Tesi di Laurea
Titolo
La glittica islamica del tesoro di San
Marco
Sottotitolo
I cristalli di rocca fatimidi conservati a Venezia
Relatore
Prof. Giordana Trovabene
Correlatore
Prof. Anna Maria Spiazzi
Laureando
Laura Rocco
Matricola 817475
Anno Accademico
2012 / 2013
INDICE
ABSTRACT p. 4
PREMESSA p. 5
CAPITOLO 1. SAGGIO INTRODUTTIVO: IL TESORO DI SAN MARCO A VENEZIA 1.1. Le reliquie di San Marco e il loro trasferimento a Venezia p. 7
1.2. La conservazione del tesoro marciano p. 9
1.3. Venezia e la IV crociata p. 12
1.4. Inquadramento storico-culturale sul tesoro di San Marco p. 14
CAPITOLO 2. LE SEZIONI TESORO MARCIANO
2.1. Antichità e Alto Medioevo p. 17
-scheda 1: Lampada in cristallo di rocca p. 20
-scheda 2: Lampada a forma di pesce p. 22
2.2. Sezione bizantina p. 24
2.2.1. Calici e patene p. 26
2.2.2. Reliquie e reliquiari p. 30
2.2.3. Legature p. 31
-scheda 3: Calice con manici dell’imperatore Romano p. 32
-scheda 4: Calice dell’imperatore Romano p. 35
-scheda 5: Patena di alabastro con Cristo a smalto p. 38
-scheda 6: “Grotta della Vergine” p. 40
-scheda 7: Icona dell’arcangelo Michele p. 44
-scheda 8: Icona con l’arcangelo Michele stante p. 48
2.3. Sezione occidentale p. 58
-scheda 10: Calice in serpentino p. 63
CAPITOLO 3. LA SEZIONE ISLAMICA DEL TESORO DI SAN MARCO
3.1. Le opere islamiche del tesoro marciano p. 66
3.2. I Fatimidi e la loro produzione di arti minori p. 70
3.3. I manufatti islamici in cristallo di rocca p. 73
3.4. Considerazioni sulla tecnica di intaglio di cristalli di rocca e vetri di questa sezione p. 77 • Schede dei cristalli di rocca:
-scheda 11: Bricco di cristallo del califfo al-‘Aziz-Billah p. 85
-scheda 12: Ampolla degli arieti p. 91
-scheda 13: Anfora di cristallo p. 96
-scheda 14: Reliquiario del Sangue Miracoloso p. 100
-scheda 15: Candeliere di cristallo grande p. 103
-scheda 16: Candeliere di cristallo piccolo p. 105
-scheda 17: Piatto alto in cristallo di rocca p. 107
-scheda 18: Vaso esagonale di cristallo di rocca p. 110
• Schede dei vetri islamici:
-scheda 19: Scodella di vetro turchese p. 113
-scheda 20: Calice con lepri p. 118
-scheda 21: Navicella di vetro rubino p. 121
• Arte occidentale con influsso islamico:
-scheda 23: Piatto basso in cristallo di rocca p. 128
-scheda 24: Frammento di cristallo di rocca p. 130
3.5. Il restauro dei cristalli di rocca: il caso della brocchetta del Museo degli Argenti restaurata
dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze p. 132
3.6. Appendice con i restanti manufatti in cristallo di rocca conservati nel Tesoro marciano p. 137
CONCLUSIONI p. 139
BIBLIOGRAFIA (fonti/studi) p. 141
ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI p. 152
REPERTORIO ILLUSTRATIVO p. 155
ABSTRACT
La seguente tesi di laurea si propone di studiare nel dettaglio la lavorazione dei cristalli di rocca islamici presenti nel tesoro marciano specificandone provenienza, datazione e tecnica di lavoro, presentando dei confronti fra essi o fra altri pezzi analoghi custoditi in altri musei. A seguito di un’introduzione preliminare, il lavoro si incentra in particolare sulla sezione islamica del tesoro marciano che riguarda i cristalli e i vetri, nonché su altri oggetti del tesoro di san Marco eseguiti con questa materia prima ma provenienti da Bisanzio o da Venezia o di provenienza ignota, al fine di effettuare interessanti confronti circa la tecnica di lavorazione. Non sono state tralasciate neppure le altre sezioni del tesoro marciano, e a questo proposito, a scopo esemplificativo, sono state inserite delle altre schede di importanti oggetti del tesoro di San Marco, seppur non strettamente pertinenti al nucleo islamico. Alcuni oggetti islamici che sono entrati a far parte del tesoro della basilica hanno subito dei rimaneggiamenti, come l’aggiunta di una montatura: questi pezzi sono stati indagati nel loro insieme, in quanto la montatura, sebbene di altra epoca, può fornire un terminus ante quem a partire dal quale tali oggetti sono confluiti nel tesoro marciano.
PREMESSA
Il presente lavoro di tesi si occupa dei manufatti islamici in cristallo di rocca intagliato, custoditi nel tesoro di San Marco a Venezia.
L’elaborato è stato articolato in tre capitoli principali, il primo dei quali costituisce un saggio introduttivo che vuole trattare il tesoro di San Marco in modo generale. Il secondo capitolo descrive ogni sezione in cui il tesoro marciano è stato suddiviso, ad eccezione della sezione islamica, ampiamente illustrata nel terzo capitolo. Di ogni sezione si espone prima in termini generali il gruppo di oggetti pertinenti al nucleo in questione, poi in modo più specifico; per questo sono state inserite alcune schede descrittive su importanti opere del tesoro di San Marco.
Per quanto riguarda il nucleo antico, anche se non strettamente pertinenti alla sezione islamica, ho scelto di includere nell’analisi due lampade tardoantiche in cristallo di rocca (vedi SCHEDE 1 e 2), non solo in quanto esempi raffinati di lavorazione ad intaglio, ma anche perché, essendo la loro materia prima il cristallo di rocca, potessero sorgere dei paragoni con la glittica del cristallo di rocca lavorata in area islamica. Per il nucleo bizantino, più cospicuo, sono state redatte diverse schede che trattano importanti opere costantinopolitane, incluse nella tesi in considerazione del loro interesse storico e artistico. Fra i calici bizantini, sono stati analizzati i calici dell’imperatore Romano (vedi SCHEDE 3 e 4), composti da una coppa in pietra antica integrata a una montatura bizantina corredata da smalti e gemme preziose; la patena di alabastro con il Cristo a smalto (SCHEDA 5), la più preziosa del tesoro marciano, nonché l’unica a presentare al centro uno smalto; due legature con l’arcangelo Michele (vedi SCHEDE 6 e 7), due rari esempi di arte bizantina. In quanto l’opera più rappresentativa del tesoro di San Marco, è stata inserita una scheda per la Pala d’Oro (SCHEDA 8), di cui è stata fatta una sintesi dai numerosi studi, senza trattare nel dettaglio tutte le problematiche di stile e datazione che i suoi smalti presentano.
La sezione occidentale è rappresentata in modo predominante dai lavori di oreficeria in filigrana, tecnica che coinvolse direttamente gli artigiani veneziani e che conferì loro fama a livello europeo. Tale lavorazione è stata descritta dettagliatamente nella parte introduttiva di questa sezione, mentre esempi specifici si trovano nelle schede relative. Per illustrare l’altra tecnica di lavorazione presente nelle opere occidentali del tesoro marciano, si è dedicata una scheda al celebre calice in serpentino (SCHEDA 10), non
solo per la fama del suo esecutore, ma anche in quanto dotato di una montatura di metallo sbalzato, nonché di una coppa magistralmente intagliata. Altri oggetti appartenenti a questo gruppo avrebbero meritato un’ampia descrizione; mi riferisco in particolare al paliotto di San Marco o al reliquiario del braccio di San Giorgio, ma rischiavano di esulare dal progetto iniziale della tesi.
Il terzo capitolo affronta direttamente la sezione islamica del tesoro di San Marco, di cui sono stati analizzati tutti i lavori in cristallo di rocca e vetro, tralasciando i tappeti e gli altri manufatti pertinenti a questa sezione che però non interessano la lavorazione a intaglio. Dopo una preliminare introduzione alla glittica fatimide del cristallo di rocca, tecnica che raggiunse i più alti risultati in Egitto proprio con questa dinastia, a ogni manufatto intagliato è stata dedicata un’apposita scheda che lo descrive esaustivamente (SCHEDE 11-18), presentando, quando pertinenti al caso esaminato, dei confronti fra altri pezzi analoghi in cristallo di rocca conservati anche in altri musei. Essendo la lavorazione del cristallo di rocca strettamente connessa all’intaglio del vetro, almeno per quanto riguarda la tecnica, le quattro schede seguenti a quelle dei cristalli sono state dedicate ai vetri marciani di questa sezione (SCHEDE 19-22). Infine, due schede (SCHEDE 23 e 24) sono state dedicate a due manufatti in cristallo di rocca probabilmente occidentali ma con influenze islamiche. Ognuno di questi pezzi è stato trattato dettagliatamente, presentando tutte le problematiche di datazione e localizzazione emerse dagli studi condotti finora sull’argomento. Quando presenti, anche le montature di cui sono stati dotati in seguito questi oggetti sono state analizzate: sebbene appartenenti ad altra epoca o cultura, in assenza di notizie che riportino la data in cui questi manufatti islamici giunsero a Venezia, esse forniscono un terminus ante
quem a partire dal quale questi oggetti sono entrati a far parte del tesoro di San Marco.
Infine, l’ultimo paragrafo è stato dedicato a un caso peculiare: il restauro, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, di una brocchetta fatimide in cristallo di rocca, molto simile al celebre bricco di cristallo del califfo al-‘Aziz-Billah del tesoro marciano, custodita al Museo degli Argenti di Firenze. Per completezza di lavoro, in Appendice si annoverano infine i restanti oggetti in cristallo di rocca custoditi nel tesoro di San Marco, pertinenti alle altre sezioni del tesoro precedentemente illustrate e risalenti a varie epoche e culture.
CAPITOLO 1. SAGGIO INTRODUTTIVO: IL TESORO DI SAN MARCO A VENEZIA
1.1. Le reliquie di San Marco e il loro trasferimento a Venezia
Il tesoro di San Marco, nonché i primi contatti tra Venezia e il mondo arabo, si
formarono attorno alle reliquie dell’evangelista Marco portate a Venezia nell’8281.
Secondo la leggenda, raccontata anche dai mosaici della basilica, edificata per custodirle, le reliquie si trovavano ad Alessandria d’Egitto, ma né gli Atti degli
Apostoli, né l’agiografia di San Marco confermano la presenza del santo in questa città2.
E’ Eusebio di Cesarea3 il primo a riferire di una sua missione apostolica in terra
alessandrina. Dopo di lui altre attestazioni apocrife4 narrano l’evangelizzazione della
città copta per opera di Marco. Secondo Paolo Diacono5, prima che ad Alessandria
Marco sarebbe stato ad Aquileia, mito in seguito sviluppato da Jacopo da Varazze6 nella
Legenda Aurea, e la sua versione influenzò anche i mosaici della basilica. L’episodio
della traslazione delle reliquie a Venezia è narrato dal doge Andrea Dandolo7. Secondo
la sua testimonianza, le spoglie del santo furono traslate da Alessandria, che fu il luogo del suo martyrion e sepoltura, a Venezia il 31 gennaio 828 da due mercanti veneziani, Rustico da Torcello e Bono da Malamocco, i quali trafugarono le reliquie e le nascosero dentro a delle ceste assieme a cavoli e carne di maiale, cibo proibito per i musulmani. Il mosaico Trafugamento e Traslazione a Venezia del corpo di San Marco, della cantoria di destra nella basilica di San Marco, riferisce l’episodio in cui i mercanti riescono a passare la dogana indicando il contenuto delle loro casse come “kanzir, kanzir”, che in
arabo significa “maiale”8. Fig. 1. Dopo un travagliato viaggio per mare raggiunsero
Venezia, dove le spoglie di Marco furono accolte dal doge Giustiniano Particiaco, o
Partecipazio, il quale ordinò la riedificazione di una basilica degna di ospitarle9.
1 Pedani, 2011, p. 98
2 Caputo, 2011, p. 46
3 “Narrano che Marco, inviato in Egitto, fu il primo a predicarvi il Vangelo che mise poi anche per iscritto, ed anche a fondarvi delle Chiese proprio ad Alessandria”. Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, XV-‐16
4 Fra esse, gli Atti di Marco in Moraldi 1994 e Halkin 1969
5 P. Diacono, De Ordine Episcoporum Mettensium, si veda il testo di Grégoire 1996, p. 417 6 Iacopo da Varazze 2000, vol. I, pp. 255-‐259
7 Caputo, 2011, pp. 46-‐47 8 Pedani, 2011, p. 98
Possedere le reliquie di un santo all’epoca significava protezione e prestigio: per questo la chiesa e le famiglie più importanti della città le ricercavano e le tenevano in grande considerazione. Oltre al valore religioso, avevano anche uno spessore politico ed economico, e in quanto catalizzatrici di pellegrini e mercanti, portavano ricchezza alla città che le custodiva. Il trasferimento delle reliquie di San Marco ha un significato importante per la città nella definizione della propria personalità e dimensione politica. La tradizione riteneva che San Marco avesse predicato ad Aquileia e nelle zone
limitrofe, portando a una prima conversione le genti venete10. Quando le reliquie di San
Marco fanno il loro ingresso a Venezia, per la città è l’occasione di avere un nuovo santo protettore, che mise in subordine il precedente San Teodoro, un santo militare
greco imposto dai bizantini11, nonché un nuovo simbolo, il leone alato, che
nell’immagine ricavata dai tetramorfi è sempre associato all’evangelista Marco. Secondo la leggenda un angelo gli sarebbe apparso in sogno quando Marco fu inviato da Pietro ad Aquileia per predicare il Vangelo e durante una tempesta in mare si rifugiò tra le isole della laguna. L’angelo gli disse le parole: “Pax tibi, marce, evangelista
meus”12, incise nel libro aperto del leone alato.
La traslazione delle reliquie di San Marco a Venezia “contribuì anche alla straordinaria ascesa politica ed economica della città. Venezia sviluppò ingenti traffici commerciali nel Mediterraneo orientale e meridionale, si impose come uno dei principali porti di partenza dei pellegrini diretti in Terra Santa e si conquistò il ruolo di “cerniera”13 tra l’Europa e l’Oriente”14.
In seguito al trasferimento delle spoglie di San Marco a Venezia e alla loro esposizione in basilica, l’ambizione di possederne delle altre arricchì notevolmente il santuario, che
si impreziosì così di un gran numero di reliquie15.
E’ sullo sfondo di tali suggestioni religiose che dobbiamo immaginare la formazione del tesoro di San Marco, a cui appartengono gli oggetti più preziosi della basilica. Esso ha un carattere composito e include sculture, icone, calici, patene, vasi, arredi sacri,
reliquiari e la Pala d’Oro, che costituisce l’opera maggiore del tesoro di San Marco16.
10 Farioli Campanati, 1982, p. 296 11 Pedani, 2011, p. 98
12 Gallo, 1967, p. 3
13 W. McNeill, Venice: The Hinge of Europe, 1081-‐1797, Chicago, 1974 14 Carboni, 2007, p. 4
1.2. La conservazione del tesoro marciano
Il tesoro di San Marco è conservato all’interno della basilica sul lato meridionale, di fronte alla cappella dedicata alla Vergine dei Mascoli si trova l’ingresso. Fig. 2. Gli ambienti dedicati a questa sezione sono due: il santuario, che conserva le reliquie, e dalla parte opposta un locale ospitante il tesoro propriamente detto. Questa sistemazione si ritiene compiuta da Jacopo Sansovino, a seguito della sua nomina a “proto”, ossia primo conservatore della basilica, nel 153017, durante il dogado di Andrea Gritti. È probabile però che prima di questa sistemazione molte reliquie si custodissero in sacrestia, o in soprasacrestia, o presso i Procuratori, o ancora in un’arca che si trovava
dietro l’altare maggiore18. In questo caso si tratta di quelle reliquie che si soleva esporre
sugli altari durante l’anno.
Il tesoro conta ad oggi un insieme di 283 pezzi, ed è in realtà solo una piccola parte di quella che era la raccolta originale: fatale fu l’incendio che colpì la chiesa il 13 gennaio 1231. È probabile che i pezzi che si sono potuti preservare si trovassero in uso, quindi in sacrestia. Vennero salvate in forma ritenuta prodigiosa, ossia miracolosamente uscite indenni dal rogo, la reliquia della Vera Croce, interamente illesa, un’ampolla con il Sangue di Cristo e la reliquia della testa di Giovanni Battista. La porta di accesso al tesoro è impreziosita da un mosaico di XIII secolo raffigurante la scena del miracoloso
salvataggio della reliquia della Vera Croce19. In seguito, rappresentò un grandissimo
danno la caduta della Serenissima il 12 maggio 1797 per opera di Napoleone. Per far fronte alla grave situazione finanziaria subentrata al nuovo governo e per sovvenzionare le spese militari, si stabilì che molti oggetti d’oro e d’argento fossero portati alla Zecca, altri furono trasportati a Palazzo Ducale per disfarne i ricami e le pietre preziose. Dopo la caduta di Napoleone (1814), il successivo governo austriaco dispose che gli oggetti preziosi fossero restituiti al tesoro, mentre i codici furono consegnati alla Biblioteca Marciana20. Tra il 1815 e il 1819 altre perle e pietre preziose vennero impegnate per contribuire ai necessari lavori di restauro della basilica21.
16 Trattasi di un grande paliotto d’altare, o antependium, riccamente decorato in oro e smalti di fattura prevalentemente bizantina, posto dietro l’altare maggiore, rivolto verso l’abside. Perocco, 1986, p. 4 17 Perocco, 1986a, p. 74 18 Pasini, 1885, p. 9 19 Perocco, 1986a, p. 74 20 Ibid., p. 75 21 Ibid., p. 76
La conservazione del tesoro di San Marco era (ed è tuttora) affidata ai procuratori, i quali nel 1283 redassero gli inventari; quindici di questi vennero in seguito pubblicati da Rodolfo Gallo22 e testimoniano la ricchezza della raccolta. Spettava ai procuratori vigilare sull’esposizione degli arredi sacri durante le festività, così come rimuovere i reliquiari dalle custodie in occasione delle feste dei Santi e regolare le visite alla stanza del tesoro.
Dell’influenza che i pregiati oggetti del tesoro esercitavano sui cittadini veneziani e sui
visitatori della città ci parlano Martin da Canal23, cronista veneziano della seconda metà
del Duecento, e Martin Sanudo24, altro cronista veneziano della prima metà del
Cinquecento. Questi scritti, assieme al quadro di Gentile Bellini Processione in Piazza
San Marco e alla tela Miracolo della Reliquia della Santa Croce di Vittore Carpaccio,
entrambi oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, mostrano l’uso che si faceva di questi oggetti di arredo per gli altari: erano presentati nelle cerimonie pubbliche cittadine, a dimostrazione della ricchezza della repubblica di Venezia e del loro valore non solo religioso, ma anche politico.
Di fatto il tesoro comprende prevalentemente arredi sacri, ma include anche le insegne
di comando del Doge, gli oggetti giunti come dono o bottino o guerra, i pegni25
consegnati da principi stranieri e le preziose legature custodite alla Biblioteca
Marciana26. I pezzi più rilevanti venivano esposti sull’altare di San Marco nelle
principali feste liturgiche per conferire al culto una maggiore solennità, ma anche esibiti
nelle processioni, per destare l’ammirazione delle ambasciate straniere e dei visitatori27.
Essendo la chiesa di San Marco cappella palatina, anche il suo tesoro concorreva a testimoniare la forza e la grandezza dell’imperatore sovrano, nonché la potenza marittima e militare della Serenissima.
22 Gallo, 1967, pp. 273-‐402
23 M. da Canal, Les Estoires de Venise, a cura di A. Limentani, Firenze 1973
24 M. Sanudo, I Diarii di Martin Sanudo (1496-‐1523) dall’autografo Marciano…, a cura di F. Stefani, G. Berchet, R. Furlin, N. Barozzi e M. Allegri, 52 voll., Venezia, 1879-‐1903
25 Pasini ricorda: “Giovanni di Brienne, tutore di Baldovino II, per poter resistere all’imperatore di Nicea, Giovanni II Ducas detto Batatzetes (e corrottamente Vataccio) ottenne dalla Repubblica grossissimo prestito, ed a pegno diede la Corona di Spine di N. S. Gesù Cristo, Corona che fu poscia nell’anno 1229 riscattata da Luigi IX di Francia. Nel 1343, col pegno di un rubino balasso di straordinaria mole e bellezza, ad un altro imperatore greco, Giovanni V Paleologo, si prestarono cinquemila ducati. Antonio della Scala, signor di Verona, otteneva nell’anno 1387 in prestito dalla Serenissima ducati ventunmila e cinquecento, dando in garanzia molte gioie". Pasini, 1885, p. 10 26 Hahnloser, 1971a, p. IX
La struttura, particolarmente singolare e complessa del tesoro di San Marco, comprende opere che appartengono a diversi periodi storici. Si distinguono in particolare quattro nuclei, in base all’appartenenza cronologica e stilistica. Alcune opere provengono persino dalla Persia e dalla Cina della dinastia Sung (960-1279), forse giunte a Venezia
tramite Marco Polo28.
28 Hahnloser, 1971a, p. X
1.3. Venezia e la IV crociata
Una parte consistente del tesoro è stata raccolta nell’arco di tempo che va dalla fine del X secolo fino alla IV crociata del 1204, epoca in cui Venezia intratteneva rapporti commerciali con le maggiori potenze del Mediterraneo orientale, in modo particolare con Costantinopoli, a cui era legata da vincoli di natura non solo politica ma anche
culturale29. Costantinopoli, per i veneziani dell’epoca, rappresenta un modello di vita da
imitare in diverse forme30. Questo legame comincia a infrangersi nel XII secolo, quando
i rapporti veneto-bizantini si fanno più tesi, subisce una forte battuta d’arresto nel 1171 quando l’imperatore bizantino Manuele Comneno fa arrestare i veneziani, e si infrange
definitivamente con la quarta crociata31. Essa rappresenta per i veneziani l’occasione di
entrare a Costantinopoli, città che conservava ancora un tesoro imperiale rimasto intatto
dai tempi di Costantino il Grande e Teodosio32. Indetta per liberare il Santo Sepolcro, la
crociata doveva avere come meta la Terra Santa ma venne dirottata a Costantinopoli, che fu assalita e conquistata dai cavalieri crociati33. Nonostante i buoni rapporti di natura commerciale che la legavano alla capitale dell’impero d’Oriente, Venezia non rinuncia a spogliare la città più florida dell’epoca ed esporre poi in basilica i simboli della sua potenza militare: la quadriga imperiale, il gruppo dei tetrarchi, numerosi reliquiari e alcuni dei più preziosi oggetti sacri appartenenti al tesoro sono frutto del bottino di guerra proveniente dalla IV crociata. La quadriga imperiale venne inviata a Venezia dal doge Enrico Dandolo, partecipante alla crociata, mentre il gruppo dei tetrarchi, in porfido, fu collocato all’esterno della basilica a ridosso del muro del tesoro. Il Dandolo inviò a Venezia anche le icone di San Michele, molto venerate all’epoca (vedi Figg. 12-13-14) mentre la celebre Madonna Nicopeia, secondo la leggenda,
sarebbe stata strappata dalla sacrestia di Hagia Sophia dai veneziani nel 120634.
Un nucleo consistente e prezioso del tesoro di san Marco annovera pertanto opere bizantine: per Venezia le opere d’arte costantinopolitane rappresentano dei modelli
29 Si veda Nicol, Byzantium and Venice. A study in diplomatic and cultural relations, in particolare
The Fourth Crusade. Si veda anche Quarta Crociata. Venezia-‐Bisanzio-‐Impero Latino, a cura di G. Ortalli, G. Ravegnani e P. Schreiner, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ad Arti, Venezia 2006, e in particolare D. Jacoby, The venetian government and administration in latin Costantinople, 1204-‐ 1261: a State within a State, pp. 19-‐79
30 Farioli Campanati, 1982, pp. 310-‐311 31 Pertusi, MCMXC, p. 121
32 Hellenkemper, 1986, p. 34 33 Nicol Donald, 1990, pp. 192-‐194 34 Hellenkemper, 1986, p. 35
aulici da imitare, in quanto provenienti dalla raffinata corte orientale35. Il sacco di Costantinopoli provocò una “renovatio” dell’arte veneziana, che si traduce in motivi
architettonici, pittorici, scultorei e nelle arti applicate della basilica di San Marco36. Per
quanto concerne i capitelli della basilica, ad esempio, è spesso difficile stabilire quali di
essi siano stati importati da Bisanzio, e quali siano di fattura veneziana37.
Un aspetto che si riscontra spesso nel tesoro di san Marco è il rimaneggiamento di molte opere di oreficeria in vista di una nuova funzione: spesso si tratta di pezzi che avevano un ruolo diverso in precedenza, e che, una volta arrivati a Venezia, persero la loro funzione originale per essere riadattati a un nuovo contesto con una montatura costruita
ad hoc. Per Venezia queste operazioni di recupero non rappresentano una novità, dal
momento che la basilica stessa è stata costruita con materiali di spoliazione provenienti
da lontano38, a testimonianza della profonda suggestione che esercitava l’Oriente sulla
repubblica marinara.
35 Perocco, 1986, p. 21
36 Ibid., p. 18
37 Deichmann, Corpus der Kapitelle der Kirche von San Marco zu Venedig, Wiesbaden 1981 38 Perocco, 1986, p. 24
1.4. Inquadramento storico-culturale sul tesoro di San Marco
Circa l’istituzione del tesoro di San Marco, il canonico della marciana Antonio Pasini39
indica cinque date chiave: un primo periodo che va dal 1204 al 1530 quando Venezia si arricchì del bottino della IV crociata e ricevette svariate donazioni e pagamenti di pegni sopra citati; un secondo periodo, dal 1530 al 1617 quando pervennero altre donazioni e si trovarono delle reliquie, occultate dopo l’incendio del 1231 e dopo l’episodio del
mancato furto ad opera di Stamati Crassioli40, presso la cappella di San Clemente; un
terzo periodo dal 1617 al 1797 quando vennero scoperte svariate altre reliquie fino ad ora tenute ancora occultate, che vennero in seguito ripulite e trasferite nel santuario; un quarto periodo, il 1797 che segnò il tracollo della Serenissima, nonché il trasferimento di molti oggetti del tesoro alla Zecca per ricavarne l’oro e le pietre preziose e infine un quinto periodo, dal 1797 in poi in cui si cercò di recuperare ai danni del 1797 e di ricominciare un’opera di tutela e conservazione del tesoro marciano.
Per quanto concerne la provenienza delle opere del tesoro, per le opere profane abbiamo notizie più incerte, mentre per quanto riguarda arredi sacri e reliquiari le informazioni
sono più dettagliate, grazie alla passione con cui le reliquie erano venerate all’epoca41.
Fra i donatori: imperatori ed eminenti personalità laiche tra cui re, dogi, procuratori, nonché principi della chiesa, quali papi, cardinali, patriarchi. Ad essi si aggiungono i
grandi signori orientali e dell’Impero bizantino42.
All’interno del tesoro si enumera una grande quantità di vasi profani del periodo classico e bizantino. Trattasi di boccali, vasa sacra, anfore, coppe e piatti in cristallo di rocca, in pietre dure o vetro, spesso intagliati e dotati di ricche montature. Non si esclude che alcuni di questi vasi fungessero come vasellame da mensa per il Doge e che, corredati da nuove montature, abbiano sostituito, dopo il 1231, i reliquiari del
tesoro bruciati43. La più antica forma dei vasi è quella ottagonale a due manici. È inoltre
39 Pasini, 1885, pp. 9-‐19
40 Nel 1449 il greco Stamati Crassioli riuscì a penetrare nella stanza del tesoro dall’attigua cappella di San Giovanni Battista limandone la parete di confine. Impiegò due notti per forare il muro, ma finalmente riuscì a entrarvi e a operare il furto per più notti consecutive. Venne poi scoperto e condannato all’impiccagione in piazza San Marco, in mezzo alle due colonne. A seguito di questo fatto, i Procuratori aumentarono la sicurezza nel locale del tesoro. Gallo, 1967, pp. 34-‐35
41 Hahnloser, 1971a, p. XV 42 Ibid., p. XVI
indizio di antichità se il vaso è in cristallo o in vetro, e si stima risalga intorno al secolo IX44.
Un numero consistente di oggetti del tesoro di San Marco è in pietra fine lavorata. Circa
la classificazione mineralogica di queste pietre, Pasini45 presenta le seguenti distinzioni:
afferma che quasi tutte le pietre fine appartengono al genere del quarzo, un silicato composto da silicio e ossigeno. Quando l’ossido di silicio è regolarmente cristallizzato, ne risulta il cristallo di monte, o di rocca, il quale è totalmente incolore, altrimenti in caso di mancata o irregolare cristallizzazione si deriva l’agata, che è invece semitrasparente e screziata. A causa della sua varietà di tinte, quest’ultima riceve svariate denominazioni a seconda del colore prevalente: agata propriamente detta se è di un colore pallido, sardonica se ha sfumature giallastro-rossicce o onice se i suoi colori (bianco, rosso e nero) sono a fasce o strisce parallele o concentriche. Altre pietre che compongono degli oggetti del tesoro sono il lapislazzulo, o zaffiro, dai toni dell’azzurro; l’alabastro orientale che è prevalentemente bianco con venature giallognole; il serpentino, in genere di un colore verde-bruno con macchie bianche e la turchina, di un colore fra il celeste e il verde.
In seguito alla IV crociata, Venezia diventa centro del Mediterraneo e attira forestieri da Oriente e da Occidente. Anche l’arte è influenzata da questa atmosfera eterogenea: “nel campo estetico San Marco è un faro: non c’è novità che non si affermi subito in basilica”46. Ciò è dimostrato dalla predilezione veneziana per il mosaico, collegata a Bisanzio e dalle opere del tesoro, rispecchianti ancora una volta l’archetipo bizantino, prese poi come modelli di oreficeria. Immersa in questi traffici mercantili, la
Serenissima rappresentava il perno di congiunzione tra Oriente e Occidente47. Altri
prototipi artistici a cui ispirarsi erano, per Venezia, le opere dell’impero islamico, provenienti soprattutto da Alessandria d’Egitto, il secondo porto per importanza della
Serenissima dopo Costantinopoli48. Anche l’occidente costituiva per Venezia fonte di
ispirazione artistica; un caso particolare è simboleggiato dai lavori in filigrana, una tecnica di oreficeria proveniente dalla regione renano-mosana, ma che gli artisti veneziani del XIII secolo seppero imitare tanto bene che alla fine questa lavorazione 44 Pasini, 1885, p. 54 45 Ibid., pp. 53-‐54 46 Perocco, 1986, p. 26 47 Ibid., p. 21 48 Erdmann, 1971, p. 101
prese il nome di opus venetum ad filum, ossia “opera veneziana”. Spesso questa lavorazione viene integrata ad un pezzo bizantino, che, dotato di una nuova montatura, assume non solo una nuova funzione, ma testimonia altresì l’abilità del maestro
artigiano locale49. Oltre alle corporazioni degli orefici, di cui fanno parte gli specialisti
di questa tecnica, esisteva anche quella dei cristallari, che lavoravano il cristallo di rocca. L’arte del taglio delle pietre dure venne sviluppata dai cristallari veneziani
prendendo come modello proprio l’intaglio di origine mosana50. La corporazione dei
cristallai si organizzò nel 1284, e si occupò della realizzazione di oggetti sia sacri che profani. Nel tesoro è conservata una coppia di candelabri in cristallo di rocca che si ritiene di fattura veneziana il cui fusto è decorato da cristalli sfaccettati di forma sferica (vedi APPENDICE).
Tutti questi oggetti preziosi destinati alla liturgia avevano anche la funzione di sottolineare, tramite la luminosità del metallo, il bagliore dato dalle gemme e dagli smalti e la lucentezza delle niellature, la dimensione celeste che in basilica era creata dai
marmi e dai mosaici, nonché dal ciborio e dalla Pala d’Oro51.
49 Hahnloser, 1965, p. 132
50 Perocco, 1986, p. 26 51 Polacco, 2001, pp. 294-‐296
CAPITOLO 2. LE SEZIONI DEL TESORO MARCIANO 2.1. Antichità e Alto Medioevo
Per quanto concerne il piccolo gruppo di oggetti antichi e paleocristiani, non è possibile stabilire con certezza quando entrarono a far parte del tesoro di San Marco. Si tratta di un gruppo eterogeneo di pezzi non propriamente liturgici, che furono conservati nel tesoro marciano in virtù della loro rarità. Molto noto fra essi è il trono-reliquiario detto “Sedia di San Marco” (Inv. Tesoro n. 8). Si tratta di una cattedra dotata anche di una cassetta porta-reliquie, lavorata probabilmente ad Alessandria e datata IV secolo, forse
giunta a Venezia con le reliquie di San Marco52 o trasferita da Grado dopo l’abolizione
del patriarcato nel 1451. Secondo la descrizione di Gaborit-Chopin, sui fianchi del trono sono rappresentati i simboli dei quattro evangelisti secondo la loro trasfigurazione tetramorfa (Marco è il leone, Giovanni l’aquila, Luca il bue e Matteo l’angelo), sullo schienale è invece raffigurato l’Agnello ai piedi di un albero da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso. Il disco che corona lo schienale vede rappresentati da entrambi i lati due personaggi nimbati che sostengono una croce. Tale programma iconografico ricorda
la cattedra d’avorio di Massimiano a Ravenna53.
La collezione di vasi in pietre dure del tesoro ducale illustra le varie tappe della fabbricazione di questo tipo di oggetti. Secondo Alcouffe, i criteri per consentire la sicura attribuzione di un vaso in pietra dura sono quattro: la natura del materiale, in quanto certe pietre vengono usate in un determinato periodo e poi scompaiono; la forma, qualora la si ritrovi in altri settori meglio noti (oreficeria, arte vetraria); la decorazione, poiché può essere associata a un’epoca o a una cultura; e la montatura, che può essere un criterio di datazione quando è originale, o, se eseguita postuma, fornire un
terminus ante quem54. Questi vasi non rinvennero mai come reperti archeologici: una
volta forniti di una nuova montatura, vennero trasformati in oggetti liturgici ed entrarono a far parte di tesori di chiese o di imperatori55.
La tecnica di esecuzione dei vasi in pietre dure si diffuse in Oriente in età ellenistica; Alessandria ebbe un ruolo di piano nella lavorazione di questo tipo di oggetti, ma
52 Volbach, 1971, p. 3
53 Gaborit-‐Chopin, 1986, pp. 106-‐113 54 Alcouffe, 1986, p. 81
vennero apprezzati soprattutto a Roma a partire dal I secolo a.C. Essendo tali vasi ricavati da un unico blocco di pietra, non necessitavano di montatura, anche se spesso vi sono tracce di decorazioni d’oreficeria. I materiali usati erano l’agata (per lo più la sardonica) e il cristallo di rocca. La raffinata qualità di esecuzione di questi vasi vede uno spessore minimo, con manici rappresentanti volute di ispirazione fitomorfa, mentre la base è composta da un semplice anello poco aggettante. Talvolta il ventre di queste coppe è ornato da un motivo a intaglio. Spesso questi vasi antichi, una volta giunti a
Bisanzio, diventavano oggetti liturgici56. Il tesoro di San Marco è esemplificativo della
glittica bizantina, in quanto comprende una raccolta di vasi in pietra dura che hanno ricevuto una montatura eseguita da orafi bizantini tra il X e l’XI secolo: un esempio è la coppa in sardonica con manici, rimaneggiata e trasformata in calice grazie all’aggiunta
di un supporto metallico e di una iscrizione dedicata all’imperatore Romano57 (vedi
SCHEDA 3, Fig. 6). Alcuni di questi vasi però potrebbero essere di fattura propriamente bizantina: è improbabile che siano tutti pezzi riutilizzati, quindi accanto al fenomeno del rimaneggiamento delle coppe antiche, potrebbe essersi sviluppata un’attività artigianale originale di lapidari bizantini58. I materiali da loro usati erano l’agata, soprattutto la sardonica, ma esiste nel tesoro di San Marco anche un calice in diaspro verde. Invece il cristallo di rocca, all’epoca molto usato in area musulmana, non
sembra lavorato a Bisanzio59.
Non è facile stabilire una cronologia per i vasi di fattura bizantina. A partire dal X secolo sembrano esserci più botteghe che lavorano, a testimonianza del fatto che vi sono pezzi più raffinati accanto ad altri di intaglio più grossolano; ad ogni modo la
produzione di questo tipo di oggetti cessò attorno al 120460. Sempre secondo Alcouffe,
in generale la glittica bizantina registra un certo declino rispetto a quella antica: non sempre l’interno del vaso è liscio, e a volte l’intagliatore non ricava la coppa da un
56 Alcouffe, 1986, p. 81 57 Volbach, 1971, p. 4 58 Alcouffe, 1986, p. 81
59 “Nel Medioevo solo a Bisanzio vennero realizzati interi vasi o coppe ricavati da un unico blocco di pietra con quella sofisticata tecnica artigianale di tradizione antica che riemerse sotto la dinastia macedone nel X e XI secolo. In quest’epoca infatti –benché fossero molto ricercati gli oggetti antichi in pietre dure, che venivano riutilizzati con montature in oro o in argento dorato con smalti-‐ si ebbe anche lo sviluppo di un’attività artigianale dedita alla lavorazione delle pietre, che tuttavia oggi ha una documentazione maggiore per l’agata, la sardonica e il diaspro che non per il cristallo di rocca, di cui sussistono scarsi esempi”. Polacco 1991, s.v., cristallo di rocca in Enciclopedia dell’arte medievale Treccani, Roma, 1991 p. 488
unico pezzo di pietra ma la completa da una montatura eseguita a parte. Quando il calice è dotato di due anse, spesso queste non sono ricavate dalla pietra ma fanno parte della montatura. Anche Volbach nota delle diversità esecutive, che in particolare riguardano lo spessore dell’intaglio: quelli più antichi sono più sottili, mentre quelli
intagliati dai lapidari bizantini sono più consistenti e dotati di una certa gravezza61. “Le
forme, meno varie che nell’Antichità e utilizzate per oggetti di uso sia liturgico che profano, comprendono coppe rotonde o ovali, con la superficie del ventre liscia o
polilobata, vasi troncoconici e, pare, coppe a forma di conchiglia, polilobate o meno”62.
Nel tardo Medioevo anche i cristallai occidentali cominciano a dedicarsi alla glittica, e a partire dal XII secolo rifiorisce la lavorazione delle pietre dure, forse a causa dell’influsso degli oggetti orientali che, dopo il sacco del Cairo del 1062 e quello di
Costantinopoli del 1204, si diffusero nell’Europa occidentale63. Il centro di irradiazione
di questa lavorazione è la regione tra il Reno e la Mosa; inizialmente gli artigiani occidentali si dedicavano al cristallo di rocca, in seguito anche al diaspro, all’agata e all’ametista. Dalle prime croci in cristallo di rocca dall’aspetto convesso, la lavorazione si fa più raffinata e si ottengono anche superfici piatte, dal XIV secolo in poi le superfici non si presentano più semplicemente lisce o sfaccettate, ma ricevono intagli o rilievi, mentre i manici e la base ricominciano ad essere ricavati dal medesimo blocco di
pietra64. Dal XIII secolo in poi invece i maggiori centri di lavorazione del cristallo sono
Parigi e Venezia. 61 Volbach, 1971, p. 4 62 Alcouffe, 1986, p. 83 63 Ibid. 64 Ibid., p. 84
SCHEDA 1. Lampada di cristallo di rocca (Figg. 3 e 4) PROVENIENZA: ignota
MATERIALE: Cristallo di rocca, argento dorato, vetro
STATO DI CONSERVAZIONE: mancano 5 dei 6 cabochons inseriti nella montatura, il cristallo di rocca si presenta danneggiato in più punti
DATAZIONE: Coppa: cristallo di rocca, IV secolo; montatura: arte bizantina, X-XII secolo BIBLIOGRAFIA: Durand 1862, p. 54, Pasini 1885-86, p. 75, Molinier 1888, pp. 97-98, Gallo 1967, p. 361 n. 188, p. 373 n. 17, Hahnloser 1971 (Volbach), p. 8, Bühler 1973, p. 79, Alcouffe 1986, pp. 91-93.
Altezza 6,2 cm; lunghezza 13,8 cm (1,1 cm con montatura); profondità 11,2 cm (17,8 con montatura).
Inv. Tesoro n. 50
Trattasi di una lampada in cristallo di rocca datata fine IV secolo, provvista di una montatura più tarda elaborata a Costantinopoli tra il X e il XII secolo. Nell’inventario del tesoro redatto fra il 1816 e il 1820 Cicognara interpreta il pezzo come un “coperchio
di qualche antico vaso di cristallo con rilievi che rappresentano pesci e conchiglie, montato in rame dorato”, mentre il Pasini riconosce nell’oggetto una lampada, ma
scambia il cristallo di rocca per vetro65. La coppa ovoidale è scavata internamente e
rappresenta dieci animali marini a rilievo molto pronunciato, talvolta dei dettagli si staccano anche dalla base di contatto della coppa. Sette animali si rincorrono sulla superficie della lampada, fra essi: “una conchiglia di paguro, due pesci con la coda distaccata dal fondo e altri quattro animali meno identificabili, anch’essi distaccati in uno o più punti –un delfino (?), due granchi o meduse (?), un terzo pesce (?)
spezzato”66; mentre altri tre elementi, forse raffiguranti conchiglie ma oggi danneggiati,
costituivano presumibilmente una sorta di appoggio, trovandosi essi sulla base della coppa. Un vaso di questo tipo vede delle analogie con una coppa conservata al Metropolitan Museum of Art di New York proveniente da Cartagine. Si tratta di una mezza coppa a forma di vascello, forse anch’essa una lampada, in cristallo di rocca e decorata da pesci e conchiglie, ma scolpiti con un rilievo meno netto rispetto a quelli della coppa di San Marco67. Una decorazione che ricorda anche gli animali scolpiti a tutto tondo sulle pietre dure durante l’Impero romano e che servivano probabilmente per
65 Alcouffe, 1986, p. 91 66 Ibid., p. 93
qualche gioco. Per stabilire la datazione di questa lampada Volbach si basa su una serie di vasi decorati allo stesso modo da pesci e conchiglie e datati intorno al IV secolo. Si arrivò ad ipotizzare che l’utilizzo di questo tipo di decorazione sugli oggetti in cristallo
di rocca influenzò in seguito quello nel campo più industriale del vetro68.
La presenza dei pesci intagliati aveva inizialmente fatto pensare ad un’origine proto-cristiana69, ma è probabile che sia stata semplicemente la trasparenza del cristallo di
rocca ad ispirare una decorazione marina, dal momento che dal XVI secolo molti altri
vasi ricevettero un programma iconografico di questo tipo70.
Montatura
Il vaso preso in considerazione appartiene a quella serie di oggetti che ha subito un cambio d’uso: in seguito al lieve danneggiamento del bordo, ricevette una montatura eseguita probabilmente da orafi bizantini e divenne una lampada. La montatura in argento dorato è costituita da un ampio bordo saldato con graffe nella parte esterna della coppa, circondato da due file di granuli su entrambi i lati. Nella parte inferiore del bordo si trovano sei castoni che dovevano reggere altrettante pietre cabochon, oggi ne rimane solo una in pasta di vetro che simula uno zaffiro o un lapislazzulo. La montatura
prevede inoltre quattro manici per appenderla al soffitto e otto candelieri71.
68 Alcouffe, 1986, p. 93
69 Durand, in riferimento a questo oggetto: “Vase taillé en forme de poisson, peut-‐être pour figurer
allégoriquement le Christ”. Durand, Trésor de l’église Saint-‐Marc a Venise, Paris MDCCCLXII, p. 54
70 Alcouffe, 1986, p. 93 71 Volbach, 1971, p. 8
SCHEDA 2. Lampada a forma di pesce (Fig. 5) PROVENIENZA: ignota
MATERIALE: Cristallo di rocca, argento dorato
STATO DI CONSERVAZIONE: manca la montatura per i portaceri, il cristallo si presenta incrinato e leggermente sbeccato. Restaurata nel 2006 da Corinna Mattiello.
DATAZIONE: Alcouffe: V secolo (?), Grabar, Polacco, De Min: arte bizantina, IX-X secolo. BIBLIOGRAFIA: Pasini 1885-86, p. 75, Molinier 1888, p. 98, Schlumberger, L’Epopée
byzantine, II, p. 421, Lamm, 1930, tav. 64/2, Dictionnaire D’Archéologie, XII/1, 135, col. 2012,
fig. 8793, Gallo 1967, p. 301 n. 115, p. 353 n. 214, p. 372 n. 9, Hahnloser 1971 (Grabar), p. 75, Alcouffe 1986, pp. 94-95, Uboldi 1995, pp. 93-145, Polacco, 2001, fig. pp. 284-85, De Min, 2006, pp. 130-132.
Altezza 5,5 cm; lunghezza 31,1 cm; profondità 17,1 cm. Inv. Tesoro n. 84
La lampada riproduce la forma di un pesce allungato ed è intagliata in un cristallo di rocca di mediocre qualità in quanto non molto limpido, ma di eccellente esecuzione e di notevole spessore. Questo vaso è menzionato nell’inventario del 1571: “Una galia de
Cristal de montagna desfornita”, (Gallo, 1967, p. 301 n. 115), in quello del 1733: “Un ovato grande forato intorno e concavo nel mezo” (ivi, p. 353 n. 114) e nella stima del
Cicognara: “Un pezzo crestal forato, fatto a copano [barca]” (ivi, p. 362 n. 214 e p. 372 n. 9), ma in nessuno di questi è definito come “lampada”, funzione comunque attestata dai fori disposti lungo il bordo. L’oggetto si compone di due parti: un recipiente concavo centrale a forma di navicella e un bordo in rilievo che riproduce la forma di un pesce con una coda molto sviluppata. Il bordo piatto ospita inoltre nove fori
che dovevano avere la funzione di reggere candele o lumi72. Sulla superficie superiore
sono inseriti quattro anelli d’argento dorato destinati a reggere altrettanti fili per appendere la lampada. Complessivamente la lampada svolgeva la sua funzione con nove candele o con dieci, nel caso la cavità centrale fosse destinata a contenere dell’olio da bruciare73, ma il recente restauro non ne ha rilevato nessuna traccia, cosa che ha
escluso l’ipotesi che la vasca centrale servisse da contenitore di essenze da bruciare74.
Per la sua forma e per lo stile, questo pezzo è unico nel suo genere.
Circa la datazione, l’opinione degli studiosi è discorde: Alcouffe la data al V secolo, ma è incerto circa la provenienza. Stando al fatto che gli artigiani bizantini non erano soliti
72 Alcouffe, 1986, p. 95 73 Grabar, 1971, p. 75 74 De Min, 2006, p. 130
intagliare il cristallo di rocca, esclude che si tratti di un’opera bizantina lavorata in epoca macedone. Propone un confronto con un esemplare simile, una lampada frammentaria di IV secolo in cristallo di rocca custodita al Metropolitan Museum of Art di New York, la quale si avvicina a quella marciana per iconografia, ma non dal punto di vista tecnico-stilistico. Sembra per lui più plausibile una probabile provenienza da un
santuario della tarda Antichità, dove già svolgeva la funzione di una lampada75.
Secondo Grabar76, Polacco77 e De Min78 invece, si tratta proprio di un oggetto bizantino
proveniente da qualche bottega costantinopolitana e datato secondo Polacco al rinascimento macedone (IX-X-XI secolo), secondo Grabar al X-XI secolo, mentre secondo De Min risale al IX-X secolo. Le discordanze analizzate da questi studiosi rispetto a un pezzo antico riguardano lo spessore del cristallo e lo stile della lavorazione, che vede contorni composti da semplici linee regolari, superfici lisce e angoli retti. Quasi tutti questi studiosi riconoscono nella forma di questo vaso la sagoma stilizzata di un pesce, eccetto Maurizia De Min, la quale da un lato riconosce la figura sintetica del pesce, ma puntualizza che per l’altro verso tale sagoma si avvicina alla rappresentazione di una navicella, confermata anche dalle descrizioni degli inventari sopra citate. Ipotizza che l’intagliatore abbia forse voluto fondere entrambe le iconografie di pesce-barca, dato che entrambe sono connotate da una forte valenza cristiana, cosa che attesta che tale lampada si trovava in origine collocata in un luogo sacro. La datazione proposta dalla studiosa propende per l’età bizantina anche in considerazione del fatto che in epoca tardoantica-altomedievale la tipologia di lampade usate era ad olio e con stoppino; in seguito, in età medievale, si diffusero degli esemplari di lampade con fori o
montature lungo il bordo per leggere candele o ceri79, come la lampada del tesoro
marciano. 75 Alcouffe, 1986, p. 95 76 Grabar, 1971, p. 75 77 Polacco, 1992, p. 488 78 De Min, 2006, p. 130
2.2. Sezione bizantina
Questa sezione del tesoro di San Marco testimonia l’uniformità delle arti suntuarie bizantine comprese fra IX e XV secolo, siano esse di uso laico o ecclesiastico, nonché gli stretti vincoli di natura politica e commerciale che legavano Costantinopoli a
Venezia80. In cambio del riconoscimento della sovranità dell’imperatore d’Oriente, la
città beneficiava di privilegi commerciali all’interno dell’impero bizantino; ai dogi
erano inoltre concessi alti titoli e onorificenze bizantine81. A questa categoria appartiene
anche la sontuosa Pala d’Oro, prodotta a Costantinopoli per la basilica di San Marco a Venezia.
Il tesoro di San Marco è esemplificativo dell’oreficeria bizantina, in modo peculiare degli oggetti smaltati: comprende importanti pezzi di committenza imperiale come i due calici dell’imperatore Romano, e svariati altri oggetti liturgici, tra cui reliquiari, icone e
le preziose legature degli Evangeli conservate alla biblioteca Marciana82. Una raccolta
che offre una panoramica dell’evoluzione dell’oreficeria bizantina fra il IX e il XV secolo. La fama degli artisti bizantini nella lavorazione dello smalto si estendeva a tutta l’Europa e alle regioni mediorientali: anche l’abate di Montecassino Desiderio importò da Bisanzio svariate opere d’arte per ornare la sua chiesa, tra cui un prezioso paliotto d’altare83.
Il nucleo più cospicuo delle arti suntuarie del tesoro marciano è composto da oggetti di derivazione costantinopolitana, di cui la maggior parte deriva dal sacco del 1204, ma vi sono anche oggetti donati precedentemente e posteriormente questa data. È probabile che la loro esecuzione risalga a non molto prima della Quarta Crociata, eppure a Bisanzio, assieme a oggetti del XII secolo, continuano a trovarsi opere dell’XI e perfino del X e della fine del IX secolo. Questo fatto testimonia che nel 1204 nelle chiese bizantine si utilizzavano ancora oggetti liturgici dei tre secoli precedenti. La spiegazione di ciò deriva probabilmente dal fatto che durante la dinastia Comnena (fra XI e XII secolo) lo sviluppo delle arti fu sì prospero, ma non altrettanto favorevole alla crescita e
diffusione delle arti applicate84. In questa sezione non figurano oggetti risalenti a prima
del IX secolo, a dimostrazione del fatto che non se ne conservavano nella capitale
80 Perocco, 1986, p. 18 81 Pertusi, MCMXC, pp. 51-‐59 82 Frazer, 1986, p. 117
83 Leone da Ostia, Chronicon Monasterii Casinense, III, 32 84 Grabar, 1971, p. 15
bizantina, per più motivi: periodo iconoclasta (VIII-IX secolo), mutare dell’estetica, distruzioni volontarie e soprattutto è necessario tener conto della durata media di un
oggetto di arredo d’altare messo in uso85.
Malgrado le tecniche dissimili di lavorazione e la diversità dei materiali usati, il nucleo bizantino ha caratteristiche estetiche piuttosto omogenee. In quanto offerte fatte alla chiesa, quasi la totalità prevede oggetti sacri.
85 Grabar, 1971, p. 15
2.2.1. Calici e patene
Nel complesso delle opere bizantine si denota una prevalenza di calici, nonostante a Bisanzio si conservasse l’uso simultaneo di entrambi i vasa sacra nell’amministrazione della liturgia, il calice per il vino e la patena per il pane eucaristico86. Ne sono la testimonianza determinati vasi del tesoro marciano, rientranti tutti in una datazione compresa fra il IX e il XII secolo, che presentano delle iscrizioni: quelle dei calici riportano le parole del sacerdote nella consacrazione del vino, mentre la sola patena
recante una iscrizione riproduce la formula di benedizione del pane87. Durante la
celebrazione del culto, ai vasi eucaristici si accompagnavano gli Evangelari, ugualmente
decorati con fasto e posti sopra l’altare come elemento complementare88. Ad eccezione
di un esemplare, totalmente in argento dorato, i restanti calici bizantini del tesoro di San Marco sono tutti in pietra pregiata o in cristallo di rocca o semplicemente di vetro
sostenuti da una montatura metallica89. Tali vasi sono essenzialmente di due tipologie:
quella che ricorre più sovente è a forma di coppa impostata su un piede allungato, mentre l’altro tipo mostra una coppa appoggiata su un piede molto basso e dotata di due anse speculari. Le montature sono le parti che riservano la decorazione più accurata, in genere data da perle, pietre cabochon, smalti e niello; viceversa le coppe, solitamente in metallo, pietra o vetro, sono arricchite da motivi ornamentali in rilievo, o del tutto sprovviste di decorazione90. Oltre alle iscrizioni presenti nei calici, anche il loro programma iconografico concorre a definirne la funzione liturgica: l’immagine più rappresentata è quella di Cristo, a volte accompagnato da Maria in atto di preghiera, o
da S. Giovanni Battista, dagli Apostoli e da altri santi o vescovi91. È possibile che questi
oggetti abbiano in origine fatto parte di insiemi più numerosi, come quelli registrati dalle donazioni che Costantino fece alle basiliche romane di San Giovanni in Laterano e
di San Pietro, secondo quanto riportato dal Liber Pontificalis92.
86 Grabar, 1971, p. 15 87 Frazer, 1986, p. 118 88 Grabar, 1965, pp. 15-‐16 89 Pasini, 1885-‐86, p. 55 90 Grabar, 1965, p. 55 91 Ibid., pp. 55-‐57
92 Le Liber Pontificalis, a c. dell’abbé L. Duchesne (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, I e II, Parigi 1955
Le patene sono più rare dei calici93 e la loro forma non è adatta ad ospitare un’ampia decorazione in quanto il piede su cui poggiano è molto basso, mentre il piatto è coperto
dal pane eucaristico94. Prendendo in considerazione quelle del tesoro di San Marco, la
loro decorazione è analoga a quella dei calici95 e in genere è data da Cristo che può essere o meno accompagnato dalla Madre e da due Arcangeli.
Gli oggetti facenti parte di questa sezione hanno aspetti fortemente simbolici: l’estetica
bizantina era permeata infatti di simbolismo e astrazione96. Per quanto concerne la
lavorazione di questi oggetti bizantini infatti, tipica è la propensione all’uso dell’oro e alla doratura, nonché l’utilizzo di incrostazioni policrome, quali pietre, smalti e perle, che venivano applicate a grandi vasi di pietra intagliata; in genere agata, onice, serpentino e cristallo di rocca. L’opinione degli studiosi non è concorde nello stabilire la data e la derivazione di questi vasi, e ritiene genericamente che essi si rifanno all’età classica. Questo stile classicheggiante, espressione del “rinascimento” macedone bizantino (867-1056), ha favorito la glittica delle pietre dure, di cui il tesoro di San
Marco conserva molti esemplari97. Infatti, non sempre si tratta di vasi antichi
rimaneggiati a oggetti eucaristici e dotati di una montatura postuma: a volte si tratta
anche di imitazioni di coppe antiche intagliate in pietre dure e prodotte a Bisanzio98. Vi
sono anche altri due oggetti dotati di una montatura bizantina dell’XI secolo che si rifanno invece all’arte persiana-musulmana, uno in vetro traslucido, l’altro in vetro turchese. Il problema che si pone circa questi oggetti, non ancora risolto, è se anche
questi pezzi non appartengano al gruppo delle simulazioni costantinopolitane99.
Fra le opere di fattura bizantina si distingue l’oreficeria smaltata e l’oreficeria non smaltata. Lo smalto ebbe un florido sviluppo a Bisanzio come arte sostitutiva, in quanto
rimpiazzava gli ornamenti composti da pietre policrome100. Era consuetudine creare
delle piccole placchette, a causa della difficoltà di realizzare smalti di grandi
93 Al di fuori di Venezia si può citare solo un’altra patena bizantina medievale, la patena d’argento custodita nella cattedrale di Halberstadt. D. Talbot Rice, M. Himer, Arte di Bisanzio, Firenze 1959, tav. 136
94 Sul legame fra la patena e la tavola d’altare si veda A. A. Barb, Mensa sacra, The round table and
the Holy Grail, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, 19, 1956.
95 Frazer, 1986, p. 118 96 Polacco, 2001a, p. 288 97 Grabar, 1971, p. 16 98 Frazer, 1986, p. 118 99 Grabar, 1971, p. 18 100 Ibid.