III. L’acquisizione della virtù morale
4. Il ruolo della phronesis
Per chiarire il ruolo che la phronesis riveste all’interno del sapere pratico, occorre osservare l’aporia dalla quale si sviluppa il capitolo 13 del VI libro.
Tale aporia rimanda alla questione dell’eudaimonia, affrontata nel I libro dove la felicità era stata individuata nell’attività eccellente delle parti dell’anima, e in particolare della parte migliore, quella razionale (EN I 13, 1098a12-18)67.
Ma nel VI libro il rapporto fra felicità e virtù dianoetiche, in particolare sapienza e saggezza, è problematizzato:
Ma uno potrebbe domandarsi a cosa esse servano, infatti la sapienza non prende in considerazione nulla di ciò a partire da cui una persona potrebbe diventare felice, dato che non si preoccupa di nessun tipo di generazione, mentre la saggezza, a dire il vero ha proprio questo per oggetto; ma perché ci dovrebbe essere bisogno di lei? (EN VI 13, 1143b17-21)
Aristotele prende in esame delle obiezioni che potrebbero effettivamente essere rivolte all’utilità della phronesis ai fini della felicità. Il primo argomento si basa sul fatto che la saggezza, in quanto conoscenza, sarebbe inutile nell’ambito della prassi. L’uomo che acquisisce la disposizione virtuosa, agirà virtuosamente anche senza sapere cosa sia un’azione virtuosa.
Se è vero che la saggezza riguarda ciò che è giusto, nobile e buono per una persona, e tali sono le azioni che a un uomo dabbene spetta di compiere, non diverremo per nulla più capaci di agire per il fatto di conoscere tali cose, se è vero che le virtù sono stati abituali; e lo stesso vale anche per le cose sane o legate alla forma fisica, quando siano dette tali non per il fatto di produrre un tale stato abituale, ma perché derivano da esso. Infatti non diverremo certo più capaci di agire in modo efficace, per il solo fatto di possedere la scienza medica e la ginnastica teorica. (EN VI 13, 1143b22-28)
Vediamo agire in tale argomentazione un riferimento, che va ad aggiungersi ai numerosi altri che abbiamo potuto vedere, all’ambito delle technai: in questo caso l’esempio è relativo al fatto che la sola
conoscenza di ciò che è indice di buona salute o ottima forma fisica non produce né la salute né la forma fisica. Del resto anche la seconda obiezione si appoggia a un riferimento alla medicina (1143b29-33). Ciò che intende dimostrare è che la saggezza non sarà di nessuna utilità per chi è già virtuoso, ma neanche per chi non lo è, che semplicemente si troverà a seguire le indicazioni di chi già possiede la virtù, come fa un malato che per guarire non si accinge a studiare medicina, ma obbedisce alle direttive del medico.
Ora, per risolvere l’aporia, Aristotele afferma che non è corretto porsi domande sull’utilità di sapienza e saggezza, dal momento che entrambe, in quanto stati eccellenti dell’anima, devono essere ricercate di per sé, anche se non producessero niente (1144a1-3). Anche in I 9, in occasione della definizione di virtù come eccellente funzionamento dell’anima, si argomenta con un ragionamento analogo, in cui si afferma che le azioni virtuose sono di per sé piacevoli.
Per ciascuno è piacevole ciò di cui lo si dice ‘appassionato’, per esempio per l’appassionato di ippica un cavallo, per lo spettatore appassionato uno spettacolo, e allo stesso modo sono piacevoli anche le azioni giuste per l’amante della giustizia e più in generale le azioni secondo virtù per l’amante della virtù. Ora, per la massa le cose piacevoli sono in conflitto tra loro, perché non sono piacevoli per natura, ma per gli amanti delle belle azioni sono piacevoli le cose piacevoli per natura. E tali sono le azioni secondo virtù, cosicché sono piacevoli e in sé e per costoro. Il loro modo di vivere, quindi, non ha affatto bisogno che si aggiunga il piacere, come se fosse una
specie di decorazione posticcia, ma ha il piacere in sé stesso» (EN I 9, 1099a8-16).
Subito dopo si aggiunge, però, che in effetti tali virtù producono qualcosa. Ora, riguardo alla questione della sapienza (sophia), la quale meriterebbe una trattazione specifica, in questa sede ci limitiamo a ricordare che essa è descritta da Aristotele come parte della virtù intera e produttrice di felicità (VI 13, 1144a3-6).
Più importante, però, per il nostro discorso è che riguardo al contributo della saggezza Aristotele pone l’accento sul fatto che essa è un elemento indispensabile per l’agire virtuoso che conduce alla felicità: «Inoltre l’operare proprio dell’uomo giunge a compimento secondo la saggezza e la virtù morale: infatti la virtù rende corretto il fine, e la saggezza ciò che porta a esso» (VI 13, 1144a6-8). Senza soffermarci ora su questo punto in particolare, al quale dedicheremo il prossimo paragrafo, è interessante osservare che se fino a questo momento le virtù morali e intellettuali sono state considerate separatamente, vediamo ora che la phronesis viene presentata in connessione privilegiata con la virtù morale.
Tale legame è sottolineato mediante una distinzione fra i caratteri della saggezza e un’altra qualità dell’uomo definita ‘abilità’ (1144a23). Questa consiste nella capacità di cogliere e compiere le azioni che meglio portano allo scopo che il soggetto si è prefissato ma è di per sè neutra: se, infatti, lo scopo prefissato è buono, essa sarà ritenuta
lodevole, altrimenti, «se lo scopo è ignobile, tale capacità è furberia» (1144a27).
Perciò, sottolinea Aristotele, la saggezza non si identifica con tale facoltà, anche se non si dà senza di essa (1144a27-28). Anche in ambito etico, del resto, vi è qualcosa che è in rapporto con la virtù ‘in senso proprio’, in modo analogo al rapporto fra la mera ‘capacità’ e la saggezza: vi è, infatti, una «virtù naturale» (physike arete, 1144b3), per esempio negli animali e nei bambini, che può anche essere dannosa, in quanto priva di una qualche guida razionale.
Come a un corpo forte privo di vista capita di cadere rovinosamente per il fatto di non possedere la vista, così stanno le cose anche in questo caso; quando uno avrà acquisito il ben dell’intelletto, l’agire sarà differente, e lo stato abituale, pur essendo simile a quello naturale, sarà virtù in senso proprio. E così, proprio come vi sono due specie della parte opinativa, abilità e saggezza, così anche riguardo al carattere vi saranno due specie, la virtù naturale e la virtù in senso proprio, e, di queste, quella in senso proprio non si genera senza saggezza. (1144b10-17)
In un precedente capitolo era già scritto del resto che le virtù morali e la phronesis in qualche modo si intersecano: la virtù morale come stato abituale che tende al giusto mezzo, e la saggezza come stato abituale che, possedendo la verità nell’ambito pratico, consente di individuarlo.
Siccome la virtù è uno stato abituale che produce scelte, e la scelta è un desiderio deliberato, proprio per questo, se la scelta è la migliore, il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto, e l’uno deve affermare e l’altro perseguire, gli stessi oggetti. (EN VI 2, 1139a22-26)
Natali commenta questo passo osservando come sia l’elemento razionale, sia quello desiderativo siano presenti in entrambe le virtù: «la virtù etica è uno stato abituale a scegliere, determinata da un ragionamento […], la phronesis è verità in accordo con il desiderio corretto»68.
A questo punto appare più chiaro dunque il motivo per cui, alla conclusione del ragionamento del VI libro, Aristotele senta il bisogno di apporre una «piccola modifica» alla definizione della virtù, che illustri più correttamente il rapporto tra tali elementi: è, cioè, più adeguato affermare che la virtù è uno stato abituale unito (meta) alla retta ragione, piuttosto che secondo (kata) la retta ragione.
Anche oggi tutti, quando definiscono la virtù, dopo aver detto che è stato abituale e che cosa riguarda, aggiungono che è lo stato abituale secondo la retta ragione, e ‘retta’ è quella che è secondo la saggezza. Pare quindi che tutti sentano in qualche modo che uno stato abituale siffatto, quello secondo la saggezza, è virtù. Ma bisogna fare una piccola modifica: non semplicemente lo stato abituale che è secondo (kata) la retta ragione, ma
quello che è strettamente connesso (meta) alla retta ragione è virtù, e la saggezza riguardo a questo campo è retta ragione. (EN VI 13, 1144b21-28)
L’unione e collaborazione di virtù morali e saggezza viene riproposta subito dopo con l’osservazione che tale rapporto può essere espresso mediante un doppio ‘non senza’: «Così, da quanto detto, è chiaro che non è possibile essere buoni nel senso più autorevole senza saggezza né saggi senza la virtù morale» (1144b30-32).
Anche nel X libro la stretta relazione fra saggezza e virtù morale verrà descritta come un’unione vera e propria, affermando che «si uniscono, sia la saggezza con la virtù del carattere, sia la virtù del carattere con la saggezza, perché i principi della saggezza sono secondo le virtù etiche, e il retto ragionamento delle virtù etiche è secondo saggezza» (X 8, 1178a16-19).