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Il carattere della phronesis

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 115-124)

III. L’acquisizione della virtù morale

3. Il carattere della phronesis

Occorre a questo punto trattare degli elementi che caratterizzano una particolare virtù intellettuale, la phronesis. L’esame della saggezza si svolge nel VI libro, in apertura del quale è stabilito, non a caso, un diretto riferimento alla trattazione della ‘retta ragione’ nel II libro, in particolare nel passo in cui Aristotele pone l’accento sulla necessità che chi agisce lo faccia secondo retta ragione (orthos logos): «Ora, che si debba agire in conformità con la retta ragione è ammesso da tutti, e lo si dia per stabilito; più avanti si discuterà questo punto» (EN II 2, 1103b32-33).

Proprio in riferimento a questo punto comincia il VI libro, ponendo un collegamento fra retta ragione e virtù intellettuali, nello specifico la saggezza (phronesis).

Siccome poi in precedenza abbiamo accennato che si deve scegliere il giusto mezzo, e non l’eccesso, né il difetto, e che il giusto mezzo è tale, quale lo stabilisce la retta ragione, esaminiamo questo punto. Infatti, in tutti gli stati abituali di cui abbiamo parlato, come anche negli altri, vi è un certo obiettivo, guardando al quale l’individuo razionale si impegna o allenta la tensione, e vi è un criterio che determina le medietà, […] Per questo anche riguardo agli stati abituali dell’anima, è necessario non solo che ciò sia affermato – ed è la verità – ma anche che si definisca qual è la retta ragione (orthos logos) e quale ne è il suo criterio (horos). (EN VI 1, 1138b16-34)

Una definizione completa di orthos logos sarà raggiunta alla fine del libro, precisamente nel capitolo 13: solo a tal punto, infatti, sarà chiaro il motivo per cui si arriva a identificare la retta ragione con la saggezza.

Anche oggi tutti, quando definiscono la virtù, dopo aver detto che è stato abituale e che cosa riguarda, aggiungono che è lo stato abituale secondo la retta ragione, e ‘retta’ è quella che è secondo la saggezza. Pare quindi che tutti sentano in un certo modo che uno stato abituale siffatto, quello secondo saggezza, è virtù. (EN VI 13, 1144b21-25)

Nei primi capitoli del VI libro intanto, posta la questione del rapporto fra l’orthos logos e la phronesis, Aristotele si dedica all’esame del complesso delle virtù intellettuali, tema lasciato in sospeso in I 13, per cui intende ripartire proprio dall’esame dell’anima.

Allora, quando abbiamo distinto le virtù dell’anima, abbiamo detto che alcune di esse sono virtù morali e altre sono virtù intellettuali; ora, dopo aver passato in rassegna le virtù morali, diremo quanto segue riguardo alle rimanenti, toccando per prima cosa ciò che riguarda l’anima. (EN VI 2, 1138b35-1139a3)

Il problema della composizione dell’anima fra due parti irrazionale e razionale, viene dunque ripreso qui per essere qui ulteriormente approfondito, mediante un’ulteriore divisione delle funzioni dell’anima razionale, corrispondente a una distinzione dei relativi ambiti. Abbiamo così una parte definita scientifica (epistemonikon), ossia la parte razionale ‘in senso stretto’, che ha come oggetto il necessario, e che è del tutto autonoma dalla parte irrazionale; e una parte definita calcolatrice (logistikon), la quale, invece, si occupa del contingente e della deliberazione, e cioè di oggetti che possono essere anche diversamente, e ha perciò un rapporto con la parte desiderante.

Poniamo che le parti razionali siano due, quella con cui contempliamo quegli enti, i principi dei quali non ammettono di essere diversamente, e quella con cui consideriamo gli enti che lo ammettono; infatti nei confronti di enti diversi per genere sono diverse anche le parti dell’anima che per natura hanno come oggetto ciascuno di essi, se è vero che tali parti ne hanno conoscenza sulla base di una certa somiglianza e affinità. Diciamo che l’una è la parte scientifica e l’altra è la parte calcolatrice, infatti il deliberare e il

calcolare sono la stessa cosa, e nessuno delibera su ciò che non può essere diversamente. (EN VI 2, 1139a6-14)

Sulla base di tale suddivisione, così com’era stato fatto per la parte irrazionale dell’anima, comincia un’indagine su quali siano, nell’ambito delle virtù dianoetiche le eccellenze proprie della parte ‘scientifica’ e di quella ‘desiderante’, ricordando che comunque «la verità (aletheia) è l’operazione propria (ergon) di tutte e due le parti intellettuali, e dunque gli stati abituali, secondo i quali ciascuna di esse si troverà maggiormente nel vero, ne saranno le virtù proprie» (EN VI 2, 1139b12-14)59.

Ora, le eccellenze della parte scientifica sono individuate nella scienza (episteme), l’intelletto (nous), e la sapienza (sophia). Di queste tre virtù, la prima a essere presa in esame è la scienza (episteme): essa, in quanto virtù della parte scientifica, si occupa di ciò che è necessariamente, e quindi di ciò che è eterno «tutti noi riteniamo che ciò di cui abbiamo scienza non possa essere diversamente da come è» (1139b20-21), e, nel suo senso più proprio, viene definita «uno stato abituale che produce dimostrazioni» (VI 3, 1139b31). Tale descrizione della scienza, non viene dimostrata in questa sede, ma è fondata esclusivamente su un rimando agli Analitici (1139b32).

Le altre virtù scientifiche, intelletto e sapienza, vengono trattate molto in breve e vengono definite in stretta relazione con la scienza: il nous, infatti, viene definito (VI 6) come la sede dell’intellezione dei principi primi dei quali la scienza si serve per le proprie dimostrazioni, mentre la sophia viene descritta, secondo quanto stabilito nella Metafisica60, come «intelletto e scienza insieme, […] come una scienza autocefala delle cose più importanti» (1141a19-20).

Per quanto riguarda invece le eccellenze della parte calcolatrice vediamo che esse sono individuate nelle virtù dell’arte (techne) e della saggezza (phronesis).

Aristotele avvia la descrizione di tali virtù attraverso un confronto fra queste, soffermandosi sul fatto che appartengono entrambe allo stesso genere (quello calcolatore), ma sono di due specie diverse. Techne e phronesis, infatti, non sono contenute l’una nell’altra: la prassi non è produzione e la produzione non è prassi (VI 4, 1140a5- 6), per cui la definizione a cui si giunge è che: «l’arte, come abbiamo detto, è un certo stato abituale, unito a ragione in modo veritiero, produttivo» (1140a9-10).

Ora, tra tutte le cinque virtù dianoetiche, quella che maggiormente viene presa in esame è la saggezza (phronesis). Del resto Natali61 suggerisce che si possa vedere l’intero VI libro dedicato alla

60 Cfr. Metaph. VI 1, 102620a21 e ss.

sola saggezza. Per cui oggetto di tali capitoli sarebbe la descrizione della phronesis per differentiam rispetto alle altre forme di virtù intellettuali, soprattutto in relazione alla scienza e all’arte.

Mentre, come abbiamo visto il confronto con la techne è esplicito, quello con l’episteme rimane tra le righe. La differenza sostanziale tra queste due forme di virtù è infatti data dal fatto che mentre l’episteme si occupa di ciò che è necessario, la phronesis è legata, come abbiamo osservato più volte, alla sfera di ciò che può essere diversamente.

Alla descrizione più specifica della phronesis è dedicato il capitolo 5, in cui si sviluppa una definizione, dall’osservazione delle caratteristiche dell’uomo che viene chiamato saggio.

Potremo comprendere cosa sia la saggezza nel modo seguente: osservando quali persone noi diciamo sagge. Sembra quindi che caratteristica propria del saggio sia la capacità di ben deliberare su ciò che è ben e utile per lui, non negli ambiti particolari, come ciò che lo è per la salute o per il vigore fisico, ma in ciò che lo è per la vita buona in generale. Indizio ne è il fatto che noi chiamiamo ‘saggi’ anche quelli che si limitano a un qualche ambito particolare, quando calcolano bene in vista di un qualche fine eccellente che non sia oggetto di qualche arte, cosicché, anche in generale, chi sa deliberare sarà saggio. (EN VI 5, 1140a24-31)

Il saggio, dunque, sa cosa è bene per l’uomo e come gli è possibile realizzarlo, e non solo lo sa, ma lo mette effettivamente in

pratica, poiché solo così può essere considerato saggio. Egli dunque, quando delibera, compie una ricerca (zetesis), che ha lo scopo di individuare il modo più appropriato dell’azione.

Da tale definizione risulta evidente la connessione fra la saggezza e la deliberazione che, ricordiamo, ha luogo su ciò che può essere diversamente62. Ora, Natali osserva che la deliberazione, che rappresenta un «concetto chiave» all’interno del VI libro, si presenta sotto due aspetti: per prima cosa essa è ciò che produce la scelta, che si trova in «stretta connessione tra ragionamento e desiderio, dato che la scelta è desiderio deliberato», ma un’altra sua importante caratteristica è data dal suo vertere sul particolare, più che sull’universale63.

La phronesis è determinante nella deliberazione, grazie alla sua relazione con la verità nell’ambito pratico: «rimane solo che la saggezza sia uno stato abituale veritiero, unito a ragionamento, pratico, che riguarda ciò che è bene e male per l’uomo» (EN VI 5, 1140b4-6). A sostegno di tale definizione vengono portati due esempi, che sono attinti dal bagaglio di opinioni diffuse al quale Aristotele fa riferimento spesso, come abbiamo anticipato nel secondo capitolo64, per confermare le proprie tesi. Il primo esempio è offerto da Pericle, cui è riconosciuta la capacità di cogliere il bene non solo per se stesso, ma anche per l’uomo in generale.

62 Cfr. La descrizione della deliberazione pp. 68-70. 63 C. Natali, Il metodo e il trattato, cit., pp. 127.

Per questo riteniamo che Pericle e i suoi simili siano saggi, perché sanno cogliere sia ciò che è bene per loro stessi sia ciò che è bene per l’uomo; e riteniamo anche che siano tali coloro che governano la propria casa e gli uomini politici. (EN VI 5, 1140b8-11)

Il riferimento a Pericle, oltre a suggerire un elemento di polemica con Platone65, risulta interessante anche per il fatto che ci troviamo di fronte a un modello di uomo eccellente, elemento che, come vedremo, è fondamentale per la formazione etica.

Il secondo esempio che rafforza la definizione della phronesis è la formazione della parola ‘temperanza’ (sophrosune). Aristotele osserva, infatti, che tale termine fa diretto riferimento alla funzione di tutela della saggezza (soizousan ten phronesin), in quanto la temperanza fa sì che il piacere e il dolore non condizionino negativamente il principio secondo cui si deve agire (EN VI 5, 1140b11-19).

L’esame della saggezza non si esaurisce, però, con queste determinazioni. Nel capitolo 8 del VI libro, infatti, Aristotele riprende nuovamente la definizione di phronesis, concentrandosi soprattutto

65 Cfr. Il Gorgia di Platone, in cui la discussione tra Callicle e Socrate riguardo

all’opera politica di Pericle (515e-516d) vede Socrate affermare che «da tutto questo ragionamento risulta, dunque, che Pericle non fu un buon politico» 516d1-2.

sull’aspetto pratico di essa66, e sul carattere particolare dell’oggetto di cui si occupa.

La saggezza riguarda le cose umane e quelle su cui è possibile deliberare, infatti diciamo l’attività tipica del saggio è soprattutto questa, il ben deliberare. Nessuno delibera su ciò che non può essere diversamente, né su ciò di cui non si dà un fine che sia un bene pratico; chi delibera bene, in generale, è colui che tende al miglior bene pratico per l’uomo sulla base del ragionamento calcolante. (EN VI 8, 1141b8-14)

I ragionamenti della phronesis, in quanto essa delibera sul contingente e sulla prassi, non possono che avere come oggetto il prakton agathon, il che sembra collegare la saggezza all’eccellenza della parte calcolatrice dell’anima razionale (come definita in VI 2), anche se Aristotele non lo afferma mai esplicitamente.

Segue poi, nel capitolo 8, un’ulteriore precisazione che riguarda il tipo di oggetti di cui la phronesis si occupa, tale che il suo sapere differisce dal sapere teoretico.

La saggezza non riguarda solo gli universali, ma deve conoscere anche i casi particolari, infatti è pratica, e la prassi riguarda i casi particolari: per questo anche in altri campi vi sono alcuni, gli esperti, che, pur senza

66 Natali parla appunto, in questo caso, di un «nuovo esame della phronesis», che

dimostra mediante un confronto tra i capitoli VI 5 e VI 8 -9. C. Natali, Il metodo e il trattato, cit., pp. 132-135.

conoscere l’universale, sono più capaci di agire di quelli che lo conoscono. (EN VI 8, 1141b15-18)

Da questo passo si apre un altro problema relativo al rapporto tra phronesis ed esperienza, che sarà oggetto del prossimo capitolo, per cui dopo aver delineato quei caratteri della phronesis, che la allontanano dal sapere teorico e la avvicinano a quello pratico, occorre riflettere sul ruolo che essa precisamente svolge nell’azione virtuosa, ponendosi con ciò in particolare rapporto con la virtù etica.

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 115-124)