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L’eudaimonia e la definizione della virtù come ergon dell’uomo

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 40-58)

II. Virtù morale e scelta

1. L’eudaimonia e la definizione della virtù come ergon dell’uomo

aristotelica è necessario, in via preliminare, soffermarsi sul problema che nasce a partire dalla traduzione di tale termine greco.

Va ricordato, anzitutto, che i termini usati tradizionalmente per tradurre in italiano le parole della produzione letteraria e filosofica greca derivano, in gran parte, dalla traduzione latina di tali termini, la quale ha origine a partire dal I secolo a.C. dagli scritti di Cicerone, Lucrezio, Seneca, Quintiliano e altri. Per quanto riguarda nello specifico il termine eudaimonia, la traduzione in latino fu felicitas, termine dal quale deriva l’italiano “felicità”. Ora, il significato del termine “felicità”, nel suo senso più comune attuale, è piuttosto differente dal significato del termine eudaimonia. Esso (come anche del resto altri termini nelle lingue moderne, ad esempio happiness in inglese, o bonheur in francese) connota infatti un senso di appagamento, ottenuto in seguito a un evento specifico positivo come la soddisfazione di un desiderio o di un bisogno21.

21 La definizione deriva dalle voci “felice” e “felicità” del Dizionario della lingua

Tale aspetto, invece, non è presente nel termine greco, il quale rinvia piuttosto a un senso di successo e prosperità nel corso della vita. Il problema che, dunque, tale differenza semantica comporta è dato dal fatto che la felicità, in quanto emozione legata a un evento singolo, implica uno stato d’animo momentaneo, mentre l’eudaimonia, come vedremo meglio a breve, è una condizione della vita umana che persiste nell’arco dell’intera esistenza.

Si è tentato talvolta, per supplire a tale problema, di tradurre basandosi sul senso etimologico dei termini22: tale tentativo si è rivelato però inconcludente, poiché insufficiente a descriverne il concetto completo. Tradurre “essere accompagnati da un buon demone” (eu daimon), non può essere certo proponibile oggi, in quanto innanzitutto il termine attuale ‘demone’ non si identifica con ciò che gli antichi intendevano con daimon (un’entità che si pone nel mezzo tra divino e umano, come una sorta di intermediario), che non connota necessariamente un senso ‘maligno’; inoltre, anche rispettando il significato antico del termine daimon, la traduzione basata sull’etimologia non corrisponde al concetto Aristotelico di eudaimonia.

Un altro tentativo, invece, è stato quello di cercare nuovi termini, di uso corrente, che potessero restituire nella traduzione un significato più fedele del termine greco. Risultato di tale approccio è, ad esempio,

22 Per il problema legato alla traduzione di eudaimonia, e i relativi tentativi di

l’espressione adottata dai studiosi anglosassoni che traducono il termine eudaimonia con ‘flourishing’ (crescita, fioritura), al fine di mettere in evidenza il senso di sviluppo prospero connotato dal termine greco.

Anche questo però risulta impreciso, tant’è vero che, per esempio, Carlo Natali23, per risolvere tale problema, suggerisce di servirsi piuttosto comunque della traduzione tradizionale “felicità”, purché chi si appresta alla lettura delle Etiche sia avvertito che essa non corrisponde perfettamente al greco eudaimonia.

Ma osserviamo allora le origini filosofiche, più che etimologiche, del concetto di eudaimonia. Questo non è, infatti, esclusivamente aristotelico, ma centrale in tutta l’etica antica. L’eudaimonia, come spiega Vegetti24, è infatti la risposta che gli antichi davano alla

domanda “perché il bene è da preferire? perché dovrei agire moralmente?”. Il raggiungimento della felicità è dunque il motivo per cui si agisce virtuosamente. L’eudaimonia dunque come scopo della condotta morale, è una promessa di felicità, la quale assume nel corso della riflessione antica forme diverse e complesse.

Essa viene descritta infatti, a partire da Omero, come la gioia ingenua degli eroi data dalle vittorie in battaglia come premio per la loro virtù, viene in seguito identificata con il piacere epicureo, che soddisfa i bisogni del corpo e realizza così la serenità dell’anima, per

23 C. Natali, Etica, cit., p. 246.

gli stoici invece essa consiste nella felicità data dall’autonomia del saggio, del tutto indifferente a ogni seduzione o minaccia del mondo esterno.

L’aspetto che in ogni caso rimane costante nelle diverse forme di eudaimonia è il suo carattere di fine e motivazione all’azione morale. Non per caso, dunque, la sequenza argomentativa che definisce la felicità si trova nel I libro dell’Etica Nicomachea, in cui l’eudaimonia viene definita come bene umano, in accordo con l’opinione comune, con la precisazione che, non essendoci accordo nella definizione di questa, occorre trovarne una specifica.

Tale indagine ha inizio dalla riflessione sul rapporto fra le azioni e i fini che esse perseguono: si nota, infatti, che esistono diversi generi di azioni, per cui vi saranno, in corrispondenza ad essi, diversi fini. Questi possono essere di due generi: produzioni (erga) o azioni (energeiai), la distinzione delle quali sta nel fatto che alcune di esse sorgono, a loro volta, in vista di altre, fatto che rende queste ultime preferibili alle prime (EN I 1, 1094a4-7).

Questa diversificazione mette in luce il fatto che esiste una gerarchia dei fini, la quale presuppone l’esistenza di uno o più fini ultimi, che non siano subordinati ad altri, senza i quali altrimenti la catena finalistica proseguirebbe all’infinito.

Il termine di questa catena di fini viene identificato con il “bene umano”, al quale i più danno il nome di eudaimonia (EN I 2, 1095a18),

riguardo a cosa sia effettivamente tale felicità, tuttavia, vi è molto disaccordo, in particolare relativamente alla definizione che di felicità dà la «massa» e quella che ne danno i «sapienti».

Ora, per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo nella maggioranza: sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama ‘felicità’, e credono che vivere bene (eu zen) e avere successo (eu prattein) siano la stessa cosa che essere felici (eudaimonein). Ma su cosa sia la felicità, vi è disaccordo, e la massa non la intende nello stesso modo dei sapienti , dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o onore, e altri altro. (EN I 2, 1095a16-22)

L’eudaimonia risulta, dunque, in qualche modo legata al vivere bene, e all’agire bene, aspetti fondamentali per comprendere l’etica aristotelica, come vedremo.

Altra opinione diffusa, nella quale Aristotele vede un margine di verità, è, infatti, che la felicità sia da valutarsi in base allo stile di vita che si conduce: «non senza ragione, a quanto pare, la gente giudica cosa siano il bene e la felicità a partire dai modi di vivere» (EN 1 3, 1095b14-16). Così, per esempio, soprattutto la massa “e le persone volgari” identificano la felicità con il piacere, ritenendo una vita felice quella dissoluta, in linea con l’opinione degli schiavi e delle bestie. Le persone «raffinate e attive», di contro, identificano la felicità con l’onore (time), conducendo una vita dedita ad esso, per poter mettere in evidenza la propria virtù.

La trattazione prosegue nel capitolo 4 con l’esame sul bene universale, in cui si sviluppa la critica più o meno esplicita al bene platonico, sulla quale non ci soffermeremo ulteriormente avendola discussa precedentemente 25.

A partire da quanto osservato viene delineata nel capitolo 5 una descrizione del bene che consente infine di dare una definizione della felicità. In quanto fine ultimo, infatti, il bene è «qualcosa di perfetto», e nel caso in cui ci dovessero essere più fini ultimi, il bene verrebbe a essere certamente il più perfetto di tutti. Tale caratteristica di perfezione è riconoscibile in quanto, a differenza di altri beni, il fine più perfetto sarà quello perseguito esclusivamente per sé.

Ma ciò che è perseguito per sé è detto ‘più perfetto’ di ciò che è perseguito a causa di altro, e ciò che mai è perseguito a causa di altro viene detto ‘più perfetto’ delle cose che sono perseguite sia per sé, sia a causa di esso, allora in assoluto è perfetto ciò che è sempre scelto per sé e mai a causa di altro. E si stima che tale sia soprattutto la felicità: infatti la scegliamo sempre per sé e mai per altro, mentre scegliamo, sì, onore, piacere, intelletto e ogni virtù anche per loro stessi, infatti sceglieremmo ciascuno di essi anche quando non ne derivasse altro bene, ma li scegliamo anche in vista della felicità, stimando che saremo felici a causa loro. (EN I 5, 1097a30-1097b5)

25 Cfr. Il paragrafo concetto di bene nel precedente capitolo, circa la critica al bene

Da tale argomentazione risulta che la felicità presenta una condizione di autosufficienza (autarkeia), e che si riconosce dal fatto che ‘basta a sé stessa’ e non va sommata ad altro, essa è perciò «un modo di vivere degno di essere scelto» (I 5, 1097b15). Il che ci riporta al capitolo 3, in cui la felicità, descritta come correlato di un bios, un modo di vivere e di agire che determina una vita completa e perfetta, è da giudicarsi in base allo stile di vita.

Ora, tale bios è quello in cui si realizzano le proprie capacità in modo eccellente, e tale realizzazione è data dall’operare in modo opportuno, e dal riuscire bene nella propria attività. Tali aspetti sono, di fatto, da considerarsi in relazione all’opera dell’uomo in quanto tale. Aristotele infatti osserva, nel capitolo 6 del I libro, che così come per ogni parte del corpo anche per l’uomo in generale ci sarà un operare tipico.

O: proprio come appare evidente che dell’occhio, della mano, del piede e , più in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è evidentemente un operare tipico, così anche per l’uomo si può porre una qualche opera propria, al di là di tutte quelle particolari? (EN I 6, 1097b30-35)

È fondamentale, dunque, al fine di determinare quale possa essere l’attività umana che svolge il ruolo di opera (ergon) propria dell’uomo, escludere anzitutto le attività che l’uomo ha in comune con gli altri esseri. Non possono essere identificati come l’ergon più

specifico umano, infatti, né l’attività del ‘vivere’, che è comune anche a piante e animali, né parimenti le attività del ‘nutrirsi’ e quella del ‘crescere’. Non potendo riferirsi, perciò, alla sfera delle sensazioni (comuni anche agli animali) per individuare l’attività più propriamente umana, bisogna andare oltre questa sfera e individuarla nell’attività della parte razionale, che è esclusivamente propria dell’uomo.

Ora, dal momento che l’ergon dell’uomo è da considerarsi di questo tipo, e dal momento che la felicità, in quanto operare nel modo più opportuno e riuscire bene, rappresenta una condizione di perfezione della vita umana, tale attività in una vita felice non può svolgersi a un livello qualsiasi, ma a un livello ottimale e di eccellenza. Arete, infatti, in questo contesto è intesa col suo significato primario e arcaico di eccellenza nella funzione di un determinato strumento, e per specificare questa accezione si fa ricorso nuovamente alla metafora con la funzionalità dell’occhio.

Ora, bisogna dire che ogni virtù ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò di cui è virtù, e di far sì che eserciti bene la sua opera, come per esempio la virtù dell’occhio rende eccellente l’occhio, e anche la sua opera, dato che vediamo bene per la virtù dell’occhio. Allo stesso modo la virtù del cavallo rende eccellente un cavallo e buono per correre, per portare il cavaliere e per star fermo di fronte al nemico. Se quindi per tutte le virtù le cose stanno così, anche la virtù dell’uomo verrà a essere lo stato abituale per cui un uomo è buono e compie bene la sua opera. (EN II 5, 1106a15-23)

La virtù dell’uomo è, quindi, ciò che rende eccellente e ottimo il funzionamento dell’anima umana nel suo complesso. Tale carattere di eccellenza è ciò che fa dell’anima la migliore possibile, per cui è da intendersi come ciò che fa sì che l’uomo agisca conformemente alla realizzazione del bene.

Questo spiega, perciò, il ruolo della virtù come ciò che determina, tramite la sua presenza, il valore morale del carattere di un uomo; e da questo deriva, in conclusione, che la felicità (eudaimonia) deve essere l’attività della parte razionale dell’anima, secondo virtù (kat’areten).

Se l’opera (ergon) propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che, quanto al genere, sono identiche l’opera propria di una certa cosa e la versione eccellente di quella stessa cosa - come avviene ad esempio nel caso di un citarista e di un citarista eccellente - ciò vale in generale per tutti i casi, quando si aggiunga all’operare quel di più dato dalla virtù (arete), infatti è proprio del citarista suonare la cetra, e del citarista eccellente suonarla bene; se è così poniamo che l’operare proprio dell’uomo sia un certo tipo di vita, la quale consiste in un’attività dell’anima (psyches energian) e in un agire razionale (praxeis meta

logou), ciò vale anche per un uomo eccellente, ma in modo buono e nobile, e

che ogni singola cosa raggiunge il bene in modo completo secondo la virtù sua propria; se è vero tutto ciò, il bene umano risulta essere attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta. (EN I 6, 1098a7-18)

La felicità inoltre, in quanto attività, consiste nell’uso e non nel possesso, per cui avranno successo e saranno felici coloro che agiscono nel modo migliore. Come accade, infatti, per gli atleti alle olimpiadi, i quali vincono nelle competizioni quando si impegnano al meglio e non perché siano in possesso di un aspetto o una forza maggiore (EN I 9, 1099a4), saranno gli uomini che agiscono virtuosamente a essere felici, e perciò «i vincitori delle cose belle e buone nella vita» (EN I 9, 1099a6).

In relazione a quanto detto fino ad ora, si comprende che la vita secondo virtù non è affatto disgiunta dal piacere (hedone), anzi essa è piacevole in se stessa: dal momento che, infatti, si trova piacevole qualcosa che amiamo, per gli amanti della virtù sarà naturalmente piacevole la vita secondo virtù, e «il loro modo di vivere, quindi, non ha affatto bisogno che si aggiunga il piacere, come se fosse una specie di decorazione posticcia, ma ha il piacere in sé stesso» (EN I 9, 1099a14-16).

Se le cose stanno così, le azioni secondo virtù verranno a essere piacevoli in sé. Ma anche buone, invero, e belle, e avranno ciascuna di queste caratteristiche in modo sommo, se è vero che l’uomo eccellente giudica bene su di esse: giudica nello steso modo in cui noi abbiamo detto. In conclusione la felicità è cosa ottima, e bellissima, e piacevolissima, e tutte queste caratteristiche non sono separate reciprocamente. (EN I 9, 1099a21-24)

In relazione al contesto della quotidianità sociale Aristotele specifica però che la felicità non è in primo luogo una condizione individuale, ma familiare e sociale, come vedremo in seguito, e inoltre richiede la presenza di beni esteriori che ne consentano un buono sviluppo, ad esempio amici, ricchezza, potere politico, ma anche bellezza esteriore, una buona nascita, una buona discendenza e una buona prole, «perciò è lontano dall’essere felice chi è del tutto sgradevole a vedersi o di bassa stirpe o solitario e senza figli» (EN I 9, 1099b3-4).

Dopo aver descritto le caratteristiche della felicità viene preso in esame nel capitolo 10 il problema di come essa si possa ottenere, il che equivale a chiedersi se essa «possa essere insegnata, o se è frutto di abitudine, o si acquisisce attraverso un qualche altro tipo di esercizio, o per un dono della provvidenza divina, o per caso» (EN I 10, 1099b10- 11). La risposta di Aristotele a tale quesito non è univoca.

La sola cosa che si può assumere con certezza è che l’eudaimonia non è determinata dal caso (tyche), anzi «attribuire al caso quanto vi è di più grande e nobile sarebbe cosa troppo oltraggiosa» (1099b24-25). Riguardo, invece, alle altre ipotesi la risposta non è altrettanto immediata, poiché indagare se la felicità sia o meno un dono divino non è compito dell’indagine intrapresa, essa è comunque certamente qualcosa di divino anche se «ci arriva a causa della nostra virtù, o deriva da un qualche insegnamento o esercizio» (1099b15-16).

È invece compito dell’etica l’indagine sulla connessione tra felicità e arete, connessione che permette di sottolineare l’accessibilità della felicità a molti, in quanto essa «potrà essere raggiunta, sulla base di qualche insegnamento o esercizio, da tutti quelli che non hanno qualche impedimento naturale a praticare la virtù» (1099b18-20).

Ma in quanto attività dell’anima secondo virtù (psyches energeia kat’areten) la felicità risulterà accessibile solo all’uomo: gli animali, infatti, non sono in grado di compiere azioni virtuose, ma non lo sono nemmeno i fanciulli. Essi non sono certo ancora capaci di compiere azioni di tal genere, quando dunque vengono detti «beati» è per esprimere la speranza che un giorno possano diventarlo, sottolineando nuovamente che la felicità è caratterizzata sia da una virtù completa che da una vita completa (I 10, 1100a1-5).

Infatti avvengono molti mutamenti, ed eventi di ogni sorta, durante una vita, ed è possibile che la persona più prospera cada in terribili sventure durante la vecchiaia, come si narra a proposito di Priamo nei poemi eroici; nessuno direbbe felice chi ha sopportato tali sventure ed è morto in modo così miserabile. (EN I 10, 1100a5-9)

Tale accento sull’intera vita dà luogo al problema del rapporto fra sorte e felicità, centrale nel capitolo successivo. La felicità, dovendosi realizzare nell’arco dell’intera vita, sembrerebbe essere soggetta agli eventi che nel corso di tale vita avvengono, il che le dà un

carattere di apparente fragilità. Anche in una vita prospera, infatti, possono verificarsi eventi che ne stravolgono il corso, per cui è alla fine difficile ritenere tale vita una vita felice.

Nel capitolo 11, a partire da tale problema, viene discussa la verità del detto di Solone, che costituisce d'altronde anche un’opinione diffusa, secondo cui non si può giudicare felice la vita di un uomo prima della sua morte. Tale tesi sembrerebbe implicare che si debba ritenere propriamente felice un uomo soltanto da morto, contraddicendo così la tesi, fino ad ora indagata, per cui la felicità consiste in un’attività (energeia 1100a14). È chiaro però che il pensiero che si cela dietro al detto di Solone non è che «il morto è felice» (EN I 11, 1100a15), bensì che solo quando uno è morto lo si può dire veramente felice, poiché non è più soggetto all’eventuale capovolgimento degli eventi causato dalla sorte avversa.

Aristotele, collega quest’opinione all’altra diffusa secondo cui la felicità di un uomo è influenzata non solo dalla sua sorte finché è in vita, ma anche dopo morto da quella dei figli e dei nipoti.

Tale tesi comporta la «conseguenza assurda» che un individuo continui a dipendere anche oltre la morte dalle buone o cattive sorti dei propri discendenti; vero è che Aristotele trova difficile negare che i progenitori non possano essere toccati almeno in piccola parte dalle sorti della discendenza, «ma pare anche assurdo che mai nulla, tra gli

eventi che riguardano la discendenza, in nessun momento tocchi i progenitori» (EN I 11, 1100a29-30)

Tornando di qui al problema sollevato dal detto di Solone, Aristotele dichiara errato il criterio per cui si dovrebbe giudicare la felicità di pari passo con le vicissitudini della sorte. La felicità è «qualcosa di stabile e niente affatto da mutare» (EN I 11, 1100b4), e non può essere soggetta ciclicamente a mutamenti, infatti essa non è determinata dalle vicissitudini, ma dalle attività secondo virtù.

È chiaro infatti che, se andremo di pari passo con le vicende della sorte, ci toccherà chiamare più volte la stessa persona felice e poi di nuovo misera facendo apparire l’uomo felice come un camaleonte, o uno che si regge su piedi d’argilla. Oppure forse non è per nulla corretto andare di pari passo con le vicende della sorte? Infatti il bene e il male non consistono in esse, sebbene, come abbiamo detto, la natura umana abbia necessità di tali cose, ma gli eventi decisivi della felicità sono le attività secondo virtù, e le attività opposte sono dell’infelicità. (EN I 11, 1100b4-11)

In questo ragionamento viene messa particolarmente in luce la tesi per cui la felicità consiste in uno stato oggettivo permanente e non in un sentimento soggettivo momentaneo, tesi da cui nasce la soluzione dell’aporia sul detto di Solone. Aristotele, infatti, intende separare la

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 40-58)