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Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Specialistica in Filosofia e Forme del sapere

Tesi di Laurea

Virtù e saggezza nell’Etica Nicomachea

Candidato

Mariafrida Bonsignori

Relatore

Prof.ssa Maria Michela Sassi

Correlatore

Prof. Bruno Centrone

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Indice

Introduzione ... 1

I. I caratteri del sapere pratico ... 4

1.La classificazione dei saperi ... 4

2.Il metodo dell’etica ... 14

3.Gli endoxa ... 23

4.Il concetto di bene ... 32

II. Virtù morale e scelta ... 37

1.L’eudaimonia e la definizione della virtù come ergon dell’uomo ... 37

2.La scelta e la phronesis ... 55

3.La dottrina del giusto mezzo ... 71

4.Il confronto con le arti stocastiche ... 83

III. L’acquisizione della virtù morale ... 94

1.Virtù etiche e virtù dianoetiche ... 94

2.La virtù come hexis ... 99

3.Il carattere della phronesis... 112

4.Il ruolo della phronesis... 121

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IV. Phronesis ed esperienza ... 135

1.Il ruolo dell’empeiria nello svolgimento della phronesis ... 135

2.L’insegnamento e l’esperienza nell’acquisizione della phronesis ... 142

3.La formazione dell’esperto in legislazione... 149

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Introduzione

Questo lavoro di tesi è dedicato a definire le nozioni di virtù etica e saggezza e il rapporto che esse intrattengono nell’Etica Nicomachea di Aristotele, con particolare attenzione per l’analisi delle modalità con cui esse si acquisiscono: un’analisi che ci condurrà a riflettere sul ruolo significativo che l’esperienza (empeiria) riveste in tale ambito. La mia ricerca si è così sviluppata con l’obiettivo di fornire per prima cosa un quadro generale della riflessione etica aristotelica, per poter poi prendere in esame nel particolare la questione della formazione virtuosa.

Il primo capitolo presenta perciò una descrizione delle principali caratteristiche del sapere pratico, con l’obiettivo precipuo di evidenziare le basi su cui si sviluppa la riflessione aristotelica sulle virtù. Per tale indagine ho preso le mosse dalla divisione dei saperi elaborata nel primo capitolo del VI libro della Metafisica, in cui Aristotele, distinguendo il sapere teoretico dal sapere pratico e dal sapere produttivo, istituisce un’autonomia del pensiero etico la quale, come appare chiaro già nel I libro dell’Etica Nicomachea, coinvolge sia i metodi che il sapere pratico impiega, sia i criteri di validità che applica. Tali considerazioni mi hanno condotto a soffermarmi da una parte sull’uso particolare che viene fatto in questo ambito degli endoxa, e dall’altra ad affrontare uno dei principali punti di distacco dal pensiero platonico, che si può ravvisare in un diverso concetto di bene.

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Nel secondo capitolo, dopo aver delineato l’importante connessione fra eudaimonia e esercizio della virtù, mi sono dedicata all’esame dell’origine e dello sviluppo dell’arete all’interno dell’Etica Nicomachea. In questo senso ho esaminato la trattazione aristotelica della virtù, come funzionamento eccellente della parte razionale dell’anima, soffermandomi in particolare sul problema della volontarietà e della scelta, nonché sulla teoria del ‘giusto mezzo’. In questo contesto ho posto l’attenzione su alcuni riferimenti di Aristotele alle arti cosiddette stocastiche, prima di tutte la medicina, vista come modello della metodologia ‘empirica’ utile all’individuazione del giusto mezzo nella scelta dell’azione da compiere.

Nel terzo capitolo mi sono occupata specificamente della virtù morale, muovendo dalla divisione dei due tipi di virtù (etiche e dianoetiche) corrispondente a una bipartizione dell’anima, esposta nell’ultimo capitolo del I libro dell’Etica Nicomachea. Successivamente ho affrontato il problema dell’acquisizione della virtù morale, evidenziando la natura di tale virtù come ‘stato abituale’ (hexis), e l’importanza di un’educazione corretta per la sua acquisizione. Questo punto ha chiesto di spostare l’attenzione sui caratteri generali delle virtù dianoetiche, per poi passare a definire i caratteri di quella particolare virtù intellettuale che è la phronesis. In questa disamina ho tentato di illustrare da un lato il contributo della phronesis al fine eudaimonistico del sapere pratico, e dall’altro la peculiare

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collaborazione tra la phronesis e la virtù morale all’interno dell’azione; a queste riflessioni ho poi collegato la figura particolare dello spoudaios, descritta da Aristotele.

Proseguendo con l’esame della phronesis nel quarto capitolo, ho focalizzato finalmente l’attenzione sulla funzione dell’empeiria, non solo nell’esercizio della virtù, ma nel processo di acquisizione della saggezza stessa. Dopo aver a tal fine preso in esame i capitoli del VI libro dell’Etica Nicomachea che maggiormente illustrano tali questioni, mi sono dedicata allo studio dell’ultimo capitolo del trattato, in cui Aristotele, tornando a sottolineare lo scopo pratico della sua indagine, insiste sull’importanza che in ambito etico si impari ad agire virtuosamente piuttosto che ad apprendere che cosa è la virtù. Dopo aver mostrato l’inefficienza dei soli discorsi a tal fine, Aristotele sottolinea la necessità in questo senso dello sviluppo di una familiarità con le situazioni particolari, che solo l’esperienza può dare. Ho potuto perciò concludere affermando che la conoscenza esperienziale è fondamentale non solo nell’acquisizione della saggezza, ma anche nell’educazione del buon legislatore (di cui l'ultimo capitolo dell'Etica si occupa, come passaggio alla trattazione della Politica): Il legislatore ha la responsabilità di formulare buone leggi, atte a completare l'opera della paideia famigliare e pubblica, nell'orientare i cittadini verso la virtù.

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I. I caratteri del sapere pratico

1. La classificazione dei saperi

L’opera che costituisce il maggior monumento del pensiero etico aristotelico è l’Etica Nicomachea, motivo per cui essa costituirà il nostro principale punto di riferimento. Il corpus degli scritti aristotelici di filosofia pratica comprende, oltre alla Politica, due trattati di etica, intitolati rispettivamente Etica Nicomachea ed Etica Eudemia1, ai quali si aggiunge, inoltre, un terzo trattato, dal titolo Grande etica, il quale si deve però probabilmente a un discepolo diretto di Aristotele.

L’approccio di Aristotele allo studio del sapere pratico, presenta un punto di distacco dai suoi predecessori, fino a Platone, infatti, l’etica è parte integrante del sapere teoretico. Il pensiero aristotelico, invece, si basa sul fatto che vi sia una struttura finalistica dell’agire umano, e che quindi qualsiasi azione umana ha uno scopo, il che necessita dunque una ricerca specifica che abbia lo scopo di indaghi la struttura del comportamento umano.

1 La forma attuale dei trattati aristotelici deriva dall’ordinamento di Andronico di

Rodi. Ma, per quanto riguarda l’ordinamento delle due Etiche, è lecito ritenere che risalga, almeno in parte, già ad Aristotele. Entrambe le etiche, infatti, sono presenti in liste delle opere aristoteliche antecedenti l’edizione di Andronico.

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È infatti utile notare, a tale proposito, che la struttura dell’Etica Nicomachea, simile del resto in gran parte a quella dell’Etica Eudemia, si sviluppa secondo un percorso logico che conduce, attraverso una scoperta progressiva, all’identificazione del bene umano e della felicità.

Per limitarci qui all’esame dell’Etica Nicomachea, si può osservare che la trattazione ha inizio con l’indagine sul bene, inteso come il bene supremo, ma soprattutto come il bene umano (libro I). Questo viene individuato poi nella felicità; e nel voler studiare questa l’indagine si sposta sulla virtù etica prima nei suoi caratteri generali (II), e a seguire vengono prese in rassegna le virtù etiche particolari (II-V). Si giunge poi all’indagine che riguarda le virtù dianoetiche o intellettuali (libro VI), per poi passare alla trattazione dell’akrasia (mancanza di autocontrollo) (VII); infine, vengono trattate l’amicizia (VIII-IX), e la virtù perfetta per concludere con la felicità completa (X).

È il caso però di delineare qui, in via preliminare, uno sfondo che illustri il ruolo del sapere pratico all’interno della struttura generale dei saperi configurata da Aristotele, su cui, in seguito, poter proiettare le analisi compiute.

Il luogo classico in cui è da cercare la definizione del sapere pratico è il VI libro (Ε) della Metafisica. Precisamente nel capitolo 1, Aristotele introduce la nota classificazione delle scienze, in cui esse vengono suddivise in base al rapporto di connessione tra lo statuto ontologico dell’oggetto e quello epistemologico del sapere ad esso

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relativo, per cui, in base all’oggetto che si intende prendere in esame, occorre far riferimento a specifiche forme di sapere ad esso relative.

Tale criterio porta dunque a una tripartizione dei saperi in teoretico (theoretike episteme), pratico (praktike) e produttivo (poietike).

Ebbene, è evidente che la fisica non è scienza pratica né scienza poietica: infatti il principio delle produzioni è in colui che produce, ed è o l’intelletto o l’arte o altra facoltà; e il principio delle azioni pratiche è nell’agente ed è la volizione, in quanto l’oggetto dell’azione pratica e della volizione coincidono. Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica. (Metaph. VI 1, 1025b21-26)

Le scienze produttive e quelle pratiche hanno entrambe come oggetto di studio l’ambito delle azioni, ma l’oggetto di studio delle scienze produttive è costituito da azioni volte alla produzione di opere esterne all’uomo e che da lui hanno origine (poiesis), mentre quello delle scienze pratiche è costituito dalle azioni il cui fine rimane interno all’azione stessa (praxis), e hanno origine dall’uomo e dalle sue scelte. Per quanto riguarda, infine, le scienze teoretiche, l’oggetto che esse prendono in esame ha il suo principio in se stesso, sì che il soggetto si pone rispetto ad esso in una disposizione di puro conoscere (theoria).

Volendo considerare, inoltre, il quadro generale del sapere, notiamo che ognuno dei tre saperi si specifica in particolari discipline.

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Esse sono ben distinte le une dalle altre e trovano trattazione distinta negli scritti aristotelici.

Le discipline che costituiscono il sapere teoretico sono tre: la fisica, che studia le sostanze non immobili e separate, la matematica, che si occupa di quelle immobili e non separate, e la “filosofia prima”, che si occupa delle realtà immobili e separate. Le discipline che, invece, rientrano nell’ambito del sapere produttivo sono la retorica e la poetica, entrambe oggetto di trattati intitolati, appunto, Retorica e Poetica. Infine, per quanto riguarda il sapere pratico, esso comprende l’etica e la politica, che sono, infatti, trattate rispettivamente nelle due etiche, Etica Nicomachea e Etica Eudemia, e nella Politica.

È opportuno considerare che al criterio della divisione secondo gli oggetti di studio si aggiungono ulteriori criteri, come quello riguardante le differenze tra i fini che i saperi si prefiggono. Il fine del sapere teoretico è, infatti, il conseguimento della conoscenza dell’oggetto, la quale soddisfa il desiderio di sapere innato nell’uomo, mentre il fine di entrambi gli altri saperi consiste in qualcosa che va oltre il primo livello conoscitivo, ovvero nell’opera (ergon), intesa sia come “azione” sia come “produzione”.

Di qui deriva una netta differenza di ambito in cui i saperi si trovano ad operare: il sapere teoretico, infatti, prende in esame una verità che è indipendente dall’uomo, e si muove perciò all’interno di ciò che è necessario, e mira a risultati certi; per quanto riguarda, invece,

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i saperi pratico e produttivo, dal momento che si occupano di attività umane, e studiano ciò che può anche essere diversamente, troveranno il loro ambito di studio nel mondo del contingente, mirando a risultati validi solo ‘per lo più’.

Come ha osservato Walter Leszl2, riflettendo sul problema della divisione del sapere all’interno del corpus aristotelico, si può notare una certa tendenza di Aristotele a soffermarsi, piuttosto che su una tripartizione del sapere, sulla bipartizione fra sapere teoretico e pratico o fra teoretico e produttivo.

Tale bipartizione trova giustificazione in entrambi i casi nella presenza di un tratto comune che i saperi pratico e produttivo posseggono a differenza del sapere teoretico, il che sembra implicare un’unica linea di demarcazione nella struttura del sapere. Tale tratto comune sta nel fatto che tali saperi hanno un fine esterno al sapere stesso, mentre il sapere teoretico è fine a se stesso3.

Leszl, per contro, richiama l’attenzione su un tratto che accomuna piuttosto, nel discorso aristotelico, il sapere pratico e quello teoretico di contro al sapere produttivo. Egli nota, per esempio, che c’è una corrispondenza fra l’operare della facoltà appetitiva nel sapere pratico e l’operare della facoltà intellettiva nel sapere teoretico: tale corrispondenza sta nel fatto che al perseguire e evitare un determinato

2 W. Leszl, Alcune specificità del sapere pratico in Aristotele, in A. Alberti (a cura

di), Studi sull’etica di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1990, pp. 65-68.

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oggetto della facoltà appetitiva, di per sé incapace di giudizio, è parallelo l’asserirne e negarne l’esistenza sul piano teoretico.

C’è, in altre parole, una similarità sul piano del ragionamento, che avvicina il sapere pratico a quello teoretico più che a quello produttivo. Per usare le parole di Leszl: «Si ha così un riconoscimento di un parallelismo fra il ragionare pratico (quello non astratto ma effettivamente volto all’agire) e quello teoretico, che non esclude una loro sostanziale diversità.»4.

Il passo a cui fa riferimento si trova nel capitolo 2 del VI libro, in cui Aristotele sta descrivendo le differenze tra le virtù intellettuali.

Ciò che nel pensiero è affermazione e negazione, nel desiderio è ricerca e fuga, di modo che, siccome la virtù è uno stato abituale che produce scelte, e la scelta è un desiderio deliberato, proprio per questo, se la scelta è la migliore, il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto, e l’uno deve affermare e l’altro perseguire, gli stessi oggetti. (EN VI 2, 1139a21-26)

È chiaro, d’altronde, che non è possibile prescindere dalle peculiarità che caratterizzano il sapere pratico nella sua autonomia, né possono esserci dubbi, infatti, sulla differenza che sussiste tra il sapere pratico e quello teoretico.

Come abbiamo già accennato essi differiscono sia per l’oggetto di studio, che rende i rispettivi approcci epistemologici del tutto

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differenti, sia per il fine da essi prefissato. Quello della ricerca teoretica è, come già detto, puramente teorico e conoscitivo, mentre è sottolineato esplicitamente da Aristotele che il fine della ricerca pratica non riguarda affatto il raggiungimento di una conoscenza: «infatti il nostro fine non è la conoscenza (gnosis), ma l’agire (praxis)» (EN I 1, 1095a5).

Tale differenza è ulteriormente confermata, come abbiamo visto, anche dal fatto che la praxis riguarda l’ambito mutevole, incerto e imprevedibile del soggettivo, ambito nettamente distinto da quello del necessario che riguarda la conoscenza teorica.

Per usare le parole di Aristotele, sebbene entrambi questi saperi descrivano il modo “in cui stanno le cose”, l’uno si interessa alla verità e l’altro all’azione.

È anche giusto chiamare la filosofia ‘scienza della verità’, dal momento che il fine della <scienza> teoretica è la verità mentre quello della <scienza> pratica è l’azione. Difatti, coloro che sono interessati alla <scienza> pratica, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non si occupano di ciò che è eterno, bensì di ciò che è relativo e momentaneo. (Metaph. II 1, 993b19-23)

Mario Vegetti osserva, a tale proposito, che: «Aristotele depriva dunque, nello stesso tempo, la teoria forte di qualsiasi valenza pratica, […] e il sapere pratico di uno statuto conoscitivo forte»5: perciò tale

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netta demarcazione tra sapere teoretico e sapere pratico costituisce un punto cruciale per la comprensione del pensiero etico di Aristotele.

È certo, però, che neanche sulla differenza tra sapere pratico e sapere produttivo possono esserci dubbi: sebbene, infatti, si trovino entrambi a operare all’interno del mondo del possibile poiché trattano dell’ambito delle operazioni umane, esiste una sostanziale differenza tra il genere dell’azione (praxis) e quello della produzione (poiesis). Con il termine poiein, «produrre», intendiamo un genere di attività volta alla realizzazione di un qualche oggetto, mentre il termine prattein, «agire», connota l’attività in sé.

In un passo dell’Etica Nicomachea, in particolare, Aristotele chiarisce tale distinzione, soffermandosi sulla differenza tra arte (techne) e saggezza (phronesis). Dal momento che di tale differenza si parlerà più specificamente in seguito, ci limitiamo a ricordare qui che in questo passo la techne viene descritta come stato abituale produttivo secondo ragione, mentre la phronesis è descritta come stato abituale pratico secondo ragione (EN VI 4, 1140a2-22).

Osservando tali stati abituali, dunque, viene messa nuovamente in luce la distinzione tra il processo produttivo, che ha per fine la generazione di un’opera, e quello pratico che ha invece come fine la correttezza dell’azione stessa. «Infatti il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre quello della prassi non lo è, dato che lo stesso agire con successo è fine» (EN VI 5, 1140b4-7).

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È anche vero, del resto, che del confronto con la techne (arte/tecnica) viene fatto un ampio utilizzo nell’Etica Nicomachea: si fa infatti ricorso ad essa come termine di paragone, come vedremo anche in seguito, soprattutto per meglio descrivere alcuni elementi specifici del sapere etico, come ad esempio la teoria del giusto mezzo6.

La ragione di tale accostamento sarà possibile intenderla meglio esaminando un passo del I libro della Metafisica, in cui è presente una descrizione gerarchica delle forme del sapere. Qui la techne si colloca a un livello epistemologico che si trova a metà tra la scienza (episteme), cui è inferiore, e l’esperienza (empeiria), cui è superiore.

Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti molti ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, come dice Polo, produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili. (Metaph. I, 980b26-981a7)

La techne viene così a rappresentare un’importante linea di demarcazione tra la specie umana e tutte le altre specie di animali. Altre

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capacità, infatti, come la sensazione (aisthesis), sono infatti comuni a tutti gli animali, e solo alcuni di essi posseggono la memoria (mneme), grazie alla quale si dimostrano essere più intelligenti degli altri. Ciò che poi deriva dalla memoria, è l’esperienza (empeiria), dalla quale nasce la techne.

Dal momento, però, che dell’esperienza si parlerà più nello specifico in seguito, ci limitiamo qui a osservare che tali facoltà cognitive vengono elencate all’interno di un percorso ascensivo della conoscenza che, partendo dalle capacità conoscitive più specifiche del mondo sensibile, progressivamente arriva alle capacità del mondo intellegibile, trovando la sua realizzazione nella sophia in quanto forma di conoscenza più alta.

L’esperienza, d’altronde, si trova al livello di conoscenza che precede immediatamente quello della techne: «sembra che chi ha esperienza sia considerato più sapiente di chi ha una qualsiasi sensazione, chi possiede l’arte più di chi ha esperienza, chi dirige più del manovale, e le scienze teoretiche più di quelle produttive» (Metaph. I, 981b30-982a1).

La empeiria è dunque il primo stadio di conoscenza prettamente umana. Essa consente all’uomo di andare oltre la conoscenza del particolare verso l’universale, grazie alla dotazione di un’anima razionale.

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Tale forma di conoscenza, come vedremo, non si limita a conoscere il che delle cose ma può arrivare a riconoscerne anche le causa, producendo saperi come quello della techne. Essa però, data l’attinenza con l’ambito produttivo delle attività umane, non può essere considerata scienza (episteme): si colloca, quindi, nell’ambito del contingente ed è connotata da caratteri di funzionalità e utilità.

Ora, dal momento che sia la techne sia il sapere pratico si occupano del particolare e dell’accidente, appartenendo all’ambito dell’attività umana, ne consegue che chi studia l’etica, come anche chi si occupa di techne, dovrà riservare uno sguardo particolare alla realtà, relativo in ogni caso alla contingenza del campo in cui si muovono.

Pur nella somiglianza con il sapere produttivo però, come abbiamo visto, il sapere pratico rimane una forma di conoscenza autonoma rispetto alle altre, e presenta perciò un metodo specifico, che merita un’attenta considerazione.

2. Il metodo dell’etica

L’insistenza di Aristotele sull’autonomia del sapere pratico mette in evidenza, come sottolinea Vegetti7, l’intenzione di garantire a tale sapere una specificità metodica. Aristotele, infatti, intende affermare

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che il tipo di analisi che sta compiendo è da ritenersi in ogni caso una scienza, la quale a causa dell’instabilità e variabilità dell’argomento che tratta necessita di uno specifico metodo di studio.

Notiamo come, fin dal I capitolo del I libro dell’Etica Nicomachea, vengono sottolineate le caratteristiche del metodo che guida lo studio della prassi e l’ambito particolare che la caratterizza: come accade spesso, del resto, gli incipit dei trattati aristotelici presentano, oltre agli argomenti, anche l’ordine e il metodo dell’indagine che verrà condotta.

Volendo osservare in quale misura le peculiarità del fine e dell’oggetto del sapere pratico influiscono sul metodo della ricerca, si può innanzitutto individuare come primo elemento, proprio di tale metodo, la delimitazione del discorso: «Ma avremo parlato a sufficienza se avremo fatto luce per quanto lo permette la materia trattata, infatti non si deve ricercare la precisione nella stessa misura in tutti i discorsi» (EN I 1, 1094b11-13).

La ricerca etica, infatti, si sviluppa in un campo limitato dal quale sono escluse alcune questioni, come l’unità o la plurivocità del bene, a proposito della quale Aristotele osserva che «forse è meglio lasciare da parte tali problemi, dato che analizzarli con precisione è cosa più adatta a un’altra disciplina filosofica8» (EN I 4, 1096b29-31).

8 L’altra disciplina filosofica è, in questo caso, la filosofia dei principi primi. Altrove

Aristotele rinvia, per distinzioni più approfondite, ad altre trattazioni o ad altre forme di sapere, come, per esempio la retorica(1101b34-35), o, come vedremo poco più

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Una simile limitazione ha luogo nel capitolo 10 del I libro riguardo alla questione se la felicità sia un dono che gli dèi fanno agli uomini.

Ora se vi è davvero, in generale, qualcosa che gli dèi donano agli uomini, è ragionevole pensare che la felicità sia un dono divino; […] Ma questo punto, probabilmente, è più adatto a un’altra ricerca (skepseos) (1099b11-14).

Altri argomenti, invece, sono oggetto di studio del sapere pratico ma solo in parte, come la divisione dell’anima di cui si parlerà più approfonditamente nel prossimo capitolo. In tali occasioni la delimitazione del discorso etico riguarda in particolare, infatti, il grado di ‘precisione’ (akribeia) da ricercare.

Ciò equivale a dire che non è importante, ai fini della ricerca pratica, conoscere tali questioni nei dettagli, ma è sufficiente avere su di essa una conoscenza generale, per cui è necessario «studiare l’anima, ma studiarla per quei fini e nella misura adeguata al problema che ci siamo posti; sottilizzare maggiormente sarebbe certo un lavoro troppo ampio rispetto al nostro proposito» (EN I 13, 1102a23-26).

La praxis si differenzia, infatti, dagli oggetti dei saperi teorici per il fatto che mentre questi sono caratterizzati da necessità immutabile, l’oggetto di studio dell’etica è caratterizzato da intrinseca

avanti nel testo, lo studio dell’anima (in riferimento a quello compiuto nel De Anima) (1102a23-32).

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contingenza. Tale differenza si può osservare tramite una delle numerose analogie con l’ambito produttivo di cui Aristotele si serve per illustrare l’ambito morale, come avremo modo di osservare meglio in seguito.

Anche un costruttore e un matematico indagano in maniera diversa l’angolo retto, cioè uno studia l’angolo retto solo per quanto è utile alla sua opera, l’altro indaga cosa esso sia e quali siano le sue determinazioni, dato che è un contemplatore del vero. Bisogna procedere nello stesso modo anche negli altri casi, affinché ciò che è secondario non prenda il sopravvento sul nostro compito principale. (EN I 7, 1098a29-33)

In questa analogia viene messo in luce lo scopo pratico che caratterizza sia il sapere pratico sia quello produttivo: in essa si può, infatti, notare che i modi di guardare a uno stesso oggetto, in questo caso l’angolo retto, devono essere diversi in relazione alla ricerca che si sta compiendo. Il matematico (teoreta) sarà attento a capirne le proprietà, le regole e le caratteristiche essenziali, mentre il costruttore si servirà dei soli dati utili a realizzare la propria opera. Anche nell'Etica Eudemia è presente un’analogia, in questo caso con la medicina, che allo stesso modo contrappone il metodo di studio delle scienze teoretiche alle produttive.

Non vogliamo infatti sapere che cosa è il coraggio, ma essere coraggiosi; e neppure sapere che cosa è la giustizia, ma essere giusti, proprio come anche

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vogliamo avere buona salute più che conoscere che cosa è la salute ed essere in buona forma fisica più che conoscere che cosa è la buona forma. (EE I 5, 1216b21-25)

Ora, poiché il grado di rigore da perseguire deve essere proporzionato all'oggetto di studio, il carattere di variabilità e instabilità, che connota il campo di studio del sapere pratico, non permetterà altro approccio alla verità se non per approssimazione (pachylos) e a grandi linee (typoi).

Dunque ci si deve accontentare se, trattando di tali argomenti e a partire da tali premesse, la verità viene mostrata solo approssimativamente e a grandi linee, e se, riguardo a oggetti che sono per lo più e a partire da premesse simili, non si giunge che a conclusioni per lo più. (EN I 1, 1094b16-22)

Poiché tale sapere giunge solo a conclusioni ‘per lo più’9, tutto il discorso dell’etica sarà necessariamente impreciso e valido solo ‘per lo più’ (hos epi to poly), e dovrà essere sviluppato in questo modo, come si insiste anche a proposito dell’esame delle singole virtù.

Tutto il discorso sulla prassi deve essere sviluppato a grandi linee e senza precisione, come abbiamo detto anche all’inizio, quando abbiamo affermato che bisogna attendersi discorsi conformi alla materia trattata; ciò che rientra

9 Ciò viene specificato anche negli Analitici Secondi in occasione della descrizione

sui sillogismi dimostrativi: «se le premesse sono necessarie, anche la conclusione risulta necessaria; se invece le premesse esprimono ciò che avviene per lo più, anche la conclusione esprimerà qualcosa di simile» (I 30, 87b24 -25).

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nel campo della prassi e dell’utile non ha nulla di stabile, come non lo ha nemmeno ciò che rientra nel campo della medicina. (EN II 2, 1104a1-5)

Tali espressioni non ricorrono solo in contesti metodologici, ma lungo tutto il trattato sull’etica Aristotele vi fa ricorso, in tutte le occasioni in cui intende sottolineare che, nonostante l’argomento preso in esame non sia stato descritto in ogni suo particolare, ciò di cui si è discusso è ciò che interessa alla ricerca in corso10.

Questo significa che il risultato che tale sapere ottiene non è il più accurato e dettagliato, ma non è né errato né falso, poiché presenta il grado di accuratezza adeguato alla trattazione.

È importante porre l’accento sul fatto che la validità del ‘per lo più’ non caratterizza esclusivamente l’etica, ma è comune per alcuni versi anche alla fisica, disciplina teoretica. Nel VI libro della Metafisica, infatti, la fisica viene descritta come la scienza che: «tratta di un genere particolare dell'essere: tratta, precisamente, di quel genere di sostanza che contiene in sé medesima il principio del movimento e della quiete» (Metaph. VI 1, 1025b19-21), sostanza della quale si aggiunge che è «quella sostanza la quale per lo più (hos epi to poly) è secondo la forma, solo che non è separata» (1025b26-28).

La fisica, perciò, si occupa di ciò che non è sempre e necessariamente in un solo modo, ma, avendo come oggetto il divenire,

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si occupa di qualcosa che può essere diversamente. Negli Analitici Secondi a tale proposito si afferma che si può parlare di scienza dimostrativa, e quindi di sillogismo dimostrativo, anche nel caso in cui le premesse del sillogismo costituiscano qualcosa che avviene solo 'per lo più', come accade appunto per la fisica: «in effetti, ogni sillogismo si sviluppa o attraverso premesse necessarie, o attraverso premesse esprimenti qualcosa che avviene per lo più» (An. Post. I 30, 87b22-24).

Vi è però una differenza tra il carattere di imprecisione della fisica e quello dell’etica, la quale è dovuta alla differenza dello scopo che tali scienze si prefiggono. Nella ricerca fisica, infatti, dato il suo fine di puro conoscere, si giunge a proposizioni generali valide per lo più a partire da un ripetersi ‘per lo più’ di eventi non necessari ma comunque relativamente stabili; mentre nella ricerca etica lo scopo è pratico, ciò che è importante raggiungere è sapere come agire in situazioni specifiche.

A proposito di tale differenza Natali osserva, dunque, che: «Lo scopo pratico dell’etica determina una inversione del rapporto tra universale e particolare, tra ‘che’ e ‘perché’: è più importante conoscere ciò che si avvicina al particolare e sapere cosa fare, che conoscere l’universale e il perché»11.

11 C. Natali, Etica, in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari

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Del resto è Aristotele stesso a specificare che lo scopo del sapere pratico non è conoscere le cause: «Principio, difatti, è il che: e se in questi oggetti apparirà sufficientemente chiaro, non vi sarà bisogno del perché» (EN I 2, 1095b6-7). Come già abbiamo osservato, infatti, il fine del sapere pratico è agire virtuosamente, per cui non è utile alla trattazione soffermarsi sulla pura conoscenza.

Siccome la presente trattazione non si propone la pura conoscenza, come le altre (infatti non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtù, ma per diventare buoni, perché altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione), allora è necessario esaminare il campo delle azioni, come le si debba compiere, dato che sono esse a determinare la qualità del carattere, come abbiamo già detto. (EN II 2, 1103b26-31)

Nella trattazione di filosofia pratica, infatti, non si va alla ricerca di prescrizioni universali, ma si prende in esame l’azione concretizzando le definizioni generali attraverso esempi particolari.

E se i discorsi in universale hanno queste caratteristiche, il discorso sui casi singoli mancherà anche più di precisione, infatti il discorso sul caso singolo non rientra in nessuna arte né in alcuna serie di precetti, ma è necessario, sempre, che chi agisce prenda in esame ciò che riguarda l’occasione presente, proprio come si da nel caso della medicina e dell’arte del pilota. (EN II 2, 1104a5-9)

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Qui entra un importante riferimento alle arti stocastiche che si prestano ad essere validi riferimenti ai fini dell’illustrazione di alcuni degli aspetti del procedere del sapere pratico, questioni che verranno esaminate più approfonditamente nei prossimi capitoli.

È, però, utile notare qui come il confronto con il procedere delle arti stocastiche sia funzionale a mostrare innanzi tutto l’aspetto legato all’adattamento delle proprie scelte alle singole situazioni particolari sulla base di orientamenti generali. Tale carattere, infatti, costituisce non solo la materia di ricerca dell’etica, ma anche il modo di procedere tipico delle technai stocastiche.

Come il medico e il pilota, colui che agisce virtuosamente deve elaborare una capacità di giudizio data dall’esperienza delle cose. Di conseguenza è chiaro che al fine di poter sviluppare al meglio le proprie competenze, nella ricerca sulla prassi saranno quasi di maggior utilità quei discorsi che fanno riferimento a cose e fatti concreti, che possano servire come esempi e modelli da seguire.

Non si devono dire queste cose solo in generale, le si deve applicare ai casi particolari, infatti nei discorsi che riguardano il campo della prassi, quelli universali sono più vuoti, quelli particolari sono più veritieri. Infatti le azioni riguardano i casi particolari, ed è necessario adeguarsi ad esse. (EN II 7, 1107a28-33)

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Come osserva Vegetti12, tali caratteristiche metodologiche consentono al sapere pratico di essere del tutto autonomo dalla teoria, e di collocarsi piuttosto nella dimensione specifica dell’azione umana. Ciò consente a tale sapere di godere di «un profilo metodico sicuramente più modesto, ma anche capace – agli occhi di Aristotele – di produrre esiti meno paradossali, più garantiti ed efficaci, se si vuole anche più rassicuranti»13.

3. Gli endoxa

Occorre ora soffermarsi in particolare su un aspetto fondamentale del metodo della ricerca filosofica di Aristotele, cioè l’uso degli endoxa. Sono chiamate endoxa le opinioni, in particolar modo quelle autorevoli, e di queste si tratta primariamente nei Topici (I 1, 100b21 e segg.).

Poiché, all’interno della descrizione dei Topici, gli endoxa sono presentati come elementi fondamentali della struttura dell’argomentazione dialettica, sarà utile in questa sede accennare al funzionamento di tale argomentazione al fine di illustrare in cosa tali endoxa consistano14.

12 M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., p. 162. 13 M. Vegetti, ibidem.

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Un’argomentazione di tipo dialettico si svolge fra due interlocutori e si sviluppa a partire da una questione che, posta dall’interrogante in forma disgiuntiva, viene presentata a un rispondente che è chiamato a prendere posizione al riguardo, scegliendo tra le tesi alternative.

L’interrogante, a questo punto, sottoporrà al suo interlocutore una serie di proposizioni (gli endoxa), le quali, se accettate dal rispondente, saranno utilizzate come premesse per la confutazione della tesi precedentemente scelta. La discussione trova una fine quanto la tesi viene confutata o se l’interrogante abbandona l’impresa.

Ora è chiaro che mentre il rispondente, da parte sua, tenterà nei limiti del possibile di non accettare tali proposizioni, l’interrogante dovrà servirsi degli endoxa, i quali, derivanti in parte dalla tradizione orale e in parte da dottrine raccolte in opere scritte, risultano opinioni che il rispondente più difficilmente sarà portato a rifiutare, in quanto opinioni rispettate e di buona reputazione.

Gli endoxa vengono perciò definiti: «Le opinioni di tutti, o della maggior parte, o dei sapienti, e fra questi di tutti, o della maggior parte, o di quelli più noti e rispettati» (Top. I 1, 100b21-23). Attraverso questa descrizione si può notare che non sono gli endoxa a essere esaminati: sono, piuttosto, utilizzati da uno degli interlocutori al fine di mettere in discussione le opinioni dell’altro.

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Gli endoxa dunque costituiscono le premesse da cui muove l’argomentazione al fine di costituire le eventuali conferme o confutazioni delle tesi da esaminare. Le opinioni che si mostrano adatte e utili ai fini della ricerca filosofica sono, infatti, solo alcune, perché per essere dei corretti punti di riferimento, essi devono godere di una qualche attendibilità.

Così per esempio nel corso del I libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele afferma prima, a proposito di come bisogna intendere il bene, che: «Ora, esaminare15 tutte le opinioni (doxai) è, forse, abbastanza inutile; ci basterà esaminare le più diffuse, o quelle che sembrano avere argomenti in loro favore» (EN I 2, 1095a28-30); e in seguito, a proposito della distinzione fra i tre tipi di beni (esterni a noi, del corpo, e dell’anima): «e così avremo detto bene, almeno secondo questa doxa, che è antica ed è ammessa da tutti i filosofi» (I 8,1098b17)16.

Del resto Aristotele afferma che quando si ricorre all’uso di opinioni derivanti da autorità e tradizioni è naturale pensare che queste non siano completamente in errore.

15 In questo caso vediamo che l’operazione che intende Aristotele fare è ‘esaminare’

(exatezein), le diverse concezioni di bene, al fine di accertarne la consistenza. Occorre ricordare a proposito che il termine ‘exatezein’ è il termine proprio dell’attività della dialettica: «Questa per altro è l’attività propria della dialettica, o comunque quella che più le si addice: essendo infatti impiegata nell’indagine, essa indirizza verso i principi di tutte le scienze» (Top. I 2, 101b3-4).

16 Natali osserva che, sebbene per lo più nel resto del corpus sia ‘endoxa’ il termine

che indica le “opinioni notevoli", nei trattati morali il termine utilizzato non è endoxa bensì doxai. C. Natali, Etica, cit., p. 250.

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Che sia ragionevole pensare che ci sia un margine di verità almeno su alcuni aspetti di definizioni già date, viene affermato a più riprese sia nella Metafisica che in entrambe le Etiche.

La ricerca della verità è per un verso difficile e per un altro verso facile; lo prova il fatto che non è possibile né che un solo uomo colga la verità in modo adeguato né che non la colga nessuno. Ognuno, invece, può dire qualcosa sulla natura, e se ciascuno singolarmente non aggiunge nulla o aggiunge poco <a tale ricerca>, tuttavia da tutte le riflessioni unite insieme può nascere, a riguardo, qualcosa di considerevole. (Metaph. II 1, 993a31-993b4)

Nell’Etica Eudemia, il fatto che sia del tutto ragionevole affidarsi a un repertorio di opinioni veritiere, trova conferma nell’osservazione che in tutti gli uomini è presente una naturale disposizione alla verità: «Ciascuno ha infatti il suo peculiare contributo da dare per il raggiungimento della verità ed è necessario condurre la dimostrazione in certo modo a partire da questo» (EE I 6, 1216b30-32). Per quanto riguarda, invece, l’Etica Nicomachea, un riferimento a quest’aspetto si trova nella discussione circa la definizione di felicità, sulla quale vi sono molte e diverse opinioni, le quali però sembrano possedere tutte un certo margine di verità.

Alcune di queste opinioni sono state sostenute da molti personaggi e antichi, altre solo da pochi, ma famosi: è ragionevole che nessuno di loro si

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sia sbagliato in tutto, ma che abbiano avuto ragione almeno su un punto, o anche su più di uno. (EN I 9, 1098b27-29)

Occorre a questo punto osservare che all’interno della ricerca filosofica, oltre agli endoxa, si fa riferimento ai legomena, letteralmente “ciò che è detto”, anch’essi ritenuti validi di un certo margine di verità, per cui costituiscono materiale utile come base per la ricerca. I legomena, infatti, sono ‘ciò che generalmente si dice a proposito di qualcosa’, e consistono in opinioni pubbliche e condivise, o in convinzioni diffuse nella comunità sociale.

Sempre a proposito dell’indagine sulla felicità, ad esempio, Aristotele afferma che non basta affidarsi alle premesse del ragionamento e alle conclusioni raggiunte, ma occorre anche tenere conto di ciò che viene detto a proposito.

Bisogna indagare su questo principio non solo in base alla conclusione cui siamo arrivati ed alle premesse del nostro ragionamento, ma anche a partire da quanto si dice (legomenon) su di esso. Tutti i fatti concordano con ciò che è vero, ma vengono ben presto in conflitto con il falso. (EN I 8 1098b9-12)

Non solo però ‘ciò che generalmente si dice’ viene preso in considerazione: vi è, infatti, un altro importante elemento costituito dai phainomena (ciò che pare o appare vero a tutti, o ai più, o ai saggi). Essi devono essere delle testimonianze cui far riferimento, al fine di avvalorare le proprie tesi: «A proposito di tutte queste cose bisogna

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cercar di ottenere credito con le argomentazioni servendosi dell’evidenza dei fatti (phainomenois) come di testimonianze ed esempi» (EE I 6, 1216b26-28).

Occorre notare, però, che mentre nei trattati di scienze fisiche con il termine phainomena si intendono i dati della realtà naturale che si mostrano evidenti all’osservatore, in ambito etico essi sono ciò che appare vero all’uditorio o all’agente. Ciò si può notare, in un caso, a partire dall’incipit dell’Etica Nicomachea.

Ogni arte e ogni indagine, come pure ogni azione e scelta, a quanto si crede, persegue un qualche bene, e per questo il bene è stato definito, in modo appropriato, come ciò cui tutto tende. Ma appare evidente che vi è una certa differenza di fini. (EN I 1 1094a1-2)

Per quanto riguarda l’atro caso, quello cioè in relazione a ciò che osserva l’agente, è utile ricordare almeno il passo relativo al problema del bene ‘apparente’ (phainomenou, EN III 7, 1114b1), in cui viene usato tale termine per indicare appunto ciò che all’uomo appare come vero bene.

Natali commenta tale differenza, rilevando: «una gradazione di attendibilità crescente tra doxai e phainomena: i phainomena hanno una

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certa pretesa alla verità, maggiore di quella delle semplici doxai, ma non sono necessariamente veri»17.

L’uso che viene fatto degli endoxa all’interno della ricerca, è sottolineato nell’Etica Eudemia specificando che compito della ricerca filosofica è anche vagliare e chiarificare i contenuti di tali opinioni, per renderli espliciti e coerenti. La discussione di un endoxon, infatti, costituisce un momento incoativo per la ricerca, attraverso un procedimento che determina le eventuali imprecisioni, oscurità o contraddizioni presenti in tali opinioni, che può anche arrivare a determinare ciò che ha portato allo sviluppo di un’eventuale opinione errata.

Ciascuno ha infatti il suo peculiare contributo da dare per il raggiungimento della verità ed è necessario condurre la dimostrazione in certo modo a partire da questo: infatti a partire di quel che dicono di vero, ma senza chiarezza, si raggiungerà nel corso del procedimento anche la chiarezza accogliendo via via le cose più note tra quante si è soliti dire confusamente. (EE I 6, 1216b30-34)

Tale esame delle opinioni è il punto di partenza della ricerca, poiché il vaglio, cui tali opinioni sono sottoposte, consente di risalire alla natura stessa della cosa, come viene dichiarato e spiegato all’inizio

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del libro VII dell’Etica Nicomachea, dove ha inizio l’indagine sull’akrasia.

Bisogna, come negli altri casi, dopo avere stabilito ciò che appare vero (phainomena) e avere, per prima cosa, sviluppato le aporie, comprovare al meglio tutte le opinioni autorevoli su tali affezioni, o, se non è possibile, la maggior parte e le più importanti: nel caso che siano state risolte le difficoltà e si lascino sussistere le opinioni autorevoli, si sarà data una dimostrazione sufficiente. (EN VII 1, 1145b2-7)

Vediamo qui delinearsi dunque l'uso degli endoxa come strumento per 'risolvere le aporie'. Il procedimento diaporetico prevede, infatti, che a partire da opinioni opposte intorno a un certo argomento (aporiai), si deducano le conseguenze di entrambe tali opinioni.

A questo punto le conseguenze devono essere confrontate con gli endoxa relativi all'argomento in questione, attraverso un esame che verifichi se le conseguenze siano in accordo con gli endoxa, con tutti, o almeno la maggior parte. Infine, al termine di questo esame, una delle due tesi, quella confutata, verrà eliminata, mentre l'altra, quella dimostrata in linea con gli endoxa, sarà conservata.

Tale procedimento viene presentato nell'Etica Nicomachea come metodo per scoprire nuove informazioni: «ora, più o meno sono tali le aporie che si presentano, e in questo campo alcune cose si devono eliminare, mantenere: infatti la soluzione delle aporie è una scoperta» (EN VII 4, 1146b6-8).

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Nell'Etica Eudemia si aggiunge una vera e propria indicazione dell’intero processo dimostrativo legato a tale metodo.

Bisogna ora trovare un'argomentazione che insieme ci dia conto nel modo migliore delle opinioni intorno a questi problemi e anche risolva le difficoltà e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: un'argomentazione di questo genere sarà nel massimo accordo con i fatti evidenti; e le tesi contrapposte risultano mantenersi se quel che asseriscono è vero in un senso, ma in un altro no. (EE VII 2, 1235b13-18)

Il ricorso agli endoxa del resto, frequente all’interno di tutto il corpus aristotelico, assume in ambito etico aspetti particolari che vediamo ora di enucleare.

Nell’Etica Nicomachea, infatti, oltre a far riferimento a opinioni attribuite a personaggi di cui si riconosce l’autorità (Cfr. EN I 8 1098b17-18), Aristotele fa uso di opinioni sedimentate in un sapere comune, condivise «dai più», sottolineando l’importanza di una connessione tra il mondo della quotidianità sociale e la riflessione morale.

È significativo che tali opinioni, che possiamo in un certo senso definire “popolari”, non siano tenute in conto come validi punti di riferimento all’interno degli altri settori del sapere aristotelico, mentre, in sede di riflessione etica, esse risultano avere una certa importanza ai fini della ricerca, motivo per cui vengono prese in considerazione e sono ritenute degne di un particolare esame.

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Aristotele perciò non disdegna affatto di attingere a una morale comune, atteggiamento che, d’altronde, si combina e integra con l’attenzione all’esperienza concreta. Aristotele, infatti, osserva spesso e anche all’inizio dell’Etica Nicomachea, «bisogna partire da ciò che è noto, ma questo ha due sensi: ciò che è noto per noi e ciò che è noto in assoluto; è probabile quindi che noi si debba partire da ciò che è noto a noi» (EN I 2, 1095b2-4). Concludendo con Vegetti.

Si vede bene, a questo punto, come la configurazione metodica sia consequenziale alla separazione epistemologica dalla teoria. Entrambe avvicinano decisamente la filosofia pratica aristotelica al mondo della quotidianità sociale.18

4. Il concetto di bene

È opportuno considerare a questo punto l’importanza che riveste, all’interno della struttura del sapere pratico, il concetto di bene. È proprio in riferimento al bene che, infatti, si apre l’Etica Nicomachea con l’assunzione che vi è un fine in ogni arte, indagine, azione e scelta umane, da cui segue la definizione di bene come il fine di ogni cosa, «Ogni arte e ogni indagine, come pure ogni azione e scelta, a quanto si

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crede, persegue un qualche bene, e per questo il bene è stato definito, in modo appropriato, come ciò cui tutto tende» (EN I 1, 1094a1-3).

Già in questo incipit è possibile individuare una prima e generale definizione del concetto di bene: esso è “ciò cui tutto tende”, il fine di ogni attività umana, ed essendo il fine ultimo di tutte le azioni è fondamentale, all’interno della riflessione sull’etica, comprenderne la natura.

Ora, tale concetto di bene rappresenta un punto di forte di distacco dal pensiero platonico, che è opportuno osservare più nello specifico. L’idea platonica del Bene, viene criticata da Aristotele, con l’argomento che il bene, è qualcosa che si predica secondo le categorie. L'idea platonica di Bene, infatti, è, l’idea suprema che sta al vertice dell’intero mondo delle idee e dalla quale le altre dipendono. Essa è perciò un’unità che comprende e unifica ogni tipo di bene, costituendo il fulcro dell’unità di teoria, etica e politica. Come osserva Vegetti, essa è «il massimo oggetto di teoria, il fondamento ultimo di valore e il principio di orientamento della prassi»19.

A causa, dunque, di questa sua natura unitaria e trascendente, essa è oggetto di un particolare genere di sapere che è la dialettica, in una connessione che trova maggior approfondimento nel VII libro della Repubblica, successivamente alla narrazione del mito della caverna (506A).

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Per Platone la dialettica mostra la deducibilità di tutte le idee dall’idea di bene, il che comporta l’esistenza di una sorta di connessione tra le idee e ne rivela, nei rapporti di inclusione ed esclusione, l’essere e la verità.

Aristotele, in linea con la sua inedita suddivisione dei saperi, non condivide questa posizione della dialettica come genere unico di scienza, e ritiene parallelamente necessaria un'analisi differenziale del concetto di bene, del quale va riconosciuta una pluralità, in quanto si parla di beni in relazione a molte e diverse cose.

Come afferma nel capitolo 4 del I libro, in cui prende in esame tale questione, ci si occupa di bene in diversi ambiti e con diversi approcci epistemologici, a seconda di quale sia l’ambito di realtà che viene preso in esame. Addirittura si trovano esempi di situazioni in cui si parla di bene con diverse sfaccettature in relazione anche a una singola categoria.

Siccome il bene si dice negli stessi modi in cui si dice l’essere, infatti si dice nella categoria della sostanza, come il dio e l’intelletto, e nella qualità, come le virtù, e nella quantità, come la giusta misura, e nella relazione, come l’utile, e nel tempo come il momento opportuno, e nel luogo, come l’habitat naturale, e via dicendo, allora è chiaro che il bene non potrà essere qualcosa di comune, universale e uno. Altrimenti non lo si direbbe in tutte le categorie ma in una soltanto. […] Per esempio del momento opportuno si occupa, in caso di guerra, l’arte militare, e in caso di malattia la medicina; della giusta

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misura si occupano sia la medicina, riguardo alla dieta, sia la ginnastica, riguardo agli esercizi. (EN I 4, 1096a22-34)

La posizione espressa qui da Aristotele comporta innanzitutto l’osservazione di tipo linguistico, che di bene si parla in molti modi. È poi da osservare che la distinzione categoriale di bene non lascia spazio ad alcuna definizione esclusivamente unitaria, quale quella presupposta nell’ambito della gerarchia del mondo delle idee. Tale nozione è presente, del resto, anche in un passo dell’Etica Eudemia.

E come appunto nemmeno l’essere è qualcosa di uno nelle cose enumerate, così neanche il bene; né c’è una scienza unica né dell’essere, né del bene . Ma neppure i beni espressi nella stessa categoria spetta di considerarli a una sola scienza, […] sicché ben difficilmente proprio lo studio del bene-in-sé apparterrà a una sola scienza. (EE I 8, 1217b33-1218a1).

La differenzazione del bene, dunque, comporta anche una corrispettiva distinzione dei saperi, elemento fondamentale, come abbiamo visto, per il pensiero aristotelico. Aristotele descrive il proprio concetto non unitario di bene a partire dall’esame dei fini. Esiste infatti una molteplicità di fini, alla quale, come sottolinea a più riprese all'interno della trattazione, corrisponde una molteplicità di beni. Oltre, infatti, a quanto viene detto nell'incipit, cioè che ogni azione viene compiuta in vista di «qualche bene», egli afferma anche che «il bene è diverso in ogni diverso tipo di azione e di arte» (EN I 5, 1097a16): tale

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molteplicità fa sì che sia possibile parlare di bene in senso unitario solo per analogia (EN I 4, 1096b17). Non si può più parlare, dunque, di un bene unico, ma occorre parlarne nella sua plurivocità, osservando la molteplicità di beni attraverso una gerarchia di desiderabilità, al vertice della quale si colloca il bene pratico: «in ogni azione e scelta è il fine, infatti tutti compiono tutto per esso. Di modo che, se vi è un qualche fine di tutte le azioni che si compiono, questo verrà a essere il bene pratico» (EN I 5, 1097a21-23).

È utile osservare che tale bene pratico, inteso come ciò in vista di cui si sceglie di compiere una determinata azione, è strettamente connesso alle intenzioni del soggetto morale, e quindi con la volontarietà. Ora, sulla questione della volontarietà delle azioni, su cui Aristotele si sofferma soprattutto nel III libro dell’Etica Nicomachea (1109b30-1111b3), ci occuperemo più approfonditamente nel prossimo capitolo, ciò che, però, ci interessa osservare qui è che a partire dalla critica alla teoria intellettualistica socratica che viene fatta in tale sede è possibile osservare ulteriori elementi che caratterizzano il concetto aristotelico di bene, come vedremo20.

20 Cfr. Le pagine dedicate alla questione della volontarietà in relazione alla

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II. Virtù morale e scelta

1. L’eudaimonia e la definizione della virtù come ergon dell’uomo Volendo analizzare il ruolo dell’eudaimonia nell’etica aristotelica è necessario, in via preliminare, soffermarsi sul problema che nasce a partire dalla traduzione di tale termine greco.

Va ricordato, anzitutto, che i termini usati tradizionalmente per tradurre in italiano le parole della produzione letteraria e filosofica greca derivano, in gran parte, dalla traduzione latina di tali termini, la quale ha origine a partire dal I secolo a.C. dagli scritti di Cicerone, Lucrezio, Seneca, Quintiliano e altri. Per quanto riguarda nello specifico il termine eudaimonia, la traduzione in latino fu felicitas, termine dal quale deriva l’italiano “felicità”. Ora, il significato del termine “felicità”, nel suo senso più comune attuale, è piuttosto differente dal significato del termine eudaimonia. Esso (come anche del resto altri termini nelle lingue moderne, ad esempio happiness in inglese, o bonheur in francese) connota infatti un senso di appagamento, ottenuto in seguito a un evento specifico positivo come la soddisfazione di un desiderio o di un bisogno21.

21 La definizione deriva dalle voci “felice” e “felicità” del Dizionario della lingua

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Tale aspetto, invece, non è presente nel termine greco, il quale rinvia piuttosto a un senso di successo e prosperità nel corso della vita. Il problema che, dunque, tale differenza semantica comporta è dato dal fatto che la felicità, in quanto emozione legata a un evento singolo, implica uno stato d’animo momentaneo, mentre l’eudaimonia, come vedremo meglio a breve, è una condizione della vita umana che persiste nell’arco dell’intera esistenza.

Si è tentato talvolta, per supplire a tale problema, di tradurre basandosi sul senso etimologico dei termini22: tale tentativo si è rivelato però inconcludente, poiché insufficiente a descriverne il concetto completo. Tradurre “essere accompagnati da un buon demone” (eu daimon), non può essere certo proponibile oggi, in quanto innanzitutto il termine attuale ‘demone’ non si identifica con ciò che gli antichi intendevano con daimon (un’entità che si pone nel mezzo tra divino e umano, come una sorta di intermediario), che non connota necessariamente un senso ‘maligno’; inoltre, anche rispettando il significato antico del termine daimon, la traduzione basata sull’etimologia non corrisponde al concetto Aristotelico di eudaimonia.

Un altro tentativo, invece, è stato quello di cercare nuovi termini, di uso corrente, che potessero restituire nella traduzione un significato più fedele del termine greco. Risultato di tale approccio è, ad esempio,

22 Per il problema legato alla traduzione di eudaimonia, e i relativi tentativi di

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l’espressione adottata dai studiosi anglosassoni che traducono il termine eudaimonia con ‘flourishing’ (crescita, fioritura), al fine di mettere in evidenza il senso di sviluppo prospero connotato dal termine greco.

Anche questo però risulta impreciso, tant’è vero che, per esempio, Carlo Natali23, per risolvere tale problema, suggerisce di servirsi piuttosto comunque della traduzione tradizionale “felicità”, purché chi si appresta alla lettura delle Etiche sia avvertito che essa non corrisponde perfettamente al greco eudaimonia.

Ma osserviamo allora le origini filosofiche, più che etimologiche, del concetto di eudaimonia. Questo non è, infatti, esclusivamente aristotelico, ma centrale in tutta l’etica antica. L’eudaimonia, come spiega Vegetti24, è infatti la risposta che gli antichi davano alla

domanda “perché il bene è da preferire? perché dovrei agire moralmente?”. Il raggiungimento della felicità è dunque il motivo per cui si agisce virtuosamente. L’eudaimonia dunque come scopo della condotta morale, è una promessa di felicità, la quale assume nel corso della riflessione antica forme diverse e complesse.

Essa viene descritta infatti, a partire da Omero, come la gioia ingenua degli eroi data dalle vittorie in battaglia come premio per la loro virtù, viene in seguito identificata con il piacere epicureo, che soddisfa i bisogni del corpo e realizza così la serenità dell’anima, per

23 C. Natali, Etica, cit., p. 246.

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gli stoici invece essa consiste nella felicità data dall’autonomia del saggio, del tutto indifferente a ogni seduzione o minaccia del mondo esterno.

L’aspetto che in ogni caso rimane costante nelle diverse forme di eudaimonia è il suo carattere di fine e motivazione all’azione morale. Non per caso, dunque, la sequenza argomentativa che definisce la felicità si trova nel I libro dell’Etica Nicomachea, in cui l’eudaimonia viene definita come bene umano, in accordo con l’opinione comune, con la precisazione che, non essendoci accordo nella definizione di questa, occorre trovarne una specifica.

Tale indagine ha inizio dalla riflessione sul rapporto fra le azioni e i fini che esse perseguono: si nota, infatti, che esistono diversi generi di azioni, per cui vi saranno, in corrispondenza ad essi, diversi fini. Questi possono essere di due generi: produzioni (erga) o azioni (energeiai), la distinzione delle quali sta nel fatto che alcune di esse sorgono, a loro volta, in vista di altre, fatto che rende queste ultime preferibili alle prime (EN I 1, 1094a4-7).

Questa diversificazione mette in luce il fatto che esiste una gerarchia dei fini, la quale presuppone l’esistenza di uno o più fini ultimi, che non siano subordinati ad altri, senza i quali altrimenti la catena finalistica proseguirebbe all’infinito.

Il termine di questa catena di fini viene identificato con il “bene umano”, al quale i più danno il nome di eudaimonia (EN I 2, 1095a18),

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riguardo a cosa sia effettivamente tale felicità, tuttavia, vi è molto disaccordo, in particolare relativamente alla definizione che di felicità dà la «massa» e quella che ne danno i «sapienti».

Ora, per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo nella maggioranza: sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama ‘felicità’, e credono che vivere bene (eu zen) e avere successo (eu prattein) siano la stessa cosa che essere felici (eudaimonein). Ma su cosa sia la felicità, vi è disaccordo, e la massa non la intende nello stesso modo dei sapienti , dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o onore, e altri altro. (EN I 2, 1095a16-22)

L’eudaimonia risulta, dunque, in qualche modo legata al vivere bene, e all’agire bene, aspetti fondamentali per comprendere l’etica aristotelica, come vedremo.

Altra opinione diffusa, nella quale Aristotele vede un margine di verità, è, infatti, che la felicità sia da valutarsi in base allo stile di vita che si conduce: «non senza ragione, a quanto pare, la gente giudica cosa siano il bene e la felicità a partire dai modi di vivere» (EN 1 3, 1095b14-16). Così, per esempio, soprattutto la massa “e le persone volgari” identificano la felicità con il piacere, ritenendo una vita felice quella dissoluta, in linea con l’opinione degli schiavi e delle bestie. Le persone «raffinate e attive», di contro, identificano la felicità con l’onore (time), conducendo una vita dedita ad esso, per poter mettere in evidenza la propria virtù.

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La trattazione prosegue nel capitolo 4 con l’esame sul bene universale, in cui si sviluppa la critica più o meno esplicita al bene platonico, sulla quale non ci soffermeremo ulteriormente avendola discussa precedentemente 25.

A partire da quanto osservato viene delineata nel capitolo 5 una descrizione del bene che consente infine di dare una definizione della felicità. In quanto fine ultimo, infatti, il bene è «qualcosa di perfetto», e nel caso in cui ci dovessero essere più fini ultimi, il bene verrebbe a essere certamente il più perfetto di tutti. Tale caratteristica di perfezione è riconoscibile in quanto, a differenza di altri beni, il fine più perfetto sarà quello perseguito esclusivamente per sé.

Ma ciò che è perseguito per sé è detto ‘più perfetto’ di ciò che è perseguito a causa di altro, e ciò che mai è perseguito a causa di altro viene detto ‘più perfetto’ delle cose che sono perseguite sia per sé, sia a causa di esso, allora in assoluto è perfetto ciò che è sempre scelto per sé e mai a causa di altro. E si stima che tale sia soprattutto la felicità: infatti la scegliamo sempre per sé e mai per altro, mentre scegliamo, sì, onore, piacere, intelletto e ogni virtù anche per loro stessi, infatti sceglieremmo ciascuno di essi anche quando non ne derivasse altro bene, ma li scegliamo anche in vista della felicità, stimando che saremo felici a causa loro. (EN I 5, 1097a30-1097b5)

25 Cfr. Il paragrafo concetto di bene nel precedente capitolo, circa la critica al bene

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Da tale argomentazione risulta che la felicità presenta una condizione di autosufficienza (autarkeia), e che si riconosce dal fatto che ‘basta a sé stessa’ e non va sommata ad altro, essa è perciò «un modo di vivere degno di essere scelto» (I 5, 1097b15). Il che ci riporta al capitolo 3, in cui la felicità, descritta come correlato di un bios, un modo di vivere e di agire che determina una vita completa e perfetta, è da giudicarsi in base allo stile di vita.

Ora, tale bios è quello in cui si realizzano le proprie capacità in modo eccellente, e tale realizzazione è data dall’operare in modo opportuno, e dal riuscire bene nella propria attività. Tali aspetti sono, di fatto, da considerarsi in relazione all’opera dell’uomo in quanto tale. Aristotele infatti osserva, nel capitolo 6 del I libro, che così come per ogni parte del corpo anche per l’uomo in generale ci sarà un operare tipico.

O: proprio come appare evidente che dell’occhio, della mano, del piede e , più in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è evidentemente un operare tipico, così anche per l’uomo si può porre una qualche opera propria, al di là di tutte quelle particolari? (EN I 6, 1097b30-35)

È fondamentale, dunque, al fine di determinare quale possa essere l’attività umana che svolge il ruolo di opera (ergon) propria dell’uomo, escludere anzitutto le attività che l’uomo ha in comune con gli altri esseri. Non possono essere identificati come l’ergon più

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