione quando capisce che il supplice giunto per lui è il figlio Polinice sia del tutto negativa: così infatti risponde a Teseo (S. O.C. 1173-1178): παῖς οὑμός, ὦναξ, στυγνός, οὗ λόγων ἐγὼ/ἄλγιστ’ ἂν ἀνδρῶν ἐξανασχοίμην

κλύων./{Θη.} τί δ’; οὐκ ἀκούειν ἔστι, καὶ μὴ δρᾶν ἃ μὴ / χρῄζεις; τί σοι τοῦδ’ ἐστὶ λυπηρὸν κλύειν;{Οι.} ἔχθιστον, ὦναξ, φθέγμα τοῦθ’ ἥκει πατρί·/καὶ μή μ’ ἀνάγκῃ προσβάλῃς τάδ’ εἰκαθεῖν300

. A questo punto è fondamentale il discorso di Antigone, che insiste sulla necessità di essere clemente verso il figlio, e che ricorda al padre come siano gravi i torti subìti dai genitori.

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Il termine viene usato più volte nel dialogo con l’arpia.

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«EDIPO: È il figlio mio, nefasto, o signore: ascoltare le sue parole sarebbe per me il suo dolore più grande. TESEO: Perché? Non puoi ascoltarlo, e non fare ciò che non vuoi? Perché ti è penoso udirlo? EDIPO: Odiosissima, signore, la sua voce giunge al padre; non costringermi a cedere».

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Essa quindi non insiste tanto sulla situazione di Polinice o sulla giustezza delle sue ragioni, ma esclusivamente sul sentimento naturale che unisce un genitore ai figli. Dice infatti (vv. 1181-1203): πάτερ, πιθοῦ μοι, κεἰ νέα παραινέσω. τὸν ἄνδρ’ ἔασον τόνδε τῇ θ’ αὑτοῦ φρενὶ χάριν παρασχεῖν τῷ θεῷ θ’ ἃ βούλεται, καὶ νῷν ὕπεικε τὸν κασίγνητον μολεῖν. οὐ γάρ σε, θάρσει, πρὸς βίαν παρασπάσει (1185) γνώμης ἃ μή σοι συμφέροντα λέξεται. λόγων δ’ ἀκοῦσαι τίς βλάβη; τά τοι κακῶς ηὑρημέν’ ἔργα τῷ λόγῳ μηνύεται. ἔφυσας αὐτόν· ὥστε μηδὲ δρῶντά σε τὰ τῶν κακίστων δυσσεβέστατ’, ὦ πάτερ, (1190) θέμις σέ γ’ εἶναι κεῖνον ἀντιδρᾶν κακῶς. ἀλλ’ἒα νιν. εἰσὶ χἀτέροις γοναὶ κακαὶ καὶ θυμὸς ὀξύς, ἀλλὰ νουθετούμενοι φίλων ἐπῳδαῖς ἐξεπᾴδονται φύσιν. σὺ δ’ εἰς ἐκεῖνα, μὴ τὰ νῦν, ἀποσκόπει (1195) πατρῷα καὶ μητρῷα πήμαθ’ ἅπαθες, κἂν κεῖνα λεύσσῃς, οἶδ’ ἐγώ, γνώσῃ κακοῦ θυμοῦ τελευτὴν ὡς κακὴ προσγίγνεται. ἔχεις γὰρ οὐχὶ βαιὰ τἀνθυμήματα, τῶν σῶν ἀδέρκτων ὀμμάτων τητώμενος. (1200) ἀλλ’ ἡμὶν εἶκε. λιπαρεῖν γὰρ οὐ καλὸν δίκαια προσχρῄζουσιν, οὐδ’ αὐτὸν μὲν εὖ πάσχειν, παθόντα δ’ οὐκ ἐπίστασθαι τίνειν.301

Lo stesso Polinice, volendo scongiurare il rischio che il padre non gli risponda, si rivolge così ad Antigone e a Ismene (vv. 1275-1279):ὦ σπέρματ’ ἀνδρὸς τοῦδ’, ἐμαὶ δ’ ὁμαίμονες,/πειράσατ’ ἀλλ’ ὑμεῖς γε κινῆσαι πατρὸς/τὸ δυσπρόσοιστον κἀπροσήγορον στόμα,/ὡς μή μ’ ἄτιμον, τοῦ θεοῦ γε προστάτην,/οὕτως ἀφῇ με μηδὲν ἀντειπὼν ἔπος302

. Prontamente Antigone consiglia il fratello (vv. 1280-1283): λέγ’, ὦ ταλαίπωρ’, αὐτὸς ὧν χρείᾳ πάρει./τὰ πολλὰ γάρ τοι ῥήματ’ ἢ τέρψαντά τι,/ἢ δυσχεράναντ’, ἢ κατοικτίσαντά πως,/παρέσχε φωνὴν τοῖς ἀφωνήτοις τινά303

. Una volta ascoltate le maledizioni del padre, Polinice non recede dai suoi propositi di guerra: a questo punto Antigone

301 «Padre, ascoltami, sebbene giovane ti darò un consiglio. Lascia che questo signore dia soddisfazione, come desidera,

all’animo suo e al dio; e a noi due concedi che venga qui nostro fratello. Sii tranquillo, non ti distoglierà a forza dal tuo proposito ciò che dirà contro il tuo interesse. Qual è il danno a udire delle parole? Esse rivelano le cattive intenzioni. Tu lo generasti; e anche se commise verso di te le azioni più empie e scellerate, non è giusto, padre, che tu gli renda male per male. Lascialo venire. Anche altri genitori hanno figli malvagi e aspra ira; ma ammoniti quasi con incantesimi dai loro cari, mitigano la loro natura. Tu non pensare ai mali presenti, ma a quelli che soffristi da tuo padre e da tua madre; e guardando ad essi comprenderai, sono certa, come tristo è l’esito di una trista collera; ne hai un non lieve argomento dai tuoi occhi ciechi, di cui sei privo. Cedi a noi, dunque: non è bello che insista chi chiede il giusto; né che, chi ha avuto un beneficio, non sappia poi ricambiarlo».

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«O voi che siete sue figlie, sorelle mie, tentate almeno voi di muovere l’implacabile, inesorabile bocca del padre, che non mi lasci andare così spregiato, sebbene supplice del dio, senza rispondermi neanche una parola».

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«Di’ tu stesso, disgraziato, per quale necessità sei qui: un lungo discorso, sia che allieti, o susciti sdegno, o muova a compassione, fa venire la voce anche a chi non vuole parlare.»

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tenta di dissuaderlo, vedendo profilarsi nettamente lo scontro interno alla famiglia e il compimento di quanto augurato da Edipo (vv. 1414-1425):

{Αν.} Πολύνεικες, ἱκετεύω σε πεισθῆναί τί μοι. {Πο.} ὦ φιλτάτη, τὸ ποῖον, Ἀντιγόνη; λέγε. (1415) {Αν.} στρέψας στράτευμ’ ἐς Ἄργος ὡς τάχιστά γε, καὶ μὴ σέ τ’ αὐτὸν καὶ πόλιν διεργάσῃ. {Πο.} ἀλλ’ οὐχ οἷόν τε. πῶς γὰρ αὖθις ἂν πάλιν στράτευμ’ ἄγοιμ’ <ἂν> ταὐτὸν εἰσάπαξ τρέσας; {Αν.} τί δ’ αὖθις, ὦ παῖ, δεῖ σε θυμοῦσθαι; τί σοι (1420) πάτραν κατασκάψαντι κέρδος ἔρχεται; {Πο.} αἰσχρὸν τὸ φεύγειν, καὶ τὸ πρεσβεύοντ’ ἐμὲ οὕτω γελᾶσθαι τοῦ κασιγνήτου πάρα. {Αν.} ὁρᾷς τὰ τοῦδ’ οὖν ὡς ἐς ὀρθὸν ἐκφέρεις μαντεύμαθ’, ὃς σφῷν θάνατον ἐξ ἀμφοῖν θροεῖ;304

Il suo tentativo è vano e Polinice afferma di voler proseguire secondo i suoi piani, sostenendo che questa è stata la sorte a lui assegnata, e a nulla valgono gli accorati appelli di Antigone (vv. 1432- 1446): {Πο.} καὶ μή μ’ ἐπίσχῃς γ’· ἀλλ’ ἐμοὶ μὲν ἥδ’ ὁδὸς ἔσται μέλουσα δύσποτμός τε καὶ κακὴ πρὸς τοῦδε πατρὸς τῶν τε τοῦδ’ Ἐρινύων. σφῷν δ’ εὖ διδοίη Ζεύς, τάδ’ εἰ τελεῖτέ μοι. (1435) θανόντ’ ἐπεὶ οὔ μοι ζῶντί γ’ αὖθις ἕξετον. μέθεσθε δ’ ἤδη, χαίρετόν τ’. οὐ γάρ μ’ ἔτι βλέποντ’ ἐσόψεσθ’ αὖθις. {Αν.} ὢ τάλαιν’ ἐγώ. {Πο.} μή τοί μ’ ὀδύρου. {Αν.} καὶ τίς ἄν σ’ ὁρμώμενον ἐς προῦπτον Ἅιδην οὐ καταστένοι, κάσι; (1440) {Πο.} εἰ χρή, θανοῦμαι. {Αν.} μὴ σύ γ’, ἀλλ’ ἐμοὶ πιθοῦ. {Πο.} μὴ πεῖθ’ ἃ μὴ δεῖ. {Αν.} δυστάλαινά τἄρ’ ἐγώ, εἴ σου στερηθῶ. {Πο.} ταῦτα δ’ ἐν τῷ δαίμονι καὶ τῇδε φῦναι χἀτέρᾳ. σφῷν δ’ οὖν ἐγὼ θεοῖς ἀρῶμαι μή ποτ’ ἀντῆσαι κακῶν· (1445) ἀνάξιαι γὰρ πᾶσίν ἐστε δυστυχεῖν.305 304

«ANTIGONE: Polinice, ti supplico, ascolta questa mia preghiera. POLINICE: Diletta Antigone, quale? Dimmi. ANTIGONE: Riporta al più presto l’esercito ad Argo, e non rovinare te stesso e la città. POLINICE: Ma non è possibile; come potrei guidare ancora quell’esercito nel ritorno, dopo aver mostrato paura? ANTIGONE: Sei giovane: perché indulgere ancora all’ira? Che vantaggio ti viene a distruggere la tua patria? POLINICE: È vergogna per me l’esilio, e l’essere così deriso, io che sono il maggiore, da mio fratello. ANTIGONE: Vedi come diritte procedono le profezie del padre, il quale vi annuncia reciproca morte? ». Al v. 1424 la traduzione di Cantarella presuppone il testo dei manoscritti ἐκφέρει (mentre il testo di Pearson accoglie la congettura ἐκφέρεις di Tyrwhitt), con la spiegazione (p. 233): «Nel testo è accolta la congettura di Tyrwhitt ἐκφέρεις: con la sua inflessibile ostilità al fratello, Polinice porta a compimento la predizione del padre. La traduzione segue ἐκφέρει dei mss, intendendolo come transitivo; la forma può peraltro valutarsi anche come seconda persona singolare del presente medio».

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Antigone va quindi incontro a un doppio fallimento: il tentativo di mediazione tra padre e figlio si conclude in una maledizione, e la preghiera di evitare che si consumi lo scontro tra fratelli si scontra con la durezza dei propositi di Polinice. Allo stesso modo, come si è già visto a proposito del kommos, nell’Antigone essa ribadisce più volte a Creonte il fatto che la sua natura era, in realzione ai legami familiari, quella di ‘unire’ e non ‘separare’: anche questo ha un esito negativo in Sofocle, come già ampiamente detto.

Ne La Tumba, quindi, il fatto che i due incontrino contemporaneamente la sorella è di per sé un dato interessante. Inoltre è significativo che per molti aspetti essi costituiscano una coppia in confronto ad Antigone, anche se Zambrano metterà in evidenza alcune differenze caratteriali di fondo. Il tema affrontato nel dialogo è quello del valore di riscatto e salvezza garantito dalla fraternità: entrambi i fratelli hanno una visione parziale di questo sentimento e pertanto non riescono a comprendere fino in fondo gli intenti di Antigone. Il problema è la contesa nei confronti della sorella: il desiderio dell’uno e dell’altro di avere il privilegio assoluto del dominio su di lei. Questo riprende chiaramente il tema della contesa per il potere a Tebe. María Zambrano li fa così interloquire con la sorella306:

POLINICE: Sorella, sorella mia, mia unica sorella, perché ci hai abbandonato? Perché non ci hai distrutto in tempo, tu che sapevi, tu che vedevi, tu, figlia del Tempo, sorella da prima, da sempre sorella, sorella... Credo a quello che dici, a tutto, credo in te, in te. Comprenderti, non so, no; qui, nel cuore, sì ti comprendo, però non distinguo bene. Le tue parole, la tua presenza, la tua voce, mi abbagliano.

ETEOCLE: Credi che lei sia soltanto sorella tua e mia no, di me che sono venuto qui a cercarla come te, che vuoi strapparmela come hai sempre fatto? Lei, tua sorella, la tua unica sorella. ANTIGONE: Non c’è niente che possiate amare senza spezzarlo per il desiderio di prendervelo tutto, senza lasciare nulla all’altro?

ETEOCLE: È lui, lui.

POLINICE: Sei tu, hai fatto sempre così. È per questo che non sono mai potuto andare d’accordo con te, nonostante lo desiderassi tanto.

ANTIGONE: E io, sì, io sono sorella vostra, di tutti e due, come ho dimostrato.

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«POLINICE: E tu non trattenermi: dovrò percorrere io questa via sventurata e nefasta, assegnatami dal padre e dalle sue Erinni. Quanto a voi, su buona via vi guidi Zeus, se mi darete, quando sarò morto, le cure che non potrete più darmi da vivo. Lasciatemi ormai, addio! Non mi vedrete più in vita. ANTIGONE: Me misera! POLINICE: Non compiangermi. ANTIGONE: E chi non piangerebbe, vedendoti andare a manifesta morte, fratello? POLINICE: Morrò, se è destino. ANTIGONE: No, ascoltami! POLINICE: Non chiedermi di ascoltarti, non posso! ANTIGONE: Me infelice, se sarò privata di te! POLINICE: Questo dipende dal dio, che vada così o altrimenti. Per voi io prego gli dèi che non mi tocchi mai sventura: non meritate- per consenso di tutti - d’essere infelici».

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I due incorrono, in fondo, nello stesso errore di Creonte: considerare la sorella maggiormente legata all’uno o all’altro, e mancando invece di riconoscere la natura ‘unificante’ del suo amore. È la stessa Antigone, infatti, a chiarire307:

ANTIGONE: Oh, Morte, aspetta a venire finché non si riconcilino, finché io non sappia dove condurli, se è che non andiamo nello stesso posto. Sì, io sono vostra sorella. Siete però fratelli miei voi due? C’è qualcuno di cui siate fratelli? Avete consentito alla fraternità di inondare il vostro petto, sciogliendo il rancore e lavando questa morte in cui siete ora in modo che, quando toccherà all’altra, arrivi anch’essa pulita, in conformità con la legge degli Dei?

Eteocle da un lato è portatore del sogno del potere come istituzione salda, dell’ordine, della celebrazione della potenza e gloria militare: in questo la vorrebbe sorella e compagna308:

ETEOCLE: No, Antigone, questo no. Ché è come sorella sua che stai qui a consumarti sotto terra. Come sorella mia, avanzeresti coperta di gloria sul carro della mia vittoria.

La sua è una vittoria tutta terrena, che per Antigone in realtà ha connotati più di morte che di vita309:

ANTIGONE: Quale vittoria? Non si può chiamare con questo nome la distruzione della Patria, la sua caduta. Tebe non esiste più, lo sai? Tebe è solo la terra, la proprietà, di lui, di colui che ha vinto, senza per questo essere vincitore, entrambi voi e tutti. Sì, io so che tutte le vittorie poggiano sul pianto e che il sangue, per quanto copiosamente si versi, non ammorbidisce i cuori dei vincitori. Vincitori e basta, ché i vittoriosi, nelle storie che ci raccontano, sono davvero pochi. La Vittoria, così come noi la vediamo, ha ali. [...] Sotto i vincitori, tutto si fa pesante, tutto si trasforma in colpa, in pietra tombale. Tutti coloro che non sono diventati, come quelli decretano, di pietra, coloro che sono rimasti vivi, vivi si trovano a essere sepolti.

Il dominio militare ottenuto a scapito dell’unione familiare non è quindi una situazione che Antigone possa davvero considerare di vittoria. Eteocle nel dialogo è perennemente caratterizzato come il propugnatore di questo tipo di vittoria, totalmente fallimentare: un ordine, una disciplina in cui il potere non lasci emergere la verità (in questo caso si tratta della colpa di Edipo) per salvaguardare la pace. Nel corso del dialogo afferma infatti310:

Oh, Antigone, sempre con questi discorsi. Sarebbe stato meglio che gli Dei si fossero accontentati del sacrificio, come in altri tempi, e che tutto fosse rimasto nascosto. Sarebbe stato meglio sacrificare mezza città con tutti i suoi abitanti. Lo avrei fatto io stesso: perché tutto 307 Z AMBRANO 1995, p. 103. 308 ZAMBRANO 1995, p. 102. 309 ZAMBRANO 1995, p. 102. 310 Z AMBRANO 1995, pp. 106-107

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procedesse in ordine e la verità non si desse a conoscere. E io dico che nostro padre è stato debole, che ha errato, perché se egli avesse offerto il sacrificio che dico io tutto sarebbe ancora com’era, in ordine e senza verità.

Tale soluzione non è ovviamente possibile: Antigone non può assecondare Eteocle in questa visione del potere, giacché un ordine senza verità è la negazione del regno dell’essere che Antigone va cercando.

La visione di Polinice è più vicina all’idea di fraternità che Zambrano propone. Già nel prologo, infatti, aveva affrontato il tema della fraternità, proponendo un parallelo tra la coppia di Antigone e Polinice e quella di Elettra e Oreste. Anche nel rapporto tra i due figli di Edipo si può intravedere un fratello ‘salvatore’ che giunge a riscattare la sorella311

: il rapporto tra i figli è il risvolto positivo delle colpe che hanno schiacciato i genitori. Tale relazione è in effetti quanto di più vicino alla possibilità di giungere alla ‘luce promessa’, nonostante si trascini dietro la maledizione da cui discende. Così infatti leggiamo nel prologo312:

È la fraternità, senza alcun dubbio, ciò che affiora, ciò che si presenta come nascente protagonista, come necessario protagonista redentore, quello che scioglierà il nodo del male [...]. E questa relazione fraterna, così, ci appare come crocifissa tra l’ombra ereditata, la maledizione che si trascina nelle tenebre, e la luce che si annuncia: la luce promessa.

Dunque in un certo senso il rapporto di fraternità che si delinea in questi due esempi è un rapporto ‘intermedio’: da un lato rappresenta un riscatto rispetto all’eredità genitoriale, ma dall’altra lascia ancora solo intuire la «luce promessa». Nel corso del dialogo Polinice ribadisce a più riprese il suo desiderio, tanto in vita quanto in morte, di portare Antigone con sé in una nuova terra. Data l’importanza che questo tema riveste per il pensiero di María Zambrano e per la comprensione del senso generale dell’opera, riporterò per intero nel corso della trattazione il passo in cui Polinice descrive l’essenza di questa terra. Nella prima parte leggiamo313

:

Non mi rispondi sorella. Adesso sono tornato a cercarti. Adesso, non ti ci vorrà più molto per uscire di qui.[...] Verrai, ormai libera - guardami, guardami -, in questa vita in cui già mi trovo io. E ora, sì, ora noi fonderemo, in una terra che nessuno ha mai visto, la città dei fratelli, la città nuova, in cui non ci saranno né figli né padri. E i fratelli verranno a unirsi a noi. Lì noi ci dimenticheremo di questa terra in cui c’è sempre qualcuno che comanda, senza esserne capace, già da prima. Lì finiremo di nascere, lì ci lasceranno nascere per intero. Io, di questa terra, ho 311 ZAMBRANO 1995, pp. 54-55. 312 ZAMBRANO 1995, p. 55. 313 Z AMBRANO 1995, p. 108.

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sempre saputo. Non l’ho sognata, ci sono stato, vi abitavo con te quando costui credeva che stessi pensando. In essa non esiste sacrificio e l’amore, sorella, non è accerchiato dalla morte. L’amore, lì, non c’è bisogno di farlo, perché si vive in esso. Non c’è altro che amore. Lì nessuno nasce, è la verità, allo stesso modo di qui. Lì vanno i già nati, quanti si sono salvati dalla nascita e dalla morte.

Come si vedrà in seguito, Polinice descrive il regno cui, secondo María Zambrano, deve aspirare l’umanità: tuttavia, nell’economia de La Tumba, anche Polinice rivela la limitatezza della sua proposta perché, come Eteocle gli fa notare314, egli è ricorso alla guerra e alla lotta per il potere per imporre la sua visione. Nella risposta di Polinice ritroviamo quanto già detto da Zambrano nel prologo: il rapporto di fraternità non può giungere completamente alla perfezione, perché ancora legato alla dimensione genitoriale. Inoltre Polinice proponeva l’edificazione già sulla terra di questa città, senza però volervi includere gli altri fratelli315:

È che, figlio dopo tutto di mio padre, anch’io mi sono sbagliato. Sono tornato a causa di Antigone, lei si trovava nella città vecchia del Padre. Lei, la sorella, sorella più di ogni altra, mi chiamava. [...]E con lei al fianco, se tu mi avessi lasciato entrare nella città vecchia, è qui nella terra, qui nella nostra terra, che avremmo edificato la città nuova: la città dei fratelli.

Nella tragedia, quindi, l’impresa di Polinice risulta fallimentare perché egli viene sconfitto militarmente; ne La Tumba essa si sposta in un’altra dimensione, anche se non può giungere ancora a compimento perché Polinice, persino dopo la morte, mantiene la sua visione parziale della fraternità. Per capire l’importanza dell’avvenire tratteggiato da Polinice è utile far riferimento al testo L’uomo e il divino, e in particolare al capitolo “I processi del divino”. Zambrano espone in queste pagine quella che secondo lei è l’evoluzione del sentimento fondamentale della storia dell’umanità: l’amore in tutte le sue forme, sfaccettature diverse dell’aspirazione dell’uomo alla trascendenza e alla comunione con tutto l’esistente. A partire dalle cosmogonie dell’antica Grecia, in cui l’amore si rivela come «potenza originale»316

che porterà alla fissazione di un ordine, questo sentimento si è manifestato nelle diverse forme della letteratura e dell’arte: nella tragedia esso è una potenza che costringe l’uomo a relazionarsi con l’incomprensibile, con le forze che lo hanno preceduto e che ne determinano l’esistenza, pur risultando incomprensibili. D’altro canto anche nella filosofia esso risulta il protagonista assoluto: se le cosmogonie rappresentano la nascita

314 ZAMBRANO 1995, pp. 108-109. 315 ZAMBRANO 1995, p. 109. 316 Z AMBRANO 2001, p. 240.

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dell’ordine a partire dall’amore primordiale, la filosofia sceglie di indagare quest’ordine, o, come scrive Zambrano, questo «orizzonte»317. Così definisce i rapporti tra i due generi318:

L’eredità dell’amore, dell’amore delle cosmogonie, si ripartisce tra la passione tragica e lo sguardo della filosofia. [...] Si divide in eros passionale, viscerale, e in eros dello sguardo. La tragedia esprimerà il primo. La filosofia sarà la sua gemella nell’eredità dell’amore. Sarà l’espressione stessa della vita di un eros che non geme nelle viscere, il quale si è stabilito interamente nell’uomo e conserva della possessione divina soltanto una strana e paradossale ebbrezza: la serenità.

Come si è già avuto modo di osservare, le due modalità di conoscenza (filosofia e poesia) tendono, nella storia della cultura greca e delle epoche successive, sempre più ad allontanarsi. Scrive Zambrano319: «Quando arriviamo al momento in cui filosofia e poesia si dividono, ottenendo ognuna per sé un aspetto, un modo dell’eros, l’amore ha concluso la sua apparizione storica». L’eros, interiorizzato dall’uomo, comincia a manifestarsi nella morale: si concretizza poi nell’uscita «fuori di sé»320 dell’individuo, nell’aspirazione a un misterioso futuro e nella fiducia nel cambiamento. Come scrive sempre Zambrano321:

[L’amore è] ciò che attrae il divenire della storia, che corre alla sua ricerca. Quello che non conosciamo e ci invita a conoscere. Quel fuoco senza fine che soffia nel segreto di ogni vita. Ciò che unifica con il volo che trascende vita e morte, semplici momenti di un amore che rinasce sempre da se stesso. Quanto dell’abisso del divino è più nascosto; l’inaccessibile che discende in ogni istante.

Quando quindi l’amore è diventato una forma interiorizzata, quando l’uomo riconosce questa forma vitale ormai solo in se stesso e non nelle cose che lo circondano, nella realtà, allora subentra la condizione che prelude alla percezione del lato divino dell’amore: la solitudine, in cui appunto «si avverte attivamente il Dio sconosciuto, o il lato sconosciuto della divinità, come dotato di vita propria: le tenebre dotate di vita»322. Tale processo ha una concretezza storica; scrive infatti María Zambrano323:

Sembra fosse questa la situazione alla fine del Mondo Antico, alle soglie del cristianesimo. Ma tale situazione può ripetersi e di fatto pare ripetersi ai nostri giorni. Nella crisi del Mondo 317 Z AMBRANO 2001, p. 245. 318 ZAMBRANO 2001, p. 245. 319 ZAMBRANO 2001, p. 247. 320 Z AMBRANO 2001, p. 252. 321 Ibid. 322 ZAMBRANO 2001, p. 274. 323 Z AMBRANO 2001, p. 275.

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Antico, tale situazione - presenza del Dio sconosciuto, vita all’ombra del Dio sconosciuto - si diede alla fine di una lunga e matura fase di riflessione sulle cose della natura. Oggi, il cammino che l’uomo ha percorso è da una parte quello della conoscenza scientifica della natura, che gli ha permesso il dominio su di essa, e dall’altra, quello di un processo metafisico che potremmo chiamare di «crescita del soggetto», dell’uomo come soggetto della conoscenza e come sede principale della realtà.

Tale situazione di solitudine da una parte, ma di esposizione alla ‘pressione’ del Dio sconosciuto dall’altra è una situazione che l’uomo può difficilmente sopportare a lungo: come già parzialmente anticipato, l’uomo cerca uno sfogo in un aspetto fondamentale dell’esistenza umana, il futuro324

. Zambrano distingue tra avvenire e futuro, infatti325:

Perché l’avvenire è il domani prevedibile, quello che si prevede presente e che in un certo modo